Vangelo e parola del giorno 23 Settembre 2023 San Pio da Pietralcina, presbitero

LETTURA DEL GIORNO

San Pio da Pietralcina, presbitero

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo a Timòteo
1Tm 6,13-16

Figlio mio, davanti a Dio, che dà vita a tutte le cose, e a Gesù Cristo, che ha dato la sua bella testimonianza davanti a Ponzio Pilato, ti ordino di conservare senza macchia e in modo irreprensibile il comandamento, fino alla manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo,
che al tempo stabilito sarà a noi mostrata da Dio,
il beato e unico Sovrano,
il Re dei re e Signore dei signori,
il solo che possiede l’immortalità
e abita una luce inaccessibile:
nessuno fra gli uomini lo ha mai visto né può vederlo.
A lui onore e potenza per sempre. Amen.

VANGELO DEL GIORNO

Dal Vangelo secondo Luca
Lc 8,4-15

In quel tempo, poiché una grande folla si radunava e accorreva a lui gente da ogni città, Gesù disse con una parabola: «Il seminatore uscì a seminare il suo seme. Mentre seminava, una parte cadde lungo la strada e fu calpestata, e gli uccelli del cielo la mangiarono. Un’altra parte cadde sulla pietra e, appena germogliata, seccò per mancanza di umidità. Un’altra parte cadde in mezzo ai rovi e i rovi, cresciuti insieme con essa, la soffocarono. Un’altra parte cadde sul terreno buono, germogliò e fruttò cento volte tanto». Detto questo, esclamò: «Chi ha orecchi per ascoltare, ascolti!».
I suoi discepoli lo interrogavano sul significato della parabola. Ed egli disse: «A voi è dato conoscere i misteri del regno di Dio, ma agli altri solo con parabole, affinché
vedendo non vedano
e ascoltando non comprendano.
Il significato della parabola è questo: il seme è la parola di Dio. I semi caduti lungo la strada sono coloro che l’hanno ascoltata, ma poi viene il diavolo e porta via la Parola dal loro cuore, perché non avvenga che, credendo, siano salvati. Quelli sulla pietra sono coloro che, quando ascoltano, ricevono la Parola con gioia, ma non hanno radici; credono per un certo tempo, ma nel tempo della prova vengono meno. Quello caduto in mezzo ai rovi sono coloro che, dopo aver ascoltato, strada facendo si lasciano soffocare da preoccupazioni, ricchezze e piaceri della vita e non giungono a maturazione. Quello sul terreno buono sono coloro che, dopo aver ascoltato la Parola con cuore integro e buono, la custodiscono e producono frutto con perseveranza.

PAROLE DEL SANTO PADRE

Questa del seminatore è un po’ la “madre” di tutte le parabole, perché parla dell’ascolto della Parola. Ci ricorda che essa è un seme fecondo ed efficace; e Dio lo sparge dappertutto con generosità, senza badare a sprechi. Così è il cuore di Dio! Ognuno di noi è un terreno su cui cade il seme della Parola, nessuno è escluso. La Parola è data a ognuno di noi. Possiamo chiederci: io, che tipo di terreno sono? Assomiglio alla strada, alla terra sassosa, al roveto? Se vogliamo, con la grazia di Dio possiamo diventare terreno buono, dissodato e coltivato con cura, per far maturare il seme della Parola. Esso è già presente nel nostro cuore, ma il farlo fruttificare dipende da noi, dipende dall’accoglienza che riserviamo a questo seme. Spesso si è distratti da troppi interessi, da troppi richiami, ed è difficile distinguere, fra tante voci e tante parole, quella del Signore, l’unica che rende liberi. Per questo è importante abituarsi ad ascoltare la Parola di Dio, a leggerla. E torno, una volta in più, su quel consiglio: portate sempre con voi un piccolo Vangelo, un’edizione tascabile del Vangelo, in tasca, in borsa… E così, leggete ogni giorno un pezzetto, perché siate abituati a leggere la Parola di Dio, e capire bene qual è il seme che Dio ti offre, e pensare con quale terra io lo ricevo. (Angelus, 12 luglio 2020)

Nella festa dell’Assunta, alcune parole del cardinal Martini possono aiutarci a cogliere il senso profondo di una festa che guarda oltre il tempo

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La festa di Ferragosto, ancora una volta – in questo tempo per tutti così fragile, tra passato e futuro, in mezzo a sentieri sconosciuti –, interpella i cristiani con l’invito a guardare al volto e alla vita di Maria, nella luce della comunione definitiva della sua vita con la Vita del Figlio. Vorrei condividere alcune parti dell’omelia che il card. Martini ha pronunciato in Duomo, a Milano, il 15 agosto 2001, per aiutare quanti sostano sulla Parola a entrare in questa festa del mezzo agosto.

“La prima e la terza lettura che abbiamo appena ascoltato ci aiutano a penetrare nel significato di questa festa e insieme ci richiamano due insegnamenti fondamentali: uno ci ricorda il carattere conflittuale del nostro cammino di fede e l’altro che allarga gli orizzonti della nostra preghiera.

Nel brano dell’Apocalisse di san Giovanni – con un affresco drammatico, avvincente, ricco di simboli misteriosi – viene descritta la lotta cosmica che si svolge nella storia: la donna rappresenta il popolo di Dio che affronta il dramma di una storia segnata dal peccato e dal rifiuto della trascendenza. Il drago, cioè il serpente antico, è segno della violenza, della morte, simbolo di tutte le forze del male. Secondo la tradizione patristica, fin dai tempi di Agostino, in Maria contempliamo anche l’icona e il modello della Chiesa – e di ogni credente – che giunge alla vittoria attraverso quelle che sono chiamate le “doglie del parto”, attraverso cioè l’incessante lotta contro le forze ostili, contro la menzogna e l’inganno, passando anche attraverso la persecuzione e il martirio. Questa pagina biblica ci insegna che l’esistenza cristiana non è un semplice itinerario che va di luce in luce; è invece uno scontro senza sosta tra tenebre e luce, tra mondanità e valori evangelici, tra egoismo e dono di sé, tra vendetta e perdono, tra violenza e mitezza; non c’è prova che venga risparmiata a chi vive il Vangelo. Ma chi si affida a Dio sarà vittorioso. In questo sabato del tempo la Madonna ci sostiene nella difficile avventura della fede; ci aiuta a contrastare le forze che tentano di opporsi alla legge della Croce, che sa trarre il bene dal male, ci consola nell’impegno quotidiano della testimonianza e della carità; ci protegge e ci infonde speranza certa nella vittoria finale.

