Greco-cattolici ucraini cambiano data Natale, sarà il 25.12

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(ANSA) – CITTÀ DEL VATICANO, 06 FEB – La Chiesa greco-cattolica ucraina cambia ufficialmente la data del Natale: da questo 2023 sarà celebrato il 25 dicembre, e non più il 7 gennaio, data che li accomunava agli ortodossi.

Lo ha annunciato oggi l’arcivescovo maggiore di Kiev Sviatoslav Shevchuk, spiegando che il cambio del calendario partirà il primo settembre.

La richiesta di rivedere la data di una delle feste più importanti per i cristiani c’era già da tempo da parte dei fedeli ma “la guerra ha accelerato il processo di decisione”, spiegano dalla Chiesa ucraina. “Una decisione storica” è stata definita dallo stesso Shevchuk.

Mosca. La solitudine del presidente: nella notte di Natale Putin solo al Cremlino

Il presidente russo solo alla Messa di Natale al Cremlino

da avvenire

Anche nella notte di Natale, tra il 6 e il 7 gennaio, lo zar si è fatto ritrarre solo, nell’imperfetta solitudine della Cattedrale dell’Annunciazione tra le mura del Cremlino. Un sacerdote e lui, con altri due celebranti poco distanti. Solo, mentre i fedeli affollavano sempre nel cuore della capitale russa la celebrazione della Notte santa presieduta dal patriarca Kirill nella Cattedrale del Cristo Salvatore.

Il presidente russo solo alla Messa di Natale al Cremlino

Il presidente russo solo alla Messa di Natale al Cremlino – Cremlino via Reuters

Lo scarso successo della tregua in Ucraina proclamata qualche ora prima non ha scalfito l’espressione assorta del presidente. Con l’agenzia di stampa Tass che ha accompagnato le immagini ufficiali con il ricordo della funzione dell’anno scorso anno nella Chiesa dell’Immagine del Salvatore, situata nella sua residenza presidenziale a Novo-Ogaryovo, fuori Mosca. Il media di opposizione bielorusso Nexta ha rilanciato le immagini dell’altra sera, in cui si vede Putin, maglione a collo alto e giaccone, da solo in una sala con il celebrante. E ha sottolineato la solitudine del presidente «uscito dal suo bunker».

6 gennaio. Tutto sui Magi: chi erano, da dove venivano, perché sono citati nel Vangelo?

Semplicemente sapienti o anche re? Solo tre o in numero maggiore? Bianchi o di colore? E soprattutto di quale provenienza? Partendo dai 12 versetti di Matteo, ricostruiamo la loro carta d’identità

I re magi: chi erano davvero?

I re magi: chi erano davvero? – Foto di OpenClipart-Vectors da Pixabay

I magi questi (s)conosciuti. Si potrebbe titolare così l’atteggiamento generale nei confronti dei “misteriosi” personaggi che il 6 gennaio portano i doni a Gesù Bambino, la cui carta di identità “ufficiale” (contenuta nel Vangelo di Matteo) è stata arricchita nel corso dei secoli da una lunga, fantasiosa e multiforme tradizione. Dunque conosciuti, anzi conosciutissimi, perché in ogni presepe che si rispetti non mancano mai, ma al contempo anche sconosciuti, perché nell’immaginario collettivo i confini tra realtà e invenzione sono spesso molto labili. Ad esempio: semplicemente magi o anche re? Solo tre o in numero maggiore? Bianchi o di colore? E soprattutto di quale provenienza? E con quale significato hanno un posto nella Scrittura?

A quest’ultima domanda molte sono le risposte nella catechesi, nella predicazione e nella teologia. Valga per tutte quella che diede papa Francesco nell’omelia dei 6 gennaio 2016: “I Magi – disse il Pontefice rappresentano gli uomini di ogni parte della terra che vengono accolti nella casa di Dio. Davanti a Gesù non esiste più divisione alcuna di razza, di lingua e di cultura: in quel Bambino, tutta l’umanità trova la sua unità”.

Per tutti gli altri quesiti vale la pena di soffermarsi su alcuni particolari. Anche perché nel loro viaggio attraverso il tempo, i magi hanno avuto una fortuna inversamente proporzionale al breve episodio di cui sono protagonisti nel Nuovo Testamento. Di essi infatti si narra unicamente nei primi dodici versetti del secondo capitolo del Vangelo di Matteo. E tutto ciò che ricaviamo sulla loro identità dal racconto dell’evangelista è racchiuso in tre semplici parole: “Giunsero da oriente”. Non si dice invece che i magi erano tre, né che erano re, né tanto meno si fanno i loro nomi. Da dove derivano, dunque, questi particolari? Attingendo al molto che è stato scritto sull’argomento da autorevoli studiosi, vediamo di separare il “grano” della storia dal “loglio” delle leggende.

