Quelle che… in Curia e in Vaticano

 Quelle che...   in Curia  e in Vaticano   DCM-005

Osservatore

La Curia romana è il complesso di organi e autorità che costituiscono l’apparato amministrativo della Santa Sede, che coordina e fornisce l’organizzazione necessaria per il corretto funzionamento della Chiesa cattolica e il raggiungimento dei suoi obiettivi. Viene generalmente considerata “il governo della Chiesa”. Compongono la Curia la Segreteria di Stato della Santa Sede; i Dicasteri (attualmente 16); Organismi di giustizia; Organismi economici; Uffici. L’ultima riforma è del  19 marzo 2022 quando papa Francesco ha promulgato la costituzione apostolica Praedicate evangelium, abolendo congregazioni e pontifici consigli in luogo dei dicasteri e riorganizzando le competenze dei vari uffici.

Dicasteri

• Evangelizzazione

Membri

Sr. Maria Eliane Azevedo Da Silva
Marta Maria Carla Cartabia
M. Ascensión Romero Anton

Consultori

Sr. Cettina Cacciato Insilla
Chiara Amirante

• Culto divino

Consultori

Donna Lynn Orsuto
Valeria Trapani

 Cause dei Santi

Commissione dei nuovi martiri – testimoni della fede – Membri

Sr. Nadia Coppa
Maria Lupi

• Vescovi

Membri

Sr. Raffaella Petrini
Sr. Yvonne Reungoat
Maria Lia Zervino

• Clero

Consultori

Lidia González Rodríguez
Chiara D’Urbano
Rosalba Manes

• Vita Consacrata

Prefetta

Sr. Simona Brambilla

Sotto-Segretaria

Sr. Carmen Ros Nortes

Membri

Sr. M. Rita Calvo Sanz
Sr. Luigia Coccia
Olga Krizova
Sr. Francoise Massy
Sr. Yvonne Reungoat
Sr. Roxanne Schares

Consultori

Sr. Márian Ambrosio
Sr. Elsa Campa Fernández
Sr. Giuseppina Del Core
Sr. Brigid Lawlor
Sr. Maria Domenica Melone
Sr. Sidonie Oyembo
Sr. Simona Paolini
Sr. Inês Vieira Ribeiro
Sr. Mª José Tuñón Calvo
Elena Lucia Bolchi
Lourdes Grosso Garcia

 Laici, Famiglia e Vita

Sottosegretarie

Linda Ghisoni
Gabriella Gambino

Membri

Aleksandra Brzemia Bonarek
Véronique Rabourdin
Clare Jiayann Yeh
Helen M. Alvaré
Ana María Celis Brunet
Maria Luisa Di Pietro
Margaret Karram
Carmen Peña García

Consultori

Sr. Mary Niluka Perera
Claudia Alejandra Carbajal
Marie Gabrielle Ménager
Mary-Rose Verret
M. Ascensión Romero Antón
Maria Luisa Ceriotti
Julia M. Dezelski
Chiara Griffini

• Unità dei Cristiani

Consultori

Sr Maria Ko Ha-Fong
Eva-Maria Faber
Barbara Hallensleben

 Dialogo Interreligioso

Consultori

Sr. Jolanta Maria Kafka
Sr. Maria Angela de Giorgi
Rita George-Tvrtkovic
Maria Lia Zervino
Nicoletta Bernasconi
Valeria Martano

• Cultura e Educazione

Consultori

Sr Dominica Dipio
Sr. Patricia Murray
Sr. Martha Séïde
Elena Beccalli
Micol Forti
Isabel Capeloa Gil
Barbara Jatta
Marianne Evans Mount
Antonella Sciarrone Alibrandi

• Sviluppo Umano Integrale

Segretaria

Sr. Alessandra Smerilli

• Testi legislativi

Consultori

Geraldina Boni
María José Roca Fernández

 Comunicazione

Membri

Leticia Soberón Mainero

Direzione Teologico-Pastorale

Nataša Govekar

Vice-direzione Sala Stampa

Cristiane Murray

Consultori

Ann Carter
Sr. Veronica Donatello
Sr. Adelaide Felicitas Ndilu
Helen Osman

Organismi

• Consiglio per l’Economia

Vice Coordinatore

Charlotte Kreuter-Kirchhof

Membri

Marija Kolak
Maria Concepcion Osacar Garaicoechea
Eva Castillo Sanz
Ruth Mary Kelly
Lesile Jane Ferrar

• Amministrazione Patrimonio Sede Apostolica

Sotto-segretaria

Sr. Silvana Piro

Istituzioni

• Accademia Archeologia Sacra

Segretaria

Raffaella Giuliani

Officiali

Barbara Mazzei
Emanuela Tesse

Membri

Paola De Santis

 Accademia Scienze

Membri

Ewine Fleur van Dishoeck
Fabiola Gianotti

• Accademia Scienze sociali

Presidente

Sr. Helen Alford

• Accademia Vita

Consiglio direttivo

Sr. Margarita Bofarull Buñuel
Laura Palazzani

Membri ordinari

Maria Chiara Carrozza
Emilce Cuda
Sheila Dinotshe Tlou
Katalin Karikó
Katarina Le Blanc
Mónica López Barahona
Mariana Mazzucato
Laura Palazzani
Anne Marie Pelletier
Martha Tarasco
Marie-Jo Thiel

• Autorità di Supervisione e Informazione finanziaria

Consiglio

Concetta Brescia Morra

Uffici

• Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice

Officiali

Sr. Maria Priscilla Laureti
Sr. Annamaria Passiatore
Chiara Maragoni
Chiara Rocciolo

Commissioni

• Tutela dei Minori

Segretaria Aggiunta

Teresa Morris Kettelkamp

Membri

Maud de Boer-Buquicchio
Teresa Devlin
Irma Espinosa Hernández
Sinalelea Fe’ao
Sr. Arina Gonsalves
Ewa Kusz
Sr. Mary Niluka Perera
Sr. Annah Nyadombo
Anne-Marie Rivet-Duval

Officiali

Emer McCarthy
Anna Valsi

• Biblica

Segretaria

Sr. Nuria Calduch-Benages

Membri

Bruna Costacurta
Mary Healy
Maria Armida Nicolaci

• Teologica Internazionale

Membri

Alenka Arko
Sr. Isabell Naumann
Sr. Josee Ngalula
Marianne Schlosser
Robin Darling Young

• America Latina

Segretaria

Emilce Cuda

Accademie

 Cultorum Martyrum

Magister

Raffaella Giuliani

Curator

Antonia Acutis Salzano
Sr. Rosalba Morelli

• Mariana Internationalis

Consiglio

Sr. Linda Pocher

• Comitato Congressi Eucaristici

Membri

Sr. Regina Cesarato
Giovanna Sorrenti

Scuola, IRC e Chiesa

di: Sergio Ventura

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Passano gli anni, le proposte si raffinano e sono pubbliche, ma quando parli di IRC nella Chiesa devi ancora precisare che esso ha un risvolto educativo e, soprattutto, culturale…

Il 12 marzo si è conclusa la sessione primaverile del Consiglio Permanente della CEI, durante la quale è stata affidata «alla Presidenza della CEI, allargata ai Vescovi che fanno parte della Presidenza del Comitato nazionale del Cammino sinodale, l’approvazione della redazione finale del Documento che contiene le proposte da sottoporre all’Assemblea sinodale» (che si terrà a Roma dal 31 marzo al 3 aprile 2025).

