Ac Reggiana, a Reggio Emilia l’amichevole con la Dinamo City di Tirana

Amichevole Ac Reggiana Dinamo City Tirana

I granata saranno impegnati oggi sul campo del centro sportivo di Cavola nell’amichevole internazionale con la Dinamo City di Tirana, che milita nel campionato di Kategoria Superiore (Serie A) albanese. La squadra della capitale albanese, secondo club più titolato della nazione con oltre mezzo secolo di storia alle spalle, sta vivendo il proprio ritiro estivo a Carpineti – dove mercoledì ha affrontato in amichevole la selezione del Progetto Montagna – e rimarrà in altura fino al 9 agosto. In programma, oltre alla sfida con i granata, un’amichevole con la Virtus Castelfranco (Eccellenza) e un altro impegno ancora da programmare.

La Dinamo City è stata rilevata nel 2021 dal presidente Adrian Bardih e nelle ultime stagioni ha consolidato la sua posizione nella massima categoria albanese, arrivando nella passata stagione a un solo punto dalle qualificazioni alle coppe europee; il traguardo internazionale resta per la Dinamo City l’obiettivo per le prossime stagioni. La Kategoria Superiore ha programmato il suo inizio per il 18 agosto.

Una società in grande crescita, che ha recentemente realizzato il proprio centro sportivo e dato vita alla sua Academy. Con questo spirito nasce l’idea di dare luogo alla preparazione estiva sull’Appennino reggiano, incontrando il clima migliore per questo periodo di lavoro.

L’Italia è sempre bella, ricca di accoglienza e di tanti valori. Vengo ogni anno in Italia e la considero una seconda casa per me. In particolare, sull’Appenino reggiano abbiamo trovato ottime strutture con campi che stanno permettendo ai nostri ragazzi di preparare al meglio la prossima stagione – ha detto il presidente della Dinamo, Adrian Bardih – La Reggiana è una società con oltre centro anni di storia, un percorso così lungo lo si può fare solo con grande passione e sacrificio. Sarà un onore incontrare la Reggiana e confrontarci con una realtà molto stimata”.

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Reggio Emilia, l’atleta reggiano Yassin Bouih alle Olimpiadi di Parigi con il Primo Tricolore

ella Sala Rossa del Municipio di Reggio Emilia il sindaco Marco Massari e l’assessora allo Sport Stefania Bondavalli hanno consegnato il Primo Tricolore al campione di atletica Yassin Bouih, convocato ai Giochi olimpici di Parigi.

Bouih è rappresentante del pool di atleti reggiani che partecipano alle Olimpiadi 2024, anche come ambasciatrici e ambasciatori di Reggio Emilia nel mondo. Da Reggio prenderanno parte ai Giochi anche Ana Maria Vitelaru, campionessa paralimpica di handbike, Sofia Morini per il nuoto e la velocista Zaynab Dosso.

Libertà, eguaglianza e fratellanza compongono insieme un motto universale, nato in Francia tra Lumi e Rivoluzione per cambiare il mondo e dare dignità alle persone. Parole che sono all’origine del Primo Tricolore, il padre della bandiera italiana, nato a Reggio Emilia nel 1797 ed innervano di valori vitali anche il mondo dello Sport.

Perciò oggi pomeriggio nella Sala rossa del Municipio di Reggio Emilia, il sindaco Marco Massari e l’assessora allo Sport Stefania Bondavalli hanno consegnato a Yassin Bouih, campione d’atletica, in partenza per le Olimpiadi di Parigi, il Primo Tricolore, quale omaggio personale e al pool di atleti reggiani che nella capitale francese gareggeranno in diverse discipline sportive.

Da Reggio Emilia saranno, infatti, quattro gli atleti a scendere in pista per partecipare e per cercare di realizzare il sogno di un podio: oltre a Yassin Bouih, mezzofondista e impegnato nei 3.000 siepi, Ana Maria Vitelaru, campionessa paralimpica di handbike, Sofia Morini per il nuoto e la velocista Zaynab Dosso.

Domani Yassin raggiungerà nella capitale francese le tre colleghe, che per motivi organizzativi sono dovute partire all’inizio della settimana e non hanno potuto partecipare all’incontro di oggi.

Il Primo Tricolore è il riconoscimento più importante conferito da Reggio Emilia a cittadini particolarmente meritevoli, nei campi più diversi. In questo caso, oltre al riconoscimento del duro lavoro, costruito su allenamenti fisici e mentali, che sta dietro una convocazione alle Olimpiadi, il Primo Tricolore ai quattro atleti è anche il riconoscimento del ruolo di ambasciatori dello sport reggiano.