Innanzitutto è da respingere la tesi formulata ai nostri giorni che i magi di cui parla Matteo non siano mai esistiti e che l’evangelista li abbia inseriti nella sua narrazione solo a scopo didattico: attestare cioè che la divinità di Gesù era stata riconosciuta presso tutte le genti fin dalla nascita.

Fa fede per loro la stessa parola magi, che è una carta di identità ben conosciuta nell’antichità. Quasi cinquecento anni prima che l’apostolo scrivesse il suo Vangelo, ne parla anche lo storico greco Erodoto, che li descrive come una delle sei tribù dei Medi, un antico popolo iranico stanziato in gran parte dell’odierno Iran centrale e occidentale, a sud del mar Caspio. Essi precisamente costituivano la casta sacerdotale ed erano perciò sacerdoti della religione mazdea (credevano nel Dio unico Ahura Mazda), il cui culto fu riformato nel VI secolo a.C. da Zarathustra. Coltivavano anche l’astronomia ed erano dediti all’interpretazione dei sogni, come attestano fonti storiche riguardanti, ad esempio, l’imperatore persiano Serse.

In quanto astronomi è dunque plausibile che si siano messi in viaggio seguendo una “stella”. Tra l’altro, nel loro credo si parla di un Messia o «Soccorritore», nato da una vergine e annunziato da una stella, destinato a salvare il mondo. A tal proposito lo storico Franco Cardini scrive: “Matteo, povero pubblicano, dei magi mazdei non doveva sapere un bel niente o quasi: com’è che con tanta sostanziale esattezza ha mostrato reminiscenze che noi conosciamo soltanto dall’Avesta, giuntoci peraltro attraverso redazioni tardive e non anteriori comunque al III secolo d.C.?”. L’Avesta è, potremmo dire, la Bibbia, ossia il testo della rivelazione, di quella religione.

La fantasia dei popoli e delle culture si è invece esercitata, lungo i duemila anni della storia cristiana, per dare un volto, un nome e un «curriculum» ai magi evangelici. E qui vengono in primo piano i Vangeli apocrifi, cioè non ispirati, che la Chiesa ha sempre tenuto a debita distanza in quanto sovente si tratta di elaborazioni derivanti da eresie (soprattutto quella monofisita, tendente ad attribuire a Gesù la sola natura divina, e quella nestoriana, che professa la totale separazione tra le due nature, umana e divina, del Cristo). I Vangeli apocrifi, però, erano molto diffusi e hanno dato linfa alle tradizioni stratificatesi tra l’VIII e il XII secolo dell’era cristiana. Ad ogni modo, come ricorda Cardini, la maggior parte delle nostre conoscenze tradizionali sui magi deriva da due fonti: la translatio delle loro supposte reliquie da Milano a Colonia, voluta da Federico Barbarossa nel 1164, e il testo del domenicano Giacomo da Varazze, vescovo di Genova alla fine del Duecento e autore della Legenda Aurea, testo composto tra il 1260 e il 1298, anno della morte dell’autore.

Probabilmente alla trasformazione dei magi in re ha contribuito anche l’interpretazione, per così dire estensiva, di alcuni passi dell’Antico Testamento, soprattutto Isaia 60,1-6 e Salmi 72,10. Nel primo passo si dice: “Cammineranno i popoli alla tua luce, i re allo splendore del tuo sorgere” e si fa riferimento anche a doni come oro e incenso. Nel secondo si elencano i re di Tarsis, di Sceba e di Seba, nell’atto di pagare tributi e offrire doni. E si conclude dicendo che “tutti i re gli si prostreranno dinanzi, tutte le nazioni lo serviranno”. Non è un caso unico in relazione alla Natività. Anche il bue e l’asinello, assenti dai Vangeli riconosciuti, sono probabilmente arrivati nel presepe grazie a Isaia 1,3: “Il bue conosce il suo proprietario e l’asino la greppia del suo padrone, ma Israele non conosce, il mio popolo non comprende”.

Il numero tre – altamente simbolico nella Scrittura – può invece essersi affermato in riferimento ai Magi per affermare che tutto il mondo aveva reso omaggio al Salvatore. Tre era infatti anche il numero dei continenti allora conosciuti. La presenza di un magio di colore completerebbe questo simbolismo, facendo riferimento alle popolazioni africane. Oppure potrebbe essere una deduzione dal numero dei doni: oro, incenso e mirra. Anche questo dal profondo significato simbolico: l’oro per la regalità di Cristo, l’incenso per la divinità e la mirra con riferimento alla morte di Gesù.

