L’8 febbraio a Padova Paola Bignardi ha presentato ai docenti delle aree di filosofia e teologia della Facoltà le conclusioni dell’indagine sui giovani che hanno abbandonato la Chiesa (ma non la fede)

© Tony Antoniou

Cerco dunque credo? Si intitola così l’atteso volume che uscirà a fine marzo, curato da Paola Bignardi e da Rita Bichi per i tipi di Vita e Pensiero.

La pubblicazione, che si preannuncia corposa, presenta i risultati della ricerca sui “giovani in fuga” svoltasi nel 2023, promossa dall’Osservatorio Giovani dell’Istituto Toniolo di Milano, a cui ha collaborato anche la Facoltà teologica del Triveneto.

Ulteriori dati dell’indagine sono stati anticipati da Paola Bignardi, intervenuta nell’incontro con i docenti delle aree di filosofia e teologia svoltosi nella sede della Facoltà a Padova nella mattinata di mercoledì 8 febbraio 2024.

Contemporaneamente si sono incontrati anche gli altri docenti, per un totale di circa novanta persone, espressione della didattica e della ricerca della Facoltà.

Perché si allontanano dalla Chiesa
Rivolgendosi ai filosofi e ai teologi, Paola Bignardi ha sintetizzato i risultati della ricerca in dieci punti, concentrando l’attenzione su due di essi: le diverse tipologie di allontanamento e la trasformazione dell’esperienza della fede in spiritualità.

Sono state identificate sei tipologie di allontanamento: allontanamento evolutivo (l’esperienza del catechismo da ragazzi li ha convinti che quello che hanno imparato di religioso è “cosa da ragazzi”, per cui è trascurabile diventando adulti); allontanamento per disinteresse (nessun interessamento vero la dimensione trascendente); allontanamento esistenziale (a fronte delle domande di senso della vita, la proposta religiosa non ha dato una risposta soddisfacente); allontanamento critico (presa di distanza verso la formazione cristiana, soprattutto rispetto ad alcuni temi morali); allontanamento maturativo (vissuto per scelta, per onorare la propria intelligenza, la propria inquietudine, il proprio comprensibile scetticismo); allontanamento “arrabbiato” (la Chiesa li ha delusi e non vogliono più avere contatti con il mondo ecclesiale).

Per la maggior parte degli intervistati la presa di coscienza del proprio allontanamento dalla Chiesa avviene tra i 16 e i 17 anni.

La pratica religiosa spesso è stata abbandonata anche prima, in genere dopo la cresima, ma è solo dopo qualche anno che diviene una scelta esplicita e consapevole.

È molto significativo che alcuni di loro si siano allontanati dagli ambienti ecclesiali dopo essere stati impegnati nelle parrocchie come educatori o capi scout, dunque con responsabilità educative e organizzative.

Dopo l’abbandono, l’esperienza di fede diventa “spiritualità”, intesa in molti modi, come, ad esempio: un viaggio alla ricerca di sé stessi, avere un centro, farsi delle domande, fare spazio all’ascolto dell’ignoto, fare introspezione.

Non rifiuto ma ricerca
I giovani parlano per immagini, non per concetti. Una ragazza si rappresenta con un’immagine efficace: «Mi sento come in una stanza buia in cerca dell’interruttore». Un altro descrive così il suo abbandono della Chiesa, ma non della fede: «Non mi ritengo ateo, non mi ritengo una persona che non crede più in Dio, che non ha un lato spirituale; semplicemente non penso che quello sia il mio modo di pregare, di essere parte, di dimostrare il mio lato spirituale, perché è una cosa che io vivo più come una cosa individuale, più come una cosa relativa a me e non a un gruppo di persone. Alla fine, mi ritrovavo sempre a ripetere le solite preghiere un po’ a pappagallo perché tutti le dicevano e a non crederci davvero».

Queste narrazioni esprimono una metamorfosi del credere, cioè una trasformazione dell’esperienza religiosa in navigazione solitaria, una fede molto intima e sostanzialmente personale, a tratti individualistica.

Di queste diverse trasformazioni dell’esperienza della fede in spiritualità ne sono state evidenziate in particolare tre: interiorità, natura e connessione.

Interiorità, intesa come incontro con il proprio io profondo, con i dubbi e con le domande più scomode.

