Festa per i 60 anni di sacerdozio di don Vasco Rosselli

don Vasco Rosselli

Per undici anni, dal 1999 al 2010, don Vasco Rosselli è stato parroco di Montecchio.

Si è trattato di un periodo intenso e impegnativo in cui don Vasco ha saputo manifestare la ricchezza del suo generoso sacerdozio, la profonda fede e soprattutto la capacità di ascolto e di dialogo che lo contraddistinguono.

E proprio nella chiesa di San Donnino di Montecchio domenica scorsa, 29 giugno, don Rosselli ha ricordato nella Santa Messa il sessantesimo di sacerdozio; la celebrazione è coincisa con la data della sua ordinazione presbiterale avvenuta proprio il 29 giugno 1965 nella cattedrale di Reggio per l’imposizione delle mani del vescovo Gilberto Baroni.

Nell’omelia don Vasco ha focalizzato le figure dei due apostoli: Pietro, la roccia, il fondamento della Chiesa e il segno di unità, il pastore che detiene l’autorità; Paolo, che ha combattuto la buona battaglia e ha conservato la fede. In questa espressione paolina il celebrante si è immedesimato e ha chiesto di pregare perche il Signore sostenga la sua fede.

Ricordando un’osservazione che gli fece don Gabriele Valli – suo vicario cooperatore a Montecchio per sei anni – “non fare il carabiniere”, don Vasco ha chiesto di perdonargli se con qualcuno è stato un po’ rigido.

Proprio a Montecchio don Vasco aveva ricordato il quarantesimo di sacerdozio.

Alla fine della celebrazione la comunità parrocchiale di Montecchio ha donato a don Rosselli una stampa incorniciata rappresentante la Beata Vergine con il Bambino e una somma che destinerà ad opere caritative. Il parroco don Angelo Orlandini gli ha assicurato il ricordo e la preghiera della comunità montecchiese.

I festeggiamenti sono proseguiti nell’oratorio con un rinfresco.

laliberta.info

Papa Leone condanna Netanyahu: “Bimbi muoiono e i potenti comprano armi, indegno uccidere per fame”

Il Pontefice parla ai delegati della Fao, riuniti a Roma, e nel messaggio non usa mezzi termini e non fa sconti con la denuncia esplosiva dell’uso della fame come arma di guerra.

Foto Vatican Media/LaPresse

unita.it

Papa Leone ci va giù diretto e netto. Parla ai delegati della Fao, riuniti a Roma, e nel messaggio non usa mezzi termini e non fa sconti. Dice: “Assistiamo oggi, sgomenti, all’uso iniquo della fame come arma di guerra. Affamando una popolazione, si rischia di fare la guerra a basso costo”. L’ovvio riferimento è a Gaza ma anche a tutte le forme di guerra non dichiarata nei cinque continenti in cui il mondo agricolo viene affamato e disperso in nome di uno sviluppo selvaggio, come accade verso le popolazioni indigene.

Poche frasi prima, pensando all’80esimo anniversario dell’organizzazione agricola delle Nazioni Unite, il papa ha espresso “gratitudine per il lavoro che l’Organizzazione svolge quotidianamente nella ricerca di risposte adeguate al problema dell’insicurezza alimentare e della malnutrizione, che rimane una delle maggiori sfide del nostro tempo. La Chiesa incoraggia tutte le iniziative per porre fine allo scandalo della fame nel mondo”. Il centro del messaggio arriva subito dopo, con la denuncia esplosiva dell’uso della fame come arma di guerra. “Oggi, quando la maggior parte dei conflitti non è combattuta da eserciti regolari, ma da gruppi di civili armati con poche risorse, incendiare terre, rubare bestiame e bloccare gli aiuti sono tattiche sempre più utilizzate da coloro che cercano di controllare intere popolazioni indifese. Così, in questi tipi di conflitti, i primi obiettivi militari diventano le reti di approvvigionamento idrico e le vie di comunicazione. Gli agricoltori non possono vendere i loro prodotti in ambienti minacciati dalla violenza e l’inflazione sale alle stelle. Questo porta un gran numero di persone a soccombere alla piaga della fame e alla morte”.

Papa Leone non ignora l’altra faccia della medaglia, dello scandalo: fame per molti e arricchimento per pochi e la definisce una “aggravante”. “Mentre i civili sono indeboliti dalla povertà, i leader politici sono ingrassati dalla corruzione e dall’impunità. Ecco perché è tempo che il mondo adotti limiti chiari, riconoscibili e concordati per punire questi abusi e perseguire i responsabili e i colpevoli”. Il messaggio indica con chiarezza le possibili soluzioni. È “fondamentale passare dalle parole ai fatti” con “misure efficaci” che consentano di “guardare al presente e al futuro con fiducia e serenità, e non solo con rassegnazione, ponendo così fine all’era degli slogan e delle promesse ingannevoli”. E la Chiesa ricorda la responsabilità del presente verso le generazioni future “che erediteranno un’eredità di ingiustizia e disuguaglianza se non agiamo con buonsenso ora”.
In linea con la più avanzata frontiera della dottrina sociale, il papa nota che “senza pace e stabilità, non sarà possibile garantire sistemi agroalimentari resilienti né assicurare cibo sano, accessibile e sostenibile per tutti”. Da qui la necessità del dialogo, dove le parti coinvolte “siano disposte non solo a parlarsi, ma anche ad ascoltarsi, a comprendersi e ad agire insieme”. Senza dimenticare la sostenibilità, cioè “ripensare e rinnovare i nostri sistemi alimentari in una prospettiva di solidarietà, superando la logica dello sfruttamento selvaggio del creato e orientando meglio il nostro impegno nella coltivazione e nella cura dell’ambiente e delle sue risorse”. Più chiaro di così, il papa non poteva essere. Vediamo adesso se la sua denuncia cadrà nel vuoto oppure no.

Eredità. Gli ultimi mesi di vita di Antonio Rosmini tra fede, filosofia e memoria

Tra gli amici che arrivano a Stresa per l’ultimo incontro, si ritrovano alcune tra le voci più alte dell’Italia culturale dell’Ottocento, da Manzoni a Tommaseo e Bonghi

-

– – Patrizia Wyss / Alamy Stock Photo

Avvenire

Ludovico Maria Gadaleta martedì 1 luglio 2025

Avvenire

«È già il quarto mese che sono ammalato d’incomodi intestinali e passo la mia vita oziando tra il letto ed il lettuccio», lamenta Antonio Rosmini in una lettera all’amico Gustavo Cavour nell’aprile 1855.

Dall’ottobre precedente si trova nuovamente a Stresa, ristabilito dal grave malessere che lo ha colpito dopo la famigerata cena a Rovereto, in cui ha scoperto di essere stato avvelenato. Gli antichi problemi di stomaco e di fegato, troppo trascurati, si sono riacutizzati. E se fino all’inizio del 1855 la salute gli ha consentito di rispondere alle lettere, governare l’Istituto e persino proseguire la stesura della Teosofia, adesso deve sospendere e mettersi a letto. Brevi e occasionali miglioramenti lo illudono che si tratti di una recrudescenza momentanea, ma a maggio la diagnosi è chiara: «I medici non danno alcuna speranza», comunica laconico il segretario don Francesco Paoli.

La notizia si diffonde rapidissima e comincia un profluvio di lettere. Tutti vogliono notizie, promettono preghiere e suggeriscono rimedi medici e spirituali. Poi iniziano ad arrivare a Stresa gli amici per l’ultimo incontro. Fra i primi c’è don Paolo Orsi, antico amico di famiglia, che da Rovereto giunge per restare fino all’ultimo con lui. Da Torino ecco Pier Alessandro Paravia, altro compagno di gioventù, adesso affermato docente universitario. Con lui è il giovane Ruggero Bonghi, destinato a promettente carriera politica, in passato ospite più volte della comunità religiosa di Stresa: ha trascritto per i posteri le Stresiane, i preziosi dialoghi di cui era stato testimone, fra don Antonio e Alessandro Manzoni.

Anche quest’ultimo piomba di corsa a Stresa, in compagnia del figlio Stefano e di don Alessandro Pestalozza, energico difensore della filosofia rosminiana nel seminario di Milano e maestro, tra gli altri, di Antonio Stoppani. Pestalozza singhiozza di nascosto, mentre vede i due amici abbracciarsi. «Rosmini è sempre Rosmini!», dice don Lisander. «E Manzoni è sempre Manzoni, e lo sarà anche dopo la mia morte», risponde l’infermo. «Speriamo che Dio la voglia ancora conservare tra noi, e darle tempo da condurre a termine tante belle opere, che ha incominciato!», lo incalza lo scrittore. «No, no; le opere che Dio ha incominciato, sarà Lui a compierle con i mezzi che sono nelle sue mani, che sono moltissimi e che noi non conosciamo!» ribatte il filosofo. Arriva anche il Tommaseo, ormai cieco. Prega con fervore il rosario a fianco di Manzoni. «Cerca di essere fedele a Dio e di avere sempre presente il grande affare dell’anima. Se salverai la tua anima, avrai salvato tutto», gli raccomanda Rosmini.

Gli ultimi pensieri di don Antonio sono per l’Istituto della Carità, la congregazione da lui stabilita nel 1828. Chiede carta, pennino e calamaio e di suo pugno verga un foglio con cui nomina il vicario che dovrà governare dopo la sua morte in attesa di eleggere un successore. «Che il precetto del Signore», ossia la carità di Dio e del prossimo, «risplenda sulla terra di quella gloria di cui risplende in cielo», comincia il testo. Dopo un centinaio di opere, è l’ultimo suo scritto autografo.

Quando riceve il Viatico, mezza Stresa è presente, si accalca in corridoio e sulle scale, commossa. Rizzatosi sul letto, il malato recita a chiara voce il Confiteor e si fa leggere ad alta voce dal Paoli la professione di fede. Si sforza di accompagnarla parola per parola a voce sostenuta; poi, non reggendo alla fatica, continua sommesso. Vuole rendere davanti a tutti una nuova e solenne testimonianza del suo attaccamento alla fede cattolica e alla Chiesa, che ha sempre professato con gli scritti, con la predicazione e con le opere, ma che negli ultimi anni è stato messo in dubbio da malevoli avversari.

Vengono i maestri rosminiani a congedarsi. «Vedete, miei cari Figli, come tutto passa, e svanisce… è il tempo del raccolto. Il contadino che ha sudato e faticato, si conforta alla fine per la messe che raccoglie: così è di chi serve Dio e lavora per Lui», li conforta. E li invita: «Sforzatevi di diventare sempre più perfetti e fedeli. Vivete non secondo la carne, ma secondo lo spirito. Io non vi dimenticherò mai». Nel ricevere poi l’estrema unzione, chiede perdono ai confratelli «dei difetti commessi nel suo uffizio; ripete di averli sempre amati come figli; li esorta all’orazione, alla mortificazione… benedice tutto l’Istituto della Carità. La scena è commoventissima: molti piangono a calde lacrime, tutti hanno il dolore e la tenerezza dipinta sul volto», riporta un testimone.