Più complesso appare l’enigma dei nomi. Baldassarre sembrerebbe avere un’origine babilonese-caldea, Gaspare iranica, mentre Melchiorre una provenienza fenicia. In questo campo, comunque, è inutile addentrarsi più di tanto in ricostruzioni storiche, dal momento che le tradizioni sono diverse da epoca a epoca e da popolo a popolo.

C’è poi un altro elemento che ha molto colpito la fantasia popolare: l’astro che guida i magi. Nel Vangelo di Matteo si parla genericamente di una “stella”. Quand’è che essa diviene una cometa, corpo celeste del tutto differente dalle stelle propriamente dette? Gli studiosi ritengono che la fonte in questo caso vada ricercata non negli Apocrifi (dove di cometa non si parla), ma nell’affresco di Giotto L’adorazione dei magi, dipinto dal grande artista nella Cappella degli Scrovegni a Padova, anche sulla spinta emotiva del passaggio della cometa di Halley, da lui vista nel 1301. Che cos’era dunque la stella dei magi? Gli studi più recenti, attestati anche da Benedetto XVI nel suo libro sull’infanzia di Gesù, portano a ritenere che si sia trattato di fenomeni celesti realmente avvenuti tra il 7 e il 4 a.C. (che sarebbe poi l’epoca dell’effettiva nascita di Gesù), come l’allineamento di alcuni pianeti (Giove e Saturno, soprattutto) nella costellazione dei Pesci, con un conseguente effetto ottico di straordinaria brillantezza.

Ma il destino errante dei magi non si sarebbe interrotto con il ritorno al loro Paese – “per un’altra strada”, come scrive Matteo. Sarebbe proseguito anche dopo la loro morte, avvenuta, secondo una leggenda, a Gerusalemme, dove dopo la risurrezione di Gesù essi sarebbero tornati per testimoniare la fede. Le loro spoglie sarebbero poi state ritrovate da sant’Elena, trasportate a Costantinopoli e in seguito donate a Eustorgio, vescovo di Milano dal 343 al 355 circa, il quale le fece traslare nella sua città. In loro onore edificò quindi una basilica (Sant’Eustorgio, appunto) nel luogo in cui il carro trainato da buoi, che trasportava il pesante sarcofago, si era impantanato nel fango.

Lì le reliquie rimasero fino al 1164, quando Federico Barbarossa se le portò a Colonia, nel cui duomo sono tuttora custodite. Attorno ad esso si svolsero tra l’altro alcuni degli eventi principali della Giornata mondiale della Gioventù del 2005, la prima di Benedetto XVI, proprio ispirata ai magi. Per una volta, si potrebbe dire, non furono essi a muoversi, ma i pellegrini ad andare loro incontro.

Non è superfluo notare, infine, che negli anni Ottanta del secolo scorso le reliquie di Colonia sono state sottoposte a esami scientifici. Ne è risultato che i tessuti sono di tre stoffe distinte, due di damasco e una di taffettà di seta, tutte di provenienza orientale e databili tra il II e il IV secolo. Le leggende, come si suol dire, hanno sempre un fondo di verità.

avvenire.it

Il Natale dei “convertiti”

Auguri di Natale religiosi, frasi di Papa Francesco e non solo -  Studentville

di: Vincenzo Bertolone – settimananews.it

«Ricordati la gloria del Padre, e i divini splendori che tu lasciasti, esiliandoti sulla terra per riacquistare tutti i poveri peccatori. Oh, Gesù! Abbassandoti verso la Vergine Maria tu velasti l’infinita tua gloria e grandezza. Oh, Gesù, ricorda i pastori e i Re Magi, che ti offersero in gioia i loro doni ed il cuore: e la schiera degli innocenti, che ti dettero il sangue».

I versi di Teresa di Lisieux ricordano la sua “conversione” avvenuta la notte di Natale 1886 che segnò una svolta nella sua vita: riterrà quel Natale «il più bel periodo (della sua vita), il più colmo di grazie del Cielo». La trasformazione è tale che, nel giro di quindici mesi, la ex bambina piagnucolona di un tempo potrà prender posto fra le figlie di Teresa d’Avila, la quale esigeva per le Carmelitane persone robuste.

Si può allora comprendere l’importanza attribuita da Teresa alla «conversione» di quel Natale 1886.

