di: Amedeo Cencini – Settimana News

È entrata in vigore lo scorso 9 gennaio la nuova Ratio Nationalis Institutionis Sacerdotalis per l’Italia, approvata ad experimentum per 3 anni dal Dicastero per il Clero l’8 dicembre 2024. Non si può certo dire che la cosa sia passata inosservata, vista l’attenzione che la stampa (laica) le ha riservato, anche se attenzione molto parziale, non al testo in sé, ma a una sua parte precisa, anche molto ridotta (due numeri su un totale di circa 120), quella riguardante chi si accosta ai Seminari con orientamento omosessuale. Ma ne parleremo più avanti (per non ripetere lo stesso errore), non senza aver prima tentato di vedere nel suo insieme senso e messaggio di questo documento nel momento storico che stiamo vivendo.
Tempo critico
Ratio vuol dire regola, progetto definitivo, indicazione vincolante… Non è facile in un tempo come il nostro parlare in questi termini, per di più in relazione a un’istituzione che sta conoscendo una fase piuttosto problematica, e a una figura che ne è al centro (sia dell’istituzione che della crisi), come quella del prete. Il presente documento corre il rischio di farlo, senza pretendere di rispondere a ogni dubbio o di definire proprio tutto né di proporre chissà quali novità, ma ricordando che questo testo è solo e comunque un punto di riferimento per il progetto che ogni Chiesa locale dovrà pensare, discernere e porre in atto. E un domani condividere, in una Chiesa sinodale.
Ma c’è una domanda, neanche tanto nascosta anche se non appare nell’indice, che fa da punto di partenza dell’analisi e poi di confronto d’ogni proposta qui contenuta: quale prete e per quale Chiesa?
Missione come orizzonte formativo
Si dirà che non è proprio una novità, e invece forse non tutti ammettono fino in fondo che oggi la nostra Italia è terra di missione, né più né meno.
In terra di missione
Terra di missione suppone preti missionari. Che non mirano alla conservazione della fede, ma al suo annuncio; che non rimpiangono il passato sprecando energie per riesumarlo (anche perché sanno bene che non tornerà e che è un bene che non torni), ma godono di vivere in un tempo che sarà anche critico, certo, ma è più vero, in cui “cristiani non si nasce, ma si diventa” (Tertulliano); preti che non si lasciano incantare dal mito dei numeri o delle chiese piene, ma che cercano d’accompagnare il cammino di crescita del singolo credente, perché il suo atto di fede sia libero e responsabile; che non s’accontentano del consenso a basso prezzo nel gruppo chiuso dei fedeli, ma che si sentono inviati anche a chi non crede o crede poco, pastori soprattutto della “Parrocchia dei non credenti”, che è molto numerosa, e la cui “frequentazione” diventerebbe per ogni prete enorme grazia, provocazione per la sua conversione e la crescita nella sua poca fede, monito a non sentirsi superiore a nessuno, attenzione ad annunciare il volto autentico del Padre!
Dall’orizzonte (pastorale) all’identità (presbiterale) alla pedagogia (formativa)
È chiaro che, se questo è l’orizzonte o la prospettiva di lavoro, tutto il cammino di formazione iniziale, in ogni suo àmbito, è orientato a plasmare uno che sappia muoversi in quel contesto, che si liberi da aspettative clerical-narcisistico-pagane o da sogni pericolosi di potere (ne sappiamo qualcosa oggi!), che studi e s’appassioni per una teologia che si può tradurre in parole semplici e ricche di vita e di senso per tutti; che viva lui per primo una fede che lo rende capace di dare ragione della speranza che è in lui, e una spiritualità tutt’altro che intimistica ma che può esser condivisa regalando beatitudine, gusto di vivere e di credere; che impari a celebrare una liturgia che… celebra il gesto salvifico di Dio, non l’esibizione vana e patetica del suo io; che diventi in particolare uomo di relazione, che rispetta il mistero dell’altro e non s’approfitta della sua vulnerabilità, che sa voler bene senza possedere e lasciarsi possedere, sa esser amico senza abusare di nessun affetto, sa metter Dio al centro d’ogni relazione, non solo perché il centro spetta all’Eterno, ma perché questo è il senso del suo celibato…[1]
In altre parole è l’orizzonte pastorale a tracciare il senso dell’identità presbiterale e a indicare la corrispondente pedagogia o cammino educativo che conduce in quella direzione, nella formazione iniziale e permanente. È il principio che anima anche la Ratio, che forse avrebbe potuto esser ancor più esplicitato e concretamente declinato, ma che è comunque indicato come ciò che ispira anche ogni progetto educativo in questo momento della vita ecclesiale.
