CALENDARIO SETTIMANA SANTA in Parrocchia S. Agostino, S. Stefano e S. Teresa a Reggio Emilia (centro)

CALENDARIO SETTIMANA SANTA
Sabato 23 marzo
DOMENICA DELLE PALME
ore 18.30 S. Agostino
Domenica 24 marzo
DOMENICA DELLE PALME
ore 08.45 S. Agostino
ore 09.45 S. Stefano
ore 11.00 S. Teresa
ore 11.15 S. Agostino
Giovedì 28 marzo
GIOVEDÌ SANTO
ore 09.30 Cattedrale Messa Crismale
ore 18.30 Cattedrale MESSA IN COENA DOMINI
ore 21.00-07.00 S. Stefano adorazione notturna
Venerdì 29 marzo
VENERDÌ SANTO
ore 15.00 S. Agostino Liturgia della Croce
ore 18.30 Cattedrale Liturgia della Croce
ore 21.00 VIA CRUCIS CITTADINA
Sabato 30 marzo SABATO SANTO
ore 21.30 S. Agostino VEGLIA PASQUALE
Domenica 31 marzo DOMENICA DI RESURREZIONE
ore 08.45 S. Agostino
ore 10.00 S. Stefano
ore 11.00 S.Teresa
ore 11.30 S. Agostino
Lunedì 1 aprile
LUNEDÌ DELL’ANGELO
ore 08.45 S. Agostino
ore 10.00 S. Stefano
ore 11.00 S. Teresa

Fede di Abramo, fede cristiana

di: Roberto Mela
in settimananews.it

Francesco MosettoFede di Abramo e fede cristiana. Un percorso biblico, LAS, Roma 2023, pp. 148, € 10,00. (qui su Amazon con 5% sconto)

copertina

Francesco Mosetto, professore emerito della Università Pontificia Salesiana, sezione di Torino, traccia un ampio percorso biblico sul tema della fede, centrale per il credo ebraico e per quello cristiano.

Nell’Introduzione egli ripercorre la tematica della fede cristiana nella storia della teologia: teologia patristica e medievale, magistero recente delle Chiesa cattolica (dalla Dei Filius alla Dei Verbum e nel magistero postconciliare), tradizione orientale ortodossa e teologia protestante.

La teologia si era andata irrigidendosi in una concettualista astratta. Il concilio Vaticano II ha recuperato la dimensione personale ed esistenziale della fede. Questo sollecita il recupero della ricchezza del dato biblico e a far tesoro dell’esperienza liturgica e spirituale dell’Oriente cristiano.

Circa la fede di Gesù, esiste un paradigma “scolastico” e una nuova prospettiva. Il tema della fides Jesu può essere affrontato oggi con serenità grazie ai guadagni relativi a una visione dialogica e personalistica della fede, a complemento della sua dimensione cognitiva, più frequente in passato.

Reggio Emilia. Il CSI del futuro: nuove sinergie tra Chiesa e sport

Tratto da La Libertà n. 8
26 febbraio 2024
“Dobbiamo interrogarci sul modello di attività sportiva che vogliamo promuovere, e adattarci alla società che ci circonda”: questa è l’esortazione che il presidente Vittorio Bosio ha rivolto a coloro che hanno presenziato alla mattinata di formazione associativa che si è tenuta il17 febbraio presso la sede del Comitato CSI Reggio Emilia in via Agosti.

Il presidente, insieme all’altro ospite di spicco della mattinata, il vescovo Giacomo Morandi, ha portato avanti una conversazione stimolata dalle domande di Samuele Adani, responsabile della Formazione associativa per il CSI di Reggio.

IL RUOLO DELL’ALLENATORE
In particolare, i temi trattati durante l’incontro hanno preso ispirazione dagli spunti e dai suggerimenti inviati precedentemente dai dirigenti sportivi affiliati CSI, così da dare voce alle singole realtà sportive locali e mettere l’accento sui bisogni specifici percepite dalle società.

Tra le tematiche affrontate, spicca la necessità di riformare il ruolo dell’allenatore: non più soltanto una personalità dalle competenze tecniche specifiche, ma un nuovo educatore che si metta a disposizione della comunità e aiuti i giovani ad affrontare il fallimento in una società in cui non si ammette più la possibilità di perdere.

“I giovani hanno bisogno di volti, non di emoticon o messaggini”, così ha concluso monsignor Morandi, definendo l’ambiente sportivo un luogo di ascolto in cui l’aggressività e il caos del mondo possa essere assorbito e attenuato dalla figura dell’allenatore. Comunicazione e dialogo diventano quindi le parole chiave dell’ambiente sportivo, e lo fanno con il fine di ricercare e rafforzare quella diversità positiva che contraddistingue nello specifico il panorama valoriale del Centro Sportivo.
SINERGIA TRA CHIESA E SPORT
Alla formazione di tipo psico-pedagogico dei tecnici si affianca infine anche l’urgenza di ricercare nell’ambito del CSI un’originalità, la quale secondo Sua Eccellenza si può ritrovare nell’ispirazione di carattere evangelico che diventa a tutti gli effetti una scelta operativa.