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Libro: Rut, storia di una perla

di: Roberto Mela in settimananews

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ESTER ABBATTISTA, Rut, storia di una perla. Prefazione di Noemi Di Segni, Presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane (Il Melograno. Personaggi biblici nell’esegesi ebraica e cristiana 5), Ed. San Paolo, Cinisello B. (MI) 2024, pp. 176, € 18,00, ISBN 9788892244603.

Laureata in Lettere Moderne a Urbino e addottorata in Teologia Biblica presso la Pontificia Università Gregoriana, Ester Abbattista (nata nel 1961) fa parte dell’Associazione Pubblica di Fedeli – comunità di vita consacrata Cenacolo Missionario Comboniano. Profonda conoscitrice del mondo ebraico con studi all’Università Ebraica di Gerusalemme, insegna sacra Scrittura alla Pontificia Università S. Anselmo di Roma e alla Pontificia Università Regina Apostolorum, oltreché in altri Istituti accademici italiani.

La perla e il dialogo
La collana in cui è inserito il volume porta il nome di un albero – il melograno – i cui frutti, forniti di numerosi chicchi, sono gustati appieno solo se mangiati nell’insieme del loro contenuto. Il frutto del melograno è diventato simbolo potente di pluralità e di ricchezza ermeneutica per culture e religioni.

I volumi della collana hanno una struttura costante: dopo aver inquadrato il personaggio in una dimensione teologica, si fornisce una descrizione generale del modo in cui esso è stato recepito nella letteratura ebraica e in quella cristiana, e si offre un’antologia commentata di testi scelti per la loro bellezza e la loro dimensione dialogica.

La collana ha, quindi, un duplice scopo: offrire un’idea della ricchezza ermeneutica delle due tradizioni interpretative, mostrandone aspetti poco noti e suggestivi, e far comprendere come fra di esse vi sia stato un lungo e fecondo rapporto osmotico più che una precoce e netta divisione.

Secondo un’antica interpretazione ebraica, la vicenda della giovane e straniera moabita antenata del re Davide ricorda il processo di formazione di una perla.

Il mollusco, avvertito il pericolo della presenza di un corpo estraneo dentro la conchiglia, secerne una sostanza uguale a quella di cui è formata la conchiglia. Con essa avvolge il granello di sabbia, che vi si è depositato, dando vita alla perla. Proprio quella estraneità impreziosisce il tutto.

In un certo senso Rut è quel granello di sabbia, diverso ed estraneo rispetto alla conchiglia; ma proprio questa sua permanente estraneità (lei sarà sempre “Rut la Moabita”) fa sì che la storia vada avanti, che anche per Davide ci sia una genealogia e che, soprattutto, il popolo porti in sé un messaggio di bontà, di vita e di salvezza per tutti i popoli della terra.

Il libro della studiosa, come è sottolineato dalla Prefazione di Noemi Di Segni – attuale Presidente delle Comunità Ebraiche Italiane (pp. 9-12) –, intende contribuire al dialogo sereno e arricchente fra il mondo cristiano e quello ebraico, che sia scevro da ideologie di sopraffazione, estraneità totale, volontà di sostituzione.

Il libro e le tradizioni interpretative
Abbattista presenta, dapprima, come il libro di Rut sia trattato nella letteratura ebraica e cristiana antica (pp. 17-44). La studiosa descrive il testo e le versioni antiche, il posto occupato nel canone ebraico – nel contesto dei cinque Rotoli e in quello della Bibbia Ebraica. Nel libro di Rut si sottolinea il legame con Moab, il dovere di assicurare una progenie e il tema della carestia con la presenza del ritorno di tre donne. La Settanta e il canone cristiano presenta un legame narrativo con il libro dei Giudici e 1Samuele. Rut è posto nel mezzo.

Il testo tramette un forte messaggio sul tema del ḥesed/amore fedele e fornisce una genealogia al re Davide che comprende, in maniera inaspettata, una progenitrice straniera.

