Liturgia DOMENICA di Pasqua Risurrezione del Signore (ANNO B)

Grado della Celebrazione: Domenica

Colore Liturgico  Bianco

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Che cos’è che fa correre l’apostolo Giovanni al sepolcro? Egli ha vissuto per intero il dramma della Pasqua, essendo molto vicino al suo maestro. Ci sembra perciò inammissibile un’affermazione del genere: “Non avevano infatti ancora compreso la Scrittura”. Eppure era proprio così: non meravigliamoci allora di constatare l’ignoranza attuale, per molti versi simile. Il mondo di Dio, i progetti di Dio sono così diversi che ancor oggi succede che anche chi è più vicino a Dio non capisca e si stupisca degli avvenimenti.
“Vide e credette”. Bastava un sepolcro vuoto perché tutto si risolvesse? Credo che non fu così facile. Anche nel momento delle sofferenze più dure, Giovanni rimane vicino al suo maestro. La ragione non comprende, ma l’amore aiuta il cuore ad aprirsi e a vedere. È l’intuizione dell’amore che permette a Giovanni di vedere e di credere prima di tutti gli altri. La gioia di Pasqua matura solo sul terreno di un amore fedele. Un’amicizia che niente e nessuno potrebbe spezzare. È possibile? Io credo che la vita ci abbia insegnato che soltanto Dio può procurarci ciò. È la testimonianza che ci danno tutti i gulag dell’Europa dell’Est e che riecheggia nella gioia pasquale alla fine del nostro millennio.

Meditazioni sul vangelo di Luca

di: Roberto Mela

crimella

Matteo CrimellaSeguire Gesù. Sette meditazioni sul Vangelo di Luca, Terra Santa Edizioni, Milano 2024, pp. 128, qui con sconto 5% a Eur 14,25.

Matteo Crimella è presbitero ambrosiano, dottore in Scienze Bibliche e insegna Sacra Scrittura presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale (Milano), al Seminario Teologico del PIME (Monza) e al Collegio Alberoni (Piacenza).

In questo libro egli mette a frutto il lavoro compiuto nella tesi dottorale, imperniato sul «triangolo drammatico».

Nel Vangelo di Luca egli ritrova vari racconti imperniati apparentemente su due personaggi, ma che, in verità, si rivelano essere un triangolo di interpreti che ritrovano in una persona una posizione superiore, decisiva nel rivelare la verità del racconto stesso e di ciò a cui rimanda, il regno di Dio.

Sette meditazioni

Crimella analizza con sinteticità esemplare per chiarezza e profondità di suggerimenti sette brani del Vangelo di Luca. Seguendo il metodo della lectio divina, egli propone dapprima il testo in traduzione personale, quindi la lectio che intende scoprire cosa dice il testo, quale tratto del mistero di Dio intenda rivelare. È il significato del testo.

Segue la meditatio che si domanda cosa il testo voglia dire oggi alla Chiesa, alla comunità e al lettore credente.

L’ultimo passo è l’oratio, rappresentato per lo più da una preghiera di santi e di uomini di Dio vissuti nei due millenni di cristianesimo.

Lc 7,36-50: Il fariseo e la peccatrice

Lc 7,36-50 riporta la scena del fariseo, la peccatrice e Gesù. Crimella esamina a livello narrativo/narratologico i vari personaggi, le loro azioni, parole, sentimenti, giudizi ecc. Il fariseo mostra giudizio, disprezzo verso la donna e anche scarsa accoglienza della persona di Gesù, invitato forse solo per acquistare ulteriore fama. Il personaggio che emerge nel triangolo drammatico è Gesù, che si rivela non solo come profeta (realtà messa in dubbio dal fariseo), ma anche come colui che perdona i peccati, colui che salva.

A causa della parabola inserita nel racconto – con una sua logica –, gli autori si domandano se sia l’amore a causare il perdono, o non piuttosto l’inverso. Non occorre scegliere. Dio e Gesù avvolgono le persone col perdono preveniente e sanante, attirano le persone alla salvezza per il loro essere accoglienti e suscitano ulteriore amore. Alla fine, viene lodata la fede della donna come elemento che porta alla salvezza.