I giorni passano e le condizioni sono sempre più critiche. Per lettera giunge la benedizione apostolica di Pio IX. I vescovi di Novara e di Ivrea, Castelli e Moreno, vengono a benedire e ringraziare Rosmini «per le sante fatiche per noi sostenute». «Ricordatevi di noi quando sarete in paradiso e pregate per me, per la mia diocesi e per tutta la Chiesa!» gli raccomanda mons. Moreno. «Grazie, grazie! Lo farò, lo farò!», mormora il malato, confuso da tante lodi e ormai impacciato nella parola.

È ormai l’ultima ora. Da giorni non può più mangiare né bere; è necessario umettargli le labbra con acqua e aceto. Gli si dà anche il laudano per alleviargli i dolori, anche se, giorni addietro, il malato aveva risposto a chi lo compassionava che «non sono nulla a paragone di ciò che ha patito Gesù per noi». Il 30 giugno l’occhio si vela, il sorriso svanisce, i gemiti si levano più forti, le membra iniziano ad agitarsi. Giunge il deliquio, che sembra mitigarsi durante le preghiere per gli agonizzanti che confratelli e amici mormorano piangendo. Alla una e mezza del 1° luglio, Rosmini si ricompone e in silenzio esala l’anima. È la solennità del Preziosissimo Sangue di Cristo, devozione a lui carissima fin dalla giovinezza. Manzoni si guarda attorno: su uno scaffale è aperta una copia della Commedia di Dante, aperta – quasi presagio – sul Paradiso.

Don Lorenzo Milani, l’ultimo regalo di Adele Corradi

Don Lorenzo Milani moriva il 26 giugno del 1967. A documentare quel giorno di oltre mezzo secolo fa, cronaca di una morte annunciata, avevamo i ricordi dei ragazzi, ai quali don Milani ha fatto da maestro e da padre fino all’ultimo e quella di don Bensi, padre spirituale del priore di Barbiana e altre di alcune delle persone passate in visita alla casa della madre in via Masaccio a Firenze dove Milani ha trascorso le ultime settimane di vita. Pensavamo di avere così esaurito tutti i dettagli conoscibili. Milani era malato da tempo e aveva fatto dell’ultimo tratto della sua esperienza terrena una lezione di vita rivolta ai suoi “figli”, consapevole che il proprio tempo sarebbe stato corto e che avrebbero dovuto cavarsela nella vita senza più un maestro cui fare riferimento. Pensavamo che fosse tutto. E invece poche settimane fa Adele Corradi, scomparsa alle soglie dei cento anni nel novembre scorso, ci ha fatto dono di un racconto inedito degli ultimi giorni del Priore, che non credevamo più possibile, a tanta distanza dai fatti, dopo che il tempo ha disperso, per ragioni anagrafiche le testimonianze più vicine. Quel regalo consegnato alla storia contenuto nel libro: Don Lorenzo, qualcosa da ridire (a cura di Cristiana De Santis e Germana Resenterra Edizioni Clichy, dove ridire è insieme dire di nuovo, ribadire, ma anche nel calenbour il significato proprio di «qualcosa da ridire», nel senso di qualcosa su cui non essere d’accordo.

Non un racconto sistematico, ma una raccolta di spunti e lettere, il libro sistematico – anche se al modo di Corradi, più giustapposizione di stanze di vita quotidiana che storia complessiva – c’era già stato nel 2012 con Non so se don Lorenzo. Questo è diverso: una sorta di testamento spirituale, sociale, morale: non è Adele Corradi che racconta don Milani è Adele che ci lascia un pezzo di sé e insieme che ci apre una finestra sulle stanze in cui Lorenzo Milani ha vissuto le sue ultime ore di uomo e di «prete cristiano» (copyright Milani), dandoci un documento unico, una tessera in più al mosaico che consegna Milani alla storia, e che, ormai appurato il suo spessore alla distanza, è Storia con la maiuscola.

Non è tutto il libro, ma è il suo pezzo più prezioso, perché aggiunge un tassello di conoscenza che non avevamo alla figura di Lorenzo Milani. Ma nel libro c’è anche altro: c’è il punto di vista della professoressa Corradi: la persona adulta che ha vissuto più da vicino e con maggiore continuità la scuola di Barbiana. In quelle pagine ci sono esperienze, filtrate attraverso l’esperienza Adele, di quello che Barbiana ha seminato nel mondo – interessantissimo al proposito lo scambio con padre José Luis Corzo – , di quello che potrebbe ancora seminare se solo si ragionasse come faceva Corradi non soltanto con la sua saggezza ironica e con il suo disincanto, ma anche dando ascolto all’esperienza diretta che Corradi ha avuto.

Anziani: un prezioso test diagnostico

settimananews
di: Fabrizio Mastrofini (a cura)
anziani1

In Italia gli anziani – cioè le persone oltre i 65 anni di età – sono più di 14 milioni. «Una popolazione che è cresciuta senza ce ne accorgessimo», ha dichiarato di recente mons. Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia Accademia per la Vita e coordinatore della Commissione governativa, che ha presentato e fatto approvare dal Parlamento la legge 33/2023 che riforma l’assistenza agli anziani. Una legge innovativa, che si trova davanti alla strettoia dei finanziamenti per entrare a pieno regime.

Degli oltre 14 milioni di anziani, 7 milioni hanno più di 75 anni; 500 mila vivono in abitazioni senza ascensore dal secondo piano in su; 4 milioni non sono autosufficienti.

Oltre alla legge, sono necessari strumenti di diverso tipo per intervenire in maniera efficace rispetto ai bisogni delle persone, soprattutto per prevenire il decadimento cognitivo.

Su questo importante tema, il prof. Salvatore Grammatico, docente nella Facoltà di Scienze dell’Educazione del Pontificio Ateneo Salesiano di Roma, ha appena pubblicato un manuale per utilizzare e interpretare il Mini Mental State Examination (MMSE).

Pensato per studenti di psicologia, operatori sanitari, psicologi clinici e caregiver, il manuale è una guida nell’uso di uno degli strumenti più diffusi nella diagnosi precoce di deterioramento cognitivo e di demenza. Al prof. Grammatico abbiamo rivolto alcune domande.

– Gentile professore, che cosa è il test MMSE? Cosa vuole misurare?

Il Mini-Mental State Examination (MMSE) è uno degli strumenti più usati al mondo per valutare le funzioni cognitive. È un test breve e standardizzato, che indaga attenzione, orientamento, memoria, linguaggio e capacità visuo-spaziali. Serve principalmente per identificare un possibile deterioramento cognitivo, come nelle demenze, o monitorare il decorso nel tempo.

Non fornisce una diagnosi definitiva, ma rappresenta una bussola clinica iniziale preziosa, soprattutto nei contesti dove serve una valutazione rapida ma strutturata.

– Il libro è presentato come un manuale per studenti di psicologia. Può essere usato anche dagli operatori socio-sanitari che operano nei contesti delle residenze o strutture per persone anziane?

Assolutamente sì. Pur essendo pensato come supporto didattico, il manuale è stato scritto in modo da essere utile anche a educatori, infermieri e operatori sociosanitari che lavorano con anziani. Ho cercato di integrare teoria e pratica, includendo esempi clinici, suggerimenti operativi e indicazioni per una comunicazione rispettosa e centrata sulla persona.

Nelle strutture per anziani il MMSE può aiutare a cogliere i primi segnali di deterioramento o a monitorare la risposta a un percorso di cura.

– Parliamo dell’utilità del test, in rapporto all’invecchiamento della popolazione. Quale è la sua opinione?

Con l’invecchiamento progressivo della popolazione, è fondamentale avere strumenti semplici e affidabili per intercettare precocemente le difficoltà cognitive. Il MMSE permette una valutazione iniziale che può orientare verso ulteriori approfondimenti e favorire una presa in carico precoce.

Non è un test esaustivo, ma resta un punto di partenza utile, soprattutto se integrato con un approccio multidisciplinare. Più che “diagnosticare”, aiuta ad ascoltare e a leggere i segnali che l’anziano ci invia.

– Nell’ambito ecclesiale e politico, in questi anni soprattutto mons. Vincenzo Paglia si è speso per una valorizzazione del ruolo degli anziani, soprattutto attraverso la stesura della legge 33/2023 che riforma radicalmente l’assistenza. Oltre alle normative, servono anche strumenti operativi. In questo senso che utilità può avere il test e quali risorse possono affiancarlo?

La legge 33/2023 offre un’opportunità storica per rivedere in profondità il modello di cura. Ma le leggi hanno bisogno di strumenti per diventare prassi. Il MMSE, se usato in modo corretto, può facilitare il raccordo tra servizi sociali e sanitari, tra famiglie e operatori, diventando un elemento di dialogo e di orientamento. A fianco servono formazione, strumenti relazionali, approcci personalizzati e risorse territoriali. La diagnosi non basta: serve una comunità che si prende cura in modo integrato e rispettoso.

– Lei si rivolge agli studenti, in quanto docente universitario. Che ne pensano degli anziani?

Molti studenti arrivano al corso con l’idea che l’anziano sia “lontano” da loro, ma durante le lezioni e i tirocini iniziano a coglierne la profondità. Quando comprendono che la vecchiaia non è solo decadimento ma anche storia, dignità e memoria collettiva, qualcosa cambia. Insegnare a guardare l’anziano come una persona, non come una patologia, è parte del nostro compito educativo. E spesso sono proprio i più giovani a sorprendere per sensibilità e apertura verso il mondo della fragilità.

– In conclusione, che messaggio vorrebbe trasmettere a chi si occupa di persone anziane, a partire da questo manuale?

Il messaggio centrale è che gli strumenti come l’MMSE sono utili solo se inseriti in una relazione di cura che mette al centro la persona. Un test può indicare un deterioramento, ma non può misurare la dignità, la storia o la capacità di entrare in relazione. Anche quando le funzioni cognitive calano, restano bisogni profondi di affetto, riconoscimento e umanità. Per questo il manuale integra aspetti scientifici e psicoeducativi: per offrire non solo competenze tecniche, ma anche uno sguardo empatico e rispettoso verso l’altro.

Libertà vo… salvando

di: Sandro Cominardi

libertà

Non so da chi e quando ho appreso l’affermazione “Timeo hominem unius libri”. L’interpretazione è duplice e con significato opposto: merita apprezzamento colui che ha le idee ben chiare; mi preoccupa colui che ha le idee troppo chiare.

Con tutto il rispetto di san Tommaso – a cui qualcuno attribuisce l’affermazione – a me preoccupano tutte due le interpretazioni. Nella prospettiva dell’essere liberi interiormente!

“Timeo” la maniacalità di coloro che – certi di possedere la verità – operano le loro idee con determinazione assoluta.

È la libertà interiore che nobilita l’essere persone! «Il vento soffia dove vuole e tu ne odi il rumore, ma non sai né da dove viene né dove va. Così è di chiunque è nato dallo Spirito» (Gv 3,7-8. Citazione forse un po’ forzata, ma utile per argomentare il valore della libertà.