Missione, locus theologicus della formazione
In perfetta coerenza con quanto appena detto, la Ratio fa una proposta precisa sul piano dei tempi e dei luoghi di formazione.
Tempo di formazione in missione
La proposta è quella d’un tempo di formazione fuori del Seminario, di fatto collocato tra la conclusione del biennio discepolare, come esperienza pastorale, caritativa e missionaria. Si tratta d’una sorta di “iniziazione alla Chiesa e al mondo”, attraverso una conoscenza diretta e immediata della comunità cristiana nelle modalità che formatori e vescovi sapranno individuare. Ma non solo per acquisire informazioni utili per una sorta di “intelligenza artificiale pastorale” o per “far pratica” e “esperienza”, bensì e soprattutto con la disponibilità interiore di lasciarsi formare dalla missione, dal contesto ministeriale, dal vangelo che si annuncia, ma pure dai rapporti umani, dalla fede della gente, dall’accompagnamento di chi non è ancora giunto all’atto credente, dalle critiche di chi lascia la Chiesa, dei giovani che non si sentono capiti da una chiesa “vecchia e chiusa, lontana e ripetitiva, triste e fissata sulla morale”[2], ma pure dalle sofferenze, dai dubbi, dalle provocazioni degli eventi, della storia, della cultura…
D’altronde, se la missione è l’orizzonte formativo è del tutto naturale che sia già in qualche modo il luogo ove si fa formazione vera e propria e ove possa nascere e svilupparsi una sensibilità davvero presbiterale, o che vi siano anche altri agenti formativi oltre quelli classici e istituzionali, altre mediazioni educative legate alla vita e a quella che sarà poi la vita normale del futuro presbitero.
È la vita che forma (non il seminario)
C’è un dato che credo tutti potremmo sottoscrivere: mai un seminario ha formato nel senso pieno dell’espressione un sacerdote, è la vita che forma il discepolo di Gesù e il pescatore di uomini! La vita con tutte le sue intemperie e complessità, ma pur sempre quale mediazione misteriosa dell’azione del Padre, il nostro unico “Padre maestro”, che forma in ciascuno il cuore del Figlio attraverso l’azione dello Spirito. Ma sempre dentro e attraverso la vita stessa, fino al momento della morte, ove la formazione raggiungerà il suo vertice più alto.
È, in fondo, l’idea teologica e la vera motivazione della formazione permanente, che giustamente la Ratio considera come il paradigma di tutto il cammino formativo, e di cui quella iniziale rappresenta solo il primo momento. Ma che è essenziale, perché mette o dovrebbe metter il soggetto in condizione di lasciarsi formare dalla vita per tutta la vita, o di imparare costantemente da essa, dagli altri, santi e peccatori, dai successi e dai fallimenti, in ogni età e ambiente… Ben sapendo che essa è “piena di grazia”, o che “tutto è grazia” (Bernanos).
Docibilitas, non solo docilitas
Questa disponibilità umile e intelligente è, in effetti, la condizione della docibilitas, sottolineata dal documento[3], che suppone un cammino di liberazione da paure e resistenze, rigidità e chiusure nei confronti della realtà in genere, delle relazioni e degli altri, persino di Dio e della sua parola. È proprio tale libertà che rende la persona docibilis, prete che ha imparato a imparare, da tutto e da tutti, a lasciarsi toccare e provocare e metter in crisi dalla vita. Dunque, anche creativamente fedele alla propria scelta e capace di rimotivarla, non solo di non trasgredirla, come tende a fare chi è solo docile.