Si ricordi che, nel Deuteronomio, era ordinato che un moabita non potesse far parte del popolo di Israele neppure dopo dieci generazioni, fornendone la motivazione: «L’Ammonita e il Moabita non entreranno nella comunità del Signore; nessuno dei loro discendenti, neppure alla decima generazione, entrerà nella comunità del Signore. Non vi entreranno mai, perché non vi vennero incontro con il pane e con l’acqua nel vostro cammino, quando uscivate dall’Egitto, e perché, contro di te, hanno pagato Balaam, figlio di Beor, da Petor in Aram Naharàim, perché ti maledicesse» (Dt 24,4-5).

L’autrice ricorda poi, brevemente, la figura di Rut come è considerata nella tradizione ebraica e in quella cristiana.

Flavio Giuseppe introduce molte varianti e omissioni, come pure il Targum del libro di Rut e il Midrash Rut Rabbah. Se, nella tradizione ebraica, Rut diventa il prototipo del proselita, nel Nuovo Testamento e nella tradizione patristica, rappresenta la Chiesa proveniente dalle genti.

Rut e la genealogia
Nei capitoli centrali del volume (pp. 45-140) Abbattista commenta il testo biblico. Si parte dal tempo della carestia, nei giorni in cui giudicavano i giudici. Di chi la colpa? – si domanda l’autrice.

La ricerca di pane nel paese di Moab produce morte (del marito e dei figli di Naomi). Viene presa la decisione di tornare, con la scelta di Rut di rimanere “incollata” alla suocera, con la promessa di seguirla in tutti gli aspetti della sua vita, connotazione religiosa compresa.

L’ingresso in Betlemme mette in agitazione la città. Segue un capitolo dedicato a Rut e Boaz: la mietitura, il primo incontro nel campo, il pasto e il ritorno di Rut da Naomi.

La notte sull’aia mette in campo i due istituti giuridici del goel e del levir. Sono rispettivamente il riscattatore dei beni andati perduti per povertà o altra cause e colui che doveva sposare la moglie del fratello che fosse morto senza lasciare figli.

Nel caso di Boaz i due istituti verranno abilmente interconnessi, coinvolgendo i beni di Naomi e della sua vedovanza con la necessità di “comprare” anche Rut insieme al campo andato venduto per necessità.

I fatti sono narrati nell’incontro con il parente più prossimo alle porte della città, dinanzi a testimoni, e con la scena del sandalo connessa all’istituto del levirato.

Al rifiuto del parente più prossimo di comprare campo e Rut, subentra Boaz che, sposando Rut, genera Obed, da cui nascerà Iesse, il padre del futuro re Davide.

Il libro di Rut termina fornendo una genealogia/toledot al re Davide a partire da Peres, figlio di Tamar e Giuda.

Il Targum offre un’esplicitazione della maggior parte dei nomi.

Nel Midrash Rut Rabbah sembra che l’estraneità di Rut, il suo essere una moabita – con tutto ciò che questo comporta –, sia accolto e ri-compreso come l’“alterità” necessaria (“l’altro luogo”) che permette la venuta del Messia.

Il Midrash si conclude con la storiella di un re e una perla. Le genealogie narrate costituiscono un tassello che fa parte di un racconto in cui ogni singolo nome/personaggio fa avanzare la storia di Dio con il suo popolo.

All’interno di questi nomi e di queste storie vi sono delle “perle” come Abramo, Davide e, prima ancora, Rut. Nessuna di queste perle potrebbe essere tale senza una genealogia, una storia, un passato e – in forza di questo – un futuro.

Rut rappresenta la genealogia mancante del re Davide. È come se la narrazione biblica non fosse a sé sufficiente per brillare e per preparare la strada a colui che “sul trono” regnerà per sempre, il Messia davidico.

Anche Davide ha bisogno di radici, di una storia che lo vincoli per sempre al suo popolo e al suo Dio – scrive l’autrice. Se si comprende questo particolare e la sua importanza, allora si può capire perché per Matteo è fondamentale dare inizio al suo Vangelo fornendo la genealogia, la storia di Gesù e ancorandola non solo al suo popolo e alla sua storia, ma anche a quelle donne straniere come Tamar, Racab e Rut che di questa storia fanno parte in tutta la loro estraneità e alterità.

Alterità feconda
La storia di un’ostrica perlifera fa capire il significato della presenza di Rut nei testi biblici. Rut afferma di essere una straniera e Boaz la definisce una donna di valore (un termine che di solito allude alla forza militare, bellica). È il valore di una donna capace di fare breccia tra due muri.

Alle pp. 161-162 sono fornite le traslitterazioni, mentre alle pp. 163-166 viene riportata la bibliografia.