Un secondo insegnamento ci è offerto dal testo del vangelo. Alle parole ispirate di Elisabetta che proclama Maria beata perché ha creduto, ella risponde con il Magnificat. Maria ama Dio con un amore grande e lo “magnifica”, vorrebbe cioè che fosse riconosciuta e proclamata pienamente la sua grandezza, perché Dio l’ha colmata di grazia, si è chinato su di lei. Ed esulta, cioè salta di gioia, danza, loda Dio come Signore e salvatore. Nel suo canto Maria loda il Signore della storia, che sa confondere i piani dei potenti e rovesciare la scala di valori a cui i cosiddetti potenti si ispirano. Maria ci consegna così un secondo prezioso messaggio di questa festa: quello del primato della lode nella nostra vita.15
Rivolgiamo allora la nostra invocazione all’Assunta che, con la radicale santità della sua vita, è primizia del mondo nuovo, è la nostra terra promessa.

O Maria, Madre della fede, che ti sei lasciata possedere totalmente da Dio, prega per noi affinché possiamo amarlo come tu lo ami, aiutaci a vedere il mondo come lo vedi tu, a contemplare la storia come luogo della bontà, della misericordia, dell’amore del Padre e di Gesù per tutta l’umanità, per i poveri, gli umili, i sofferenti, gli emarginati, per me, per ciascuno di voi. Madre della speranza, che hai pazientato con pace nel Sabato Santo, mentre il tuo Figlio morto giaceva nel sepolcro, insegnaci a guardare con pazienza e perseveranza a ciò che viviamo in questo sabato del tempo in cui molti, anche cristiani, sono tentati di non sperare più nella vita eterna e neppure nel ritorno del Signore. Tu che sei la Madre dell’amore e della lode, donaci di partecipare ogni giorno della nostra vita alla tua lode, al tuo Magnificat, di esultare con te per le piccole e grandi cose che il Signore continua a operare in mezzo a noi, di gioire con te nella certezza che Gesù Risorto è già presente, pur se in modo velato, nel mondo e nella storia. Amen”.
vinonuovo.it

Vangelo del giorno

Dal Vangelo secondo Giovanni
Gv 20,24-29

Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dicevano gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo».
Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: «Pace a voi!». Poi disse a Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!». Gli rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!». Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!».

Possediamo soltanto ciò che doniamo agli altri. Commento Vangelo XIII Domenica Tempo ordinario – Anno A

In quel tempo, Gesù̀ disse ai suoi apostoli: «Chi ama padre o madre più̀ di me non è degno di me; chi ama figlio o figlia più̀ di me non è degno di me; chi non prende la propria croce e non mi segue, non è degno di me. Chi avrà̀ tenuto per sè́ la propria vita, la perderà̀, e chi avrà̀ perduto la propria vita per causa mia, la troverà (…)». Chi ama la propria famiglia più di me, non è degno di me. Ma allora chi è degno di te, Signore, della tua altissima pretesa? Padre madre fratello figlia… sono le persone a me più care, indispensabili per vivere davvero. Sono loro che ogni giorno mi spingono ad essere vero, autentico, a diventare il meglio di ciò che posso diventare. Ma la sua non è una competizione di emozioni, da cui sa che non uscirebbe vincitore se non presso pochi eroi, o santi o profeti dal cuore in fiamme. Eppure lo sappiamo che nessuno coincide con il cerchio della sua famiglia. Anche già per unirsi a colei che ama, l’uomo lascerà il padre e la madre!
Il Vangelo, croce e pasqua, un’eternità di luce, non si spiegano interessandosi solo della famiglia, e neppure una storia di giustizia, un
mondo in pace. Bisogna rompere il piccolo perimetro e far entrare volti e nomi nel cerchio del proprio sangue, generare diversamente vita e futuro; staccarsi, perdere, spezzare l’eterna ripetizione di ciò che è già stato. Chi avrà perduto, troverà. Perdere la vita, non significa farsi uccidere: una vita si perde solo come si perde un tesoro, donandola. Noi possediamo, veramente, solo ciò che abbiamo donato ad altri. Come la donna di Sunem della prima lettura, che d’impulso dona al profeta Eliseo piccole porzioni di vita, piccole cose: un letto, un tavolo, una sedia, una lampada, e riceverà in cambio una vita intera, un figlio, insieme al coraggio del futuro. Risento l’eco delle parole di Gesù: Chi avrà perduto la sua vita per causa mia la troverà. Gesù parla di una causa per cui vivere, che vale più della stessa vita. E Lui, che l’ha perduta per la causa dell’uomo, l’ha ritrovata. Infatti il vero dramma dei viventi è non avere niente e nessuno per cui valga la pena mettere in gioco e spendere la propria vita. E a noi, spaventati dall’impegno di dare vita e di seguire una causa che valga più di noi stessi, Gesù aggiunge una frase dolcissima: chi avrà dato anche solo un bicchiere d’acqua fresca non perderà il premio. Croce e acqua, il dare tutto e il dare quasi niente. I due estremi di uno stesso movimento, un gesto vivo, significato da quell’aggettivo così evangelico: fresca! L’acqua, fresca dev’essere! Vale a dire procurata e conservata con cura, l’acqua migliore che hai, acqua affettuosa, bella, con dentro l’eco del cuore. La vita nell’acqua: stupenda pedagogia di Cristo, secondo cui non c’è nulla di troppo piccolo per chi vuol bene. Dove amare non equivale ad emozionarsi o a tremare per una creatura, ma si traduce con l’altro verbo sempre di corsa, semplice e concreto, fattivo, urgente di mani limpide e allegre come acqua fresca: il verbo dare. (Letture: 2 Re 4,8-11.14-16a; Salmo 88; Romani 6,3-4.8-11; Matteo 10,37-42)

 

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“Padre nostro”, breviario del vangelo

>>> Piero Stefani, Padre Nostro. Il breviario del Vangelo, Ed. Terra Santa, Milano 2023, pp. 112, € 13,30 con 5 % sconto.

di: Roberto Mela

Pietro Stefani è un noto docente della Facoltà dell’Italia settentrionale, redattore della rivista Il Regno, dove cura la rubrica mensile «Le parole delle religioni», e autore di numerose pubblicazioni. In questo testo commenta la preghiera del Padre Nostro (= PN), definita da Tertulliano come breviarium totius evangelii.