Il presidente del CSI Bosio, concordando con monsignor Morandi sull’esigenza di ritrovare una sinergia positiva tra la Chiesa e lo sport, ha citato alcuni esempi virtuosi in cui l’ambiente parrocchiale abbia giocato un ruolo fondamentale nella crescita sportiva dei territori.

“Serve reciproca comprensione con il laicato”, ha affermato parlando nello specifico di un progetto di inclusione partito dall’ambiente sportivo in un quartiere difficile di Messina. Ha poi specificato che mettersi in rapporto con le altre agenzie educative è fondamentale per riuscire ad adattare il modello CSI alla realtà sociale, nonché legislativa, che ci circonda.

L’UOMO AL CENTRO
“Si deve ripartire dalla solidarietà, dall’uomo al centro dell’attività sportiva, dalla singola persona, e dalla condivisione”: così Vittorio Bosio ha concluso il suo intervento, e con questa spinta all’unità tra gli attori dello sport, tra i Comitati, e tra le piccole realtà territoriali, il CSI si prepara ad affrontare le sfide del futuro.

Alla fine dell’incontro, i relatori si sono ritrovati a condividere un pranzo all’insegna della pura convivialità con i dirigenti presenti alla mattinata di formazione. 

Le domande che agitano la Chiesa. Siamo alle soglie di un nuovo paganesimo?

Confronto tra Enzo Bianchi e il vaticanista del Tg1 Ignazio Ingrao, autore di un recente libro San Paolo, sulle riforme di papa Francesco e le inquietudini che pervadono la comunità dei fedeli. Siamo alle soglie di un nuovo paganesimo?


Dalle Messe sempre più deserte alle riforme di papa Francesco, dalle domande sul progresso scientifico alla benedizione delle coppie omosessuali. Ecco la Chiesa passata ai raggi X: ematomi, fratture, contusioni recenti e antiche, cartilagini che non tengono, però anche molti tessuti sani e muscoli che, nonostante tutto, possono ancora far fronte alle sfide, di oggi e di domani. Uno sguardo profondo e chirurgico, schietto e a tratti tagliente, ma senza acredine, e, nello stesso tempo, accogliente, pur senza sconti o ipocrisie. Si respirava questo clima durante l’incontro fra il vaticanista del Tg1 Ignazio Ingrao, autore del libro “Cinque domande che agitano la Chiesa” (Edizioni San Paolo qui con 5% sconto su Amazon) e fratel Enzo Bianchi, fondatore della comunità monastica di Bose e oggi, dopo un delicato e complesso cammino, fondatore della fraternità Casa della Madia. Svoltosi a Torino, presso il Centro Cultures and Mission dei Missionari della Consolata, con la conduzione del giornalista Francesco Antonioli, l’incontro si è concentrato proprio sul volume di Ingrao, fresco di stampa.

Val la pena riportare per intero le “cinque domande” cui il vaticanista fa riferimento, poiché tutte sono cruciali: “1. A dispetto delle buone intenzioni, la Chiesa parla solo ad alcuni e non a tutti? 2. In Europa e Nord America la pratica religiosa cala vistosamente, mentre in Sud America e Africa è insidiata dalle Chiese pentecostali. Chi si fa carico di questa emergenza? 3. L’apertura ai laici e alle donne è reale o solo di facciata? 4. L’inizio e la fine della vita, la cura della vecchiaia, le nuove frontiere della medicina, la questione del gender: la Chiesa è in grado di rispondere ai nuovi interrogativi posti dal progresso e dalla scienza? 5. Che fine faranno le riforme della Chiesa intraprese da papa Francesco?”.

Partiamo dalla fine, ovvero da quell’ultima domanda (la numero 5) che ne racchiude molte altre. «Dopo il conclave del 2013, al termine di un periodo di grande smarrimento, con l’elezione di Francesco si ha avuta la sensazione netta di un vento nuovo, di quello spirito espresso nell’esortazione Evangelii gaudium. Poi, certo, quella spinta iniziale ha dovuto confrontarsi con resistenze e difficoltà» ha sottolineato Ingrao, stimolato dalle domande del collega Antonioli. «Il Papa è stato pastore, ha tenuto dritta la barra. È stato un vero leader e ha saputo dar voce a sentimenti che accomunavano milioni di persone nel mondo, anche quando, come nel periodo della pandemia, gli altri leader tacevano. Tutto questo però non basta. Ci sono interrogativi cruciali e profondi. Dobbiamo chiederci chi siano oggi l’uomo e la donna. E di fronte a queste domande, si ha la sensazione che la fede sia stata soppiantata dalla paura. Del cristianesimo si avverte l’esigenza, o almeno una profonda nostalgia. Ma quanto più se ne avverte l’esigenza, tanto più si scopre che ciascuno ha un suo percorso individuale, però poi fatica a trovare risposte nella comunità».