In attesa di poter leggere e discutere tali «Proposizioni», il mio auspicio è che in esse si possano ritrovare almeno il senso delle proposte esposte (qui) su cosa deve intendersi (e praticare) oggi quando si parla di missione – soprattutto all’interno di un rapporto di compagnia (non di accompagnamento) con il mondo – e a proposito degli organismi di partecipazione (vedi qui) quali luoghi di “salvezza” per il pluralismo democratico e per una condizione di pace sempre più in crisi .

Aggiungerei alle due precedenti proposte anche una richiesta relativa all’insegnamento della religione e alla scuola tout court, sui quali avevo effettuato  un intervento in seduta plenaria durante la prima assemblea sinodale.

Innanzitutto, sarebbe necessario modificare o quantomeno integrare l’espressione utilizzata nei Lineamenti (nn. 25-26), laddove si parla di «valorizzare pastoralmente il servizio» (IRC), in quanto essa è carente, equivoca e, forse, ridondante. Carente, perché dimentica che l’insegnamento della religione cattolica è anche, se non innanzitutto, una professione culturale ed educativa. Equivoca, perché rischia di far ricadere l’IRC in un’ottica di evangelizzazione diretta se non di proselitismo (vedi qui e qui). Ridondante, perché in realtà tutta l’azione della Chiesa in quanto tale è pastorale e, per essere veramente evangelica, non può che essere improntata al servizio.

In ogni caso, anche se si volesse mantenere il termine «servizio», devono essere assolutamente inseriti gli aggettivi «culturale» ed «educativo» (peraltro presenti in tutti i documenti magisteriali sull’IRC, a livello di Vescovo di Roma, Curia Romana e Conferenza episcopale italiana), senza i quali lo stesso avverbio «pastoralmente» renderebbe il tutto ancora più equivoco.

In secondo luogo, poi, ricordavo un articolo apparso sull’Osservatore Romano (5/6/21) a firma di mons. Palmieri, nel quale si evidenziava il fatto che, «mentre nelle nostre parrocchie i giovani e gli adolescenti sono spesso una rarità, l’insegnamento della religione a scuola (…) registra ancora oggi in Italia un’adesione dell’86% degli studenti. Questa dovrebbe interpellare la Chiesa in uscita. Come intercettare questa domanda di senso? Non è questa ricerca di spiritualità tra i giovani un segno del “nuovo” di Dio?». Anche per questo motivo, ritenevo e ritengo necessario far emergere la questione scuola dal calderone degli ambienti educativi in cui la Chiesa incontra i giovani (Lineamenti, n. 24).

Nelle scuole italiane, infatti, passano 8 milioni di giovani (con altrettante famiglie, se non il doppio) e 1 milione tra docenti e personale amministrativo, tecnico e ausilario, dei quali vediamo in chiesa forse il 10%.

Ogni disciplina, a partire dall’IRC, può essere – anzi è! – un gigantesco laboratorio di mediazione culturale tra contenuti teologici e contesti culturali-antropologici ormai per lo più secolarizzati.

Inoltre, i contributi provenienti da questo ambito educativo sono incomparabili con i restanti – seppur importanti – contributi provenienti dalle altre figure segnalate nei Lineamenti (dirigenti, educatori, allenatori ecc.), perché in contatto con meno ragazzi e sempre indirettamente, oltre al non dover porre in essere nessuna mediazione culturale-teologica, da sempre fondamentale per dare senso al nostro credere.

Tra l’altro, è proprio il contatto con questi giovani che fa emergere l’eccessiva cautela di altre espressioni relative ai giovani utilizzate nei Lineamenti. Ad esempio, quella in cui si afferma che per essi «il linguaggio simbolico non è sempre facilmente comprensibile» (n. 23), quando la situazione è, invece, molto più drammatica e grave (basti leggere la relazione di sintesi della diocesi di Roma, pp. 8 e 12): da qui la proposta di integrare i Lineamenti (nn. 25-27) laddove si parla di «percorsi formativi pensati e costruiti», completando la frase con un riferimento al problematico rapporto tra giovani e liturgia (ad es., «percorsi formativi e liturgici pensati e costruiti»).

Presto, dunque, scopriremo quanto di questo e di tanto altro segnalato dalle diocesi italiane in questi mesi è stato ripreso e, allora, potremo valutare se la Chiesa italiana vuole affrontare coraggiosamente la crisi attuale o finirà, come si usa dire, per “partorire il solito topolino”…

  • Pubblicato sul sito Vino Nuovo il 13 marzo 2025
  • settimananews

In cammino verso un rito amazzonico

Don Paolo Cugini, sacerdote in missione in Amazzonia al centro nella foto

La creazione di un rito amazzonico in risposta alle esigenze culturali e spirituali dei popoli dell’Amazzonia. La Chiesa amazzonica cerca di adattare la liturgia per meglio riflettere le tradizioni locali

laliberta.info

Per una Chiesa, e un prete, in missione

di: Amedeo Cencini – Settimana News
seminaristi

È entrata in vigore lo scorso 9 gennaio la nuova Ratio Nationalis Institutionis Sacerdotalis per l’Italia, approvata ad experimentum per 3 anni dal Dicastero per il Clero l’8 dicembre 2024. Non si può certo dire che la cosa sia passata inosservata, vista l’attenzione che la stampa (laica) le ha riservato, anche se attenzione molto parziale, non al testo in sé, ma a una sua parte precisa, anche molto ridotta (due numeri su un totale di circa 120), quella riguardante chi si accosta ai Seminari con orientamento omosessuale. Ma ne parleremo più avanti (per non ripetere lo stesso errore), non senza aver prima tentato di vedere nel suo insieme senso e messaggio di questo documento nel momento storico che stiamo vivendo.