Si tratta di un’edizione totalmente nuova dell’opera comparsa in prima edizione nel 1991. Nella Premessa al volume (pp. 7-10), Stefani ricorda che sono state operate migliorie stilistiche e che ci si è confrontati con la nuova traduzione della CEI 2008 (vedi la traduzione «non abbandonarci alla tentazione»). Tutte le citazioni provengono da questa traduzione, tranne alcune indicate nel luogo. Anche la bibliografia (pp. 109-112) è stata aggiornata.

Alla Premessa segue una Nota storico-liturgica (pp. 11-40) che illustra la definizione di Tertulliano citata sopra. In questa nostra presentazione ci soffermiamo soprattutto su questa Nota.

Tradizioni diverse: Matteo e Luca
Il lavoro esegetico-teologico attuato per il PN si applica a tutti i testi del NT: due testi diversi, due diverse ambientazioni; l’influsso delle comunità sulla redazione del testo; la ricerca di una possibile composizione originaria ad opera di Gesù; il confronto con i testi della tradizione cristiana e della tradizione giudaica che hanno contenuti similari; il confronto come le antiche fonti extracanoniche.

La redazione lucana è più breve, non riporta le sette richieste presenti in Mt, e tralascia le due richieste presenti in Matteo: «Sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra» e «liberaci dal male».

Rilevanti sono pure le differenze contenute nelle parti comuni, presenti sia nella richiesta del pane (Matteo: «Dacci oggi il nostro pane quotidiano»; Luca: «Dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano») che in quella del perdono (Matteo: «E rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori»; Luca: «E perdona a noi i nostri peccati, anche noi infatti perdoniamo ad ogni nostro debitore»).

Un’altra grande differenza è data alla formulazione ampia di Matteo e dal suo andamento liturgico, mentre Luca inizia in modo concentrato affidandosi a una sola parola: «Padre».

Diversa è pure l’ambientazione. In Matteo siamo al centro del Discorso della Montagna, mentre Luca ambienta il PN nel cammino verso Gerusalemme e lo collega ad altri momenti in cui Gesù è mostrato in atteggiamento di preghiera. Gesù insegna il PN su richiesta dei discepoli che lo vedono pregare.

La tradizione preferì il testo di Matteo perché più completo, ma apprezzò l’ambientazione lucana posta in un contesto di preghiera.

La tradizione la presenta come la preghiera che Gesù stesso aveva insegnato ai suoi discepoli, in continuità con la sua. Oggi si tende a dare la maggior originalità al testo più breve.

Alcuni termini lucani sono meno semitici e più greci («peccati» e non «debiti»), dato la comunità destinataria del Vangelo. Matteo propone, da parte sua, un andamento liturgico apprezzato da un gruppo che intende distinguersi da altri e propone una variante conclusiva di acclamazione recepita nella tradizione protestante.

Nel Discorso della Montagna, la preghiera del PN è situata nel contesto dell’insegnamento sul digiuno e sull’elemosina, ed è caratterizzata dalla brevità; nella pratica, essa è spesso recitata comunitariamente e per questo può essere esposta al pericolo del «farsi vedere» condannato da Gesù nel suo insegnamento sul digiuno, la preghiera e l’elemosina..

Nella Didaché, il PN assume una funzione demarcante rispetto agli «altri» ed è posta fra le istruzioni battesimali. Il PN è caratteristico delle comunità cristiane e inserito già nel III secolo nella liturgia battesimale.

La catechesi ai misteri di Cirillo e Giovanni di Gerusalemme (IV secolo) fornisce il primo esempio, liturgicamente ormai definito, di una connessione tra il Padre nostro e la celebrazione eucaristica.

Il PN è visto come «iniziazione ai misteri». Il nascondimento previsto in Matteo si è trasformato in riservatezza propria di un gruppo che celebra un rito riservato agli iniziati e assume un carattere sacrale. Si sottolinea l’«osare» pregare il PN.

Col Concilio Vaticano II il PN nell’eucaristia è proclamato da tutta l’assemblea. Via via il PN ha assunto una natura liturgico-sacrale. L’orientamento liturgico è, d’altronde, già presente nell’incipit del PN in Matteo («che sei nei cieli»). Il «nostro» viene introdotto per distinguersi da altri gruppi. La versione lucana è meno predisposta a essere assunta in un contesto comunitario, ma conserva una componente «sociologica» («Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli», Lc 11,1).

Il Padre nostro e le preghiere giudaiche
I tratti di orientamento liturgico presenti nel PN inducono a comparazioni con altre preghiere giudaiche. Il primo materiale liturgico giudaico risale al III secolo e quindi non ci sono dipendenze dirette presenti nel PN. Per Stefani resta indispensabile confrontare il Padre nostro con due tra le massime preghiere giudaiche: il Qaddish e le Diciotto benedizioni.

Il Qaddish è molto affine al PN. Nelle Diciotto benedizioni compaiono i temi legati alla paternità del Signore, alla sua unicità e al suo nome, al perdono e all’elargizione dei beni necessari alla vita e, infine, all’avvento della redenzione. Nella quinta benedizione compare l’espressione «Padre nostro» (che inficia le osservazioni di Origene).