La riflessione di Ingrao ha trovato piena sintonia nelle parole di fratel Bianchi, a sua volta autore di un libro intitolato “Dove va la Chiesa?” (Edizioni San Paolo). «In questo momento vivo una forte inquietudine» ha esordito il religioso. «Si stanno verificando diverse apocalissi, nel senso biblico di rivelazioni, si sta alzando il velo su molte realtà. Abbiamo un Papa profetico e molto evangelico. Vuole davvero vivere il Vangelo. E vuole che la Chiesa faccia altrettanto. Inoltre è profetico, perché sembra uno di quegli anziani, descritti dal profeta Gioele, che fanno dei sogni. E proprio nella misura in cui il Papa annuncia veramente il Vangelo crea divisioni. I primi a scandalizzarsi sono i cristiani. Così, il Papa è “simpatico” quando dice “buon appetito”, ma quando parla di migranti e di poveri in tanti non lo sopportano». Riguardo al pontificato di Bergoglio, e sempre per ricollegarsi alla domanda di Ingrao sul futuro delle riforme, fratel Bianchi ha però espresso anche alcune preoccupazioni. «Si vedono grandi sogni, ma poi mancano le procedure per realizzarli. E nella Chiesa cattolica le procedure sono fondamentali. Non si vive di auguri e dichiarazioni». Più in generale, fratel Bianchi ha ravvisato due cause alla radice della crisi della Chiesa: «l’indebolimento della fede e la mancanza di fraternità».

Altro problema capitale, su cui, pur con sfumature diverse, i due ospiti sono stati concordi, è quello della multiformità di culture. «Guardiamo alla realtà del Sud America» ha sottolineato Ingrao. «Proprio in quei luoghi in cui la teologia della liberazione è stata motivo di forti frizioni con Roma, oggi assistiamo al successo delle Chiese pentecostali che portano la teologia della prosperità, molto più “facile” e accudente. E dobbiamo chiederci perché questa teologia stia avendo tanto successo. Che non sia un modo per anestetizzare una necessità di giustizia sociale, che pure resta fortissima?». «Ci troviamo di fronte a un problema nuovo, E cioè che la cultura detta la morale» ha osservato Fratel Bianchi. «Quando il papa parla di benedizione delle coppie omosessuali, esultano i Paesi del Nord Europa, mentre in Africa i vescovi rispondono compatti, “no mai”. Finora c’era una sola morale, quella di Roma. D’ora in poi non sarà più così».

Di fronte a sfide così grandi e complesse, e nel bel mezzo di quella che a tanti appare come una crisi profonda, che futuro dobbiamo aspettarci per la Chiesa? «Forse c’è da chiedersi chi siano i cristiani» ha fatto notare Ingrao. «Un piccolo “resto” identitario, capace di portare un annuncio forte, oppure, al contrario, una realtà ospedale da campo, che accetta tutti e che quindi è anche disposta a compromessi? Ma io credo che questa sia una falsa opposizione». E non è solo questione di linguaggio da cambiare, ma di coraggio, «di scelte, di responsabilità da prendersi. Pensiamo, ad esempio, a quanto accaduto durante il confronto, pur prezioso, del Sinodo, pensiamo a quel blocco granitico di voti contrari con cui è stato accolto un paragrafo in cui si parlava, peraltro in modo molto generico, di diaconato femminile». «Se la Chiesa non pretende di dire una parola su tutto, e non pretende di essere maestra degli uomini, ma se si mette in ascolto dell’umanità e soprattutto del Vangelo, io credo che riesca ancora a intrigare gli uomini» ha osservato, dal canto suo, fratel Bianchi. «E ricordiamoci che siamo in un mondo indifferente e pagano. Dio non interessa a nessuno, anzi, la stessa parola “Dio” divide e allontana. Se davvero vogliamo dare la buona notizia, parliamo di chi ci ha rivelato Dio nell’umanità. Parliamo di Gesù Cristo».

Famiglia Cristiana

Pastorale. «Siamo andati a convivere e ora preghiamo di più»

L’Ufficio Cei di pastorale familiare ha avviato una ricognizione delle proposte attive nelle diocesi per le coppie di conviventi e per le giovani coppie. L’analisi del teologo Francesco Pesce

«Siamo andati a convivere e ora preghiamo di più»

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avvenire.it

“Adesso che siamo andati a convivere, preghiamo insieme ogni giorno e ci sentiamo più vicini anche nella fede”. Non è una frase inventata. L’hanno detta due fidanzati a don Francesco Pesce, direttore del Centro Famiglia della diocesi di Treviso. E don Francesco, docente di teologia, l’ha raccontata in forma anonima ieri sera nel corso dell’incontro periodico tra i responsabili diocesani di pastorale familiare coordinati dal direttore nazionale dell’Ufficio Cei, padre Marco Vianelli.