L’oratio è rappresentata da un testo di santa Teresina, che traccia un itinerario per vivere e morire d’amore.

Lc 10,25-37: Il Buon Samaritano

La famosa parabola del Buon Samaritano (Lc 10,25-37) mette in campo un sacerdote e un levita, il Samaritano e il ferito. Crimella ripercorre la lettura allegorica che ha imperato per secoli, per poi passare a un’interpretazione basata su una lettura di tipo narrativo/narratologico. I primi due personaggi si rispecchiano l’un l’altro nel loro disinteresse per il malcapitato, mentre lo scomunicato samaritano soccorre il ferito con tutto sé stesso.

Crimella sottolinea, però, come la parabola sia raccontata dal punto di vista del ferito. Essa interroga sull’identità del prossimo non più a partire dal donatore, ma da quello del beneficiario, senza nome e senza identità, un membro dell’umanità. C’è un capovolgimento di prospettiva. Quando sono posto in una condizione di indigenza, qualunque sia la mia identità, aspetto che un altro si riconosca prossimo per me.

L’oratio riporta un brano della lettera pastorale Farsi prossimo del card. Martini.

Lc 10,38-42: Marta e Maria

Nel triangolo drammatico rappresentato da Marta, Maria e Gesù nell’intimità di una scena domestica di ospitalità (Lc 10,38-42), Crimella sottolinea il fatto che non si intende opporre vita attiva e vita contemplativa, ma proporre un itinerario che recupera positivamente Marta in vista di un cammino di discepolato senza eccessive «dis-trazioni». La ripetizione del nome «Marta, Marta» è tipica dei racconti di vocazione.

La cosa buona che non verrà tolta a Maria è ascoltare Gesù come discepola. A questo è invitata anche Marta, descritta come «occupata» e «confusa». Ella non è giudicata negativamente per il suo servizio ma ammonita per l’eccessiva preoccupazione, dispersione e inquietudine che le impediscono l’ascolto della parola di Dio.

L’accoglienza di Marta e l’ascolto di Maria sono – secondo Crimella – le tappe di un itinerario che passa dall’ospitalità all’attitudine discepolare, scartando invece l’occupazione distratta. Un detto dei padri del deserto ammonisce sulla necessità sia del lavoro che della preghiera.

Un brano di Origene a commento della Lettera ai Romani esalta la fatica e le continue veglie di coloro che scrutano in profondità le Scritture.

Lc 15,11-32: Il padre e i due figli

Molto ricca di spunti è anche la lettura della famosa parabola del padre e dei due figli (Lc 15,11-32). Nella lectio lo studioso rammenta tre interpretazioni tradizionali del racconto: la penitenziale, quella morale e quella etnica.

Quello che si instaura è un triangolo drammatico, che rivela la personalità dei vari personaggi, per porre in primo piano la figura del padre. Egli accondiscende al cammino libertario del figlio cadetto. (Crimella ricorda che la pratica della donatio inter vivos fosse in auge, quindi il figlio minore non «uccide il padre» domandandogli la propria parte di eredità in anticipo).

Il figlio minore torna a casa per fame. Il figlio maggiore vive in casa da schiavo, vittima della logica della giustizia retributiva, senza aver compreso mai il cuore del padre.

Nell’accoglienza di chi ritorna e nella premura per far partecipare anche il maggiore alla festa, Gesù rivela tramite il personaggio del padre l’identità di Dio Padre e la novità della logica del regno di Dio, in cui vige l’accoglienza, la fraternità, il perdono.

La parabola infatti è raccontata a giustificazione del comportamento di Gesù che accoglieva i peccatori, rivelando in tal modo la logica del Padre e del regno (Lc 15,1-3). Se il Samaritano era narratologicamente una figura “piatta”, il padre della parabola assume invece uno spessore di notevole rilievo e si avvicina a quella di Gesù che risolve la contestazione di Marta nei confronti di Maria.

Il padre della parabola risolve le contestazioni rivelando un punto di vista inedito, con una sorpresa che però è soprattutto rivelativa, ossia teologica. Le parabole che precedono il racconto, quelle della pecora perduta e della dramma smarrita, presentano dei personaggi che si oppongono al resto. Entrambe sono ritrovate, come entrambi i figli sono ritrovati dal padre buono e dalla sua grazia: si attende solo la risposta della libertà (i figli non sono pecore o monete…).