Interessante nel giudaismo è, inoltre, la «preghiera breve». Dal punto di vista giudaico, il PN si presenterebbe come una “preghiera breve”. Il PN è imparentato con quelle che i rabbi definiscono «suppliche». «Il Padre nostro rientra nell’ambito delle preghiere spontanee, libere, personali, eppure rappresenta, nel contempo, una formulazione riassuntiva, o ricapitolatrice, della preghiera comune d’Israele. È perciò significativo che la “preghiera di Gesù” possieda tratti che l’apparentano a un ampio spettro di preghiere ebraiche, da quelle collettive e solenni alle suppliche individuali» (p. 29).

Peculiarità del PN è menzionare la lode come una richiesta («passivo divino»). «In definitiva, la componente di supplica resta una chiave di comprensione fondamentale della “preghiera del Signore”» (p. 30). Il passivo divino caratterizza il PN, la richiesta della venuta del Regno e la possibilità di vivere le richieste del Discorso della montagna. L’annuncio di Gesù chiarisce il PN e viceversa.

Originariamente il PN era la preghiera tipica del discepolo che aveva abbandonato tutto per seguire Gesù. La «preghiera del Signore» si presenta come «l’espressione orante del radicalismo migratorio dei discepoli al seguito del Messia Gesù, in cui essi sperimentano ogni giorno Dio quale Padre» (F. Mussner, cit. a p. 32).

Il PN ha rapporti con il Discorso della Montagna e con il discorso dell’invio in missione di Mt 10 e par. «La “preghiera del Signore” conserva in sé un segno profondo tanto della condizione orante del gruppo dei discepoli, quanto di quella propria dello stesso Gesù» (p. 33), come si evince dalla preghiera di Gesù al Getsemani («Abba!»), che riporta la richiesta dell’esecuzione della volontà del Padre e l’esortazione fatta ai discepoli di vegliare per non entrare nella tentazione.

Commentari e influssi del Padre nostro
«Il Padre nostro è definibile “breviario” del Vangelo ma – scrive Stefan –, osservato in un’altra prospettiva, può anche definirsi cellula generativa dei vari volti assunti dalla spiritualità cristiana. In effetti, sarebbe possibile tracciare l’intera storia spirituale del cristianesimo in base ai commenti dedicati alla “preghiera domenicale”» (p. 34). Essi sono come uno specchio in cui si rifrangono tutti i vari orientamenti della spiritualità cristiana.

Tra i Padri greci, lo studioso ricorda i commenti di Clemente Alessandrino, Origene, Cirillo (o Giovanni) da Gerusalemme, Gregorio di Nissa, Giovanni Crisostomo, Teodoro di Mopsuestia, Cirillo d’Alessandria e Massimo il Confessore; tra i latini Tertulliano, Cipriano, Ambrogio, Girolamo, Agostino, Giovanni Cassiano, Pietro Crisologo.

Nel Medioevo latino, si segnalano i commenti di Rabano Mauro, Ruperto di Deutz, Pietro Abelardo, Ugo e Riccardo di San Vittore, Francesco d’Assisi, Bonaventura da Bagnoregio, Tommaso d’Aquino, Meister Eckhart.

All’epoca umanistica risalgono i commenti di Nicola Cusano, Giovanni Pico della Mirandola, Gabriele Biel, Girolamo Savonarola.

Lutero ha commentato numerose volte il Padre nostro e Calvino lo ha chiosato nel terzo volume delle Istituzioni della religione cristiana.

Un ampio commento di carattere spirituale alla “preghiera del Signore” è contenuto nel Cammino di Perfezione di Teresa d’Avila.

A partire da Lutero, il PN è entrato nei catechismo e così è avvenuto anche per il Catechismo della Chiesa cattolica. Stefani cita i commentari moderni al PN nella Bibliografia (pp. 109-112).

Il PN ha avuto un enorme influsso sulla vita cristiana, diventando l’espressione più alta dell’indissociabile unione tra lex credendi, lex orandi e lex vivendi.

Fu però il giudaismo a rendere la preghiera, anche liturgica, un’attività fondata su sé stessa, indipendente da ogni altro rito o culto, o da determinati luoghi o da particolari persone (tipo sacerdoti).

Il PN si inserisce nella tradizione ebraica della preghiera nella quale Gesù è cresciuto. Il PN rappresenta una preghiera che rappresenta la perenne unità dei due Testamenti. Esso costituisce un ponte verso l’ebraismo, ma è soprattutto una via attraverso cui le categorie ebraiche continuano a vivere all’interno della Chiesa.

Il PN ha una limitata ambientazione narrativa e per questo ha avuto scarso influsso sia nelle arti narrative che figurative, a differenza dell’Annunciazione a Maria. Anche nella musica il PN non ha avuto grande rilievo, essendo recitato dal solo celebrante nell’antica scelta liturgica.

Stefani conclude la sua nota storico-liturgica affermando che «la relativa difficoltà di trascrivere su altri registri la “preghiera di Gesù” pone in rilievo l’indissolubile unione di familiare prossimità e di austera elevatezza propria di una preghiera rivolta dalla terra a un Padre che è nei cieli».

L’autore riserva alle pp. 43-96 il suo commento al PN, che egli definisce «commento teologico». Lo suddivide in vari capitoli, così titolati: «Ritorno all’origine» (pp. 43-50), «Padre, che sei nei cieli» (pp. 51-62); «Sia santificato il tuo nome» (pp. 63-68); «Venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà» (pp. 69-74); «Dacci il nostro pane quotidiano» (pp. 75-78); «Rimetti a noi i nostri debiti» (pp. 79-82); «Non abbandonarci alla tentazione» (pp. 83-92); «Liberaci dal male» (pp. 93-96).

Al commento segue un’Appendice (pp. 97-98), la parafrasi dantesca del PN (pp. 99-106), il testo greco di Mt 6,9-13 e Lc 11,2-4 e quello latino della Vulgata.

Conclude la bibliografia (pp. 109-112), che cita, fra l’altro, i commentari moderni.

«Non portarci dentro la tentazione»
Ci soffermiamo su una richiesta presente nel PN particolarmente difficile da interpretare correttamente.