Grazie all’impostazione metodologica della collana, si capisce l’importanza del libro di Rut e delle interpretazioni ebraiche e cristiane per far proseguire un dialogo interpretativo che costruisca ponti e non muri fra due mondi che si intrecciano inestricabilmente, dove l’alterità è necessaria alla vita e all’autocomprensione della controparte.

 

Chiese dismesse: una fondazione per gestirle

di: Lorenzo Prezzi

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Scritto da una decina di professionisti, sostenuto da 75 istituzioni e accademici, condiviso da oltre 17.000 persone è uscito a maggio il manifesto “Kirchen sind Gemeingüter!” (le chiese sono un patrimonio delle comunità locali). Il riferimento è all’università TU (Techniche Universität) Dortmund – Germania.

La proposta è di affidare il patrimonio immobiliare delle chiese in Germania, in particolare quelle di difficile gestione per le amministrazioni ecclesiali, a fondazioni locali o dei Länder, per un uso sociale, culturale e civile di un patrimonio che è di tutti. Un esempio positivo è la fondazione degli edifici storici industriali funzionante da decenni nella regione della Ruhr.

Le chiese sono di tutti

Una prima risposta a metà giugno delle due Chiese maggiori (cattolica e protestante) è interlocutoria. Esse avvertono il pericolo legato alle dismissioni delle chiese e alla loro alienazione come anche il peso economico sempre più gravoso in un contesto di minori risorse finanziarie e di diminuzione numerica dei fedeli.

Riconoscono il vantaggio della partecipazione di altri attori sociali nella gestione degli edifici sacri, ma anche la necessità di salvaguardare il loro riferimento simbolico e confessionale.

Il manifesto parte dalla convinzione che le chiese sono beni comuni e che la loro gestione non può essere guidata solo dai diritti di proprietà esibiti legittimamente dalle Chiese. Diventano sempre più urgenti forme nuove di sponsorizzazione per salvaguardare un patrimonio architettonico, ma anche artigianale, musicale e sociale, oltre che religioso. Non è accettabile che il loro futuro sia quello della demolizione che rappresenta sempre un “furto” per la comunità civile locale.

Il passaggio alla responsabilità di una fondazione dovrebbe garantire il loro profilo confessionale, il loro essere scrigno di arte, di manufatti preziosi e di modifiche architettoniche subìte nel corso dei secoli. Confermando la loro posizione centrale nel villaggio o nella città come anche il profilo del paesaggio pubblico da esse definito, in particolare con i campanili e il suono delle campane.

Tornare ad essere il centro del villaggio

In Germania va riconosciuto che l’avvicinamento ecumenico delle due Chiese maggiori e la permanenza dei loro edifici hanno creato un nuovo senso di unità nazionale.

I 40.000 edifici chiesiastici che vanno dal IV al XXI secolo costituiscono una sfida maggiore per la cultura del popolo tedesco. Su questo è necessaria una discussione pubblica, ben oltre le pur apprezzabili linee-guida che le Chiese si sono date in merito alla gestione del loro patrimonio immobiliare di chiese.

Con i nuovi orientamenti di risparmio e fonte di energie “verdi”, le chiese forniscono spazi pubblici freschi per tutti e soprattutto un legame di memoria intergenerazionale unico. Devono, quindi, poter essere fruibili da tutti, ben oltre i momenti delle celebrazioni, come succede, ad esempio, per i concerti.

La chiesa, al centro del paese come della città, è davvero un “luogo” particolare. Utilizzando la riflessione del sociologo statunitense Ray Oldenbourg, le chiese si possono assimilare non al primo luogo (casa-famiglia), non al secondo luogo (fabbrica-lavoro), ma piuttosto al “terzo luogo”, cioè agli edifici come la scuola, la farmacia, il bar, la sale di comunità ecc. che sono preziosi per la vita sociale. Anzi, per le chiese si può parlare di un “quarto” luogo perché è stabile rispetto all’evolversi della popolazione, ma soprattutto perché è carico di simboli, memorie e riferimenti di tipo trascendente.

Uniscono l’Europa

Gli edifici sacri, chiese, monasteri, santuari, caratterizzano l’intero spazio europeo e hanno dimostrato di essere costruzioni robuste che sfidano i secoli. È un delitto lasciarle in mano al mercato immobiliare del lusso.

Non va sottovalutato il loro ruolo nell’auspicabile processo di unificazione del continente. Anche le costruzioni recenti, del primo e secondo ’900, hanno caratteristiche architettoniche conformi allo sviluppo della coscienza ecclesiale e della cultura civile.