Al centro del confronto il tema dell’accompagnamento delle coppie conviventi e delle giovani coppie, una questione complessa, con diverse angolazioni, su cui l’Ufficio Cei di pastorale familiare ha sentito il bisogno di mettere a confronto le diverse esperienze avviate nelle comunità. Dovrebbe uscirne un quadro esauriente per una riflessione più mirata, ma anche una serie di spunti legati alle esperienze locali, per capire qual è l’oggi l’atteggiamento del giovani – e meno giovani – che chiedono alla Chiesa di essere accompagnati nelle loro storie d’amore. Dai primi risultati si delinea una diffusione di questi percorsi – che sono diversi da quelli tradizionali di preparazione al sacramento del matrimonio – in oltre il 50% delle diocesi.

Don Francesco Pesce, che studia da tempo queste dinamiche di antropologia pastorale, ha messo in luce come il desiderio di accompagnamento, di confronto e di accoglienza delle coppie conviventi assuma diverse forme, quasi impossibili da definire con uno sguardo univoco. “Spesso, durante questi incontri – ha riferito l’esperto – mi chiedono se le coppie conviventi possono fare la comunione. La mia risposta è “dipende”, perché la varietà delle situazioni impedisce le chiusure troppo nette, ma anche la tolleranza generalizzata”. Difficile, per esempio, nel caso della coppia di cui si diceva all’inizio, quella che prega insieme con più fervore proprio grazie all’avvio della convivenza, capire se deve prevalere la considerazione positiva per il rinnovamento impegno nella fede oppure il dato problematico legato alla convivenza.

“A rigore di dottrina – ha aggiunto don Pesce – dovremmo dire che le coppie impegnate a vivere come fratello e sorella possono accedere ai sacramenti, le altre no”. Ma, ha argomentato ancora il teologo, cosa significa vivere “come fratello e sorella”? Non si tratta di uno sguardo che impoverisce il concetto di fraternità? E ancora – diciamo noi – perché per le coppie conviventi non può valere l’apertura previste dal capitolo VIII di Amoris laetitia? Don Francesco ieri sera ha citato il punto 304 dell’Esortazione postsinodale: “… meschino soffermarsi a considerare solo se l’agire di una persona risponda o meno a una legge o a una norma generale, perché questo non basta a discernere e ad assicurare una piena fedeltà a Dio nell’esistenza concreta di un essere umano”.

Più che la norma, serve allora un confronto sereno ed autentico sulla “qualità cristiana” della vita di coppia dei conviventi. Stanno percorrendo un cammino di fede? Pregano insieme? Affrontano insieme, con un dialogo non banale, le questioni fondamentali della vita? Esprimono il desiderio di aprirsi alla vita? Si pongono il problema di avvicinarsi al sacramento del matrimonio? “Ci sono coppie di conviventi che dopo dieci anni di vita in comune – ha riferito ancora il teologo – sono ferme, anche umanamente, all’ABC della relazione e mostrano anche scarso interesse a condividere la vita quotidiana, per esempio hanno il contocorrente rigorosamente separato. E altre, invece, che vivono con pienezza umana e cristiana la loro unione”. Evidentemente la considerazione, anche sotto il profilo pastorale, non può che essere diversa. Anche di fronte a una coppia convivente lo strumento di valutazione si chiama discernimento.

Don Pesce ha parlato per la maggior parte delle coppie di un percorso che sempre più spesso segue una sorta di “cammino a tappe”. E, con un pizzico di ironia, ha elencato i vari momenti: conoscenza, innamoramento, week end insieme, poi vacanze estive, poi trasferimenti periodici l’uno nella casa dell’altra e viceversa, poi convivenza, adozione di un cane (“giusto per provare che sono in grado di prendersi cura insieme di un altro essere vivente”) e infine – quando le cose vanno bene – la grande decisione, un figlio. Al termine, se tutto ha funzionato al meglio, arriva il matrimonio. “Inutile scandalizzarsi o rimpiangere i “bei tempi andati”, anche i nostri ragazzi sono immersi in questa cultura. Cosa facciano? Prendiamo le distanze o poniamo il massimo impegno per non far sentire sole queste coppie? Perché non mostrare loro che vita quotidiana insieme è un’opportunità per crescere anche nella vita spirituale?”.