Tempo critico
Ratio vuol dire regola, progetto definitivo, indicazione vincolante… Non è facile in un tempo come il nostro parlare in questi termini, per di più in relazione a un’istituzione che sta conoscendo una fase piuttosto problematica, e a una figura che ne è al centro (sia dell’istituzione che della crisi), come quella del prete. Il presente documento corre il rischio di farlo, senza pretendere di rispondere a ogni dubbio o di definire proprio tutto né di proporre chissà quali novità, ma ricordando che questo testo è solo e comunque un punto di riferimento per il progetto che ogni Chiesa locale dovrà pensare, discernere e porre in atto. E un domani condividere, in una Chiesa sinodale.

Ma c’è una domanda, neanche tanto nascosta anche se non appare nell’indice, che fa da punto di partenza dell’analisi e poi di confronto d’ogni proposta qui contenuta: quale prete e per quale Chiesa?

Missione come orizzonte formativo
Si dirà che non è proprio una novità, e invece forse non tutti ammettono fino in fondo che oggi la nostra Italia è terra di missione, né più né meno.

In terra di missione
Terra di missione suppone preti missionari. Che non mirano alla conservazione della fede, ma al suo annuncio; che non rimpiangono il passato sprecando energie per riesumarlo (anche perché sanno bene che non tornerà e che è un bene che non torni), ma godono di vivere in un tempo che sarà anche critico, certo, ma è più vero, in cui “cristiani non si nasce, ma si diventa” (Tertulliano); preti che non si lasciano incantare dal mito dei numeri o delle chiese piene, ma che cercano d’accompagnare il cammino di crescita del singolo credente, perché il suo atto di fede sia libero e responsabile; che non s’accontentano del consenso a basso prezzo nel gruppo chiuso dei fedeli, ma che si sentono inviati anche a chi non crede o crede poco, pastori soprattutto della “Parrocchia dei non credenti”, che è molto numerosa, e la cui “frequentazione” diventerebbe per ogni prete enorme grazia, provocazione per la sua conversione e la crescita nella sua poca fede, monito a non sentirsi superiore a nessuno, attenzione ad annunciare il volto autentico del Padre!

Dall’orizzonte (pastorale) all’identità (presbiterale) alla pedagogia (formativa)
È chiaro che, se questo è l’orizzonte o la prospettiva di lavoro, tutto il cammino di formazione iniziale, in ogni suo àmbito, è orientato a plasmare uno che sappia muoversi in quel contesto, che si liberi da aspettative clerical-narcisistico-pagane o da sogni pericolosi di potere (ne sappiamo qualcosa oggi!), che studi e s’appassioni per una teologia che si può tradurre in parole semplici e ricche di vita e di senso per tutti; che viva lui per primo una fede che lo rende capace di dare ragione della speranza che è in lui, e una spiritualità tutt’altro che intimistica ma che può esser condivisa regalando beatitudine, gusto di vivere e di credere; che impari a celebrare una liturgia che… celebra il gesto salvifico di Dio, non l’esibizione vana e patetica del suo io; che diventi in particolare uomo di relazione, che rispetta il mistero dell’altro e non s’approfitta della sua vulnerabilità, che sa voler bene senza possedere e lasciarsi possedere, sa esser amico senza abusare di nessun affetto, sa metter Dio al centro d’ogni relazione, non solo perché il centro spetta all’Eterno, ma perché questo è il senso del suo celibato…[1]

In altre parole è l’orizzonte pastorale a tracciare il senso dell’identità presbiterale e a indicare la corrispondente pedagogia o cammino educativo che conduce in quella direzione, nella formazione iniziale e permanente. È il principio che anima anche la Ratio, che forse avrebbe potuto esser ancor più esplicitato e concretamente declinato, ma che è comunque indicato come ciò che ispira anche ogni progetto educativo in questo momento della vita ecclesiale.

Missione, locus theologicus della formazione
In perfetta coerenza con quanto appena detto, la Ratio fa una proposta precisa sul piano dei tempi e dei luoghi di formazione.

Tempo di formazione in missione
La proposta è quella d’un tempo di formazione fuori del Seminario, di fatto collocato tra la conclusione del biennio discepolare, come esperienza pastorale, caritativa e missionaria. Si tratta d’una sorta di “iniziazione alla Chiesa e al mondo”, attraverso una conoscenza diretta e immediata della comunità cristiana nelle modalità che formatori e vescovi sapranno individuare. Ma non solo per acquisire informazioni utili per una sorta di “intelligenza artificiale pastorale” o per “far pratica” e “esperienza”, bensì e soprattutto con la disponibilità interiore di lasciarsi formare dalla missione, dal contesto ministeriale, dal vangelo che si annuncia, ma pure dai rapporti umani, dalla fede della gente, dall’accompagnamento di chi non è ancora giunto all’atto credente, dalle critiche di chi lascia la Chiesa, dei giovani che non si sentono capiti da una chiesa “vecchia e chiusa, lontana e ripetitiva, triste e fissata sulla morale”[2], ma pure dalle sofferenze, dai dubbi, dalle provocazioni degli eventi, della storia, della cultura…

D’altronde, se la missione è l’orizzonte formativo è del tutto naturale che sia già in qualche modo il luogo ove si fa formazione vera e propria e ove possa nascere e svilupparsi una sensibilità davvero presbiterale, o che vi siano anche altri agenti formativi oltre quelli classici e istituzionali, altre mediazioni educative legate alla vita e a quella che sarà poi la vita normale del futuro presbitero.

È la vita che forma (non il seminario)
C’è un dato che credo tutti potremmo sottoscrivere: mai un seminario ha formato nel senso pieno dell’espressione un sacerdote, è la vita che forma il discepolo di Gesù e il pescatore di uomini! La vita con tutte le sue intemperie e complessità, ma pur sempre quale mediazione misteriosa dell’azione del Padre, il nostro unico “Padre maestro”, che forma in ciascuno il cuore del Figlio attraverso l’azione dello Spirito. Ma sempre dentro e attraverso la vita stessa, fino al momento della morte, ove la formazione raggiungerà il suo vertice più alto.

È, in fondo, l’idea teologica e la vera motivazione della formazione permanente, che giustamente la Ratio considera come il paradigma di tutto il cammino formativo, e di cui quella iniziale rappresenta solo il primo momento. Ma che è essenziale, perché mette o dovrebbe metter il soggetto in condizione di lasciarsi formare dalla vita per tutta la vita, o di imparare costantemente da essa, dagli altri, santi e peccatori, dai successi e dai fallimenti, in ogni età e ambiente… Ben sapendo che essa è “piena di grazia”, o che “tutto è grazia” (Bernanos).