Rigorosamente parlando, solo una persona docibilis (non solo docilis), sul piano psicologico e spirituale, potrebbe esser ordinata presbitero, perché libera da ogni presunzione d’esser già arrivato, d’aver solo da insegnare agli altri e di non aver nulla da imparare dalla vita e dalle relazioni (perché in realtà non ha mai imparato a imparare). La libertà da queste presunzioni rovinose consente di farsi leggero compagno di viaggio in una Chiesa sinodale e solidale col cammino d’ogni uomo e d’ogni donna.
Se il presbitero è questo compagno di viaggio, che condivide fatiche e gioie di questo percorso, allora questo tempo di esperienza pastorale extra moenia proposto dalla Ratio è davvero significativo e importante. Probabilmente potrebbe avere un ruolo formativo anche più rilevante e occupare uno spazio di tempo più congruo. Qualcuno giunge a dire che tutto o quasi il cammino formativo presbiterale iniziale dovrebbe avvenire in questo tipo di contesto missionario, e non nel seminario che rappresenta una situazione di vita in qualche modo artificiale, o che poi chi diventa prete non vivrà più.
Come già detto, il documento lascia alle singole Chiese locali la libertà di muoversi con creatività e attenzione alle diverse situazioni territoriali. Perché tutto il cammino faccia crescere sempre più un presbitero missionario, con in cuore la passione della missione!
Missione come criterio di discernimento
Infine, farei ancora riferimento alla missione e al senso della missione per affrontare anche la questione che ha motivato una certa discussione nella stesura di questo testo, a quanto se ne sa, quella delle persone con orientamento omosessuale.
Il testo ne parla in due numeri (43-44), nei quali s’intravvede forse una duplice linea interpretativa. Da un lato, l’incipit del n. 44, ove si riporta la Ratio Fundamentalis del 2016[4], con i 3 criteri già proposti, a loro volta, dall’Istruzione del 2005. E che vietano l’ammissione al Seminario e agli Ordini sacri di “coloro che praticano l’omosessualità, presentano tendenze omosessuali profondamente radicate o sostengono la cosiddetta cultura gay”[5]. Criteri precisi, a livello prevalente della condotta, ma che necessiterebbero quanto meno d’una certa riformulazione, e che almeno all’apparenza non trovano un seguito nel resto dello stesso numero. Ove il discorso si apre a una lettura più ampia e articolata, e a criteri più direttamente connessi con l’identità della vocazione e missione presbiterale e con la totalità della persona.
Criterio dell’integrazione
La Ratio chiede di verificare che il giovane sia in grado di “integrare”[6] il proprio orientamento sessuale, ovvero non solo di riconoscerlo come parte di sé, ma di viverlo e gestirlo “coerentemente con la natura e gli obiettivi propri della vocazione presbiterale. È essa a ispirare vita e stile relazionale del sacerdote celibe e casto” (43).
Mi pare un’affermazione importante. Che sta a dire che esiste nella vita del chiamato un punto di riferimento prioritario e finale, costituito dalla sua identità e missione, che è come una naturale regola di vita: gli indica come vivere la propria affettività e ispira il suo stile relazionale, dunque anche il proprio orientamento, in funzione e al servizio del ministero che ha scelto. E sprona dunque a vivere l’orientamento stesso non come ostacolo, ma come potenzialità, con la creatività di chi vuol esser fedele alla chiamata, nell’amicizia, nella relazione d’una certa intensità, nel coinvolgimento emotivo, nella libertà di voler bene e di lasciarsi voler bene.
Castità come garanzia del dono di sé
La castità diventa allora la cifra del modo d’amare e di vivere le relazioni tipiche del celibe e del prete celibe, chiamato a vivere molte relazioni ma senza possedere alcuno. La castità è il contrario del possesso in tutti gli ambiti della vita.