Per i cristiani il dono dello Spirito è un fatto entusiasmante. Ma credo che non esista Cultura (con la C maiuscola naturalmente) che non valorizzi lo spirito presente nell’essere umano. Non riconoscerlo sarebbe sottocultura.

Più problematico, invece, avere la consapevolezza della libertà di spirito che ci appartiene. E qua è opportuno promuovere qualche riflessione.

Dante, nel primo canto del Purgatorio vv. 71-72: «Libertà vo cercando ch’è si cara, come sa chi per lei vita rifiuta». È proprio una questione vitale!

Ho partecipato a un convegno organizzato dall’associazione Antigone. Aveva per titolo “Crisi della penalità minorile: cause profonde e strategie per il cambiamento”. Mi hanno colpito alcune considerazioni fatte da due docenti universitari. Con dati alla mano hanno affermato che – se si eccettuano gli ultimi due anni – i comportamenti problematici giovanili, sono diminuiti.

È la comunicazione pubblica che enfatizza. E lo fa in modo opportunistico e mirato.

Invece di analizzare i fenomeni per capire e cercare soluzioni, si preferisce la repressione attraverso la moltiplicazione dei reati.

Il Ddl sicurezza – diventato legge maggiormente amplificato – è in coerenza con il reato di Rave e il Ddl Caivano.  Moltiplicare le paure è sempre funzionale a chi esercita in modo malefico il potere politico e commerciale. Mettiamo allarmi da tutte le parti per stare tranquilli sulle poltrone sofà.

I possessori di idee fisse hanno bisogno di urlarle per convincere prima e manipolare poi. Coloro che operano in questo modo non sono politici, commercianti o promotori di religiosità, ma semplicemente ladri di libertà interiore. Subdoli nella loro capacità di renderci scemi! Espressione non scientifica, ma efficace nel concetto. In quanto all’Intelligenza artificiale, le notizie false sono semplicemente risultati deleteri di uno strumento usato in modo funzionale a qualcosa d’altro.

Come difenderci? O meglio: come prevenire? So di essere generico se dico: teniamo viva la nostra capacità di pensare. Generico sì, ma per stimolare i tanti approcci indispensabili per salvaguardare la libertà che ci mantiene persone.

Sono sempre più convinto che, per essere educatori e terapeuti efficaci, l’atteggiamento: “io parlo e tu ascoltaTI” possa esser non secondario.

Ricordo con piacere la sintesi promozionale che suggeriva il mio professore, Gianfranco Zuanazzi: imparare a convergere e a divergere.

La libertà interiore aiuta ad ascoltare e a vedere i pro e i contro per poi elaborare riflessioni proprie. Diceva un padre del deserto: farsi conca per diventare canale.

settimananews

Acutis: il caso serio di una devozione per i giovani

di: Pietro Busti
© Tony Antoniou

© Tony Antoniou

settimananews

Contro le attese di una parte dei fedeli cattolici, che hanno faticato a comprendere perché io abbia ritenuto di criticare la teologia sottesa alla canonizzazione di Carlo Acutis, si sta sviluppando un dibattito serio e per certi versi sorprendente, che prende le mosse da una valuzione critica intorno allo stile e alla forma della presentazione ufficiale del nuovo giovane santo. In questo intervento Pietro Busti, giovane presbitero della diocesi di Verona, dottorando a Lovanio e Parigi, parte da una osservazione di Giovanni Salmeri, sviluppando un discorso molto ricco e originale sul tema della “devozione giovanile”. Mi pare una ripresa molto opportuna e uno sviluppo serio e sagace degli impulsi che ho voluto dare nei miei primi articoli sul “caso Acutis” (Andrea Grillo).

Nell’alveo del dibattito generato dalla critica di Andrea Grillo alla teologia implicita nella presentazione della figura di Carlo Acutis, Giovanni Salmeri ha offerto una interessante “via d’uscita”, spostando l’attenzione dal piano teologico-dottrinale a quello affettivo e corporeo (l’articolo di Salmeri si può leggere su SettimanaNews).

Qui, più che una riflessione sulla teologia nel giovane beato, si tratterebbe – secondo Salmeri – di parlare di devozione, cioè della forma concreta e personale con cui ci si appropria della fede. Il problema, dice Salmeri, è che il Concilio non ha saputo tradursi in forme altre di devozione e che quindi un giovane spiritualmente sensibile si trova costretto a riprendere linguaggi “vecchi” per dare carne alla propria fede. Anziché per forza spingerci a canonizzare le sue forme di espressione, o rassegnarsi alla dicotomia tra “pensiero” e “affezione”, o tra “teologia” e “devozione”, forse occorre capire come coglierne l’intuizione e cercare di tradurla oggi con nuovi linguaggi: non è forse questa una responsabilità ecclesiale? Sappiano bene infatti che l’intuizione “affettiva” rischia di diventare (cosa non accaduta sicuramente per il giovane beato, morto precocemente) pericolosa, nel momento in cui se ne rifiuta la reale incarnazione. Basti pensare allo scambio di critiche tra Gesù e Pietro, dopo che quest’ultimo aveva riconosciuto Gesù come il Cristo, a Cesarea.

È proprio vero allora che dobbiamo accontentarci di una divisione così netta tra teologia e devozione? L’autore stesso allude a questa critica. Rilancio così la questione provando a proporre come uno dei nodi della questione sia la comprensione e l’utilizzo di quello che potremmo definire affectus1, come segno dei tempi che sembra marcare la spiritualità giovanile e in generale la contemporaneità post-secolare. Si profila un terreno potenzialmente fecondo e pericoloso, su cui può annidarsi la ricerca di devozioni rassicuranti e, in ultima, alienanti o la spinta per un nuovo slancio del cristianesimo in occidente.

***

Nel primo caso, l’evoluzione post-conciliare sembra comprensibile come una reazione al percepito eccesso di “razionalizzazione” e “disincanto” della fede, sullo sfondo più ampio della disgregazione accelerata dell’occidente. L’idea è che la forma percepita come “tradizionale” e “ingenua” della devozione sia la più “santa”; viene privilegiato ciò che sembra più “mistico” e “miracoloso” come forma di sottomissione a quell’autorità di Dio che ci sentiamo come colpevoli di aver distrutto. Di sicuro i misteri del Regno sono rivelati ai piccoli.

Ma ciò non toglie forse che il compito della teologia e del cristiano adulto sia quello di tradurre le loro intuizioni, “servendole” (in tutti i sensi) a questo mondo. Mi pare che l’equivoco si sia creato proprio circa questa traduzione, che appare appunto una responsabilità ecclesiale.

Nel secondo caso questo affectus può diventare il motore di un nuovo slancio per il cristianesimo in occidente. Provo così a rileggere la questione articolando qualche allusione, e chiamando in causa il pensiero di Hartmut Rosa e la sua categoria di “risonanza”, per provare a formulare una domanda che potrebbe assomigliare a questa, di timbro certaliano: cosa significa custodire l’intuizione traducendola come “spinta” a una spiritualità risonante oggi?

Secondo il filosofo tedesco, la frammentazione postmoderna, esito dell’accelerazione costitutiva della modernità e del suo tentativo di “messa a disposizione” del mondo, si rivela oggi in realtà come la storia di una nuova sensibilità alla risonanza, intesa come apertura all’altro e al trascendente, a un mondo che ci interpella, che ci “affetta”, e a cui rispondiamo così con “emozioni” che ci spingono fuori di noi, facendoci paradossalmente ritrovare. In questo senso provo a leggere l’affectus come un segno dei tempi che una buona teologia può riconoscere, leggere e orientare, entrando lei stessa in una forma di “risonanza”.

Se l’autore riconosce così nell’occidente una fine della devozione, forse potremmo leggerne una evoluzione, che proprio le categorie conciliari potrebbe permetterci di riconoscere. Proprio i giovani infatti sembrano, anche dalle ultime ricerche sulla loro religiosità condotte in Italia, cercare spiritualmente e anche corporalmente forme di risonanza. Giovani che si ritrovano sensibili ai segni dei tempi in maniera inconsapevole, sensibili alla Parola come autorità che vuole dialogare con le loro vite, sensibili a forme di autorità “autorevole” e liberante.

Se Salmieri riconosce che oggi la passione eucaristica è inesistente, è interessante notare la ricerca del mistero, di ciò che Rosa chiamerebbe l’“indisponibile”, così come la sete di comunità, di relazioni buone. Il problema è forse il punto di partenza che utilizziamo nell’ascoltarli: occorre cambiare i paradigmi e usare quelli “conciliari” per riconoscere e lasciarsi trasformare dalle nuove forme di devozione dei giovani… E così immaginare una devozione conciliare. Non è pensabile, infatti, la trasformazione diretta, ovvero di applicare il pensiero sulla realtà. Ma la trasformazione risonante forse si.

***

È interessante come Rosa riconosca come questa “fame” di risonanza si risolva spesso in una semplice ricerca di “casse di risonanza”, che diventano più camere d’eco, in cui anziché una risonanza trasformatrice ci si rassicura in una ridondanza assordante e alienante.

Non è forse questo il caso di alcune forme di devozione? Non sembrano più delle rassicurazioni alienanti, nella loro difficoltà a guardare con fiducia e creatività a questo mondo? Non diventano così paradossali chiusure alle autentiche esperienze di risonanza? Una devozione ante-conciliare non rischia di risolversi spesso e volentieri (ma non sempre!) in un rifugio pronto in un’epoca di veloci cambiamenti? È chiaro che viviamo ancora, per certi versi, in un momento reazionario: prova ne è il dibattito scaturito, a toni molto accesi. Come cogliere il buono di questa ricerca di affezioni, ovvero di risonanza? Magari provando a cogliere l’istanza anche di quei residui di devozione anticonciliare che oggi si esprimono con violenza. E chiedendosi: risuona questa forma di devozione? O ridonda? Rassicura? O espone?

“Devozione”, da devoveo indica il bisogno di una parte attiva nella fede, di implicarsi, di “fare un voto”. Di dare corpo, carne, immagine all’affetto provato, in una spiritualità agita. Non è forse questo un modo di parlare della dimensione sacramentale della vita e del mondo? Non resta forse promettente il cantiere che tenta di articolare l’“indisponibilità” della celebrazione con la disponibilità della vita?

Forse nell’articolazione di quella che Rosa chiamerebbe la dimensione “verticale” della risonanza (quella con il Trascendente), con le due dimensioni “orizzontale” (quella con gli altri) e “diagonale” (quella con le cose)? Si tratta di interrogare quelle forme di devozione prettamente “verticali”, in cui il santo, l’eucaristia o il sacramentale sono realmente solo “segno” e non sostanza di una presenza che ha scelto di donarsi nella carne di questo mondo.

Devozioni che volendo incarnare sembrano proprio produrre l’effetto contrario. Devozioni di cui gran parte dei giovani contemporanei italiani sembrano proprio disinteressarsi, perché raccontano solo un’altra storia, non quella del mondo, non la loro.