Docibilitas, non solo docilitas
Questa disponibilità umile e intelligente è, in effetti, la condizione della docibilitas, sottolineata dal documento[3], che suppone un cammino di liberazione da paure e resistenze, rigidità e chiusure nei confronti della realtà in genere, delle relazioni e degli altri, persino di Dio e della sua parola. È proprio tale libertà che rende la persona docibilis, prete che ha imparato a imparare, da tutto e da tutti, a lasciarsi toccare e provocare e metter in crisi dalla vita. Dunque, anche creativamente fedele alla propria scelta e capace di rimotivarla, non solo di non trasgredirla, come tende a fare chi è solo docile.

Rigorosamente parlando, solo una persona docibilis (non solo docilis), sul piano psicologico e spirituale, potrebbe esser ordinata presbitero, perché libera da ogni presunzione d’esser già arrivato, d’aver solo da insegnare agli altri e di non aver nulla da imparare dalla vita e dalle relazioni (perché in realtà non ha mai imparato a imparare). La libertà da queste presunzioni rovinose consente di farsi leggero compagno di viaggio in una Chiesa sinodale e solidale col cammino d’ogni uomo e d’ogni donna.

Se il presbitero è questo compagno di viaggio, che condivide fatiche e gioie di questo percorso, allora questo tempo di esperienza pastorale extra moenia proposto dalla Ratio è davvero significativo e importante. Probabilmente potrebbe avere un ruolo formativo anche più rilevante e occupare uno spazio di tempo più congruo. Qualcuno giunge a dire che tutto o quasi il cammino formativo presbiterale iniziale dovrebbe avvenire in questo tipo di contesto missionario, e non nel seminario che rappresenta una situazione di vita in qualche modo artificiale, o che poi chi diventa prete non vivrà più.

Come già detto, il documento lascia alle singole Chiese locali la libertà di muoversi con creatività e attenzione alle diverse situazioni territoriali. Perché tutto il cammino faccia crescere sempre più un presbitero missionario, con in cuore la passione della missione!

Missione come criterio di discernimento
Infine, farei ancora riferimento alla missione e al senso della missione per affrontare anche la questione che ha motivato una certa discussione nella stesura di questo testo, a quanto se ne sa, quella delle persone con orientamento omosessuale.

Il testo ne parla in due numeri (43-44), nei quali s’intravvede forse una duplice linea interpretativa. Da un lato, l’incipit del n. 44, ove si riporta la Ratio Fundamentalis del 2016[4], con i 3 criteri già proposti, a loro volta, dall’Istruzione del 2005. E che vietano l’ammissione al Seminario e agli Ordini sacri di “coloro che praticano l’omosessualità, presentano tendenze omosessuali profondamente radicate o sostengono la cosiddetta cultura gay”[5]. Criteri precisi, a livello prevalente della condotta, ma che necessiterebbero quanto meno d’una certa riformulazione, e che almeno all’apparenza non trovano un seguito nel resto dello stesso numero. Ove il discorso si apre a una lettura più ampia e articolata, e a criteri più direttamente connessi con l’identità della vocazione e missione presbiterale e con la totalità della persona.

Criterio dell’integrazione
La Ratio chiede di verificare che il giovane sia in grado di “integrare”[6] il proprio orientamento sessuale, ovvero non solo di riconoscerlo come parte di sé, ma di viverlo e gestirlo “coerentemente con la natura e gli obiettivi propri della vocazione presbiterale. È essa a ispirare vita e stile relazionale del sacerdote celibe e casto” (43).

Mi pare un’affermazione importante. Che sta a dire che esiste nella vita del chiamato un punto di riferimento prioritario e finale, costituito dalla sua identità e missione, che è come una naturale regola di vita: gli indica come vivere la propria affettività e ispira il suo stile relazionale, dunque anche il proprio orientamento, in funzione e al servizio del ministero che ha scelto. E sprona dunque a vivere l’orientamento stesso non come ostacolo, ma come potenzialità, con la creatività di chi vuol esser fedele alla chiamata, nell’amicizia, nella relazione d’una certa intensità, nel coinvolgimento emotivo, nella libertà di voler bene e di lasciarsi voler bene.

Castità come garanzia del dono di sé
La castità diventa allora la cifra del modo d’amare e di vivere le relazioni tipiche del celibe e del prete celibe, chiamato a vivere molte relazioni ma senza possedere alcuno. La castità è il contrario del possesso in tutti gli ambiti della vita.

Questo non significa solo controllare i propri impulsi sessuali, ma crescere nella qualità di relazioni evangeliche libere da ogni forma di potere sull’altro e d’autoreferenzialità, e capaci di custodire con rispetto i confini della propria e altrui intimità, ovvero il mistero dell’io e del tu. “Esser consapevole di ciò è fondamentale e indispensabile per realizzare l’impegno e la vocazione presbiterale” (44).

Scelta libera e responsabile
Una scelta è libera quando non è motivata da paura o calcolo, ma dall’attrazione per un valore/ideale che il chiamato ha scoperto e sente importante e prezioso, qualcosa di vero-bello-buono in sé e che rende vera-bella-buona la sua vita, e non solo per sé, ma anche per gli altri, nella Chiesa[7].

La scelta è responsabile quando il soggetto è in condizione di vivere quella opzione con la rinuncia e le conseguenze che essa implica, come per altro ogni scelta. Ovvero, nel caso del celibe, quando l’attrazione dà la forza di rinunciare a qualcos’altro, che pure il soggetto sente desiderabile e cui gli costa dire no, ma non al punto di non poterne fare a meno. Di conseguenza quella rinuncia è possibile, è un “no” a qualcosa reso credibile da un “sì” a qualcos’altro, è rinuncia libera e piena di senso, non frustrazione che lascia l’amaro in bocca e il vuoto nel cuore, e che prima o poi rischia di scoppiare.

Non isolare la tendenza, ma leggerla nel quadro globale della personalità
Altro prezioso criterio, raccomandato dal testo, è quello di non isolare la tendenza in sé, sganciandola dall’insieme della personalità, né discernere l’autenticità vocazionale a partire unicamente dall’orientamento sessuale (come fosse l’elemento decisivo), ma – al contrario – “coglierne il significato nel quadro globale della personalità del giovane” (44). È la persona tutta intera al centro del discernimento, non una singola componente della sua personalità.