La grande sfida – ha concluso il teologo – è quella di tenere insieme l’annuncio del matrimonio sacramento e l’invito a integrare tutti. “Integrare tutti – ha argomentato – non significa oscurare il significato del matrimonio sacramento. Ma mettere al cento il matrimonio non significa neppure svalutare tutte le altre situazioni”. Che, come spiegato, sono davvero tante e comprendono persone che non vogliono o non possono in quel determinato momento della loro vita puntare al matrimonio sacramento. La Chiesa continua ad annunciare che il matrimonio è la via fondamentale per vivere l’amore in pienezza, ma tutte le altre situazioni non sono da demonizzare. Anche se non sono l’ideale della proposta cristiana per la vita di coppia, hanno in sé quei semina Verbi che una pastorale attenta e prudente ha il dovere di accogliere e di far maturare con strumenti nuovi e atteggiamenti attenti alle trasformazioni socio-culturali.

Su questa strada, i coniugi Barbara Baffetti e Stefano Rossi, collaboratori del direttore nazionale dell’Ufficio Cei, hanno illustrato le diverse esperienze avviate nei territori la cui varietà dimostra l’ampiezza della richiesta: dai percorsi per chi convive e chiede il matrimonio, ad altri finalizzati ad approfondire soltanto il legame affettivo, oppure che, a partire dalla preparazione per il battesimo dei figli, invitano a riflettere sugli snodi della vita di coppia, sugli strumenti per il discernimento, sui momenti di preghiera e di festa. Una bella e opportuna ricognizione quella avviata dall’Ufficio Cei per la pastorale familiare che continuerà nei prossimi mesi e si preannuncia densa di spunti e di proposte innovative.

Nel Messaggio inviato ai vescovi brasiliani per la Campagna di fraternità, il richiamo al bisogno di costruire una vera fraternità nel segno dell’amicizia sociale. L’esempio di Helder Camara

Il manifesto della Campagna di Fraternità
È un appuntamento che si rinnova da sessant’anni giusti giusti. Con l’avvio della Quaresima i vescovi del Brasile lanciano la tradizionale Campagna di fraternità, un’iniziativa nata a livello regionale nella seconda metà del secolo scorso a sostegno di opere sociali nell’arcidiocesi di Natal e poi estesasi a livello nazionale. Decisivo in quel senso l’impulso dato dall’arcivescovo Helder Camara (1909-1999), padre conciliare di cui è in corso la causa di beatificazione.
Quest’anno il tema guida delle iniziative è “Fraternità e Amicizia Sociale” con il motto “Voi siete tutti fratelli e sorelle” (cfr. Mt 23, 8), ispirato dall’enciclica “Fratelli tutti”. Un richiamo che papa Francesco sottolinea nel messaggio inviato ai vescovi brasiliani per il lancio dell’iniziativa. Purtroppo, scrive il Pontefice, «nel mondo vediamo ancora molte ombre, segnali della chiusura in sé stessi. Perciò, ricordo il bisogno di allargare la nostra cerchia per arrivare a quelli che spontaneamente non sentiamo parte del nostro mondo di interessi, di estendere il nostro amore a “ogni essere vivente”, vincendo frontiere e superando “le barriere della geografia e dello spazio”». In questo senso, prosegue il messaggio, «come fratelli e sorelle, siamo invitati a costruire una vera fraternità universale che favorisca la nostra vita in società e la nostra sopravvivenza sulla Terra, nostra Casa Comune, senza mai perdere di vista il Cielo dove il Padre ci accoglierà tutti come suoi figli e figlie».
Come ricorda l’Osservatore Romano, il manifesto della campagna, realizzato da due giovani di Brasília, presenta l’ambientazione della comunità come una casa, con al centro un tavolo attorno al quale si riuniscono tutti: donne, bambini, giovani, anziani, persone disabili, di ogni origine. Un rimando al banchetto eucaristico e, come spiegano i vescovi della Chiesa brasiliana, al sacramento dell’amicizia di Dio con l’umanità. Nel manifesto compare anche papa Francesco che indossa una croce pettorale ispirata a quella che portava Camara, apostolo della Chiesa al servizio degli ultimi, nel segno dell’opzione preferenziale per i poveri.
La campagna culminerà con una colletta nazionale di solidarietà che si svolgerà il 24 marzo, Domenica delle Palme. La raccolta servirà ai fondi di solidarietà diocesani e nazionali che permettono il finanziamento di centinaia di progetti sociali in tutto il Brasile.

L’8 febbraio a Padova Paola Bignardi ha presentato ai docenti delle aree di filosofia e teologia della Facoltà le conclusioni dell’indagine sui giovani che hanno abbandonato la Chiesa (ma non la fede)

© Tony Antoniou

Cerco dunque credo? Si intitola così l’atteso volume che uscirà a fine marzo, curato da Paola Bignardi e da Rita Bichi per i tipi di Vita e Pensiero.