Questo non significa solo controllare i propri impulsi sessuali, ma crescere nella qualità di relazioni evangeliche libere da ogni forma di potere sull’altro e d’autoreferenzialità, e capaci di custodire con rispetto i confini della propria e altrui intimità, ovvero il mistero dell’io e del tu. “Esser consapevole di ciò è fondamentale e indispensabile per realizzare l’impegno e la vocazione presbiterale” (44).
Scelta libera e responsabile
Una scelta è libera quando non è motivata da paura o calcolo, ma dall’attrazione per un valore/ideale che il chiamato ha scoperto e sente importante e prezioso, qualcosa di vero-bello-buono in sé e che rende vera-bella-buona la sua vita, e non solo per sé, ma anche per gli altri, nella Chiesa[7].
La scelta è responsabile quando il soggetto è in condizione di vivere quella opzione con la rinuncia e le conseguenze che essa implica, come per altro ogni scelta. Ovvero, nel caso del celibe, quando l’attrazione dà la forza di rinunciare a qualcos’altro, che pure il soggetto sente desiderabile e cui gli costa dire no, ma non al punto di non poterne fare a meno. Di conseguenza quella rinuncia è possibile, è un “no” a qualcosa reso credibile da un “sì” a qualcos’altro, è rinuncia libera e piena di senso, non frustrazione che lascia l’amaro in bocca e il vuoto nel cuore, e che prima o poi rischia di scoppiare.
Non isolare la tendenza, ma leggerla nel quadro globale della personalità
Altro prezioso criterio, raccomandato dal testo, è quello di non isolare la tendenza in sé, sganciandola dall’insieme della personalità, né discernere l’autenticità vocazionale a partire unicamente dall’orientamento sessuale (come fosse l’elemento decisivo), ma – al contrario – “coglierne il significato nel quadro globale della personalità del giovane” (44). È la persona tutta intera al centro del discernimento, non una singola componente della sua personalità.
Perché, come sappiamo, più importante e decisivo dell’orientamento in sé, è il modo di viverlo, e dunque l’equilibrio e armonia generale della persona nel prenderne coscienza, nell’accettarlo come parte di sé, nel gestirlo con sufficiente libertà e serenità, con la rinuncia che comporta, e, in particolare, nell’integrarlo con la natura e gli obiettivi della vocazione presbiterale.
Ma, come si può ben vedere, tutti questi criteri vanno oltre la questione dell’orientamento sessuale in quanto tale, ma cercano di leggerlo in una prospettiva doppiamente integrale: alla luce della vocazione e della missione del chiamato, e nel quadro generale della sua personale maturità e consistenza.
E proprio per questo, credo, consentono alla fine di leggerlo correttamente in vista d’un discernimento.
[1] È singolare che, in un testo come questo sulla formazione in genere presbiterale, si citi per due volte il documento del Concilio Vaticano II Ad gentes (esattamente ai numeri 4 e 13)!
[2] Vedi i periodici rilevamenti del Centro Toniolo sull’atteggiamento dei giovani nei confronti della Chiesa, puntualmente registrati e analizzati da P. Bignardi.
[3] Ne parla in due punti, al n. 41 e al n. 81, nota 112, ma interpretandolo in modo ancora parziale e legato soprattutto alla direzione spirituale.
[4] Cf. Congregazione per il Clero, Il dono della vocazione presbiterale. Ratio Fundamentalis Institutionis Sacerdotalis, Roma 2016, n. 199.
[5] Cf. Congregazione per l’Educazione cattolica, Istruzione circa i criteri di discernimento vocazionale riguardo alle persone con tendenze omosessuali in vista della loro ammissione al Seminario e agli Ordini sacri, Roma 2005, n. 2.
[6] Nei due numeri che stiamo analizzando il verbo “integrare” è usato due volte.
[7] È la logica evangelica del tesoro trovato nel campo, cf. Mt 13, 44-46.