Perché, come sappiamo, più importante e decisivo dell’orientamento in sé, è il modo di viverlo, e dunque l’equilibrio e armonia generale della persona nel prenderne coscienza, nell’accettarlo come parte di sé, nel gestirlo con sufficiente libertà e serenità, con la rinuncia che comporta, e, in particolare, nell’integrarlo con la natura e gli obiettivi della vocazione presbiterale.

Ma, come si può ben vedere, tutti questi criteri vanno oltre la questione dell’orientamento sessuale in quanto tale, ma cercano di leggerlo in una prospettiva doppiamente integrale: alla luce della vocazione e della missione del chiamato, e nel quadro generale della sua personale maturità e consistenza.

E proprio per questo, credo, consentono alla fine di leggerlo correttamente in vista d’un discernimento.

[1] È singolare che, in un testo come questo sulla formazione in genere presbiterale, si citi per due volte il documento del Concilio Vaticano II Ad gentes (esattamente ai numeri 4 e 13)!

[2] Vedi i periodici rilevamenti del Centro Toniolo sull’atteggiamento dei giovani nei confronti della Chiesa, puntualmente registrati e analizzati da P. Bignardi.

[3] Ne parla in due punti, al n. 41 e al n. 81, nota 112, ma interpretandolo in modo ancora parziale e legato soprattutto alla direzione spirituale.

[4] Cf. Congregazione per il Clero, Il dono della vocazione presbiterale. Ratio Fundamentalis Institutionis Sacerdotalis, Roma 2016, n. 199.

[5] Cf. Congregazione per l’Educazione cattolica, Istruzione circa i criteri di discernimento vocazionale riguardo alle persone con tendenze omosessuali in vista della loro ammissione al Seminario e agli Ordini sacri, Roma 2005, n. 2.

[6] Nei due numeri che stiamo analizzando il verbo “integrare” è usato due volte.

[7] È la logica evangelica del tesoro trovato nel campo, cf. Mt 13, 44-46.

Giordania, Parolin consacrerà la chiesa del Battesimo di Gesù

Il Battesimo di Gesù

Vatican News

«Dio volle santificare e salvare gli uomini non individualmente e senza alcun legame tra loro, ma volle costituire di loro un popolo, che lo riconoscesse secondo la verità e lo servisse nella santità». Inizia con una citazione tratta dalla Costituzione dogmatica del Concilio Vaticano II sulla Chiesa “Lumen Gentium” la lettera del Papa in latino al cardinale segretario di Stato Pietro Parolin, nominato Legato Pontificio per la consacrazione della Chiesa del Battesimo di Gesù, in Giordania, in programma il prossimo 10 gennaio.

Il porporato presiederà alle 11.00, presso il sito del Battesimo sul fiume Giordano (Al-Maghtas), la Messa per la Dedicazione e inaugurazione della nuova Chiesa. Tra i concelebranti anche il cardinale Pierbattista Pizzaballa, patriarca latino di Gerusalemme. Nella lettera, il Papa ricorda come i cristiani in Giordania stiano attendendo con ansia la solenne consacrazione della Chiesa del Battesimo di Gesù, la cui costruzione è durata quasi 15 anni ed è segno dell’amore della Chiesa per questa comunità di fedeli.

Francesco invita quindi il cardinale Parolin a incoraggiare i cristiani della Giordania a imitare sempre di più Cristo, testimoniando con rinnovata forza la speranza viva che viene dalla fede e l’amore per il prossimo. Infine gli chiede di portare in questa occasione il suo saluto a quanti parteciperanno all’evento, non solo ai cattolici presenti ma anche alle autorità civili, così come ai fedeli di altre religioni, e a quanti promuovono la missione della Chiesa, la libertà religiosa, la pace nel mondo e il bene della persona umana.

 

Per una Chiesa profetica

di: Lorenzo Prezzi

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Nel mese di novembre 2024 la sezione della montagna (Castelnovo ne’ Monti) della Scuola di formazione teologica della diocesi di Reggio Emilia ha organizzato, in collaborazione con le comunità della Zona pastorale della Madonna di Bismantova, tre incontri intorno al tema della profezia (su cui si impernia la Lettera pastorale del vescovo Giacomo Morandi). Presentiamo, in avvio, la relazione tenuta da p. Lorenzo Prezzi scj.

È urgente ricomporre una sorta di schizofrenia a cui una certa mentalità ecclesiastica ha costretto il cristianesimo comune dei battezzati e delle battezzate: quella che fa del lavoro e delle competenze professionali una sorta di campo alieno rispetto all’edificazione delle comunità cristiane. Il processo sinodale voluto da papa Francesco invita invece la Chiesa proprio ad attingere a queste risorse laicali per apprendere e dare nuova forma alle comunità cristiane.

Le attività mondane dei credenti non sono solo luogo di testimonianza della fede, quasi alternativa all’impegno cmunitrio, ma un patrimonio di competenze e conoscenze senza le quali la Chiesa rischia di ripete4re l’esistente e, quindi, di fallire davanti alle tante sfide dell’epoca nuova in cui tutti ci troviamo.

La riflessione che vi propongo è in cinque punti: oltre gli “stati di vita”; oltre la teologia del laicato; oltre il lavoro come fatica fisica; oltre la teologia delle realtà terrene; il racconto di una esperienza. I riferimenti di questa introduzione sono: un articolo e un libro di Paolo Trianni (Per una Chiesa sinodale: il contributo della teologia degli stati di vita e il libro Stati di vita, Cittadella, Assisi 2021) e alcuni saggi apparsi nei tre volumi dedicati a Il Lavoro, (Morcelliana, Brescia 1983, 1985, 1987).

Quella degli “stati di vita” è una dizione canonica e clericale che designa la condizione di vita dei credenti e cioè: essere laici, essere preti, essere religiosi/e. I tre stati di vita si sono sedimentati nella storia e sono diventati un riferimento ancora oggi abituale, anche se hanno un po’ perso il rigore del passato. Stato di vita può essere definito: una condizione stabile e per sé permanente nella comunità ecclesiale (un prete è tale per sempre, così il religioso/a e il laico), caratterizzata e distinta da mezzi e impegni particolari in ordine alla perfezione spirituale.

Il prete è chiamato ad esercitare il triplice compito di santificare (sacramenti), di insegnare e di governare. il religioso è chiamato alla radicalità dei voti di povertà, castità e obbedienza. Il laico è chiamato ad obbedire. È stato il concilio a rinnovare e a sottolineare anche per i laici la chiamata alla radicalità evangelica, alla responsabilità dell’annuncio e della vita della comunità e alla santità.