***

La devozione suppone sempre (e forse abbisogna di) una teologia, come articolazione di pensieri per comprendere e rendere intelligibile la singolarità di Dio. La teologia, facendo eco a A. Gesché, sembra proprio il tentativo di preservare nella lingua del tempo la singolarità “alterante” di Dio: l’altro che “altera” e non “aliena”. Come ragionare allora teologicamente per predisporre (a partire da ciò che c’è) la costruzione di altre strutture di risonanza che possiamo chiamare in questo caso di “devozione”?

Nella storia immaginaria proposta da Salmeri, rispetto a una eventuale “devozione conciliare”, l’autore stesso ha pensato a qualcosa di molto suggestivo, “vibrante”, rintracciabile già dal titolo del libro trovato dalla giovane ragazza: “Gesù, la storia di un vivente”. Momenti come questi forse capitano oggi in tempi di adorazione, o di lettura della Bibbia, così come in incontri e dialogo con amici. Come accompagnarli, come costruire con loro strutture di devozione nuove?

Forse la comprensione del Concilio non ha “risuonato” ancora del tutto, perché la ridondanza di vecchi apparati è ancora forte e rassicurante in un mondo in tempesta. Ma resta viva quella brezza leggera, che attende nuove strutture per far risuonare la novità creatrice dello Spirito. Che attende uomini e donne sensibili e creativi, che con stile sinodale provino a costruire le barche capaci di attraversare questo mare2.

Forse è questa la caratteristica principale di una devozione conciliare, che già possiamo ritrovare viva tra di noi: quella di quegli uomini e quelle donne che sanno anzitutto vivere la costruzione di pensieri e strumenti con la fiducia nel mare di questo mondo, che per quanto in tempesta è abitato dallo Spirito, e non ci tradirà. Per vivere così un cammino di ricerca, insieme, di nuovi linguaggi, di nuove pratiche, tirando fuori cose nuove e cose antiche, facendo sinodo.

I giovani (e gli adulti sembra) cercano “vibrazione”, e forse non la trovano necessariamente in un manuale di teologia, che non incontra la loro domanda, che pure resta pienamente teologica. È un cammino da fare insieme, disarmando le parole. Questa forse è la “devozione” conciliare che è bello rintracciare: una fiducia nel mondo, e nell’altro, luogo sacramentale della Sua presenza. La teologia resta in questo modo una forma di sequela avventurosa e mai finita, che tenta di accogliere e tradurre le intuizioni dei “Pietro” nella linea dell’incarnazione.

Pubblicato sul blog di Andrea Grillo Come se non (qui).
1 Mutuo qui l’intuizione di Marcello Neri in https://www.settimananews.it/cultura/francesco-e-le-belle-lettere/.

2 Cf. J. Wolfe, The Theological Imagination: Perception and Interpretation in Life, Art, and Faith, Cambridge University Press, Cambridge, 2024, p. 26.

UISG: Camminare insieme verso il futuro

Settimana News

di: Fabrizio Mastrofini

uisg

Il Piano strategico elaborato dall’Unione internazionale delle superiore generali (UISG), che SettimanaNews ha potuto visionare, si articola in una introduzione, un’indicazione del contesto, una panoramica sull’organizzazione interna, un approfondimento sulla “chiamata” per il 2025-2031 – periodo di durata del Piano – e una conclusione.

Il Piano si colloca al termine di una fase di elaborazione, svoltasi nel 2024 e destinata a proseguire nell’immediato futuro, per capire quali siano i segni dei tempi, quali le chiamate rivolte alle suore e quali azioni e risposte siano necessarie.

Per quanto riguarda il contesto, la consultazione interna ha evidenziato come la UISG sia percepita dalle superiore generali come un luogo positivo di confronto, di dialogo, di formazione.

Per le superiore, le questioni più urgenti riguardano, tra le altre, il futuro della vita religiosa, collegato alla crescente anzianità delle suore, la sinodalità e le tematiche relative all’esercizio della leadership.

In questo senso, una panoramica della struttura (Comitato direttivo, segreteria, commissioni congiunte con l’Unione dei superiori generali) evidenzia il modo in cui le superiore generali delle 1.900 congregazioni partecipano in modo diretto alle attività.

E le attività sono molteplici. L’Assemblea plenaria triennale, ne è il vertice. Essa è accompagnata, seguita e preceduta da incontri, corsi, riunioni, simposi, in presenza e on line. Il 2024 ha visto oltre 8 mila suore partecipanti da 95 paesi.

A ciò si aggiungono diversi progetti e iniziative internazionali sui temi dei migranti, sulle donne vittime di tratta (l’iniziativa specifica Talitha Kum), il dialogo costante con i dicasteri vaticani, con le ambasciate, con le maggiori istituzioni internazionali.

Per quanto riguarda la “chiamata”, l’UISG ha individuato cinque direttrici.

  • Per la vita religiosa, il “cambiamento d’epoca” in cui ci troviamo – nota il Piano – implica la ricerca di strade per dare priorità alla vita religiosa stessa.
  • All’interno della Chiesa, l’UISG ha il compito di continuare ad essere una voce per le donne nella vita ecclesiale.
  • Sul piano globale, l’UISG ritiene che siano priorità assolute la difesa dell’ambiente e la possibilità di operare come agenti di cambiamento in un mondo sofferente e polarizzato.
  • In questo senso, l’UISG si percepisce come un’organizzazione globale con possibilità uniche per spingere verso una umanizzazione della vita sociale e collettiva.
  • Se, sul piano interno, il Piano ipotizza una revisione delle strutture e delle modalità per adeguarle alle sfide, come metodo di lavoro (quinta direttrice) si assume la sinodalità basata sul discernimento e radicata spiritualmente, come via maestra di azione.

Passioni e ideali per una vita autentica

di: Domenico Marrone

marrone

Settimana News

Per comprendere davvero la passione, dobbiamo risalire alle sue radici più profonde. Ogni passione, come un torrente che sgorga dall’alto delle montagne, porta con sé la forza di ciò che nasce lontano, nel cuore stesso dell’essere. Più un’esperienza interiore viene da lontano – cioè dalle profondità della persona – più energia racchiude.

La passione nasce dunque dal nucleo più intimo della nostra identità. Ogni creatura è orientata verso ciò che percepisce come bene, perché è fatta per questo: per cercare e realizzare ciò che la compie. Potremmo dire che l’essere, nella sua verità, è strutturalmente rivolto al bene.

Se consideriamo questa realtà nella sua unicità, la chiamiamo “essenza”; se invece la guardiamo nel suo dinamismo, nella sua capacità di agire e tendere al bene, parliamo di “natura”. Queste sono categorie filosofiche utili, ma nella concretezza della vita esse coincidono: siamo ciò che facciamo e agiamo perché siamo.

La natura, in questo senso, è la nostra energia originaria, il motore interiore che ci muove. Questo slancio verso il bene, questa tensione profonda che ci spinge a vivere, amare, costruire, è ciò che possiamo chiamare appetito originario, presente in tutti gli esseri viventi secondo la loro natura.

Quando questa spinta si incarna in una persona concreta, con la sua storia, i suoi limiti e le sue potenzialità, prende la forma di inclinazioni: forze interiori naturali, che variano a seconda del temperamento, della personalità, del vissuto. Le inclinazioni diventano desideri quando si orientano verso oggetti o fini specifici, influenzati dalle circostanze e dalle emozioni del momento.

E la passione? La passione è un desiderio che ha assunto una forma intensa, duratura, profonda. Non è un fuoco passeggero, ma una fiamma che arde nel tempo: un impulso che permane e si ripresenta con forza, anche in modo intermittente, oscillando tra slanci attivi e momenti di quiete affettiva.

Nel cammino della nostra interiorità, la passione si colloca in una zona fluida e mobile, dove si incontrano desiderio, emozione e sentimento. A volte la passione è più simile a un’emozione che travolge, altre volte si accosta al sentimento profondo e stabile, altre ancora prende la forma di un desiderio che cerca di incarnarsi nell’azione. In ogni caso, la passione non è mai neutra: è sempre coinvolgente, totalizzante, e chiede ascolto, discernimento, integrazione.

Per questo, più che un semplice impulso da reprimere o assecondare, la passione può diventare una via spirituale. È un linguaggio dell’anima che, se accolto e purificato, può rivelarci il nostro vero desiderio di bene, di verità, di bellezza. La passione, infatti, è ambivalente: può diventare distruttiva se resta cieca e incontrollata, ma può anche essere trasformata in energia creativa e spirituale, capace di orientare l’intera persona verso la sua piena fioritura.

La passione è uno stato affettivo profondo, che oscilla tra desiderio, emozione e sentimento, e che persiste nel tempo con una forza che può diventare cammino di autenticità e libertà.

La passione come forza interiore totalizzante
La passione è una forma di energia affettiva intensa e persistente, capace di attrarre a sé l’intero mondo interiore della persona. Si impone come un centro gravitazionale dell’anima, capace di oscurare o assorbire ogni altro sentimento, pensiero o desiderio che non sia coerente con il suo oggetto. In questo senso, la passione non è solo un’emozione forte: è una struttura psichica che coinvolge in profondità la mente, il cuore e il corpo.

Essa nasce da un desiderio, si struttura attorno a un’idea dominante, si nutre di attenzione costante e modella i comportamenti, le scelte e perfino l’identità di chi la vive. Ogni passione, infatti, si radica in una conoscenza affettiva, in una forma di consapevolezza profonda che orienta la persona verso un oggetto vissuto come necessario, desiderabile, totalizzante. Come insegna la tradizione spirituale: nulla si può volere, se prima non lo si conosce. È la luce (o l’illusione) di un’idea che rende possibile il fuoco di una passione.

La passione tende a organizzare tutta la vita attorno a sé. Ogni pensiero che la alimenta rafforza il sentimento; ogni atto compiuto in sua funzione conferma la sua centralità; e questa ripetizione rende la passione sempre più radicata. È un circuito affettivo-cognitivo che si autoalimenta: l’idea si incarna, il desiderio si consolida, l’abitudine si struttura. Nel bene o nel male, la passione non lascia nulla indifferente: costruisce o distrugge, trasfigura o consuma.

Per questo, nel cammino umano e spirituale, la passione è un crocevia delicato. È un fuoco, e come ogni fuoco, può scaldare o bruciare. Quando la passione è orientata a un bene autentico, e vissuta con libertà interiore e maturità spirituale, essa può diventare forza creativa, amore oblativo, vocazione incarnata. Ma quando è centrata sull’ego, sull’appropriazione, sulla compensazione del vuoto interiore, allora la passione si trasforma in dipendenza affettiva, idolatria, dominio, chiusura.

La chiave per abitare questo fuoco non è la repressione, ma il discernimento. La persona umana possiede una libertà che può decidere: può accogliere o respingere una passione, nutrirla o disinnescarla, trasformarla o lasciarsene distruggere.
La passione non è destino, ma chiamata al governo di sé. Essa può essere un’energia che apre al dono, oppure una forza che ci ripiega su noi stessi.