Natura, intesa come “luogo” della spiritualità, contesto in cui immergersi per recuperare una forma di contatto con Dio. La creazione continua a essere “via” che conduce a Dio.

Infine, connessione, intesa non come legame, ma come un processo; è il sentire che la propria vita non è gettata nel mondo, abbandonata alla propria solitudine, ma è in relazione a “qualcosa” o a “qualcuno”, indeterminato o personale, altro o Altro.

Questa esperienza di “connessione” si pone agli antipodi della religione istituzionale perché la Chiesa – dicono questi giovani – fa come “da filtro” e non permette di sperimentare il legame in quanto troppo rigida, perché in essa è già tutto precostituito.

Questa accurata esplorazione nel mondo giovanile, realizzata a dieci anni di distanza dal volume intitolato Dio a modo mio (2013), conferma che è in atto un mutamento antropologico molto profondo.

Le trasformazioni in atto nel modo di vivere l’umano rendono sempre più necessario il superamento dello schema interpretativo Chiesa-mondo, tipico delle costituzioni conciliari, a favore di un approccio più antropologico alle questioni religiose, intese come rapporto diretto tra Vangelo e uomo.

Tale spostamento si colloca nel quadro generale del processo di reinterpretazione del cristianesimo nell’attuale contesto culturale e sociale e lascia aperte molte domande. Di fatto, con le varie forme di “allontanamento”, i giovani chiedono alla Chiesa una maggiore affidabilità e coerenza con l’originaria esperienza evangelica. Sperando che non sia ormai già troppo tardi.

settimananews

I discepoli del Signore, cui è affidata la dispersione secolare delle moltitudini, non dovrebbero portare la genuina vitalità della fede sapienziale nello spazio dell’umano che è comune?

Uscita dalla Messa

avvenire.it

Con la guida profonda e sensibile di don Pierangelo Sequeri, per dieci settimane siamo andati in cerca dei segnali che orientano la fede dentro la cultura di questo tempo nel quale vediamo prevalere fattori di incertezza che sembrano scoraggiare l’esperienza credente. Il celebre teologo, firma cara ai lettori di “Avvenire”, conclude oggi il suo percorso alla scoperta della «fede dove non te l’aspetti», attraverso parole-guida offerte a tutti i «cercatori e trovatori» che vogliono attraversare la vita con ritrovata consapevolezza.

La “Chiesa in uscita”, formula che fa parte di quel “parlare in parabole” al quale ci ha abituato il papa Francesco, ci mette sulla strada. La formula, certo, ha finito per diventare uno slogan buono per tutte le occasioni, un po’ secondo lo stile mediatico imperante, alimentato dalla pubblicità commerciale e trasferito alla retorica dei politici, dove la frase ad effetto si libera dall’impaccio del pensiero. Ma il paradosso della chiesa in uscita, in cui affiora la profondità astuta e dimenticata delle parabole evangeliche, contiene ricchezze antiche e nuove (Matteo 13, 52). Intanto una Chiesa in uscita è una Chiesa che in qualche modo esce dalla sua comfort zone: non si identifica con le sue abitudini domestiche, depone la sua preziosa veste da camera, non parla una lingua comprensibile solo a quelli che sono di casa.

Di certo, se esce con tutti i suoi paramenti addosso, non esce veramente: allarga la sua tenda familiare, invade un territorio alieno, presidia un avamposto di occupazione. Insomma, ristruttura il suo interno, magari per renderlo più spazioso e accogliente (cosa tutt’altro che censurabile, naturalmente), ma non esce realmente dalla sua autoreferenzialità. Di fatto, è una Chiesa in uscita che si risolve nell’invito a entrare in Chiesa (appello che non è certamente contestabile). E allora, che cosa manca a questa uscita? Mancano la libertà e la necessità di una missione che cerca – prima di tutto e in tutto, dovunque e in chiunque – i vicoli di ingresso nel regno di Dio (la “porta stretta”). La Chiesa in uscita rende disponibile la forma cristiana per coloro che intendono accogliere l’invito del Figlio (Matteo 28, 19); ma impara a riconoscere i segni della forza dello Spirito che fa nascere dovunque la nuova creatura (Romani 8, 22). E se ne rallegra, a qualsiasi tribù, lingua, popolo e nazione appartenga.