La pubblicazione, che si preannuncia corposa, presenta i risultati della ricerca sui “giovani in fuga” svoltasi nel 2023, promossa dall’Osservatorio Giovani dell’Istituto Toniolo di Milano, a cui ha collaborato anche la Facoltà teologica del Triveneto.

Ulteriori dati dell’indagine sono stati anticipati da Paola Bignardi, intervenuta nell’incontro con i docenti delle aree di filosofia e teologia svoltosi nella sede della Facoltà a Padova nella mattinata di mercoledì 8 febbraio 2024.

Contemporaneamente si sono incontrati anche gli altri docenti, per un totale di circa novanta persone, espressione della didattica e della ricerca della Facoltà.

Perché si allontanano dalla Chiesa
Rivolgendosi ai filosofi e ai teologi, Paola Bignardi ha sintetizzato i risultati della ricerca in dieci punti, concentrando l’attenzione su due di essi: le diverse tipologie di allontanamento e la trasformazione dell’esperienza della fede in spiritualità.

Sono state identificate sei tipologie di allontanamento: allontanamento evolutivo (l’esperienza del catechismo da ragazzi li ha convinti che quello che hanno imparato di religioso è “cosa da ragazzi”, per cui è trascurabile diventando adulti); allontanamento per disinteresse (nessun interessamento vero la dimensione trascendente); allontanamento esistenziale (a fronte delle domande di senso della vita, la proposta religiosa non ha dato una risposta soddisfacente); allontanamento critico (presa di distanza verso la formazione cristiana, soprattutto rispetto ad alcuni temi morali); allontanamento maturativo (vissuto per scelta, per onorare la propria intelligenza, la propria inquietudine, il proprio comprensibile scetticismo); allontanamento “arrabbiato” (la Chiesa li ha delusi e non vogliono più avere contatti con il mondo ecclesiale).

Per la maggior parte degli intervistati la presa di coscienza del proprio allontanamento dalla Chiesa avviene tra i 16 e i 17 anni.

La pratica religiosa spesso è stata abbandonata anche prima, in genere dopo la cresima, ma è solo dopo qualche anno che diviene una scelta esplicita e consapevole.

È molto significativo che alcuni di loro si siano allontanati dagli ambienti ecclesiali dopo essere stati impegnati nelle parrocchie come educatori o capi scout, dunque con responsabilità educative e organizzative.

Dopo l’abbandono, l’esperienza di fede diventa “spiritualità”, intesa in molti modi, come, ad esempio: un viaggio alla ricerca di sé stessi, avere un centro, farsi delle domande, fare spazio all’ascolto dell’ignoto, fare introspezione.

Non rifiuto ma ricerca
I giovani parlano per immagini, non per concetti. Una ragazza si rappresenta con un’immagine efficace: «Mi sento come in una stanza buia in cerca dell’interruttore». Un altro descrive così il suo abbandono della Chiesa, ma non della fede: «Non mi ritengo ateo, non mi ritengo una persona che non crede più in Dio, che non ha un lato spirituale; semplicemente non penso che quello sia il mio modo di pregare, di essere parte, di dimostrare il mio lato spirituale, perché è una cosa che io vivo più come una cosa individuale, più come una cosa relativa a me e non a un gruppo di persone. Alla fine, mi ritrovavo sempre a ripetere le solite preghiere un po’ a pappagallo perché tutti le dicevano e a non crederci davvero».

Queste narrazioni esprimono una metamorfosi del credere, cioè una trasformazione dell’esperienza religiosa in navigazione solitaria, una fede molto intima e sostanzialmente personale, a tratti individualistica.

Di queste diverse trasformazioni dell’esperienza della fede in spiritualità ne sono state evidenziate in particolare tre: interiorità, natura e connessione.

Interiorità, intesa come incontro con il proprio io profondo, con i dubbi e con le domande più scomode.

Natura, intesa come “luogo” della spiritualità, contesto in cui immergersi per recuperare una forma di contatto con Dio. La creazione continua a essere “via” che conduce a Dio.

Infine, connessione, intesa non come legame, ma come un processo; è il sentire che la propria vita non è gettata nel mondo, abbandonata alla propria solitudine, ma è in relazione a “qualcosa” o a “qualcuno”, indeterminato o personale, altro o Altro.

Questa esperienza di “connessione” si pone agli antipodi della religione istituzionale perché la Chiesa – dicono questi giovani – fa come “da filtro” e non permette di sperimentare il legame in quanto troppo rigida, perché in essa è già tutto precostituito.

Questa accurata esplorazione nel mondo giovanile, realizzata a dieci anni di distanza dal volume intitolato Dio a modo mio (2013), conferma che è in atto un mutamento antropologico molto profondo.