Non sempre è stato così. La Chiea primitiva non conosceva vere gerarchie piramidali anche se vi erano funzioni diverse. In particolare, ad esempio, nelle lettere pastorali la distinzione fra episcopi, presbiteri e diaconi. Vi era una uguaglianza di fondo, ma non un appiattimento privo di differenze specifiche. È stato con Ignazio di Antiochia, Ireneo di Lione e la Traditio apostolica di Ippolito che ha iniziato a prendere forma una separazione più netta, segnata dal gesto dell’imposizione delle mani. Con Cipriano e papa Gelasio e, soprattutto, con il decreto di Graziano, ai due poteri di riferimento (i vescovi e il re) si affiancano i due generi di cristiani: i chierici e i laici. Per arrivare qui ci è voluto quasi un millennio e la successiva cultura feudale ha infine stabilizzato la distinzione.

Dopo cinque secoli, la riforma di Lutero ha scombinato il tutto annullando il valore evangelico dei voti e contrapponendo il sacerdozio universale a quello ordinato. Ma anche un teologo cattolico come il gesuita Suarez riteneva che il sacerdozio fosse sostanzialmente un servizio e come tale non potesse essere “uno stato” stabile. È stato il Vaticano II a riscoprire il valore uguagliante del battesimo che è alla base di tutti i credenti, esaltando la categoria di popolo di Dio e l’universale chiamata alla santità. Senza tuttavia ignorare e rafforzare le identità proprie del laico, del consacrato e del presbitero. Ha fortemente valorizzato il sacerdozio comune dei fedeli senza togliere al sacerdozio gerarchico il suo servizio in favore della comunità e non cancellando la distinzione fra sacerdozio comune e sacerdozio ordinato.

Stati di vita e sinodalità sembrano tuttavia rispondere a logiche contrapposte. Gli stati di vita favoriscono la differenziazione se non la contrapposizione, mentre la sinodalità spinge alla partecipazione e all’uguaglianza. Se la teologia della sinodalità è chiamata ad argomentare cosa i laici sono legittimati a fare (o ad essere), la teologia degli stati di vita deve invece spiegare che cosa hanno in più un ordinato e un consacrato.

Le due teologia ed ecclesiologia non necessariamente si oppongono perché un appiattimento dei ruoli, delle responsabilità e delle funzioni non sarebbe lungimirante e non avrebbe fondamento biblico. Le richieste sinodali chiedono di ripensare talune rigidità separative o autoreferenziali rivendicando un maggior grado di partecipazione ai ruoli ecclesiali dei laici e delle laiche. In particolare c’è da capire in quale misura le differenze dipendano direttamente dal fondamento biblico o piuttosto da contingenze storico e culturali.

Son quindi possibile due letture degli stati di vita: ecclesiologica e sacramentale da un lato e spirituale dall’altro.

Nel caso della lettura ecclesiologica e sacramentale se si enfatizza la triplice potestà  del prete (santificare, insegnare, governare) e la “diversità ontologica” del prete e del religioso si sacrifica il profilo del laico che, a questo punto, non ha alcuna vocazione propria. Con l’esito di invalidare il sacerdozio comune, la fondamentale identità nel battesimo e la chiamata universale alla santità. Con l’esito che non si capirebbe più perché un laico può essere proclamato santo.

Nel caso invece della lettura spirituale le forme ecclesiali e gli stati di vita tendono a relativizzare la loro diversità. Il fondamento della fede è infatti l’amore e il riferimento per tutti è la croce di Gesù. La lettura spirituale non soltanto stempera la gerarchia degli stati di vita ma si chiese se si possa ancora parlare di “stati di vita” dal punto di vista spirituale. Semmai possono essere aspetti diversi di una esperienza spirituale comune (Tullio Goffi). La Chiesa è sinodale perché ogni forma di vita cristiana può condurre alla pienezza dell’amore.

La teologia del laicato è una corrente teologica alimentata soprattutto dal teologo domenicano francese Yves Congar che ha valorizzato il ruolo e il compito dei laici, spingendo a superare la loro condizione di minorità nella Chiesa e interpretando il fenomeno storico evidente e prezioso dei movimenti laicali nella Chiesa fra ‘800 e ‘900. Il laico nella Chiesa ha patito e patisce ancora varie discriminazioni.

È sostanzialmente inteso come un operaio ecclesiale chiamato a svolere dei compiti ma solo per delega. È considerato in fondo un minorenne spirituale. Ma non era così nelle comunità cristiane degli inizi che non conoscevano una contrapposizione preti-laici, ma tutti erano discepoli, santi e fratelli. Non è casuale che il termine laico non ci sia nel vocabolario biblico e sia raro anche nell’epoca patristica. La discriminazione verso i laici, considerati come la plebe governata e illetterata, comincia con l’arrivo nella Chiesa dei barbari, con l’usanza diventata comune di chiamare letterato il chierico, mentre il laico è illetterato. Si è trattato sostanzialmente di un adeguamento ai modelli della società civile. L’esito è stato il formarsi di una convinzione diffusa secondo cui l’azione dello Spirito Santo e della grazia operasse solo nei detentori della sacra potestà. Insomma il laico è rappresentato come colui che prende tutto e non dà nulla, portatore di una vocazione povera che si avvale di mezzi comuni e insufficienti per raggiungere la perfezione.

Quanto detto esaspera e semplifica una condizione che nei fatti è sempre stata più complessa, ma serve per indicare una posizione ecclesiale minore e di scarsa qualità. Il concilio, assumendo la teologia del laicato e sviluppando la comune partecipazione al sacerdozio di Cristo ha definitivamente lasciato alle spalle la posizione marginale del laicato. Anche perché quella teologia – benedetta e di grande valore – aveva il limite di relegare il laico ai suoi doveri laicali e secolari, al compito di genitore, di operaio di professionista ecc. senza arrivare a cogliere in pieno la sua dignità battesimale, sacerdotale e regale. Va detto che Congar sviluppò il superamento del trinomio chierici-religiosi-laici per il binomio molto più promettente di ministeri e comunità, intuendo la necessità si svincolare l’attività dei laici dalla loro destinazione al solo ambito secolare.