Nel profondo, ogni passione chiede di essere redenta e orientata. Solo l’amore per il Bene più grande, solo la relazione viva con Dio, può raccogliere e ordinare tutte le forze interiori senza deformarle. Solo Dio può essere l’oggetto di una passione che non delude, perché solo Dio può abitare tutta la nostra mente, tutta la nostra anima e tutte le nostre forze, senza schiacciarle, ma liberandole. Come dice il Vangelo: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutte le tue forze» (Mc 12,30). Questa è la vera passione spirituale: non la perdita di sé, ma l’unificazione dell’essere nella luce dell’Amore.

Libertà e passioni
Nel percorso umano, le passioni — cioè le emozioni forti, intense, capaci di orientare la nostra vita — non sorgono mai in modo totalmente automatico o cieco. Esse nascono e crescono solo se trovano accoglienza e complicità nella nostra libertà interiore.

Le passioni nascono quando un desiderio, inizialmente spontaneo e fugace, diventa stabile. E questo avviene solo se la nostra mente lo tiene vivo: se lo pensiamo spesso, se lo nutriamo con immagini, fantasie, ricordi, decisioni. In questo senso, l’attenzione è il respiro della passione: ciò su cui posiamo la mente, con continuità, prende vita e forma dentro di noi.

Questa attenzione, però, non è passiva: è frutto di una scelta. Siamo noi a decidere — anche inconsciamente — di prestare attenzione a certi pensieri, a coltivare certi desideri, a dare loro spazio, fino a trasformarli in progetti di vita. Così, ogni passione porta il segno della nostra libertà: anche quando sembra travolgente, è passata per la porta delle nostre scelte, piccole o grandi.

La libertà interiore ha questa forza: può prendere l’inclinazione e orientarla in molte direzioni. Una persona ambiziosa può riversare tale energia nella politica o nella letteratura, nell’impegno sociale o nella brama di successo. Una donna dalla forte vitalità affettiva può vivere con intensa dedizione il dovere, la vanità o l’amore spirituale. Persone ardenti possono diventare santi o dissoluti: la differenza la fa il modo in cui orientano la loro energia.

Le passioni, dunque, non sono solo una reazione all’appetito o all’istinto: sono come fuochi accesi, che prendono direzione a seconda di come noi posizioniamo i binari della nostra libertà. Un desiderio può accendersi come una scintilla, ma solo se lo nutriamo con pensieri e azioni coerenti si trasformerà in una passione vera e propria.

La libertà non è solo coinvolta all’inizio del processo passionale, ma anche nella sua evoluzione e nella sua eventuale fine. Una passione, quando si radica nella mente e nel cuore, può ostacolare la nostra libertà decisionale, ma mai completamente, finché resta viva in noi la coscienza.

La libertà, anche se affaticata, può sempre intervenire: può distogliere l’attenzione dall’oggetto della passione, orientandola altrove; può sospendere le azioni che alimentano quella passione; può infine generare passioni alternative e più nobili, capaci di sostituire quelle distruttive.

Tutto questo richiede fatica, ma è possibile. Richiede pazienza, fedeltà quotidiana, discernimento. La mente può imparare a non ripassare ossessivamente certi pensieri, a non fissarsi sull’idea che alimenta la passione. È come smettere di buttare legna nel fuoco: il fuoco non si spegne subito, ma se non lo alimenti, si esaurisce.

Anche le azioni vanno riorientate. Compiere gesti che seguono la passione la rinforza; al contrario, agire come se si vivesse già liberi da essa può aiutarci a uscirne. Le azioni educano il cuore, anche quando il cuore fatica a crederci.

Infine, una strategia ancora più profonda consiste nel sostituire una passione con un’altra più grande e più luminosa. Non si vince una passione solo reprimendola: si può vincere accendendo un fuoco più vero, più puro, che orienti la vita a un bene più alto.

Le passioni sono forze potenti, capaci di generare bellezza o rovina. Ma non sono invincibili. Possiamo accoglierle, indirizzarle, trasformarle. Possiamo anche lasciarle andare.

Nel cuore di ogni persona esiste una libertà più profonda dei suoi impulsi: una sorgente da cui può sgorgare una vita nuova, anche quando tutto sembra già deciso. Da lì possiamo decidere a quale fuoco dare il nostro ossigeno, e a quale togliere l’aria.

Coltivare questa libertà è un’opera spirituale: richiede consapevolezza, esercizio, grazia. Ma è anche un’opera di verità: perché ci ricorda che non siamo mai prigionieri delle nostre passioni, ma possiamo esserne i maestri — o almeno, gli apprendisti di una libertà sempre più vera.

Due forme di passione: verso l’integrazione o la frammentazione del sé
Ogni essere umano sperimenta passioni, cioè movimenti profondi del cuore e dell’anima che coinvolgono la sfera affettiva, desiderante, motivazionale. Ma non tutte le passioni hanno la stessa qualità: alcune orientano verso la pienezza dell’essere, altre conducono a una frammentazione interiore.

Possiamo distinguere due grandi modalità del vivere le passioni: quelle che armonizzano l’interiorità e conducono all’integrazione personale, e quelle che disgregano l’unità del sé, inseguendo illusioni parziali.

Quando una passione nasce da un desiderio che unifica, che ci avvicina a ciò che siamo realmente chiamati ad essere – cioè a vivere in relazione con la verità, il bene e l’amore – essa è un’energia positiva, un’alleata della crescita spirituale e della maturità affettiva. Al contrario, quando una passione ci spinge a inseguire un piacere immediato, scollegato dal senso globale della nostra esistenza e dalle nostre relazioni profonde, essa può diventare tossica, frammentante, perfino distruttiva.

Il bene più autentico non è mai qualcosa di separato o isolato: è ciò che conduce all’armonia dell’essere, dove ogni parte trova il suo posto dentro un tutto più grande. Quando le nostre passioni ci aiutano a vivere questa armonia – tra corpo e spirito, tra desiderio e responsabilità, tra io e tu – esse sono buone passioni. Esse non reprimono il piacere, ma lo ordinano, lo integrano in un bene più grande.

Al contrario, una passione è disordinata quando rincorre un bene parziale che contraddice il bene più grande dell’interiorità integrata o delle relazioni autentiche. Non è male cercare il piacere, ma è male cercarlo contro ciò che dà senso alla nostra vita. In quel caso, il piacere diventa nemico della felicità.

La maturità spirituale richiede allora discernimento: riconoscere quali passioni ci aiutano ad amare meglio, e quali invece ci chiudono in un egoismo compulsivo. L’essere umano non è chiamato a sopprimere le passioni, ma a purificarle, a orientarle verso ciò che veramente fa bene, verso ciò che costruisce. Per questo la tradizione spirituale cristiana parla di educazione del cuore, di trasfigurazione del desiderio.

Nella nostra crescita, tendiamo naturalmente verso un’immagine ideale di noi stessi: è la visione del nostro sé più pienamente realizzato, il “nome nuovo” che Dio ci ha dato (Ap 2,17), il progetto spirituale iscritto nelle profondità del nostro essere. Questo ideale non è una fantasia irraggiungibile, ma una chiamata interiore: ci orienta verso la verità del nostro essere, e ci fa percepire come alcune passioni ci portino avanti in quel cammino, mentre altre ci deviano.

Quando la passione è buona, essa ci dà energia, motivazione, slancio. Ci fa sentire vivi, liberi, creativi, capaci di amare. È come un vento che spinge le vele dell’anima verso l’orizzonte del bene. Quando invece una passione è falsa – figlia dell’illusione, della compensazione affettiva, del narcisismo o del vuoto – essa ci consuma, ci rende inquieti, insoddisfatti, dipendenti. È una contraffazione dell’ideale, una finzione che pretende di essere pienezza, ma si rivela presto vuota.

Le passioni non sono da temere: sono fuoco, e il fuoco può bruciare o illuminare. Il lavoro spirituale consiste nell’apprendere l’arte del fuoco interiore: riconoscere, orientare, integrare. Le passioni buone ci avvicinano all’ideale di umanità che Dio ha posto in noi; quelle cattive ci allontanano, perché ci seducono con simulacri di bene che divorano invece di nutrire.

Un cuore pacificato, allenato al discernimento, è il luogo dove la verità si fa carne, dove la gioia non è evasione ma radicamento profondo.

La passione malvagia
La passione malvagia si manifesta essenzialmente quando il piacere diventa il fine ultimo della vita, la bussola che orienta ogni scelta e decisione. In altre parole, si riduce l’esistenza a una ricerca compulsiva del piacere immediato, ignorando la profondità della nostra natura umana e i legami essenziali che ci tengono integrati.

Quando riduciamo la ragione e la libertà a schiave degli impulsi istintivi, smarriamo la nostra identità più profonda. È come voler essere un “centauro”, metà uomo e metà bestia: un essere diviso, che vive nella finzione di un’esistenza dimezzata. Il piacere legato solo all’istinto, privo di consapevolezza e responsabilità, non può costituire la legge della vita umana.

Nel regno animale, l’istinto guida alla conservazione e alla crescita; nell’essere umano, invece, il solo inseguire il piacere istintivo senza orientamento superiore provoca disgregazione, sofferenza e perdita di sé.

Il piacere, per quanto intenso, è sempre parziale, mai completo, perché l’essere umano è una sintesi complessa di corpo, mente e spirito, che anela a un bene totale e duraturo. Il piacere soddisfa un bisogno limitato, ma non può colmare il desiderio infinito di felicità e senso che abita il cuore umano.

Più ci si sforza di inseguire questo piacere illusorio, più esso sfugge, lasciando dietro di sé un vuoto doloroso e una frustrazione profonda. La tensione crescente tra il sogno di felicità e la realtà dolorosa della sua mancata realizzazione è la misura del nostro dolore esistenziale.

Tentare di vivere secondo questa finzione è come sforzarsi di mettere insieme pezzi di una macchina che non funzionano più: la nostra psiche si disgrega, le nostre energie si sprecano in un lavoro inutile e dannoso. Le parti di noi che dovrebbero collaborare armonicamente entrano in conflitto, aumentano l’ansia, la stanchezza, la sofferenza.

In questo sforzo vano, il bisogno di felicità si esaspera, mentre la capacità di gioire si affievolisce. È come se la fame crescesse e il cibo sparisse, lasciando un abisso tra ciò che desideriamo e ciò che riusciamo a vivere. Questa consapevolezza dell’abisso interno diventa fonte di dolore e malessere profondo.

La responsabilità è nostra: invece di inseguire illusioni destinate a fallire, siamo chiamati a volgere lo sguardo verso l’ideale, quel bene autentico che integra e armonizza la nostra umanità. Solo seguendo questo ideale possiamo sperimentare una passione che nobilita, rigenera e ci conduce alla vera gioia.