La Chiesa in uscita è quella che non impone l’ingresso nella forma cristiana ai miracolati dell’agape di Dio, che li afferra con la forza della sua guarigione, della sua consolazione, della sua speranza. I Vangeli dedicano la gran parte della loro memoria dell’evento che ha cambiato faccia alla militanza religiosa su questo pianeta, al racconto di questi miracolati, dei quali poi si perdono persino le tracce (cfr. Matteo 25, 31-40). Di questi cercatori e trovatori della fede dove non te l’aspetti ci siamo arricchiti o ci siamo impoveriti? Dedichiamo le nostre energie esclusivamente alla formazione dei quadri “ecclesiastici” (ora anche “laici”) e delle loro capacità di reclutamento, o siamo astuti e creativi formatori dei rabodomanti del Regno di Dio, che parlano disinvoltamente le lingue del posto senza fissarsi ad insegnare il latino, e ironizzano allegramente sullo spreco di intelligenza dedicato alla felicità dei consumi?

La priorità, nella logica attuale della missione, va riconosciuta nella generosa disseminazione di discepoli che siano all’altezza dei luoghi «dove si formano i nuovi racconti e paradigmi» (Evangelii gaudium, 74). Non si tratta del “coraggio” di predicare su uno sgabello in Hyde Park la notizia della Risurrezione di Gesù. Si tratta della determinazione di abitare, senza agitare rosari e sventolare bandiere, l’umano che è comune: con speciale amore per gli “scartati” dall’accumulazione del sapere, del potere, delle ricchezze della Terra, che è di Dio prima che di chiunque altro. Dopo l’esilio dal suo insediamento come Regno mondano, l’istituzione della fede del popolo di Dio scoprì il dono inestimabile della Sapienza di Dio, che insegna l’alleanza di Dio con la creatura e il creato (Giobbe e il Cantico, Sapienza e Qohelet). Questa alleanza non ha bisogno di una legalità teocratica che la imponga: i pastori non sono sovrani e i fedeli non sono sudditi.

I discepoli del Signore, ai quali è ora affidata la dispersione secolare delle moltitudini senza forma e senza forza, non dovrebbero portare la genuina vitalità di questa fede sapienziale nello spazio dell’umano che è comune? Lo spazio del suo sapere e della sua operosità, lo spazio dell’estetica e della drammatica dei suoi affetti? La rivelazione della Sapienza di Dio lo fece. E il Vangelo sigillò per sempre questo legame, dalla parte di Dio stesso.

Le élites che generano beni importanti per la comunità e le moltitudini che partoriscono affetti imperdibili per l’umano sono i luoghi privilegiati per questa semina. La divaricazione fra i due (economica, politica, etica) ora cresce esponenzialmente. E indecentemente. (L’Europa brilla, e affonda, per l’esemplarità della sua inerzia nell’affrontare – antropologicamente e culturalmente – questo trend negativo della diseguaglianza economica e della sfiducia politica. L’inerzia della sua ostinazione a trattarlo in termini meramente economicistici, avvolti dai fumi di una retorica politica senza visione umana e spirituale all’altezza, è sconfortante. E il ceto intellettuale che la fiancheggia, d’altra parte, è ancora troppo frequentemente al di sotto della moralità e dell’autorevolezza necessarie per farsene carico). La riconquista di un costume sociale di alleanza fra gli “opposti” – le università e le periferie, le stanze dei bottoni e le vite senza potere, i luoghi dell’alta formazione (e della selezione) e le scuole della strada (e dei social) – è una priorità assoluta.

Il “terzo settore” è già un miracolo: onore ai volontari, naturalmente, “senza se e senza ma”. Però non basta più raccogliere la spazzatura della smart city e tappare i buchi della global economy. È nel “primo” e nel “quarto” settore che bisogna infilarsi: quello che manda avanti l’algoritmo e quello a cui imbrogliano le carte. Per il governo della comunità di fede – la Chiesa ad intra – non servono moltitudini di chiamati. (Gesù se ne fece bastare una dozzina). La cura della comunità stanziale e ospitale della fede è degna della massima gratitudine: essa custodisce i nostri tesori più preziosi e offre una base sicura – la casa confortevole – per l’enorme lavoro che va compiuto soprattutto ad extra. Ma non giustifica mezzi spropositati.