È utile ricordare i titoli del documento: gli edifici chiesiastici rispondono a codici diversi; gli edifici chiedono partecipazione; sono luoghi fondamentalmente pubblici; sono un patrimonio culturale sostenibile; gli arredi ecclesiastici fanno parte del patrimonio europeo; sono un luogo “terzo” e “quarto”; gli edifici chiesiastici hanno bisogno di una nuova proprietà.

Non replicare i comunisti

La situazione tedesca è molto particolare non solo per il profilo giuridico delle Chiese nel contesto istituzionale e politico, ma anche in ragione della sua memoria drammatica. Visibili, ad esempio, nella sistematica distruzione o inutilizzazione forzate delle chiese operata nella Repubblica democratica tedesca, nell’Est guidato dal comunismo. Dagli anni ’50 agli anni ’90 del secolo scorso non solo la costruzione era praticamente impossibile, ma la distruzione era programmata. In quei decenni sono oltre 60 le chiese forzatamente distrutte in ragione di retoriche e false esigenze di pianificazione urbana.

Del resto, l’allora presidente della DDR, Ulbricht, lo teorizzò in un discorso del 1953, quando parlò della necessità di torri che non fossero i campanili, ma piuttosto del municipio, del mercato, del centro culturale. Bastavano gli edifici per attestare che Dio non era morto.

Per questo è necessario che le chiese siano fruibili e abitabili ben oltre il culto. La forma giuridica della fondazione (Stiftung) sembra adatta a combinare la responsabilità specifica delle Chiese e quella delle istituzioni civili locali e nazionali.

Il problema della dismissione delle chiese è molto vivo nei paesi del Nord Europa, come anche in Gran Bretagna e in Canada. Ma diventa sempre più urgente anche nell’Europa mediterranea e in Italia.

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Educare. Che errore l’overparenting, il genitore elicottero che controlla tutto

Ma davvero cresce meglio un figlio geolocalizzato ogni volta che esce di casa? Gli psicologi lanciano l’allarme: il controllo sistematico impedisce lo sviluppo di autonomia e senso di responsabilità
Che errore l'overparenting, il genitore elicottero che controlla tutto

Foto Icponline

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Siete genitori “interventisti”? Pretendete di pilotare in ogni istante la vita dei vostri figli? Non rinunciate a verificare con la massima cura possibile frequentazioni, amicizie, contatti abituali e occasionali? Talvolta però, dopo aver esercitato questa occhiuta vigilanza “a fin di bene”, vi interrogate sull’opportunità di continuare in questo controllo sistematico e asfissiante? Ai genitori che si pongono questi interrogativi, diciamo subito che i dubbi sono più legittimi e che sarebbe necessario resettare le abitudini.

Negli Stati Uniti gli psicologi hanno definito questa prassi di vicinanza un po’ asfissiante, overparenting. Una genitorialità sovrabbondante in senso negativo, quasi tossica perché pretende, per esempio, di incolpare sempre e comunque gli altri bambini se il figlio, mentre gioca al parco, cade e si sbuccia il ginocchio. Oppure di puntare il dito contro l’insegnante, facendo magari la voce grossa o anche peggio, se arriva un brutto voto ma anche se il malcapitato docente si permette di rimproverare il pargolo. Una delle espressioni più deteriore di oveparenting consiste nel controllare i figli minori in tutti i loro spostamenti, geolocalizzarli mentre escono da scuola, vanno in palestra, si fermano a parlare con gli amici, avviene sempre più spesso con il loro consenso.

I genitori, convinti di aver trovato con questa “sorveglianza informata e condivisa” una modalità per tacitare la loro coscienza, sostengono che anche i ragazzi vivono meglio. Sanno, questi malcapitati figli, che un “genitore elicottero” veglia in qualsiasi momento su di loro e – sempre secondo l’opinione di questi madri e padri – si sentono più tranquilli. “Quando ha la tentazione di “deviare” si ferma in tempo perché – mi raccontava qualche giorno fa un amico che sul suo iPhone segue passo dopo passo i movimenti del figlio 14enne – sa che verrò a sapere qualsiasi cosa in tempo reale. Una sicurezza per noi e una garanzia per lui. Prima, ogni volta che usciva, si scatenava l’ansia. Cosa farà? Chi avrà incontrato? Avrà bisogno di aiuto? Ora non abbiamo più motivi di essere preoccupati”.