La passione autentica
La passione diventa sana e vitale quando si orienta verso ciò che è bene autentico, anche a costo di rinunciare a gratificazioni immediate o superficiali. Più alto è il bene verso cui tende, più profonda e armoniosa sarà la trasformazione interiore che ne scaturisce. Questo bene non è un concetto astratto, ma una realtà viva, integrata nel nostro essere, che ci armonizza e ci fa crescere in autenticità e pienezza.

L’ideale è proprio quella meta di perfezione verso cui la nostra esistenza, se sana e in sviluppo, si dirige spontaneamente. È la bussola che indica una direzione che risuona con le nostre radici più profonde e con il progetto unico che ogni persona è chiamata a vivere. Anche quando non ne siamo pienamente consapevoli, la passione buona ci spinge verso l’ideale; ma quando lo scegliamo e lo abbracciamo consapevolmente, la nostra vita si illumina di un’energia nuova e potente.

L’ideale, infatti, è la sintesi del vero, del bello, del bene: è ciò che amiamo con tutta l’anima, il faro che ci guida nella notte. Non è un traguardo da raggiungere definitivamente, ma un orizzonte verso cui tendere con ardore e dedizione, come un navigatore che guida la propria barca seguendo la stella luminosa lontana.

Questa passione per l’ideale è una forza straordinaria e un dono prezioso. La passione per l’ideale non è un semplice pensiero o un’emozione passeggera. Nasce dall’intreccio di esperienze profonde, riflessioni intense, emozioni nobili e una volontà energica. In un momento di quiete interiore, un’idea si fa luce dentro di noi, abbracciando e unificando tante altre scintille di senso e desiderio. Questa luce diventa centro di gravità, condensando e rafforzando la nostra volontà in un’unica, grande spinta verso il bene scelto. D

Dentro la nostra coscienza quando un ideale si radica attira e integra tutte le idee, i valori e le emozioni che gli sono affini, lasciando svanire o indebolire tutto ciò che è dissonante o frammentato. Nel tempo, questo processo consolida la nostra identità profonda e rafforza il nostro impegno.

Questa dinamica spiega perché un proposito forte, quando è legato a un ideale autentico, non si disperde facilmente, ma anzi cresce e si radica nella vita quotidiana, trasformandola. Molti di noi hanno sperimentato questa crescita: ciò che sembrava un semplice proposito diventa una passione che dà senso, coraggio e gioia, anche di fronte alle difficoltà.

La passione per l’ideale agisce come una potente lente che focalizza tutta la nostra attenzione e le nostre energie. Come un’ipnosi consapevole, essa ci permette di vedere, sentire e vivere solo ciò che contribuisce alla nostra meta, filtrando tutto il resto. Questo non è un cieco abbandono, ma una scelta lucida e libera, che crea coerenza e profondità nella nostra esperienza.

In questo stato, siamo così immersi nell’amore per l’ideale che ogni impulso, ogni pensiero, ogni emozione si accorda con esso. Il nostro cuore si apre e si fortifica insieme alla nostra mente, e la volontà si fa azione concreta. Il cammino verso l’ideale diventa una danza armoniosa tra desiderio e ragione, coraggio e pazienza, forza e umiltà.

La passione buona è la scintilla divina che trasforma la nostra vita in un’opera d’arte spirituale. È il motore che ci conduce verso la migliore versione di noi stessi, verso quella verità ultima che illumina ogni passo e dona senso profondo al nostro essere.

L’ideale: forza vitale e trasformazione profonda dell’essere
L’ideale non è soltanto la forza più autentica che anima la vita interiore, ma rappresenta anche il suo dono più prezioso. Esso è la luce che dissolve le ombre dei nostri limiti e difetti, orientandoci verso la fioritura piena del nostro potenziale.

Quando l’ideale emerge in un’anima, porta con sé un cambiamento radicale, un vero e proprio capovolgimento dell’orizzonte interiore. Questo processo spesso si manifesta come una profonda frattura interiore, che può essere tanto più intensa quanto più è radicale il nuovo orientamento. È un momento in cui la coscienza si dilata e si riorganizza attorno a una nuova visione di senso.

Questo fenomeno si manifesta in modo eclatante nei grandi passaggi di vita, come nell’esperienza di Paolo sulla via di Damasco: la sua trasformazione da persecutore a apostolo è paradigmatica di come la grazia di un ideale possa demolire e ricostruire l’identità profonda. Nelle vite di molti, e non solo in ambito religioso, si può osservare questo passaggio: l’ideale che irrompe, che “illumina” e conquista la coscienza, dissolvendo antiche passioni, pregiudizi, abitudini radicate.

Questa trasformazione può essere paragonata a una “ricostruzione della sintesi interiore”: la struttura mentale precedente crolla perché incapace di contenere la nuova consapevolezza espansa. L’ideale diventa così il nuovo centro, la nuova matrice che organizza e orienta tutte le energie interiori. Le vecchie abitudini, radicate e spesso quasi inconsapevoli, vengono spazzate via con la forza di un’azione volitiva intensa, che agisce sull’organismo psichico e anche somatico, generando un nuovo equilibrio.

È importante sottolineare che questo tipo di trasformazione radicale è raro e richiede un’intensità emotiva e una dedizione totale di sé. Più spesso, il cambiamento è graduale, ma non meno reale: l’ideale entra nell’anima e inizia a sottrarre lentamente energie e attenzioni agli istinti opposti, a quelli che prima alimentavano i nostri difetti.

Il dominio dell’ideale rappresenta quindi una forma di “autogoverno” psico-spirituale, un esercizio continuo di volontà che mantiene il nostro “capo sollevato”. Questo non significa ignorare o reprimere gli istinti, ma farli servire allo scopo di una vita armoniosa e consapevole, non lasciarsi dominare da essi.

Nel percorso umano, la presenza costante dell’ideale crea armonia, coerenza, e annienta i “difetti”, intesi come disarmonie e mancanze di integrazione tra le parti del nostro essere. Questi difetti sopravvivono solo laddove l’ideale non è ancora pienamente presente o esercita poca influenza.

La vita mediocre spesso si caratterizza per due grandi sfide interiori: la debolezza della volontà, segnata dall’esitazione e dall’indecisione, e la dispersione delle energie, quando i nostri atti volitivi sono contraddittori e incoerenti.

L’ideale agisce su entrambe queste dimensioni, infondendo un desiderio unico, ardente e persistente che elimina l’indecisione e unifica gli sforzi verso una meta chiara. Come una bussola interiore, esso orienta la volontà e le energie, moltiplicandone l’efficacia e la capacità di produrre frutti.

Un individuo dotato di un ideale profondo, chiaro e stabile, si distingue per la sua capacità di concentrare e valorizzare tutte le proprie risorse interiori. Questa concentrazione genera un entusiasmo autentico e una vita più piena, che non spreca energie in “lavori nocivi” o distrazioni.

Come affermava Roosevelt, e come confermano le riflessioni psicospirituali contemporanee, «un individuo non ha valore se non è animato da una profonda devozione verso un ideale». Solo l’ideale può essere il motore che ci salva dalla dispersione e dalla mediocrità, permettendoci di usare la nostra vita in modo autentico e fruttuoso.

L’ideale agisce come forza motrice che espande le nostre energie interiori, affinando la volontà e integrando le diverse tendenze dell’anima in un’unità coerente e armoniosa.

L’ideale, infatti, non è solo un obiettivo da raggiungere, ma rappresenta anche la sorgente di una gioia squisita e profonda. Come Aristotele osservava, la gioia accompagna l’atto perfetto: quando una nostra capacità si esprime al meglio, essa si manifesta non solo come soddisfazione, ma come un’esperienza di pienezza esistenziale. In questo senso, l’azione armonica e ordinata — che risponde adeguatamente alle circostanze e ai bisogni della realtà — è la manifestazione di un “essere” in evoluzione verso la sua più autentica verità, bellezza e bontà.

La ricerca appassionata della verità diventa allora un’esperienza altamente gioiosa, poiché sollecita e realizza il perfezionamento dell’essere.

Questo spiega il paradosso di molte esperienze spirituali e umane: i santi, attraverso la rinuncia e il sacrificio, si aprono a una gioia espansiva e duratura, mentre molte persone immerse nella ricerca del piacere sensoriale vivono una tristezza profonda, a volte tale da portarli all’autodistruzione. La vera gioia dei santi e degli innamorati di un ideale nobile non è il piacere superficiale che attraversa i sensi e svanisce senza raggiungere il cuore profondo dell’anima. È piuttosto una condizione di armonia interiore — una serenità che non stanca, ma rigenera; che non consuma, ma amplia; che si prolunga come un’estate senza fine dentro di noi.

La gioia autentica scaturisce da una fonte profonda dentro l’anima, una sorgente calma e inesauribile che irrora anche i sensi, rendendoli partecipi senza mai esaurirsi. I sensi, infatti, possono solo ricevere il fascino di questa gioia; se cercassimo di forzarla attraverso eccitazioni o stimoli nervosi, la fonte si esaurirebbe rapidamente.

Per coltivare questa gioia occorrono quindi luce e volontà: la consapevolezza interiore (riflessione) e l’intensificazione del desiderio autentico (volontà ardente). Non si tratta di semplici reazioni emotive o di spasmi nervosi, ma di una vera e profonda donazione di sé, che si costruisce lentamente con l’esercizio paziente e l’azione consapevole. I giovani spesso si illudono che l’emozione intensa basti a sostenere l’amore per l’ideale, ma l’esperienza insegna che senza la gradualità e la maturazione psicologica, questo slancio si trasforma in agitazione sterile e perdita di armonia interiore.

Molti attraversano queste fasi di eccesso e disarmonia, per poi correggersi e giungere, attraverso il cammino spesso lungo e faticoso della vita, a una gioia matura e stabile. Questa gioia è come una fragranza preziosa che permea ogni aspetto dell’esistenza e permette di accogliere anche la morte con serenità, come il passaggio a una vita più piena.

Non tutti, naturalmente, raggiungono questi livelli di passione e pienezza, ma anche un amore più moderato e costante verso l’ideale può ordinare e dirigere la vita, generando armonia interiore e una gioia profonda, che è il naturale complemento della crescita personale.

Indipendentemente dai risultati immediati, l’ideale offre anche un metodo efficace e dolce per affrontare la necessità universale di espandere la propria coscienza e combattere le tendenze autodistruttive o disarmoniche dentro di noi. Le energie inferiori, lasciate a sé stesse, tendono infatti a frammentare l’essere, creando conflitti interni e difetti. La vita stessa è un processo di subordinazione e integrazione di queste energie, che può realizzarsi solo attraverso uno sforzo consapevole.

Invece di combattere i difetti con durezza o repressione, è più salutare e piacevole permettere alla nostra “vita interiore” di espandersi liberamente e salutare, lasciando che le nostre forze migliori prendano il sopravvento e si esprimano pienamente, proprio come un albero che si sviluppa verso la luce del sole, che fa circolare la linfa e porta fiori e frutti.