Le trasformazioni in atto nel modo di vivere l’umano rendono sempre più necessario il superamento dello schema interpretativo Chiesa-mondo, tipico delle costituzioni conciliari, a favore di un approccio più antropologico alle questioni religiose, intese come rapporto diretto tra Vangelo e uomo.

Tale spostamento si colloca nel quadro generale del processo di reinterpretazione del cristianesimo nell’attuale contesto culturale e sociale e lascia aperte molte domande. Di fatto, con le varie forme di “allontanamento”, i giovani chiedono alla Chiesa una maggiore affidabilità e coerenza con l’originaria esperienza evangelica. Sperando che non sia ormai già troppo tardi.

settimananews

I discepoli del Signore, cui è affidata la dispersione secolare delle moltitudini, non dovrebbero portare la genuina vitalità della fede sapienziale nello spazio dell’umano che è comune?

Uscita dalla Messa

avvenire.it

Con la guida profonda e sensibile di don Pierangelo Sequeri, per dieci settimane siamo andati in cerca dei segnali che orientano la fede dentro la cultura di questo tempo nel quale vediamo prevalere fattori di incertezza che sembrano scoraggiare l’esperienza credente. Il celebre teologo, firma cara ai lettori di “Avvenire”, conclude oggi il suo percorso alla scoperta della «fede dove non te l’aspetti», attraverso parole-guida offerte a tutti i «cercatori e trovatori» che vogliono attraversare la vita con ritrovata consapevolezza.

La “Chiesa in uscita”, formula che fa parte di quel “parlare in parabole” al quale ci ha abituato il papa Francesco, ci mette sulla strada. La formula, certo, ha finito per diventare uno slogan buono per tutte le occasioni, un po’ secondo lo stile mediatico imperante, alimentato dalla pubblicità commerciale e trasferito alla retorica dei politici, dove la frase ad effetto si libera dall’impaccio del pensiero. Ma il paradosso della chiesa in uscita, in cui affiora la profondità astuta e dimenticata delle parabole evangeliche, contiene ricchezze antiche e nuove (Matteo 13, 52). Intanto una Chiesa in uscita è una Chiesa che in qualche modo esce dalla sua comfort zone: non si identifica con le sue abitudini domestiche, depone la sua preziosa veste da camera, non parla una lingua comprensibile solo a quelli che sono di casa.

Di certo, se esce con tutti i suoi paramenti addosso, non esce veramente: allarga la sua tenda familiare, invade un territorio alieno, presidia un avamposto di occupazione. Insomma, ristruttura il suo interno, magari per renderlo più spazioso e accogliente (cosa tutt’altro che censurabile, naturalmente), ma non esce realmente dalla sua autoreferenzialità. Di fatto, è una Chiesa in uscita che si risolve nell’invito a entrare in Chiesa (appello che non è certamente contestabile). E allora, che cosa manca a questa uscita? Mancano la libertà e la necessità di una missione che cerca – prima di tutto e in tutto, dovunque e in chiunque – i vicoli di ingresso nel regno di Dio (la “porta stretta”). La Chiesa in uscita rende disponibile la forma cristiana per coloro che intendono accogliere l’invito del Figlio (Matteo 28, 19); ma impara a riconoscere i segni della forza dello Spirito che fa nascere dovunque la nuova creatura (Romani 8, 22). E se ne rallegra, a qualsiasi tribù, lingua, popolo e nazione appartenga.

La Chiesa in uscita è quella che non impone l’ingresso nella forma cristiana ai miracolati dell’agape di Dio, che li afferra con la forza della sua guarigione, della sua consolazione, della sua speranza. I Vangeli dedicano la gran parte della loro memoria dell’evento che ha cambiato faccia alla militanza religiosa su questo pianeta, al racconto di questi miracolati, dei quali poi si perdono persino le tracce (cfr. Matteo 25, 31-40). Di questi cercatori e trovatori della fede dove non te l’aspetti ci siamo arricchiti o ci siamo impoveriti? Dedichiamo le nostre energie esclusivamente alla formazione dei quadri “ecclesiastici” (ora anche “laici”) e delle loro capacità di reclutamento, o siamo astuti e creativi formatori dei rabodomanti del Regno di Dio, che parlano disinvoltamente le lingue del posto senza fissarsi ad insegnare il latino, e ironizzano allegramente sullo spreco di intelligenza dedicato alla felicità dei consumi?

La priorità, nella logica attuale della missione, va riconosciuta nella generosa disseminazione di discepoli che siano all’altezza dei luoghi «dove si formano i nuovi racconti e paradigmi» (Evangelii gaudium, 74). Non si tratta del “coraggio” di predicare su uno sgabello in Hyde Park la notizia della Risurrezione di Gesù. Si tratta della determinazione di abitare, senza agitare rosari e sventolare bandiere, l’umano che è comune: con speciale amore per gli “scartati” dall’accumulazione del sapere, del potere, delle ricchezze della Terra, che è di Dio prima che di chiunque altro. Dopo l’esilio dal suo insediamento come Regno mondano, l’istituzione della fede del popolo di Dio scoprì il dono inestimabile della Sapienza di Dio, che insegna l’alleanza di Dio con la creatura e il creato (Giobbe e il Cantico, Sapienza e Qohelet). Questa alleanza non ha bisogno di una legalità teocratica che la imponga: i pastori non sono sovrani e i fedeli non sono sudditi.