Giustamente Severino Dianich osserva che l’indole secolare non è esclusiva dei laici, ma appartiene a tutti i soggetti ecclesiali. Tutti chiamati a una qualche ministerialità e tutti connotati da un dono carismatico. Il dono spirituale del carisma e la chiamata alla ministerialità condivisa apre la specifica questione della donna nella Chiesa. La riserva maschile per l’ordinazione (oggi è particolarmente discussa quella diaconale) è sempre meno condivisa e comprensibile, almeno per la mentalità occidentale e per il vissuto reale delle nostre comunità. Alcune Chiese, come quella anglicana, hanno varcato il Rubicone dell’ordinazione femminile, altre come quelle protestanti e calviniste non hanno il problema perché non c’è ordinazione per i ministri del culto, altre come quelle ortodosse sono ancora lontana dal problema.

Non è qui il momento per affrontare direttamente il tema. Senza ordinazione è improprio che il cristiano/a comune possa avere la responsabilità del dono di santificare (sacramenti, ad eccezione del battesimo in condizioni di necessità), tuttavia una ecclesiologia sinodale non potrà che incentivare la partecipazione ai ministeri ordinati e favore l’assunzione piena di quelli non ordinati e di quelli di fatto. C’è una seconda questione che si apre ed è quella dei celibi, dei single. Mentre infatti  vi è un consolidato percorso spirituale per i preti, i religiosi/e e per il matrimonio, non vi è alcuna indicazione spirituale per i celibi che sono tali o per scelta o per necessità. Se li ascoltassimo potremmo trovare in loro risentimenti dolorosi, bisogno di speranza, ricerca di fecondità. E incrociare attese importanti come l’esigenza di parlare positivamente del corpo, di sviluppare il sentimento dell’attesa e una ricerca di fecondità.

È difficile usare per loro il termine “vocazione” perché spesso non è una chiamata ma un dato di fatto. E tuttavia, come dice il documento finale del sinodo del 2018 dedicato ai giovani: «La Chiesa riconosce che tale condizione, assunta in una logica di fede e di dono, può divenire una delle molte strade attraverso cui si attua la grazia del battesimo e si cammina verso quella santità a cui tutti siamo chiamati» (n. 90)

Anche nell’arco di una sola generazione, dagli anni ‘50 del ‘900 ad oggi, si percepisce il radicale mutamento del lavoro: dalla fatica fisica dei contadini e di quella degli operai si è passati a una produzione in cui la forza dei muscoli ha un ruolo del tutto secondario. Non che i lavori che implicano forza fisica e corpi adatti siano scomparsi, tutt’altro. Basta pensare alle nostre stalle, ai lavori stradali e di muratura, ad alcuni lavori d’officina. Ma nell’insieme la necessità del vigore fisico ha lasciato lo spazio alla specializzazione, al lavoro delle macchine, alla capacità di collaborazione, all’originalità personale ecc.

Le nuove generazioni sanno che non avranno un solo lavoro durante la loro vita. In generale si cerca un lavoro che permetta la realizzazione personale, che lasci tempi liberi oltre alla sua redditività. C’è oggi chi teorizza la fine del lavoro con la combinazione della tecnica, della rivoluzione numerica e dell’intelligenza artificiale. Quello che si percepisce è il rifiuto del lavoro come valore che voglia essere pervasivo (a parte le eccezioni), che sia solo peso-fatica-responsabilità, che non permetta di esprimere la propria soggettività. Si sono sfrangiati e sovrapposti i tre classici momenti di vita (preparazione, lavoro, pensione) perché istruzione, lavoro, pensione si mescolano e si alternano.

Sempre meno il proprio lavoro ci identifica in termini fissi e condivisi. Sempre meno il lavoro è inteso come fattore centrale della civiltà, come categoria di interpretazione della realtà sociale. Il giustificato apparire di un “reddito di cittadinanza” è molto espressivo di questa situazione.

Nella tradizione cristiana pre-moderna il lavoro serviva sostanzialmente a procurarsi il cibo, a impedire l’ozio, a frenare la concupiscenza e a fare elemosina. A parte l’accelerazione prodotta dalla Riforma di Lutero che ha ripreso la forma ascetica e severa del lavoro, ma investendo in esso una dignità etica e un valore, la stessa dottrina sociale della Chiesa si appoggia, all’inizio, a quella concezione: un lavoro sostanzialmente manuale, fondamentalmente fisso e senza storia.

Solo successivamente viene considerato il fatto che tramite il lavoro, e il lavoro collettivo in particolare, si possa produrre un mutamento complessivo dell’ambiente e, in qualche modo, della stessa vita spirituale, della coscienza e dei costumi. Eravamo e per alcuni aspetti siamo ancora prigionieri di una concezione del lavoro ad un tempo spiritualista e individualista. Spiritualista perché ci astraiamo dal fare concreto per un valore spirituale del lavoro che non ha alcun rapporto diretto con il fare. Individualista perché fissiamo lo sguardo solo sul lavoro che ci interessa e non avvertiamo i mutamenti che l’insieme dell’attività umana produce sia nell’ambiente, sia nei mutamenti di civiltà che ci attraversano.

Nella storia generale del pensiero europeo il superamento della duplice prospettiva, individualistica e spiritualistica si è prodotto ad opera della cultura non teologica. È soprattutto grazie alle scienze della natura che la nuova connessione fra conoscere e fare si impone rispetto alla cultura antica che contrappone il lavoro servile all’arte liberale, l’opera manuale all’opera intellettuale (G. Angelini). Siamo debitori in particolare all’opera teologica di Marie Dominique Chenu. Egli denuncia e depreca la prospettiva moralistica che predomina nell’approccio tradizionale della fede cristiana sul tema del lavoro.

«Finora gli studiosi cristiani non prendevano in considerazione questa realtà umana che come materia amorfa, atta come tutte le altre, a diventare materia di moralizzazione e di santificazione, come fosse un dovere di stato», quale espressione della volontà di Dio. Un composto che si scioglie solo con la rivoluzione industriale che ha indotto a capire le leggi, gli scopi e il ruolo storico del lavoro individuale e collettivo. Il limite di Chenu è di dare troppo credito all’umanesimo prodotto dalla civiltà industriale e dai movimenti collettivi da esso prodotti investendo sul movimento operaio una capacità di cambiamento che i decenni successivi hanno smentito.