Questa espansione è la vera vittoria sulle nostre debolezze: non tanto una lotta costante e debilitante, quanto una crescita armoniosa e progressiva. È una gioia sottile e persistente, un sentimento di pienezza e di appartenenza a qualcosa di più grande, che sostiene ogni nostro passo.

In fondo, la gioia di vivere nasce da un amore profondo e costante, un amore che nessuna difficoltà potrà mai spezzare. Amare la vita, vedere in essa il riflesso dell’ideale più alto, permette di accogliere con serenità e speranza ogni momento, anche quelli più duri.

Per i giovani, come per gli adulti, avere un ideale chiaro e seducente è fondamentale: è ciò che rende la vita degna di essere vissuta, ciò che dà energia e slancio al quotidiano, anche quando richiede sacrificio. Coltivare un ideale significa avere una ragione profonda di vivere, una fonte inesauribile di forza e la gioia autentica di un’esistenza piena.

Allinearsi con il proprio essere profondo
Innanzitutto, l’ideale che scegliamo deve risuonare con il nostro destino e le nostre attitudini naturali. Se non lo fa, allora non stiamo inseguendo una verità autentica, ma una sua distorsione. Quando l’ideale contrasta con il nostro destino, rischiamo di inseguire solo piaceri illusori e passeggeri, che alla lunga possono diventare sofferenza e malessere. Il mondo è pieno di esempi di persone che hanno tentato di forzare sé stesse verso mete incompatibili con la loro natura e ne hanno pagato il prezzo.

Se l’ideale va contro le nostre inclinazioni più profonde, significa che stiamo tradendo noi stessi, negando la nostra personalità, indebolendo la nostra autenticità. Questo è un principio fondamentale: le nostre qualità autentiche sono come la linfa che nutre un fiore. Per crescere in verità, dobbiamo attingere a ciò che è già vivo dentro di noi. Tentare di essere ciò che non siamo, anche se attraente dall’esterno, ci allontana dalla nostra fioritura autentica.

Non basta però che l’ideale non contrasti con noi: deve essere anche la verità-limite del nostro essere, cioè la luce guida che abbraccia e sostiene tutta la nostra vita, dando senso e direzione.

Un ideale autentico non è solo una semplice idea o un concetto astratto: è un orientamento vitale, che corrisponde all’essenza del nostro essere e alla nostra missione nel mondo. Deve essere vasto e chiaro, semplice nella sua formula, ma capace di integrare ogni aspetto della nostra vita, ogni sfumatura delle nostre relazioni e delle nostre attività.

L’ideale dovrebbe sintetizzare e valorizzare la qualità dominante in noi, quella dote unica che possiamo far fiorire fino alla sua massima espressione. Non possiamo essere eccellenti in tutto, e non è necessario: quando seguiamo la nostra “via maestra”, il resto segue in armonia.

Inoltre, l’ideale deve non solo essere vero e giusto, ma anche bello e attrattivo. Solo ciò che ci affascina profondamente può sostenerci nei momenti difficili, quando il dovere e il sacrificio si fanno sentire. Amare l’ideale significa anche saper vedere la bellezza nascosta nella fatica, nel limite, nella crescita personale.

Dopo aver scelto l’ideale, il vero lavoro è farlo diventare parte di noi, introdurlo nella nostra mente e nel nostro cuore con attenzione e amore costanti.

Questo non è sempre facile: richiede tempo, pazienza, e soprattutto una sincera volontà di cambiamento. Le passioni intense e improvvise spesso svaniscono; invece, l’amore per l’ideale si costruisce con calma, attraverso riflessioni profonde e pratica quotidiana.

È importante creare una connessione viva e duratura con l’ideale, che orienti la nostra coscienza e guidi le nostre scelte. Quando l’ideale risplende dentro di noi come una luce chiara e potente, comincia a trasformare tutta la nostra vita.

Un ideale ben scelto e amato diventa la fonte della nostra verità più autentica, della nostra bellezza più profonda e del bene che possiamo portare nel mondo. Ci permette di espanderci, di diventare sempre più noi stessi, di vivere con pienezza ogni aspetto della nostra esistenza.

Bibliografia essenziale

Chimiri, Giovanni, Etica delle passioni, Dehoniane, Bologna 1996.
Vito, La vita autentica, RaffaelloCortina Editore, Milano 2021
Nussbaum, Martha C., L’intelligenza delle emozioni. Il Mulino, 2004.
Rohr, Richard. Falling Upward: A Spirituality for the Two Halves of Life, Jossey-Bass, Hoboken, NJ, (Stati Uniti) 2023.
Rolheiser, Ronald, Il cuore inquieto. Alla ricerca di una casa spirituale in un tempo di solitudine, Queriniana, Brescia 2008.
Solomon, Robert C., The Passions: Emotions and the Meaning of Life, Hachette Publishing Company, Indianapolis/Cambridge 1993.

«Papà, spiegami allora a che serve la storia»

di: Anita Prati

tucidide

HomeCulturaTucidide, la guerra e il regime change
Tucidide, la guerra e il regime change29 giugno 2025/ 2 commenti
di: Anita Prati
tucidide

«Papà, spiegami allora a che serve la storia». Erano gli anni Quaranta del Novecento quando, per rispondere alla domanda del figlio adolescente, Marc Bloch iniziò a dedicarsi alla stesura di quello che sarebbe diventato il suo libro più famoso, nonché un’opera fondamentale di metodologia storica, Apologia della storia o Mestiere di storico.

Già, a cosa serve la storia? A guardare quello che va accadendo nel mondo, verrebbe da rispondere senza esitazioni che la storia non serve proprio a un bel niente. Prendiamo l’anglismo regime change, che oggi tanto furoreggia nei dibattiti geopolitici. Ce lo aveva già spiegato Tucidide, più o meno duemilacinquecento anni fa, che cos’è e quali sono le conseguenze, di breve e lungo periodo, di un regime change. Ma è forse servito a qualcosa?

Il dialogo dei Melii
Anno 416 a.C. Dopo quindici anni di guerra fra Atene e Sparta, un abbozzo di pace presto disattesa e nuovi venti ostili che si profilano all’orizzonte, Atene invia un contingente militare e un’ambasceria agli abitanti dell’isola di Melo, per invitarli a recedere dalla loro posizione di neutralità e spingerli a diventare alleati degli Ateniesi contro gli Spartani. Melo, di fondazione spartana, era la più occidentale, quindi la più vicina al Peloponneso, fra le isole Cicladi e il suo ingresso nella Lega delio-attica, a guida ateniese, avrebbe rappresentato per Atene un punto di forza strategicamente molto significativo.

Le pagine che Tucidide dedica al dialogo dei Melii sono fra le più famose delle sue Storie. I Melii, che fin dall’inizio della guerra si erano opposti al pressante tentativo ateniese di costringerli ad aderire alla Lega delio-attica, ossia di diventare, a conti fatti, dei sudditi della potenza imperiale ateniese, argomentano la loro volontà di mantenersi neutrali, cioè liberi, appellandosi al diritto, alla giustizia e al principio del bene comune. Di contro gli Ateniesi oppongono il concetto di utile e la concreta pragmaticità della Realpolitik.

Nella prospettiva imperialista, a prevalere è la legge di natura, in base alla quale il forte può imporre al debole la propria volontà e diritto e morale sono solo belle parole, vacue ed ingenue. «L’oggetto in discussione è la salvezza – dicono gli ambasciatori ateniesi –, il che significa non opporsi a chi è di gran lunga più forte».

È la nota dialettica physis e nomos: natura e legge sono spesso in opposizione fra loro e, in base alla legge di natura, il forte ha il diritto di prevalere, di schiacciare, opprimere e reprimere il debole, sia che si tratti di singoli individui sia che si tratti di Stati.

Dopo alcune pagine potenti per tensione drammatica, l’epilogo è rapido e perentorio. Ai Melii che chiedono agli Ateniesi di ritirarsi dal loro territorio stipulando un trattato di pace che appaia conveniente ad entrambi, gli Ateniesi rispondono con minacce dal sapore apocalittico: «Perderete tutto».

Viene deciso l’attacco immediato. I Melii riescono a resistere per qualche tempo poi, sopraggiunti rinforzi da Atene, sono costretti alla resa. La laconica conclusione di Tucidide mette a nudo i meccanismi brutali, spogliati di qualsiasi idealità, di ogni imperialismo: «Gli Ateniesi uccisero quanti Melii in età militare riuscirono a catturare, fecero schiavi le donne e i bambini. Il territorio lo abitarono loro, inviando cinquecento coloni».

Ecco come ti esporto la democrazia, come metto in atto un bel regime change democratico: uccido, schiavizzo, colonizzo.

Postilla
Anno 404 a.C.: si conclude la quasi trentennale guerra del Peloponneso. Atene viene sconfitta dall’alleanza spartana, e da quella sconfitta non si riprenderà più.

Settimana News

Qualcosa che «vale tutto»

 Qualcosa che «vale tutto»  QUO-149

di Sergio Valzania

Scrive Primo Mazzolari, in uno scritto riedito in Non mi sono mai vergognato di Cristo, (EDB, 2020) «La preghiera è una delle azioni più difficili. Se la preghiera non costasse, non varrebbe quello che vale. Vale più pregare che lavorare. La preghiera vale tutto».

Affermazioni che ci costringono a interrogarci sul nostro modo di pregare, a volte svogliato e abitudinario, e alla considerazione stessa che abbiamo della preghiera. Davvero quando preghiamo siamo consapevoli di porci di fronte a Dio, in un rapporto diretto?

Osservatore Romano

Nella solennità dei santi Pietro e Paolo il Papa ha imposto il pallio a 54 nuovi arcivescovi metropoliti di 28 Paesi

 Un’armonia di voci e di volti    che non cancella la libertà di ognuno  QUO-149

Osservatore Romano

All’Angelus nuovo appello affinché si lavori per la pace attraverso il dialogo

«La comunione ecclesiale e la vitalità della fede»: sono i due aspetti della testimonianza degli apostoli Pietro e Paolo che Leone XIV ha voluto rilanciare in occasione della solennità dei patroni dell’Alma città di Roma. Presiedendo nella basilica Vaticana la celebrazione eucaristica con il rito della benedizione e dell’imposizione del pallio a 54 nuovi arcivescovi metropoliti di 28 Paesi, il Papa ha sottolineato come la stretta fascia di lana bianca ornata di croci nere richiami «il compito pastorale» ad essi affidato e «la comunione con il Vescovo di Roma».

Alla messa concelebrata anche dai membri del Sinodo della Chiesa greco-cattolica ucraina, erano presenti delegati del Patriarcato ecumenico. All’omelia il Pontefice ha salutato sia i primi sia i secondi, auspicando un cammino «insieme nella fede e nella comunione». Perché, ha spiegato estendendo la riflessione ai tanti pastori delle diocesi dei cinque continenti presenti, «la comunione a cui il Signore ci chiama è un’armonia di voci e di volti e non cancella la libertà di ognuno».