Stefani ricorda che le due richieste del non essere abbandonati alla tentazione (così la nuova traduzione CEI 2008) e di essere liberati dal male sono strettamente connesse. «Per chi si confronta con le sventure di cui è colmo il nostro mondo – commenta l’autore –, è pensabile che il senso delle due richieste poste una accanto all’altra sia: non indurci nella tentazione di credere che tu, Padre, non sia capace di liberarci dal male; il tuo non intervenire non istilli dubbi nel nostro cuore» (p. 84). La penultima domanda apre la porta alla fiducia nel rivolgere al Padre l’ultima, quella della liberazione dal male che continua a dilagare attorno al credente e dentro di lui.

La prova a cui si è sottoposti è, innanzitutto, quella del compimento stesso della volontà di Dio. Come mostra Gesù nel Getsemani, l’accettazione della volontà del Padre è connessa alla richiesta che il peso non sia troppo grave da portare. L’accettazione della volontà del Padre è collegata al vegliare per non entrare nella tentazione.

La petizione del non essere abbandonati è l’unica espressa al negativo, ma poi è bilanciata dalla richiesta positiva di essere liberati dal male. «La richiesta conclusiva rivolta al Padre fa dunque comprendere il senso autentico della domanda di non essere introdotti nella prova – commenta Stefani –: prima si chiede di non essere fatti entrare nella tentazione, poi si domanda di essere tenuti lontani dal male. In entrambi i casi la metafora è spaziale» (p. 87).

Fin dall’antichità ha fatto difficoltà il pensiero che Dio possa indurre qualcuno alla tentazione. «Indurre» è per Stefani una traduzione infelice e fuorviante. «La traduzione interpretativa “non abbandonarci” può rivendicare a se stessa una maggiore corrispondenza alla visione contemporanea di un Dio sempre misericordioso, ma non è la “vera”» (p. 88).

Lo studioso cita a p. 88 nota 85 il pensiero del biblista Crimella, critico nei confronti della traduzione CEI 2008. «Il senso della petizione – commenta Stefani –, salvaguardandone nel contempo l’ineliminabile carattere paradossale, potrebbe essere reso meglio con un “non farci entrare”, espressione che non ha in sé stessa alcun senso di istigazione» (ivi). «… in questa supplica del Padre nostro – annota – conviene conservare la forza scandalosa che già sconcertava i Padri. Allora si cercò di attenuarne l’impatto, ricorrendo, per lo più, a un’impostazione ben sintetizzata dalle parole di Ilario di Poitiers: “Non ci abbandonare a una tentazione che non possiamo sopportare”. La difficoltà deriva dall’aver dimenticato che solo individuando il diretto coinvolgimento di Dio nella tentazione se ne può cogliere davvero la paternità» (pp. 88-89). «Gesù nell’orto visse in modo diretto il legame tra tentazione e paternità di Dio. Prima di lui, sia pure in maniera diversa, il nesso era stato sperimentato da Israele nel deserto» (p. 89).

Secondo Stefani, occorre capire bene il senso di «tentare». Nel deserto sia Israele che Dio sono a turno «tentati» e «tentatori». Proprio nella sua qualità di figlio, Israele diventa una prova e una tentazione per colui che lo ha generato. Le mormorazioni sono una vera prova per il Signore. Generando il suo popolo, egli lo espone alle tentazioni della vita. Anche Gesù le ha provate. Soprattutto la prova nell’orto del Getsemani e quella dell’abbandono sulla croce sono una prova e una tentazione a cui il Padre può rispondere solo con la potenza della risurrezione.

Schweitzer e altri hanno interpretato la prova in senso «escatologico». La «croce» e la «consumazione della storia» sono prove collegate e dure. Bisogna pregare perché siano accorciate, il calice passi, che il Padre non ci faccia entrare nella tentazione. La prima domanda è quella di essere risparmiati. «Nell’“assenza”, la “presenza” è costretta ad assumere l’aspetto della domanda – conclude Stefani il suo commento a questa domanda –. Fu così anche per Gesù in croce: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mt 27,46; Mc 15,34; Sal 22,2). Solo pregando il Padre perché non ci abbandoni o interrogandolo sul perché della sua assenza si coglie il significato della richiesta di non essere fatti entrare nella tentazione» (p. 91).

Il volume riporta un ricco commento teologico al Padre Nostro, frutto di una lunga frequentazione biblica e della tradizione ebraica. Scritto in linguaggio non tecnico, praticamente senza note a piè di pagina, l’opera è un’utile sussidio per la preghiera più «praticata» dai discepoli di Gesù, ma che non finisce mai di stupire per la sua profondità di significati.

settimananews.it

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Il Vangelo. Pentecoste, la sinfonia di linguaggi dello Spirito