Una preghiera del rito maronita per la quarta domenica di Quaresima ricorda Gesù che rivela l’amore del padre misericordioso.

Lc 16,19-31: Il ricco epulone e Lazzaro

Nell’ambito contestuale costituito dal tema della ricchezza, la parabola di Lazzaro, il ricco e Abramo (Lc 16,19-31) oppone le figure del povero Lazzaro che, alla sua morte, è accolto nel seno di Abramo e quella dell’anonimo ricco epulone talmente ingolfato nella sua vita di ingozzamento nella ricchezza più sfrenata da non accorgersi del povero – di cui conosce il nome! –) che giace alla sua porta.

L’opposizione dei personaggi, il ribaltamento di sorte che accade dopo la loro morte rivelano la grazia che abbraccia Lazzaro – di cui non si dice che fosse buono e impeccabile – e la squallida sepoltura che attende il ricco. Egli chiede imperiosamente ad Abramo che Lazzaro gli dia da bere (pensa ancora di comandare…) e poi si preoccupa della conversione e della salvezza dei suoi cinque fratelli.

Abramo, però, gli rivela il punto di vista superiore nel triangolo drammatico. La colpa del ricco è esplicitamente collegata al tema generale della ricchezza che rende senza volto e ignari dei fratelli bisognosi. Neppure una risurrezione miracolosa ed estemporanea di qualche morto può convertire il cuore dei fratelli del ricco epulone. Hanno la legge di Mosè, le Scritture. Sono sufficienti. In esse è rivelata la volontà di Dio sul rapporto ricchezza-povertà.

Nella parabola è decisiva la pressante richiesta di conversione. È evidente che per un discepolo di Gesù la sua risurrezione e la sua parola sono fattori estremamente importanti, che aiutano enormemente a fare la differenza e a rivelare il disegno di Dio e la logica del Regno da vivere fin d’ora sulla terra.

Aelredo di Rievaulx, uomo docile e misericordioso, ricorda al Signore Gesù tutta la sua debolezza e povertà. «Signore Gesù, io sono povero, e anche tu lo sei; sono debole e anche tu lo sei; sono uomo, ma anche tu lo sei. Ogni mia grandezza viene dalla tua piccolezza; ogni mia forza viene dalla tua debolezza… Io ti seguirò, Signore Gesù».

Lc 18,9-14: Il fariseo e il pubblicano

La parabola del fariseo, il pubblicano e Dio (Lc 18,9-14) sembra avere come tema dominante quello della preghiera fatta correttamente. Quella quel fariseo è in realtà un monologo verso sé stesso e un giudizio sprezzante sul pubblicano. Quella del pubblicano è ben fatta e ben rivolta a Dio con sincerità.

Crimella invita a sfuggire a due trappole: la tipizzazione dei due personaggi (pensando che tutti i farisei siano così…) e che il racconto fittizio riguardi la preghiera e il modo di pregare.

Per capire la parabola occorre, invece, distinguere tra il quadro del racconto (vv. 10-13) e la sua cornice (va. 9 e 14).

La cornice fornisce il significato ultimo della parabola. Essa è raccontata per/rivolta a/contro alcuni (farisei, astanti?) che confidano fiduciosamente su sé stessi per la loro vita spirituale, mentre disprezzano gli altri.

Nella cornice del quadro viene affermato che il pubblicano torna a casa giustificato, innalzato perché si è umiliato.

Il triangolo drammatico è costituito dalle due figure opposte, specchio per tutti, e il giudizio superiore espresso da Gesù/Dio è contenuto nella logica del regno di Dio. Le parole di Gesù (e quelle iniziali di Gesù/Luca) dirimono la questione del triangolo drammatico, imperniato non tanto sulla preghiera (tema del contesto invero), quanto sulla falsa presunzione di innocenza e di superiorità espressa da chi pensa di essere a posto grazie alla pura osservanza della Legge, adempiuta addirittura con surplus di radicalità.