Ma è davvero così? Basta il controllo elettronico per assicurare davvero a un ragazzo una crescita più serena? O non sarà vero il contrario? E cioè che questo persistente affiancamento da remoto finisce per produrre tutta una serie di effetti negativi tali da azzerare la presunta tranquillità indotta dall’occhio elettronico.

Due domande, tra le tante che potremmo porci: quale senso di responsabilità riuscirà a sviluppare un ragazzo consapevole – e apparentemente d’accordo – del fatto di essere controllato in ogni suo spostamento? Non rischierà di subire una preoccupante stagnazione per quanto riguarda lo sviluppo dell’autonomia? E, allo stesso modo, non risulteranno paralizzate tutte le dinamiche relative alla conquista dell’autonomia che si fondano in modo prevalente proprio sulla possibilità di verificare, tentare, sperimentare? Anche sbagliare, naturalmente, come momento normale e prevedibile di un percorso di crescita che va certamente promosso e accompagnato, ma non video-controllato né teleguidato passo dopo passo.

Bisognerebbe anche riflettere sull’autenticità del consenso espresso dai figli. Quali sono gli adolescenti davvero contenti di essere controllati elettronicamente dai genitori? Può essere che in alcuni casi, di fronte ad atteggiamenti tanto ansiosi di mamme e papà da sfiorare la patologia, i ragazzi accettino la “spia digitale” per non causare ulteriori motivi di stress e di conflittualità familiare. Ma può anche darsi che, mentre noi ci affanniamo a trovare nuove modalità di controllo elettronico, loro abbiano già capito il sistema per aggirare il “nemico digitale”, illudendoci di poter dormire sonni mentre loro si godono a nostra insaputa la riconquistata e legittima libertà.

Ma è chiaro che questi sistemi di controllo elettronico, facilmente utilizzabili e forse facilmente aggirabili, se possono essere utili in qualche circostanza estrema – un concerto ad alto rischio di sballo e di droga – non sono da considerare strumenti ordinari di accompagnamento educativo. Pensiamo a tutto l’ambito scolastico, al mondo delle relazioni, alla pratica sportiva. Che senso avrebbe verificare momento dopo momento la vita e gli incontri di un figlio o di una figlia se non quello di azzerarne la spontaneità, spegnare il loro sano e giusto vitalismo adolescenziale, convincerli di non essere in grado di far un passo da soli senza l’occhiuta vigilanza elettronica dei genitori.

Attrezzare un ragazzo o una ragazza alla vita significa, al contrario, mostrare con i fatti che ci fidiamo di loro, che siamo convinti – anche se quasi sempre non è così – del loro equilibrio, della loro capacità di giudizio, della possibilità di fare bene da soli. Qualche volta ce la faranno a stare in piedi, qualche volta cadranno, in alcune occasioni torneranno con le ginocchia e il cuore escoriati. Ma la sfida dell’educazione è proprio questa. Coltivare con tutto l’impegno e la passione possibile un albero capace di germogliare. E poi attendere con pazienza e fiducia i frutti. Standosene, per quanto possibile, un po’ in disparte.

Chi pretende di esserci sempre, di intervenire, di stabilire modi e tempi della maturazione ottiene solo l’effetto contrario. I frutti si guasteranno prima del tempo e non si otterrà altro che una immaturità perenne e irreversibile. Non credo che qualche genitore desideri questo per i propri figli.

E allora? Mettiamo da parte l’overparenting e accettiamo il rischio di vederli crescere anche senza sapere in diretta ogni particolare della loro vita, di scoprire ogni sillaba delle loro conversazioni, di anticipare ogni loro possibile sbaglio. La bontà di un approccio educativo non si misura dal tanto percepito grazie alla geolocalizzazione, ma dal poco che loro ci verranno spontaneamente a raccontare perché si fidano di noi.