Pentecoste, la sinfonia di linguaggi dello Spirito

Domenica di Pentecoste Anno A

La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati».Lo Spirito Santo è Dio in libertà. Rifiuto della monotonia. Scelta della sinfonia. Ultima parola, che si offre sempre come nuova, come altra: alla nave come costa, alla terra come nave; al navigante come nostalgia di casa, all’uomo di casa come nostalgia del mare. Dio in libertà. Che fa cose che non t’aspetti. Che dà a Maria un figlio “fuorilegge’”, a Elisabetta un figlio profeta. E a noi dona tutto ciò di cui abbiamo bisogno per dare, a nostra volta, vita, o meglio ancora: per dare alla vita. La Parola di Dio oggi prova una sinfonia di linguaggi per tentare di dire qualcosa della vastità dello Spirito: non sono che semplici fessure, feritoie aperte sul mistero.1. La prima lettura (Atti 2,1-11) racconta di Apostoli come “ubriachi”, inebriati da qualcosa che li ha storditi di gioia, come un capogiro, una divina seduzione, violenta e felice. E la prima Chiesa, arroccata sulla difensiva, viene lanciata fuori e in avanti. La nostra Chiesa tentata, oggi come allora, di arroccarsi e chiudersi, perché in crisi di numeri, perché aumentano coloro che si dichiarano indifferenti o infastiditi, questa Chiesa, amata e infedele, può ancora attingere a quello slancio originario.2. Il salmo tra le letture (Sal 104,30) apre la seconda fessura: “Mandi il tuo spirito, sono creati, e rinnovi la faccia della terra”. Una delle affermazioni più belle e rivoluzionarie della nostra fede è offerta dalla Prece eucaristica III, quando il presidente proclama: “Tu, che per mezzo di Cristo e per opera dello Spirito fai vivere e santifichi l’universo”. Non solo l’uomo, ma tutto ciò che esiste; non solo doni vita, ma semini santità nell’universo, santità della luce, l’umile santità del bosco, del bambino che nasce, del cuore che ama, dell’anziano che pensa. Una divina liturgia santifica l’universo.3. La terza finestra sulla Pentecoste la apre Paolo nella seconda lettura (1Cor 12,5). Lo Spirito dà a ciascuno una manifestazione particolare per il bene comune. Sposa vite diverse, consacra vocazioni differenti, benedice la genialità e l’unicità di ogni vita. Lo Spirito non vuole banali ripetitori, ma discepoli geniali, edificatori di una Chiesa che trova unità attorno alla croce, varietà e creatività attorno allo Spirito.4. Infine il Vangelo racconta la Pentecoste come un incontro leggero nella sera di Pasqua: “soffiò su di loro e disse: ricevete lo Spirito santo” (Gv 20,22). In quella stanza chiusa e dall’aria stagnante, entra il grande, ampio e profondo ossigeno del cielo. Entra il respiro di Dio che non sopporta schemi e chiusure, che viene per farci vivi, sottile e profondo come il respiro, umile e testardo come il battito del cuore. (Letture: Atti

2,1-11; Salmo 104; Prima Lettera ai Corinzi 12,3b-7.12-13; Giovanni 20,19-23)© riproduzione riservata

di Ermes Ronchi, avvenire.it

Dio regala vita infinita a chi produce amore. Commento al Vangelo. Domenica di Pasqua Anno A

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Dopo il sabato, all’alba del primo giorno della settimana, Maria di Màgdala e l’altra Maria andarono a visitare la tomba. (…) L’angelo disse alle donne: «Voi non abbiate paura! So che cercate Gesù, il crocifisso. Non è qui. È risorto, infatti, come aveva detto (…)».All’alba, alle prime luci, quasi clandestinamente, due donne si recano alla tomba nel giardino. Vuote le mani, vengono solo per
visitare la tomba: guardare, osservare, sostare, ricordare. Sono le stesse donne che venerdì hanno abitato, senza arretrare di un centimetro, il perimetro attorno alla croce. Un angelo scese dal cielo, si avvicinò,
rotolò la pietra e si pose a sedere su di essa. Non apre il sepolcro perché Gesù esca, è già uscito, ma per mostrarlo alle donne: il sepolcro è vuoto, il Nazareno è già altrove. Come, non è detto. Il mistero di Dio resta intatto. Donne, angelo, guardie, il brivido della terra, cielo, pietra, alba: tutti sono convocati perché Gesù Cristo cattura dentro il suo risorgere tutto l’universo; è energia che si dirama per tutte le vene del mondo, una forza che ha imbevuto di sé tutta la trama del creato. «E non riposerà più, fino a che non avrà raggiunto l’ultimo ramo della creazione e rovesciata la pietra dell’ultima tomba» (M.Luzi). Le donne hanno il cuore grande abbastanza per parlare con gli angeli:
“So che cercate Gesù, non è qui!”. Voi cercatrici, mendicanti dell’amato, continuate, ma con occhi nuovi.
Che bello questo: non è qui!
Cristo c’è, esiste, vive, ma non qui. Non è rinchiuso in nessun luogo. Va cercato altrove, diversamente, via dal territorio delle tombe, è in giro per le strade, un Dio da cogliere nella vita. Dappertutto, ma non qui, fra le cose morte.
Bisogna cercare più a fondo: non c’è luogo che lo contenga, non chiesa, non parole o liturgie. Lui è oltre, sempre oltre è il suo infinito cammino.Non è qui, vi precede, è davanti ad aprire la nostra immensa migrazione verso la vita. È davanti, a ricevere in faccia il vento, il sole, il futuro, la violenza. Andate, vi precede. Un Dio migratore, abbiamo, che ama gli spazi aperti, che apre cammini, attraversa pietre e spalanca tombe. Pasqua vuol dire ‘passare’. Non è festa per stanziali, ma per migratori, per chi inventa sentieri che facciano scollinare verso più giustizia, più pace, più armonia con il creato, verso terra nuova e cieli nuovi.Vi precede in Galilea. Là lo vedrete. Ucciso a Gerusalemme, risorto a Gerusalemme, ma l’incontro avverrà ai margini, lontano dal centro dei poteri omicidi, in Galilea dove tutto ha avuto inizio con tre anni di strade, lago, pani e pesci, olivi, le lezioni sulla felicità, intese amicali. Devono
rileggere tutta la vita di Gesù per capire la sua risurrezione. Devono ripercorrere la sua vita dall’inizio, allora capiranno che Dio l’ha
risuscitato perché una vita così non può finire. Che gesti e parole così meritano di non morire, hanno dentro la vita indistruttibile che Dio regala a chi produce amore.

Letture: Atti degli apostoli 10,34a.37-43; Salmo 117; Colossesi 3, 1-4; Matteo 28, 1-8 (Vangelo della Veglia pasquale nella notte santa)

La resurrezione di Lazzaro. Il commento di monsignor Giacomo Morandi


Nella quinta domenica di Quaresima il Vangelo ci presenta l’episodio della resurrezione di Lazzaro. La rabbia e la delusione delle sorelle di Lazzaro davanti al fratello morto diventano una professione di fede nel dialogo con Gesù. Davanti alla morte di Lazzaro il Signore anticipa la prospettiva della vita eterna e la domanda che rivolge a Marta rimbalza fino a noi: “Credi tu questo?”.