In questa parabola si vede chiaramente il vantaggio del lettore. Egli, a differenza dei personaggi, è messo a parte della risposta divina. Tira dunque le conseguenze: le opere buone del fariseo (opere che rimangono buone) sono vanificate dal giudizio spietato nei confronti del pubblicano. Come nella parabola del padre e dei due figli, il riconoscimento della paternità di Dio chiede pure la fraternità, condizione necessaria per intendere la paternità.

L’oratio riporta una strofa di una preghiera composta dal katholikos della Chiesa armena Nersēs Šnorhali (1103-1173), tutta percorsa dalla coscienza del peccato e dalla meraviglia per la misericordia di Dio.

Lc 23,39-43: I due ladroni

L’analisi del racconto dei due “ladroni” crocifissi con Gesù (Lc 23,39-43) chiude il volume di Crimella.

I due malviventi/terroristi hanno reazioni opposte di fronte a Gesù crocifisso e sofferente come loro. Uno lo insulta e chiede con tono sprezzante la salvezza, l’altro riconosce la propria colpa, l’innocenza di Gesù e chiede di ricordarsi di lui quando entrerà nel suo Regno.

Il confronto drammatico fra le due figure è risolto dalla posizione superiore e risolutiva di Gesù che, con autorevolezza, assicura al «buon ladrone» che il giorno stesso sarà con lui, cioè nel paradiso. L’ironia drammatica di Luca è suprema: mentre Gesù è schernito, in realtà sta salvando l’umanità proprio condividendo l’impotenza, la debolezza, l’iniquità. Nell’ultima cena egli aveva interpretato il significato profondo della sua morte come il compimento del versetto di Is 53,12 (cf. Lc 22,37) sull’essere annoverato fra gli empi.

Il «buon ladrone» intuisce che «l’impotenza di Gesù a salvarsi da sé non contraddice la sua messianicità ma, misteriosamente, ne dispiega la forma più propria e nuova. L’innocente è il Messia che dispone di sé e la cui potenza va oltre la morte in quanto invoca perdono per i suoi stessi uccisori. Gesù ha inaugurato il suo Regno e la venuta potente di quello stesso Regno inizia a manifestarsi appieno nella croce. Il legno dell’infamia diventa trono di misericordia. “Padre, perdona loro, infatti non sanno quello che fanno!” (23,34)» (pp. 119-120).

Il buon ladrone è l’unico nel Vangelo a chiamare Gesù con il suo solo semplice nome, e lo fa con continuità (il verbo che contiene la richiesta è all’imperfetto). «La fede di quest’uomo è domandare salvezza a un condannato che non salva nemmeno sé stesso», annota Crimella (p. 121).

Egli ragiona così: «Sì, Gesù: se tu invochi il Padre per i tuoi nemici, allora, posso invocarti anch’io, malfattore concrocifisso con te! Proprio perché perdoni loro, allora puoi salvare anche noi!» (ivi). La relazione personale con Gesù si precisa come un luogo paradisiaco, e l’«oggi» non è semplicemente temporale, ma momento escatologico di salvezza. La salvezza è offerta gratuitamente.

Secondo Crimella, Luca non rappresenta solo due personaggi contrapposti, ma li mostra come «un’unica figura complessa, che consente di costruire un cammino di fede completo, attraverso due diverse reazioni all’incontro con Cristo crocifisso: prima imprecando nella ribellione, ma infine invocandolo nella conversione» (p. 123).

I due concrocifissi con Gesù non sono due malfattori contrapposti, ma rappresentano un itinerario dalla ribellione impenitente che urla con blasphemia la propria rabbia al presunto Messia che suscita repulsione e disprezzo (cf. Is 52,2b-3) a uno sguardo che cambia e in quelle sofferenze intravede una misteriosa causa di salvezza (cf. Is 53,4-5). Dal sarcasmo si passa all’affidamento.

In questo momento Gesù raggiunge la più profonda comunione coi peccatori, con la distanza da Dio. Gesù si è fatto peccato. Il punto più basso dell’incarnazione è insieme il punto più alto dell’amore. Gesù ha assunto nella sua carne il peccato, è entrato in comunione col rifiuto di Dio, con la seconda morte.