Borgo Mezzanone. Il ghetto dei braccianti diventa una scuola (per una settimana)

Parte oggi il campo “Noi… tra, fra i migranti”, promosso dall’arcidiocesi di Manfredonia. Venti giovani di tutta Italia andranno a “scuola di migrazione” per conoscere i problemi degli ospiti

Un migrante a Borgo Mezzanone

Un migrante a Borgo Mezzanone – Ansa

Da oggi fino al 5 agosto l’enorme e indegno ghetto di Borgo Mezzanone, nel Foggiano, diventa luogo di formazione e servizio per venti giovani provenienti da tutta l’Italia. È il campo “Noi…tra, fra i migranti” promosso dall’arcidiocesi di Manfredonia-Vieste-San Giovanni Rotondo, nel cui territorio si trova l’insediamento di baracche e catapecchie più grande d’Italia, che arriva ad ospitare anche più di 4mila persone. «In questi giorni diventerà una sorta di scuola dove conoscere il mondo dell’immigrazione e fare qualcosa con i nostri fratelli immigrati», ci spiega l’arcivescovo Franco Moscone. «È un’iniziativa cominciata molti anni fa dagli Scalabriniani e la diocesi è poi entrata convintamente nel progetto. Borgo Mezzanone può essere non solo luogo di emarginazione e disperazione ma anche di formazione, crescita e servizio. Serve un’informazione corretta ma serve anche fare cose concrete». La conferma dell’attenzione della diocesi. «Non è un episodio – assicura l’arcivescovo –. Prossimamente, in autunno, partiranno dei progetti concreti assieme ai Camilliani che guidano la parrocchia di Borgo Mezzanone».

Che si aggiungono al prezioso e costante intervento nel ghetto della Caritas diocesana. Come ci spiega don Stefano Mazzone, direttore dell’ufficio diocesano per la Pastorale dei migranti e gli itineranti, il campo avrà due momenti. «La mattina i partecipanti seguiranno un percorso di formazione con esperti sui vari aspetti dell’immigrazione, da quello normativo a quello amministrativo, e poi temi come intercultura, enti e associazioni del territorio, sfruttamento lavorativo e sessuale, procedure legali. Il pomeriggio sarà dedicato al servizio con due attività». Un corso di italiano per gli immigrati, perché l’istruzione è uno strumento indispensabile per l’autonomia e per l’integrazione dei migranti ma sarà anche uno spazio essenziale di scambio e d’incontro tra i migranti e i volontari; e un corso “tecnico” per spiegare come si ripara e fa manutenzione alle biciclette, una vera e propria “ciclofficina”. Molto utile per chi vive nel ghetto. Infatti gran parte degli immigrati della “ex pista”, il nome del ghetto, un tempo aeroporto militare della Nato, si spostano in bicicletta, soprattutto per andare al lavoro nei campi e risparmiare i soldi che chiedono i caporali per il trasporto.

Anche i partecipanti al campo non useranno auto. «Si sposteranno a piedi per condividere la condizione dei migranti – spiega ancora don Stefano – e per lo stesso motivo dormiranno in tenda e si cucineranno da soli. Non avrebbe senso stare in una casa vera e poi andare tra chi vive nelle baracche». Una scelta apprezzata. Infatti ci sono persone che hanno partecipato più volte. Quest’anno vengono da Toscana, Piemonte, Calabria, Lazio, oltre che dal Foggiano, e hanno tra i 18 e i 30 anni. «Gli immigrati sono parte attiva del campo, parliamo con loro, li ascoltiamo – dice ancora don Stefano –. I partecipanti sono molto colpiti dalle loro storie, soprattutto da quelle di chi è a Borgo Mezzanone da anni». Un’esperienza che è, dunque, anche crescita personale. Così alla sera, dopo una giornata tra le baracche, racconta don Stefano, «si confrontano, fanno una verifica sulle difficoltà, i problemi ma anche sui risultati positivi». Di una “vacanza” diversa, sicuramente piena e utile.

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Proposte. Valorizzare il noi e le periferie: è tempo di imparare dalle piante

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Come sarebbe il Ventunesimo secolo se il sistema economico avesse adottato un paradigma differente? Gli esseri umani avrebbero ugualmente trasformato la nostra nell’era dell’ebollizione globale? Ci troveremmo comunque di fronte alla minaccia esistenziale del cambiamento climatico? Probabilmente no. Inutile recriminare. Occorre agire. La consapevolezza delle “radici economiche della crisi” porta in sé una buona notizia: la transizione dell’economia da un modello animale a un modello vegetale offre le chiavi per riparare la “casa-mondo”. Ora, subito. Perché il bivio è ancora di fronte a noi e l’umanità ha, forse, una venticinquesima ora. Luigino Bruni racconta la sua Economia vegetale (Aboca 2024) con un linguaggio volutamente poetico. Non si tratta, però, di una questione di stile bensì di sostanza.