Vangelo 25 Marzo 2023 Annunciazione del Signore

Dal Vangelo secondo Luca
Lc 1,26-38

In quel tempo, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nàzaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse: «Rallégrati, piena di grazia: il Signore è con te».
A queste parole ella fu molto turbata e si domandava che senso avesse un saluto come questo. L’angelo le disse: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine».
Allora Maria disse all’angelo: «Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?». Le rispose l’angelo: «Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio. Ed ecco, Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito anch’essa un figlio e questo è il sesto mese per lei, che era detta sterile: nulla è impossibile a Dio».
Allora Maria disse: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola». E l’angelo si allontanò da lei.

Parola del Signore.

L’Arcivescovo Giacomo Morandi commenta le letture e il Vangelo della quarta domenica di Quaresima (19 marzo 2023)

L’incontro tra Gesù e il cieco nato mette in luce due diversi atteggiamenti nei confronti della fede. Il non vedente si mostra docile e accoglie le indicazioni del Signore. I farisei ostentano presunzione e si chiudono all’amore di Dio. L’itinerario del cieco nato è un cammino battesimale: non solo vede con gli occhi, ma riconosce il Signore come Messia. L’Arcivescovo Giacomo Morandi commenta le letture e il Vangelo della quarta domenica di Quaresima (19 marzo 2023).
E tu, sei pronto ad accogliere il Signore?

Suore e preti a scuola di social: all’università pontificia arriva il “Corso per influencer”

Suore e preti a scuola di social: all'università pontificia arriva il "Corso per influencer"

Il verbo di Dio senza i giusti “Tag”, non arriva ai più giovani – questo è certo – come, forse, senza conoscere i social il Latino da solo, non basta per far capire il Vangelo a chi passa il suo tempo su Tik Tok, Youtube o Facebook ed allora ecco un “corso” specifico diretto al personale ecclesiastico, per imparare come funziona il mondo del web e le sue diramazioni, mettendo in cattedra uno dei massimi esperti in comunicazione e “social media reputation”, Giò Talente: è la Lectio Magistralis che si farà all’Università Pontificia Urbaniana.
Rai News

III Domenica di Quaresima Anno A Commento al Vangelo

Domenica 12 marzo - Terza di Quaresima | Commento al Vangelo

In quel tempo, Gesù giunse a una città della Samarìa chiamata Sicar (…) qui c’era un pozzo di Giacobbe (…). Giunge una donna samaritana ad attingere acqua. Le dice Gesù: «Dammi da bere». (…)

Allora la donna samaritana gli dice: «Come mai tu, che sei giudeo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana?». I giudei infatti non hanno rapporti con i samaritani (…).

Dammi da bere. Dio ha sete, ma non di acqua, bensì della nostra sete di lui, ha desiderio che abbiamo desiderio di lui. Lo Sposo ha sete di essere amato.

La donna non comprende, e obietta: giudei e samaritani sono nemici, perché dovrei darti acqua? E Gesù replica, una risposta piena di immaginazione e di forza: se tu conoscessi il dono di Dio.

Parola chiave della storia sacra: Dio non chiede, dona; non pretende, offre. Il maestro del cuore mostra che c’è un metodo, uno soltanto per raggiungere il santuario profondo di una persona. Non è il rimprovero o la critica, non il verdetto o il codice, ma far gustare qualcosa di più, un di più di bellezza, di vita, di gioia, un’acqua migliore. E aggiunge: ti darò un’acqua che diventa in te sorgente che zampilla vita.

Gesù il poeta di Nazaret usa qui il linguaggio bello delle metafore che sanno parlare all’esperienza di tutti: acqua, viva, sorgente. Lo sai, donna della brocca, la sorgente è più dell’acqua per la tua sete, è senza misura, senza calcolo, senza sforzo, senza fine, fiorisce nella gratuità e nell’eccedenza, dilaga oltre te e non fa distinzioni, scorre verso ogni bocca assetata.

Cos’è quella sorgente, chi è, se non Dio stesso? Lo immaginava così Carlo Molari: «Dio è una sorgente di vita a lui puoi sempre attingere, disponibile ad ogni momento, che non viene mai meno, che non inganna, che come il respiro non puoi trattenere per te solo. Ma non chiuderti, o la sua acqua passerà oltre te…».

Se tu conoscessi il dono di Dio… Dio non può dare nulla di meno di se stesso (M.

Eckart), il dono di Dio è Dio stesso che si dona. Ti darò un’acqua che diventa sorgente, vuol dire metterò Dio dentro di te, fresco e vivo, limpidezza e fecondità delle vite, farò nascere in te il canto di una sorgente eterna.

Il dono è il fulcro della storia tra i due, al muretto del pozzo: non una brocca più grande, non un pozzo più profondo, ma molto di più: lei, che con tanti amori era rimasta nel deserto dell’amore, ricondotta alla sua sorgente, al pozzo vivo. Vai a chiamare tuo marito, l’uomo che ami. Gesù va diritto al centro, ma non punta il dito sui cinque matrimoni spezzati, non pretende che ora si regolarizzi, prima del dono.

Il Maestro con suprema delicatezza non rovista nel passato, fra i cocci di una vita, ma cerca il bene, il frammento d’oro, e lo mette in luce per due volte: hai detto bene, hai detto il vero. La samaritana è donna verace. Quel Dio in cui sono tutte le nostre sorgenti non cerca eroi ma uomini veri.

Mi chiedi dove adorare Dio, su quale monte? Ma sei tu il monte! Tu il tempio. Là dove sei vero, ogni volta che lo sei, il Padre è con te, sorgente che non si spegne mai.

( Letture: Esodo 17, 3-7; Salmo 94; Romani 5, 1-2.5-8; Giovanni 4,5-42).