Rimangono importanti i tre modelli fondamentali che il teologo ha suggerito per spiegare teologicamente e spiritualmente il lavoro. Il primo modello è quello dell’uomo collaboratore della creazione e demiurgo della propria evoluzione nello scoprire, sfruttare e spiritualizzare la natura. Il secondo modello è quello dell’incarnazione a motivo dell’assunzione della natura umana da parte del Figlio di Dio. Tutto ciò che è umano è materia di grazia. Il terzo modello è quello escatologico dei nuovi cieli e nuova terra. La prospettiva finale del cristianesimo porta a termine e non annulla la prospettiva terrena. Come dice il concilio, «benché si debba accuratamente distinguere il progresso terreno dallo sviluppo del regno di Dio, tuttavia, nella misura in cui può contribuire a meglio ordinare l’umana società, tale progresso è di grande importanza per il Regno di Dio» (GS 39).

Un approccio più meditato e consapevole al tema del lavoro entro un progetto di civiltà è quello di Romano Guardini che privilegia i fatti di civiltà rispetto al tema immediato del lavoro e della dottrina sociale. La concezione generale del mondo (Weltanschauung) del cattolicesimo e della fede cristiana percepisce che l’introduzione delle macchine e della tecnica stacca gli uomini dall’immediata percezione del valore e del senso delle cose e li porta a valorizzare solo il potere di modificare e plasmare a loro giudizio le cose che manipolano. Il potere della conoscenza si soprappone alla sapienza della coscienza.

Il nuovo rapporto manipolante dell’uomo sul mondo non amplia la sua libertà, ma ne enfatizza il condizionamento. Per questo la Chiesa deve essere molto vigilante nei confronti delle chiacchiere generiche sul progresso e la penetrazione dei misteri della natura. Essa è invitata a prendere posizione nei confronti del caos che la pura autoalimentazione della tecnica produce, del caos che sale dall’opera stessa dell’uomo e delle minacce dei prodotti da lui costruiti (compresa l’intelligenza artificale). Una Chiesa capace di denunciare la slealtà della cultura contemporanea che utilizza valori di origine cristiana piegandoli a una quadro di civiltà che non è coerente con essi. Il modello scientifico del rapporto uomo – natura non è in grado di accedere al significato e al valore delle realtà create (Laudato si’).

Non sarà possibile alla Chiesa testimoniare il vangelo nel post-umanesimo incipiente senza la convocazione sinodale di tutte le competenze laicali. Né la teologia, né la pur centrale testimonianza della carità, né la generosità dei singoli pastori, potrà pretendere di affrontare le sfide del prossimo futuro. Vi sono nelle nostre assemblee e nelle immediate vicinanze competenze laicali e professionali di altissimo livello. Se ciascuno dei fedeli e dei credenti anonimi che guardano con interesse al Vangelo potessero prendere parola si potrebbe sperare per un indirizzo ecclesiale più evangelico e più autorevole rispetto alle attuali sfide di civiltà.

In merito posso raccontare una piccola esperienza compiuta nella diocesi modenese. In occasione Castellucci, ho convocato una decina di professionisti (dai medici agli imprenditori, dai giuristi agli amministratori) per aiutare la diocesi a capire quello che stava succedendo e a intuire come collocarsi davanti a uno scenario tanto imprevisto quanto apocalittico. La mia sorpresa non è stata soltanto nell’immediata accettazione dell’invito quanto nella passione delle testimonianze di chi negli ospedali affrontava a “mani nude” la pandemica, come di chi chiedeva cosa fare davanti alle responsabilità sociali delle aziende e di chi percepiva le sfide non previste per l’amministrazione pubblica. Credenti e non credenti, frequentanti e non frequentanti, ruoli apicali comer quelli gestionali attendevano con grande interesse un indirizzo spirituale e valoriale che riconoscevano alla Chiesa e al Vangelo.

L’esperienza si è interrotta dopo tre incontri per difficoltà pratiche e per i miei timori rispetto al livello della sfida. Ma rimane un riferimento per capire che le convocazioni più efficaci hanno bisogno di avere alle spalle quel cammino sinodale a cui la nostra Chiesa ci sta chiamando.

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Chiesa in lutto per la morte di don Mario Gasparini

Don Mario Gasparini morto all'età di 92 anni

Nella prima mattina di martedì 10 dicembre 2024 nella Casa del Clero di Montecchio Emilia si è spento don Mario Gasparini, il fondatore della parrocchia dello Spirito Santo a Reggio Emilia. Aveva 92 anni.

Era infatti nato il 18 febbraio 1932 ad Argine e aveva ricevuto l’ordinazione presbiterale il 19 giugno 1955. La sua prima destinazione pastorale fu quella di vicario cooperatore a Castelnovo ne’ Monti, dove don Mario ha operato fino al 1964. In seguito, per tre anni (1964-1967) il presbitero è stato inviato come parroco a San Sisto (Poviglio).

Nel 1967 arrivò la chiamata per la parrocchia dello Spirito Santo a Reggio Emilia, che don Gasparini ha fondato a partire da una piccola barchessa e dove il sacerdote è rimasto per oltre mezzo secolo, precisamente fino al settembre 2021, quando subì un ricovero ospedaliero e venne successivamente trasferito alla Casa del Clero “San Giuseppe” di Montecchio Emilia.

Nel frattempo, dal 2017, la parrocchia era entrata nell’unità pastorale “Santa Maria degli Angeli” che oggi comprende anche le comunità di Regina Pacis, Roncina, Codemondo e San Bartolomeo sotto la guida di don Enrico Ghinolfi.

Vocazione dalla forte spiritualità, quella di don Gasparini, connotata da una spiccata devozione mariana e da una notevole larghezza di cuore. “Carissimo” e “carissima” erano l’appellativo ricorrente che don Mario riservava a tutti coloro con i quali entrava in contatto, con la sua energia positiva e un entusiasmo perennemente giovanile.

Un prete – così lo storico parrocchiano Luca Lusetti, che ha vegliato don Mario anche nelle ultime ore – che aveva sempre una parola di conforto per ognuno, capace di ascolto profondo e disteso, grande amico di monsignor Emilio Landini, in gioventù appassionato insegnante di Religione nelle scuole.

Nel giugno del 2015, in occasione del 60° anniversario di ordinazione presbiterale, a don Mario era stato dedicato nella chiesa dello Spirito Santo un concerto diretto da monsignor Marco Frisina, che già l’anno precedente aveva portato in Cattedrale il Coro della Diocesi di Roma.

Il feretro sarà esposto a partire dalle ore 16 di martedì 10 dicembre nella chiesa dello Spirito Santo, in via Pietro Mascagni 48 a Reggio Emilia, dove alle 20.30 sarà recitato il santo Rosario in suffragio.

Sempre nella stessa chiesa l’Arcivescovo Giacomo Morandi presiederà la liturgia delle esequie mercoledì 11 dicembre alle ore 15.

laliberta.info