Le performances sinodali (l’assemblea, il discernimento) saranno “nodi” di rete; ma la “rete” stessa sarà la tessitura fraterna dell’alleanza multifocale di questa chiesa ad extra (chiamala pure comunione). Il centro vitale della comunità dei discepoli – nodo e rete – è l’Eucaristia della presenza del Signore, e poco altro di essenziale (non certo la disputa infinita su chi è il più degno di sedere alla sua destra e alla sua sinistra).

La fede mette anzitutto in gioco – nel suo dialogo con l’umanesimo dell’altro uomo – il suo orizzonte di destinazione dell’umano al mondo di Dio. La risurrezione della «vita nel mondo che verrà», dice il Credo. Ci agitimo così tanto per finire in qualche buco nero del cosmo, o aspettiamo con dignitosa fermezza che le bellezze e i sospesi della vita siano riscattati da una giustizia di Dio per noi inarrivabile? Pensate che ce la possiamo fare ad adottare questo cambio di passo? Possiamo essere abbastanza generosi da non reinvestire tutto su di noi – ad intra – il patrimonio di vocazioni e di dedizioni che lo Spirito suscita fra i credenti che hanno conosciuto il Signore?

O forse, stiamo pensando anche noi secondo la prospettiva mondana di quel patetico dogma liberistico del trickle-down secondo il quale l’accumulo di ricchezza della élite possidente accresce automaticamente il potenziale drop-falls della sua redistribuzione alla moltitudine dei meno abbienti? La Chiesa è per l’uomo, non l’uomo per la Chiesa. La bellezza di questa conversione – che ripete puramente e semplicemente la disposizione di Dio – deve metterci di buon umore, non in allarme.

Infine, se mancassimo l’appuntamento di questa fraterna conversione ad extra proprio noi, comunità cristiane dell’Europa post-coloniale e post-teocratica, che cosa potranno mai ricevere di buono da noi le comunità critiane del mondo, alle prese con la globalizzazione di un umanesimo senza fede e con i risentimenti di una religione senza umanesimo?

avvenire.it

La Chiesa che sognano i giovani è parte di un Amore più grande

Tratto da La Libertà n. 6
10 febbraio 2024
Domenica 4 febbraio, al centro pastorale “Sacro Cuore” a Reggio Emilia, un’ottantina di giovani ha vissuto un momento sinodale insieme al vescovo Giacomo Morandi e a don Carlo Pagliari, responsabile della Pastorale Giovanile. In un clima di confronto e preghiera i giovani hanno riflettuto su otto ambiti di impegno pastorale: dalla Università agli ospedali e alla vita comunitaria. Per una nuova evangelizzazione.

Abusi e donne consacrate

Quando il libro uscì in prima edizione nel 2016 (EDB) era una delle prime voci che affrontava il tema scomodo degli abusi sulle donne consacrate. Esce ora la seconda edizione del volume di Anna Deodato Vorrei risorgere dalle mie ferite. Chiesa, donne, abusi (EDB, 2023 – qui) con alcuni significativi arricchimenti.

«La comprensione del tema degli abusi si è dilatata e approfondita in due direzioni: dall’abuso sessuale alle diverse forme di abuso di potere, di coscienza e spirituale; dall’abuso come dinamica di rapporto vissuto tra due persone, all’abuso che deve essere interpretato in chiave sistemica», cioè all’interno del contesto “abusante” e in relazione alle vittime “secondarie”, la famiglia e la comunità. Fino ad arrivare alle responsabilità della Chiesa.

La devastazione dell’abuso
Dopo venticinque anni di lavoro di accompagnamento, l’autrice, donna consacrata nella diocesi di Milano, così definisce l’abuso: «una dinamica di potere, supremazia, dominio verso una o più persone che sono in situazione di vulnerabilità e dipendenza per età, circostanze di vita, bisogni affettivi personali, situazioni di vulnerabilità psicofisica. È una rottura grave, che accade all’interno di una relazione di fiducia a causa di un tradimento irreparabile che lascerà una ferita perenne nell’intimo della persona».

Nella vita consacrata le forme abusanti si manifestano nella stretta cerchia delle relazioni ecclesiastiche (superiore, formatrici, confessori, direttori spirituali, fondatori ecc.) con conseguenze devastanti sulla psicologia, il fisico, le relazioni, i comportamenti e sulla stessa fede. Sono di tipo sessuale, ma anche di coscienza e spirituale.