«Le metafore che utilizziamo non sono mai neutrali: ci orientano la fantasia e l’immaginazione, ci condizionano le domande che poniamo e, dunque, le risposte che otteniamo», scrive il noto economista della Luiss capace di spaziare tra i vari ambiti dell’umano, dalla spiritualità alla teologia, dalla filosofia alla letteratura. C’è tale sguardo poliedrico nella sua visione dell’economia civile, di cui è una delle colonne portanti. Una complessità di cui sono intrise le pagine dell’ultimo saggio dedicato all’economia vegetale.

Categoria quest’ultima disegnata proprio a partire dalle metafore. Quelle intorno a cui finora si è strutturata la scienza economica sono di tipo animale: il denaro come “sangue” o “sterco”, l’attività come gara sportiva, solo per citare alcuni esempi. La scelta, più o meno intenzionale, di scartare le metafore vegetali ha modificato profondamente la comprensione teorica dell’economia e le pratiche di studiosi e imprenditori. La proposta di Bruni, allora, è quella di riscoprire l’intelligenza delle piante che, troppo a lungo, non abbiamo saputo vedere. Queste ultime, diversi milioni di anni fa, hanno fatto una scelta irrevocabile: si sono fermate, sono diventate stanziali, sessili, mettendo radici. Ancorate al suolo, non hanno potuto fuggire dagli dei predatori o dalle sferzate delle catastrofi ambientali. Quest’apparente fragilità è diventata, però, la loro forza. Immobili e mansuete, hanno incassato i colpi degli altri viventi. Coniugando flessibilità e solidità hanno imparato a resistere. E a sopravvivere anche quando l’80 o il 90 per cento del loro corpo è stato divorato dalla furia degli umani o della natura.

La ragione di questa incredibile resilienza risiede nella differente distribuzione delle funzioni vitali. Negli animali sono concentrate in alcuni organi, nei vegetali distribuite nell’intera estensione del corpo. Ad occuparsi del singolo stimolo sono le cellule più vicine: il principio di sussidiarietà in chiave botanica. Le piante hanno, dunque, finito per valorizzare le “periferie”, le parti più a contatto con l’ambiente con cui comunicano costantemente. Conversazioni inaccessibili agli umani i quali hanno disimparato i linguaggi degli altri viventi.

Le caratteristiche enunciate rendono gli esseri vegetali dei preziosi maestri: l’intelligenza vegetale ha molto da dire a un’economia capitalista ancora prigioniera di un modello caratterizzato dalla forte divisione funzionale del lavoro e da un ordine gerarchico. Un paradigma animale, insomma. Il quale, va riconosciuto, ha consentito alle imprese di spostarsi rapidamente alla ricerca di nuove opportunità e risorse nonché di adattarsi agli stimoli esterni, diventando l’organismo di maggior successo, le grandi vincitrici della sfida evolutiva del nostro tempo iper-veloce, soprattutto se confrontate con le comunità civili e politiche, molto più lente, democratiche, ancorate sul territorio. Nel nuovo millennio, l’irruzione sulla scena dell’informatica, come una sorta di meteorite, però, ha modificato il “clima” e, d’improvviso, le condizioni evolutive dell’economia e della società. Per muoversi con efficacia in un questo nuovo habitat – nell’età della cosiddetta ragnatela –, è urgente un ribaltamento di prospettiva.

Non si tratta di un cambiamento cosmetico, con qualche ritocco – perlopiù semantico – nella governance. Si tratta di prendere sul serio il paradigma vegetale e imitarlo. Le aziende devono, dunque, attivare tutte le cellule del “corpo imprenditoriale”, rinunciando al rigido controllo gerarchico e alla concentrazione di cariche, potere, profitti in un’esigua minoranza. Il “noi” è il tratto distintivo dell’azienda vegetale. L’unica in grado di farsi carico dei beni comuni, su cui l’umanità si gioca la possibilità di continuare ad esistere. «I beni comuni sono essenzialmente una faccenda di relazioni, tra le persone e delle persone con la Terra e il cosmo. Senza un’attenzione alla dimensione relazionale della vita dell’economia, una relazione che attraversa il tempo e le generazioni, i beni comuni prima non si vedono, poi non si comprendono e, infine, si distruggono», scrive Luigino Bruni che elabora una proposta coraggiosa e visionaria: un patto sociale fondato sui valori “vegetali” della cooperazione, della diversificazione, della relazione. In una parola, sulla fraternità. Solo così la “venticinquesima ora” potrà essere la prima di un nuovo giorno per tutto il Cantico delle creature.

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