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Commento al Vangelo: siamo tutti mendicanti di luce. Come Pietro. II Domenica di Quaresima Anno A

In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte. E fu trasfigurato davanti a loro: il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce. Ed ecco apparvero loro Mosè ed Elia, che conversavano con lui (…) La Quaresima, quel tempo che diresti sotto il segno della penitenza, ci spiazza subito con un Vangelo pieno di sole e di luce. Dai 40 giorni del deserto di sabbia, al monte della trasfigurazione; dall’arsura gialla, ai volti vestiti di sole. La Quaresima ha il passo delle stagioni, inizia in inverno e termina in primavera, quando la vita intera mostra la sua verità profonda, che un poeta esprime così: «Tu sei per me ciò ch’è la primavera per i fiori» (G. Centore). «Verità è la fioritura dell’essere» (R. Guardini). «Il Regno dei cieli verrà con il fiorire della vita in tutte le sue forme» (G. Vannucci). Il percorso della realtà è come quello dello spirito: un crescere della vita.Gesù prende con sé i tre discepoli più attenti, chiama di nuovo i primi chiamati, e li conduce sopra un alto monte, in disparte. Geografia santa: li conduce in alto, là dove la terra s’innalza nella luce, dove l’azzurro trascolora dolcemente nella neve, dove nascono le acque che fecondano la terra. «E si trasfigurò davanti ai loro occhi». Nessun dettaglio è riferito se non quello delle vesti di Gesù diventate splendenti. La luce è così eccessiva che non si limita al corpo, ma dilaga verso l’esterno, cattura la materia degli abiti e la trasfigura. Le vesti e il volto di Gesù sono la scrittura, anzi la calligrafia del cuore. L’entusiasmo di Pietro, quella esclamazione stupita: che bello qui! Ci fanno capire che la fede per essere pane, per essere vigorosa, deve discendere da uno stupore, da un innamoramento, da un «che bello»
gridato a pieno cuore. Il compito più urgente dei cristiani è ridipingere l’icona di Dio: sentire e raccontare un Dio luminoso, solare, ricco non di troni e di poteri, ma il cui tabernacolo più vero è la luminosità di un volto; un Dio finalmente bello, come sul Tabor.Ma a noi non interessa un Dio che illumini solo se stesso e non illumini l’uomo, «non ci interessa un divino che non faccia fiorire l’umano. Un Dio cui non corrisponda la fioritura dell’umano, il rigoglio della vita, non merita che a Lui ci dedichiamo» (D. Bonhoeffer). Come Pietro, siamo tutti mendicanti di luce. Vogliamo vedere il mondo in altra luce, venire davvero alla luce, perché noi nasciamo a metà, e tutta la vita ci serve per nascere del tutto.Viene una nube, e dalla nube una Voce, che indica il primo passo: ascoltate lui! Il Dio che non ha volto, ha invece una voce. Gesù è la Voce diventata Volto e corpo. Il suo occhi e le sue mani sono il visibile parlare di Dio.
Come il Signore Gesù abbiamo dentro non un cuore di tenebra ma un seme di luce. La via cristiana altro non è che la fatica gioiosa di liberare tutta la luce e la bellezza seminate in noi.

(Letture: Genesi 12, 1-4; Salmo 32; 2 Timoteo 1,8-10; Matteo 17, 1-9)

Un angelo nel cielo delle nostre metropoli. Commento al Vangelo I Domenica di Quaresima Anno A

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In quel tempo, Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo. Dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame. Il tentatore gli si avvicinò e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, di’ che queste pietre diventino pane». Ma egli rispose: «Sta scritto: “Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”» (…). In quel tempo. In questo tempo.
Come in una parabola dei nostri giorni, provo a immaginare il vangelo delle tentazioni nella città che conosco meglio: Milano. Il diavolo portò Gesù nella metropoli, capitale della finanza e della moda. Lo pose in alto, sopra la guglia centrale del Duomo, e gli mostrò la città ai suoi piedi: il Castello, la Borsa, la cintura delle banche, lo stadio, le vie della moda. E c’era folla sul corso, turisti e polizia. Qualcuno dei mendicanti stringeva un cagnolino in grembo, forse per un po’ di calore, forse per attivare un briciolo di pietà.Sull’asfalto grigio, coriandoli e stelle filanti di carnevale, e la pioggia leggera di fine inverno. Qualcuno, occhi tristi e pelle scura, vendeva le ultime rose ai passanti . Guardando bene si vedevano anche quelli che si lasciavano andare: alla solitudine, alla vecchiaia, alla depressione, che si lasciavano morire di droga o di dolore.

Allora il diavolo disse a Gesù: “Tutto questo è mio! Tutto sarà tuo se ti inginocchi davanti a me!”. Signore, perché non gli hai dato del bugiardo? Dicendogli, e dicendo a noi, che non è vero, che non tutto è suo, che la città non è il suo regno, che ci sono giusti e bambini e innamorati e poeti. Lascia che ti mostri una cosa, Signore, proprio a Te che non hai reagito. Nella città, che il Nemico dice sua, ci sono luoghi dove per tutto il giorno si asciugano lacrime, dove donne e uomini intercedono per la città, la collegano al cielo, e altri che provano a fare del loro poco qualcosa che serva a qualcuno. Ci sono madri che danno la vita per i figli e gente onesta perfino nelle piccole cose; ci sono padri che trasmettono rettitudine ai figli e occhi diritti. C’è il grido del male, lo sento forte, e mi stordisce a giorni, ma più ancora c’è il silenzioso lievitare del bene.Signore, se guardi bene nella città che il diavolo dice sua, non c’è solo competizione, puoi incontrare la passione per la giustizia, il sottovoce dell’onestà, gente limpida senza secondi fini. E se vieni ancora un po’ più vicino, puoi incontrare anche me, perché ci sono anch’io e sono tra quelli che credono ancora nell’amore, e non si consultano con le loro paure ma con i sogni.Buttati, ti ha detto, verranno gli angeli a portarti sulle mani! Io lo so che verranno, quando con l’ultimo, con il più grande atto di fede, mi butterò in Te nel giorno della mia morte, fidandomi. Se c’è un angelo nel cielo sopra Milano, chiedo che mi accompagni nell’ultimo viaggio, tenendomi per mano, perché ho un po’ paura, e mi dica in quell’ultimo tratto di cielo solo questo: “Vieni, hai tentato di amare, il tuo desiderio di amore era già amore”! Non chiedo altro, ma che lo dica con un sorriso.

(Letture: Genesi 2,7-9; Salmo 50; Romani 5,12-19; Marco 4, 1-11)

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