L’abuso di coscienza «è la violazione della libertà interiore di un’altra persona». «L’abuso di coscienza diventa abuso spirituale quando l’abusatore parla e agisce a nome di Dio facendo valere la sua autorità spirituale, teologica o ecclesiale, in virtù del ministero che gli è stato conferito». Le indicazioni teoriche si mescolano e si spiegano con riferimenti diretti a casi affrontati a cui si fa riferimento con grande rispetto e discrezione. «Io sono stata abusata, sono, come si dice, una vittima…, ma pochi sanno cosa veramente vuol dire continuare a vivere come la vittima di una violenza che in un certo senso si ripete ogni volta in cui tu cerchi di riprenderti la tua libertà e la tua dignità».

Il corpo ricorda
La memoria può essere rimossa, la psiche può difendersi nella negazione, ma il corpo ricorda. E il corpo femminile in particolare, violato nella sua dimensione corporea intima e nei suoi cicli. «Il mio corpo non è più segnato dal tempo. È stato oppresso in un tempo buio. Non scorre più nel ritmo del tempo il sangue della mia vita. Attendo il tempo della luce. Attendo che il mio corpo di donna torni a parlare nel tempo».

Tornare ad amare il proprio corpo è spesso un cammino lungo e pieno di contraddizioni. La biancheria, il vestito e l’abito sono conquiste ma, qualche volta, anche negazioni: «Quanta fatica! Guarirò? Vivrò ancora? Non dico più che ho l’ansia perché ciò che sento è più forte della solita ansia, e non è tensione provocata dalla rabbia che si può scaricare, è qualcosa di più profondo, sì, è collegata alla colpa».

La colpa, accanto alla paura e alla vergogna sono i sentimenti che accompagnano l’abusata. «Per la forza simbolica della relazione e per una sorta di identificazione proiettiva, la rabbia per ciò che si è subìto si trasformerà nel senso di colpa che si insinuerà nella coscienza sino a far pensare di aver fatto qualcosa di male o di sbagliato, per meritarsi tanta violenza, sino a credere di essere “sbagliate” nel desiderare qualche minima cura per sé stesse».

La parola, il pianto e il grido sono i segnali di una progressiva coscienza di sé e della propria dignità. La discrezione, la tenerezza, la cura costituiscono il contesto del possibile riscatto.

Colpa, paura, vergogna
Anche la fede, come tutte le dimensioni vitali, è drasticamente rimessa in questione dall’abuso e necessita di una paziente ricostruzione. «Lavorando con le consacrate, questo vissuto di lutto si manifesta nel transito interiore che porta a una riappropriazione della dignità del cuore e del corpo; nella faticosa uscita dalla propria congregazione o istituzione religiosa per un nuovo progetto di vita; nel dover ritrovare motivazioni profonde per riuscire a rimanere in comunità da un più profondo e adeguato cammino personale. Tutto questo va attentamente sorretto, riconoscendo e sostenendo la lotta della fede».

Passaggi importanti sono dedicati alle comunità di riferimento che non sono elemento marginale nel permettere l’abuso e, eventualmente, nell’accompagnare il riscatto. Anche le famiglie di origine e le relazioni sororali e fraterne possono indicare alcune fragilità non risolte, ma anche rappresentare un rifugio e una consolazione dopo i drammi vissuti.

Abusatori e abusatrici
Sugli abusatori maschi – la maggioranza – molto si è già scritto. Diversamente dalle abusatrici: «La donna che abusa è quasi sempre nella condizione di poter stabilire all’interno della comunità uno stile di leadership marcatamente narcisista, paranoide e antisociale. Ha molto potere designato sulle altre e ricopre il ruolo di leader ispiratore del gruppo, di superiora o di formatrice, incarichi che richiedono, d’ufficio, una sottomissione della consacrata e una deliberata istanza d’obbligo nell’apertura dell’intimità che, teoricamente, dovrebbe permettere il discernimento».

La vittima designata è in genere giovane, docile, accondiscendente con una debole capacità di mantenere i propri confini. Nell’abuso di una donna verso l’altra la questione centrale non è il lesbismo quanto la psicodinamica narcisista associata a una struttura di personalità gravemente compromessa.

Le potenziali «abusatrici» hanno personalità disturbate, investite di potere in un contesto chiuso e privo di confronti.

Tornano nel testo ripetuti riferimenti a quanto è richiesto all’accompagnatore, ai suoi atteggiamenti e competenze, come alla insistita necessità di un intervento di rete di diverse competenze. Le numerose note rimandano alle pubblicazioni più rilevanti del settore, alle diverse scuole di intervento e alle ragioni che presiedono alle scelte compiute.