Successivamente Leone XIV si è affacciato dalla finestra dello Studio privato del Palazzo apostolico vaticano per la recita dell’Angelus con i fedeli presenti in piazza San Pietro. «Continuiamo a pregare perché dovunque tacciano le armi e si lavori per la pace attraverso il dialogo», ha detto al termine della preghiera mariana.

Medio Oriente, Trump: accordi di Abramo e tregua a Gaza

Uno degli effetti degli ultimi raid israeliani nella Striscia

Il presidente Usa in pressing su Netanyahu per un cessate il fuoco entro la settimana. Israele valuta un’intesa concreta con Hamas sul rilascio degli ostaggi. Secondo Al Jazeera, è salito a 48 il bilancio delle vittime palestinesi nella Striscia di Gaza, uccise dagli attacchi israeliani dall’alba di oggi
Francesco De Remigis – Città del Vaticano – Vatican News

È attesa per oggi una nuova riunione del governo israeliano sugli sviluppi della guerra a Gaza. Dopo il nulla di fatto di ieri sera, il premier Benjamin Netanyahu ha spiegato in un video che la “vittoria” contro l’Iran ha aperto “opportunità” per liberare gli ostaggi israeliani ancora detenuti nella Striscia. L’annuncio segue inoltre le parole del presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, pronunciate ieri in un’intervista a “Fox News” e ribadite successivamente sui social network: “Fate l’accordo a Gaza, riprendere gli ostaggi” entro questa settimana, ha scritto Trump, alzando le aspettative su quello che continua a definire “un accordo” tra le parti.

La situazione sul campo
Sul campo l’esercito israeliano da ieri ha inviato alert alla popolazione per evacuare nuove zone del nord della Striscia. Secondo l’emittente Al Jazeera, il bilancio delle vittime palestinesi nella dall’alba di oggi è di almeno 48 vittime, dopo l’uccisione nel fine settimana di uno dei fondatori di Hamas, Muhammad Al-Issa, a Gaza City. Nel fine settimana appena concluso i raid israeliani si sono intensificati: l’ultimo bilancio parla di 85 morti e 365 feriti solo nelle ultime 24 ore. Tra le vittime ci sarebbero anche tre bambini. Una continua strage che, stando ai dati forniti dalle autorità locali di Hamas, avrebbe causato 56.412 vittime e 133.054 feriti dal 7 ottobre 2023. Di queste, sempre secondo le autorità sanitarie di Hamas, circa 500 sarebbero state uccise nell’ultimo mese nei pressi dei siti di distribuzione degli aiuti umanitari della Ghf. Per il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, “saranno i tribunali a stabilire quali solo le violazioni”. Lo ha detto alla televisione spagnola Tve, in occasione della IV Conferenza Internazionale per gli aiuti allo Sviluppo delle Nazioni Unite, in corso da oggi al prossimo 3 luglio a Siviglia.

Trump, il futuro degli accordi di Abramo
Il presidente Trump, sempre nell’intervista a “Fox News”, ha ribadito che diversi Paesi hanno espresso interesse ad aderire agli Accordi di Abramo per una normalizzazione delle relazioni con Israele: “Inizieremo ad aggiungerne altri, perché l’Iran era il problema principale”, è l’analisi del capo della Casa Bianca. Che, per quanto riguarda le voci di un accordo tra gli Stati Uniti e la Repubblica islamica su eventuali incentivi per sviluppare la tecnologia nucleare civile, questa mattina ha smentito l’ipotesi di cui aveva dato conto la Cnn nel fine settimana. “Non sto offrendo nulla all’Iran, a differenza di Obama, che li ha pagati miliardi di dollari per la stupida strada verso un’arma nucleare che era il Jcpoa (che ora sarebbe scaduto!), e non sto neppure parlando con loro dal momento che abbiamo totalmente distrutto i loro impianti nucleari”, ha scritto il presidente Usa su Truth.

Tensioni in Cisgiordania
Altro fronte caldo in Medio Oriente rimane invece quello della Cisgiordania, dove venerdì sera decine di coloni israeliani si sono radunati all’ingresso del quartier generale delle Forze di difesa di Binyamin, attaccando agenti di polizia e militari con spray al peperoncino, vandalizzando veicoli militari e incendiando un’installazione di sicurezza del valore di diversi milioni di shekel, utilizzata per «sventare attacchi terroristici e mantenere la sicurezza». I disordini sarebbero scoppiati dopo l’uccisione di un ragazzo di 14 anni avvenuta venerdì sera vicino al villaggio palestinese di Kafr Malik, nel governatorato di Ramallah. L’esercito, condannando «qualsiasi atto di violenza contro le forze di sicurezza, ha detto che i danni al sito «rappresentano un pericolo per la sicurezza dei residenti» . Analoghe dichiarazioni sono giunte da Netanyahu e da Smotrich.

SACRU, i giovani al centro del primo Report: da Sydney alle Ande per un mondo più giusto

Le nuove generazioni al centro del primo Report di SACRU dedicato agli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile

Nella sua prima pubblicazione congiunta dedicata agli obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazione unite, l’Alleanza Strategica delle Università Cattoliche di Ricerca mette in rilievo l’impegno di vari studenti e docenti per creare un mondo più giusto. Con progetti e iniziative in tutto il mondo, il rapporto vuole essere un invito a riflette ed agire
Vatican News

Le università dell’Alleanza Strategica delle Università Cattoliche di Ricerca (Strategic Alliance of Catholic Research Universities, SACRU) uniscono intenti e competenze nel “Report Driving Global Change”, la prima pubblicazione congiunta dell’organizzazione dedicata agli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile. Frutto del contributo condiviso di studenti e docenti di sette atenei partner, il Report offre una geografia concreta dell’impegno accademico cattolico nel mondo sui grandi temi della sostenibilità. Rivolto a università, istituzioni internazionali, policy-maker, fondazioni, media e cittadini attivi in ambito educativo, sociale e civile, il Report intende essere un invito a riflettere e ad agire, lasciando tracce concrete per un futuro più giusto.

Docenti e studenti che lavorano insieme
I contributi raccolti – realizzati da 15 docenti e studenti – incarnano un approccio unico internazionale, interdisciplinare e intergenerazionale. Il Report presenta una selezione mirata degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile, scelti in base agli ambiti di specializzazione e alle iniziative più rappresentative delle università SACRU, dal podcast della “Universidade Católica Portuguesa” per combattere lo stigma sulla salute mentale all’impianto di irrigazione realizzato dal Boston College per portare acqua potabile a un villaggio dell’Ecuador.

“Questo documento ci ricorda che prenderci cura della nostra casa comune non è soltanto una necessità scientifica o politica, ma un imperativo morale che richiede la nostra coscienza collettiva e la nostra creatività”, ha commentato Zlatko Skrbis, Presidente di SACRU e dell’Australian Catholic University. Pier Sandro Cocconcelli, Segretario Generale di SACRU e Preside della Facoltà di Scienze Agrarie, Alimentari e Ambientali dell’Università Cattolica, sottolinea il ruolo centrale dei giovani: “Affrontare le sfide globali richiede non solo l’expertise di accademici affermati, ma anche le prospettive dei giovani ricercatori e studenti. Il nostro impegno collettivo per gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile si fonda sulla convinzione che lo sviluppo sostenibile sia un appello all’azione rivolto a tutti”.

La rete e gli obbiettivi di sviluppo sostenibile
SACRU è un network internazionale che comprende: l’Australian Catholic University (Australia), il Boston College (USA), UC Chile (Cile), la Pontifícia Universidade Católica do Rio de Janeiro (Brasile), la Sophia University (Giappone), l’Universidade Católica Portuguesa (Portogallo), l’Università Cattolica del Sacro Cuore (Italia) e l’Universitat Ramon Llull (Spagna). La mission di SACRU è quella di promuovere la cooperazione globale tra università cattoliche di ricerca, contribuendo allo sviluppo dell’Higher Education per il Bene Comune. Il Segretariato di SACRU ha sede presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore.

Gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile sono 17 traguardi globali adottati dalle Nazioni Unite nel 2015, nell’ambito dell’Agenda 2030, per porre fine alla povertà, proteggere il pianeta e garantire pace e prosperità per tutti. Ogni obiettivo affronta sfide cruciali come il cambiamento climatico, l’uguaglianza di genere, l’accesso all’istruzione, alla salute, al lavoro dignitoso e alla giustizia sociale. Di seguito i progetti elencati nel report.

SDG 3 – Salute e benessere

Dall’Universidade Católica Portuguesa arriva una riflessione profonda sulla salute mentale e sulla responsabilità delle università nel promuovere ambienti sani e accoglienti. Sofia Torneiro, studentessa di Psicologia e ideatrice del podcast MindCast, condivide proposte per favorire la consapevolezza sul tema e superare lo stigma: dall’estensione della teleterapia fino all’integrazione dell’educazione alla salute mentale nei percorsi scolastici

SDG 4 – Istruzione di qualità

L’Universitat Ramon Llull si interroga sul ruolo dell’intelligenza artificiale nei processi educativi, sottolineando la necessità di un umanesimo digitale. L’analisi propone un equilibrio tra progresso tecnologico e sviluppo integrale della persona, promuovendo un’educazione inclusiva e critica, capace di orientare l’uso dell’AI verso il bene comune.

SDG 6 – Acqua pulita e servizi igienico-sanitari

Il Boston College affronta il tema cruciale della gestione sostenibile delle risorse idriche. Il contributo presenta un progetto per favorire l’accesso all’acqua potabile nella regione amazzonica dell’Ecuador. L’iniziativa integra ricerca scientifica, azione sociale e formazione locale

SDG 13 – Lotta contro il cambiamento climatico

Dall’America Latina, UC Chile propone un’analisi delle strategie per il clima, invitando a rileggere il rapporto uomo-natura alla luce della Laudato Si’. Il contributo richiama il ruolo delle università nella formazione di una coscienza ecologica e nell’elaborazione di politiche pubbliche fondate su giustizia e sostenibilità.

SDG 15 – Vita sulla terra

Sophia University, in Giappone, porta l’attenzione sul modello del Satoyama, esempio di armonia tra uomo e natura. Un paradigma culturale e scientifico che mette in dialogo ecologia, spiritualità e gestione responsabile del territorio, offrendo un’alternativa sostenibile all’urbanizzazione incontrollata

SDG 16 – Pace, giustizia e istituzioni solide

L’Università Cattolica del Sacro Cuore riflette sul significato stesso di “istituzione” e sulla necessità di riscoprire il ruolo delle università come luoghi di pensiero critico, responsabilità e impegno civico. Il contributo mette in luce il legame tra educazione e cittadinanza attiva in un’epoca di crisi democratiche.

SDG 17 – Partnership per gli obiettivi

ACU racconta il valore delle alleanze accademiche internazionali come SACRU, mostrando come la collaborazione tra atenei possa amplificare l’impatto delle iniziative scientifiche e formative. La sinergia tra università, istituzioni pubbliche e organismi internazionali è indicata come strada privilegiata per raggiungere obiettivi comuni.