I discepoli del Signore, ai quali è ora affidata la dispersione secolare delle moltitudini senza forma e senza forza, non dovrebbero portare la genuina vitalità di questa fede sapienziale nello spazio dell’umano che è comune? Lo spazio del suo sapere e della sua operosità, lo spazio dell’estetica e della drammatica dei suoi affetti? La rivelazione della Sapienza di Dio lo fece. E il Vangelo sigillò per sempre questo legame, dalla parte di Dio stesso.

Le élites che generano beni importanti per la comunità e le moltitudini che partoriscono affetti imperdibili per l’umano sono i luoghi privilegiati per questa semina. La divaricazione fra i due (economica, politica, etica) ora cresce esponenzialmente. E indecentemente. (L’Europa brilla, e affonda, per l’esemplarità della sua inerzia nell’affrontare – antropologicamente e culturalmente – questo trend negativo della diseguaglianza economica e della sfiducia politica. L’inerzia della sua ostinazione a trattarlo in termini meramente economicistici, avvolti dai fumi di una retorica politica senza visione umana e spirituale all’altezza, è sconfortante. E il ceto intellettuale che la fiancheggia, d’altra parte, è ancora troppo frequentemente al di sotto della moralità e dell’autorevolezza necessarie per farsene carico). La riconquista di un costume sociale di alleanza fra gli “opposti” – le università e le periferie, le stanze dei bottoni e le vite senza potere, i luoghi dell’alta formazione (e della selezione) e le scuole della strada (e dei social) – è una priorità assoluta.

Il “terzo settore” è già un miracolo: onore ai volontari, naturalmente, “senza se e senza ma”. Però non basta più raccogliere la spazzatura della smart city e tappare i buchi della global economy. È nel “primo” e nel “quarto” settore che bisogna infilarsi: quello che manda avanti l’algoritmo e quello a cui imbrogliano le carte. Per il governo della comunità di fede – la Chiesa ad intra – non servono moltitudini di chiamati. (Gesù se ne fece bastare una dozzina). La cura della comunità stanziale e ospitale della fede è degna della massima gratitudine: essa custodisce i nostri tesori più preziosi e offre una base sicura – la casa confortevole – per l’enorme lavoro che va compiuto soprattutto ad extra. Ma non giustifica mezzi spropositati.

Le performances sinodali (l’assemblea, il discernimento) saranno “nodi” di rete; ma la “rete” stessa sarà la tessitura fraterna dell’alleanza multifocale di questa chiesa ad extra (chiamala pure comunione). Il centro vitale della comunità dei discepoli – nodo e rete – è l’Eucaristia della presenza del Signore, e poco altro di essenziale (non certo la disputa infinita su chi è il più degno di sedere alla sua destra e alla sua sinistra).

La fede mette anzitutto in gioco – nel suo dialogo con l’umanesimo dell’altro uomo – il suo orizzonte di destinazione dell’umano al mondo di Dio. La risurrezione della «vita nel mondo che verrà», dice il Credo. Ci agitimo così tanto per finire in qualche buco nero del cosmo, o aspettiamo con dignitosa fermezza che le bellezze e i sospesi della vita siano riscattati da una giustizia di Dio per noi inarrivabile? Pensate che ce la possiamo fare ad adottare questo cambio di passo? Possiamo essere abbastanza generosi da non reinvestire tutto su di noi – ad intra – il patrimonio di vocazioni e di dedizioni che lo Spirito suscita fra i credenti che hanno conosciuto il Signore?

O forse, stiamo pensando anche noi secondo la prospettiva mondana di quel patetico dogma liberistico del trickle-down secondo il quale l’accumulo di ricchezza della élite possidente accresce automaticamente il potenziale drop-falls della sua redistribuzione alla moltitudine dei meno abbienti? La Chiesa è per l’uomo, non l’uomo per la Chiesa. La bellezza di questa conversione – che ripete puramente e semplicemente la disposizione di Dio – deve metterci di buon umore, non in allarme.

Infine, se mancassimo l’appuntamento di questa fraterna conversione ad extra proprio noi, comunità cristiane dell’Europa post-coloniale e post-teocratica, che cosa potranno mai ricevere di buono da noi le comunità critiane del mondo, alle prese con la globalizzazione di un umanesimo senza fede e con i risentimenti di una religione senza umanesimo?

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