Testimoniare davanti all’assemblea
Si può agevolmente riconoscere nelle note i nomi del «gruppo di mischia», i competenti che costituiscono, assieme ad altri, il riferimento abituale delle riflessioni ecclesiali sull’abuso: Enrico Parolari, Luisa Bove, Amedeo Cencini, Gottfried Ugolini ecc.. Oltre ad una delle loro «palestre» abituali: il trimestrale Tredimensioni, edito dall’editrice Àncora. In appendice sono ripresi alcuni dei testi magisteriali fondamentali relativi agli abusi, a indicare il percorso compiuto dalla Chiesa e i grandi passi compiuti.

Nel testo emerge, infine, con una certa forza, il tema della testimonianza, di poter dire ciò che purtroppo è successo. Un’esigenza del terapeuta, per mettere in guardia le comunità religiose, e non solo, della gravità e della serietà dello scandalo, educando i credenti a prendersene cura. Ma anche delle stesse vittime. «Come fare a superare la rabbia e non allontanarsi dalla Chiesa, dalla fede? Come fare a difendermi da chi, di fronte a questi crimini, ha minimizzato, nascosto, messo a tacere, o anche peggio non ha difeso i più fragili, limitandosi meschinamente a spostare i sacerdoti a nuocere da altre parti? Di fronte a questo, noi vittime innocenti, sentiamo amplificato il dolore che ci ha ucciso».

«La Chiesa mi ha costruito e la Chiesa mi ha distrutto. Grazie alla medicina, alla psicologia e alla scrittura ho fatto molti progressi. Oggi la mia distanza radicale dall’istituzione ecclesiale non mi esime tuttavia dal chiedere una cosa essenziale per la mia completa guarigione: che la Chiesa non solo accetti di riconoscere le sue responsabilità, ma che lo dichiari chiaramente e pubblicamente, intraprendendo un’opera di ricostruzione e imponendosi una revisione generale. Con la mia testimonianza spero di contribuire a tutto ciò».

settimananews.it

Libro “Cinque domande che agitano la Chiesa”

Dieci anni di pontificato di Papa Francesco hanno proiettato la Chiesa in avanti, in uscita verso le periferie geografiche ed esistenziali, un ospedale da campo pronto ad accogliere le domande di tutti. Ma le risposte agitano la comunità cristiana e i vertici delle istituzioni. Questo volume si misura con cinque interrogativi urgenti che toccano sia chi nella Chiesa vive e alla vita della Chiesa collabora, sia chi ancora preferisce sostare sul margine, magari a causa di un’incomprensione antica e mai sanata: 1. A dispetto delle buone intenzioni, la Chiesa parla solo ad alcuni e non a tutti? 2. In Europa e Nord America la pratica religiosa cala vistosamente, mentre in America Latina e Africa è insidiata dalle nuove Chiese pentecostali. Chi si fa carico di questa emergenza? 3. L’apertura ai laici e alle donne è reale o solo di facciata? 4. L’inizio e la fine della vita, la cura della vecchiaia, le nuove frontiere della medicina, la questione del gender: la Chiesa è in grado di rispondere ai nuovi interrogativi posti dal progresso e dalla scienza? 5. Che fine faranno le riforme intraprese da Papa Francesco? Sono domande che ipotecano il futuro della Chiesa. Il silenzio sarebbe la risposta peggiore.

Ignazio Ingrao, Cinque domande che agitano la Chiesa (Edizioni San Paolo 2023),159 pagine, 16 euro

“Cinque domande che agitano la Chiesa” di Ignazio Ingrao

IGNAZIO INGRAO (1969) è giornalista vaticanista del Tg1 Rai. È stato caposervizio del settimanale Panorama e caporedattore dell’agenzia stampa Sir, autore e conduttore televisivo. Ha firmato diversi Speciali del Tg1 su Madre Teresa di Calcutta, il terzo segreto di Fatima, san Giovanni Paolo II e il pontificato di papa Francesco. Ha pubblicato diversi volumi; tra questi, Il Concilio Segreto (2013), Il segno di Padre Pio (2016) e, per le Edizioni San Paolo, L’OsservatoreTrentacinque anni di storia della Chiesa nelle carte private di Mario Agnes (2021).