È sintomatico che ella associ il Natale di Gesù alla schiera degli innocenti. Una macchia di sangue innocente, oggi come ieri, accompagna le luci e le dolcezze del Natale. Gli appelli di Save The Children si moltiplicano, per ricordare le centinaia di bambini vittime della sciagurata guerra aperta dalla Russia in Ucraina.

Già il rapporto del 2021, “Garantire il futuro dei bambini”, raccoglieva prove da 14 Paesi europei e forniva informazioni sulla povertà infantile e sulle famiglie in difficoltà, rilevando che milioni di bambini non hanno accesso all’educazione e alla cura, oppure ne hanno un accesso limitato e di scarsa qualità.

Intanto stiamo assistendo a una crisi alimentare che, sia per la pandemia, sia per gli effetti della guerra, sta colpendo e devastando giovani vite in tutto il mondo, la più grave del ventunesimo secolo: oltre 13,5 milioni di bambine e bambini con meno di 5 anni sono in pericolo di vita a causa della malnutrizione acuta e grave, mentre ben 59 milioni sono a rischio di essere gravemente malnutriti.

Dalla stessa fonte sappiamo che sono 452 milioni i bambini e le bambine in tutto il mondo – uno su sei – che vivono in aree colpite da conflitti; tra questi, 200 milioni vivono in zone di guerra ad alta intensità di violenze.

Questi dati gettano un’ombra pesante sul futuro e contrastano con l’attesa festosa del natale: il rituale consumistico degli acquisti è preponderante, rispetto al significato religioso della festa, che è quasi irrilevante agli occhi dei più. Ai più basta il pellegrinaggio verso i negozi, le luminarie del centro, i preparativi per la festa, le imminenti vacanze.

A fronte di questo vi è la sfida, tutta cristiana, che invita a riflettere sul senso cristiano del Natale e dare senso alla propria vita personale e sociale. Ogni Natale – l’attualità lo conferma drammaticamente – è sospeso tra due estremi: Betlemme e il Calvario, tra il nascere e il morire di Cristo. Ma il suo nascere diventa per noi un rinascere e il suo morire un risorgere.

Questo è il Natale cui tutti dobbiamo guardare, il Natale dei “convertiti”, come Teresa. È lo stesso Natale che celebrarono, con eguale stupore e sconvolgimento, Paul Claudel, Alessandro Manzoni e Charles de Foucault; un Natale che è vera Pasqua verso la vita nuova, nell’accoglienza finalmente “indifesa” di quel Dio che vuole farsi uno di noi.

Proprio su questo, per di più in un momento delicato della storia del mondo, si è tenuti a riflettere, puntando sul da farsi per sconfiggere il pessimismo della ragione con l’ottimismo della volontà, di gramsciana memoria, per fare ciò che si può ed al meglio; per combattere l’indifferenza che è odio, mancanza di amore, disprezzo dei valori morali; per ricordare ai cristiani, nonostante tutto, di amare, operare, testimoniare ed essere sale, luce e lievito; per accendere una fiaccola nell’oscurità, per riaccendere nuovi cominciamenti e nuove possibilità per noi e per l’avvenire.

Vale anche per la Calabria e per tutto il Meridione: non serve soltanto recitare, a mo’ di litanie, le statistiche che parlano di disoccupazione inquietante, emigrazione in ripresa, giovani in fuga, povertà in aumento. Neppure serve scomodare le cronache per avere contezza di quanto siano arrembanti la ‘ndrangheta e la corruzione.

È vero: si vivono giorni in cui, a volte, pare che il sole non trovi spazio, scacciato com’è tra le nubi di miseria umana e materiale, tra la prepotenza dei pochi e la disperazione dei più. Eppure, è proprio in questo terreno, all’apparenza arido, che la speranza attecchisce coi suoi semi già messi a dimora: accanto all’egoismo, all’indifferenza e alla vacuità di molti, c’è una moltitudine di persone che con umiltà, determinazione e senso del dovere, si dedicano silenziosamente ai miseri della terra, all’affermazione della legalità, alla costruzione di una prospettiva diversa.

Gli esempi non mancano, e dimostrano, come scriveva Anatole France, che «per compiere grandi passi non dobbiamo solo agire, ma anche sognare; non solo pianificare, ma anche credere».

È, questo, anche un auspicio per l’anno che sta per nascere insieme con il Bambino di Betlemme, affinché gli uomini e le donne usino meno le forbici della divisione e prendano invece tra le dita l’ago, infilandolo con i fili del dialogo in una matassina formata dai tanti colori dell’ascolto, dell’accoglienza, della solidarietà, dell’amore.