«Solo la coscienza di essere peccatori bisognosi di misericordia apre le porte del paradiso, nella beatitudine perfetta in comunione con Dio. La coscienza di essere perdonati ben al di là del nostro merito ci permette di vivere già qui la gioia delle beatitudini» (p. 126).

Il volume di Crimella è un prezioso aiuto per la lectio su alcune pagine decisive del Vangelo di Luca, Vangelo che rivela pienamente il volto del Dio di Gesù, un Dio di misericordia che risolve positivamente le situazioni complesse dell’uomo confrontato non solo con un’altra realtà che gli sta di fronte, ma coinvolto in realtà in un triangolo drammatico di salvezza.

settimanananews.it

Commento al Vangelo della prossima Domenica. Gesù, “felice rovina” di ciò che non è amore

IV Domenica del Tempo ordinario Anno B

Gesù, entrato di sabato nella sinagoga, a Cafàrnao, insegnava. Ed erano stupiti del suo insegnamento (…). Ed ecco, nella loro sinagoga vi era un uomo posseduto da uno spirito impuro e cominciò a gridare, dicendo: «Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? Io so chi tu sei: il santo di Dio!». (…)

Ed erano stupiti del suo insegnamento. Lo stupore: esperienza felice che ci sorprende e scardina gli schemi, che si inserisce come una lama di libertà in tutto ciò che ci saturava: rumori, parole, schemi mentali, abitudini, che ci fa entrare nella dimensione creativa della meraviglia che re-incanta la vita. La nostra capacità di provare gioia è direttamente proporzionale alla nostra capacità di meravigliarci. Salviamo allora lo stupore, la capacità di incantarci ogni volta che incontriamo qualcuno che ha parole che trasmettono la sapienza del vivere, che toccano il nervo delle cose, perché nate dal silenzio, dal dolore, dal profondo, dalla vicinanza al Roveto di fuoco.

Gesù insegnava come uno che ha autorità. Autorevoli sono soltanto le parole che alimentano la vita e la portano avanti; Gesù ha autorità perché non è mai contro ma sempre in favore dell’umano. E qualcosa, dentro chi lo ascolta, lo avverte subito: è amico della vita. Autorevoli e vere sono soltanto le parole diventate carne e sangue, come in Gesù, in cui messaggio e messaggero coincidono. La sua persona è il messaggio.

L’autorità di Gesù è ribellione e liberazione da tutto ciò che fa male: C’era là un uomo posseduto da uno spirito impuro. Il primo sguardo di Gesù si posa sempre sulla sofferenza dell’uomo, vede che è un “posseduto”, prigioniero e ostaggio di uno più forte di lui. E Gesù interviene: non fa discorsi su Dio, non inanella spiegazioni sul male, si immerge nelle ferite di quell’uomo come liberatore, entra nelle strettoie, nelle paludi di quella vita ferita, e mostra che “il Vangelo non è una morale, ma una sconvolgente liberazione” (G. Vannucci).

Lui è il Dio il cui nome è gioia, libertà e pienezza (M. Marcolini) e si oppone a tutto ciò che è diminuzione d’umano. I demoni se ne accorgono: che c’è fra noi e te Gesù di Nazaret? Sei venuto a rovinarci? Sì, Gesù è venuto a rovinare tutto ciò che rovina l’uomo, a spezzare catene; a portare spada e fuoco, per separare e consumare tutto ciò che amore non è; a rovinare i desideri sbagliati da cui siamo “posseduti”: denaro, successo, potere, competizione invece di fratellanza. Ai desideri padroni dell’anima, Gesù dice due sole parole: taci, esci da lui. Taci, non parlare più al cuore dell’uomo, non sedurlo. Esci dalle costellazioni del suo cielo.

Un mondo sbagliato va in rovina: vanno in rovina le spade e diventano falci (Isaia), si spezza la conchiglia e appare la perla. Perla della creazione è un uomo libero e amante. Lo sarò anch’io, se il Vangelo diventerà per me passione e incanto, patimento e parto. Allora scoprirò “ Cristo, mia dolce rovina” (D.M. Turoldo), felice rovina di tutto ciò che amore non è.

(Letture: Deuteronomio 18,15-20; Salmo 94; Prima Lettera ai Corinzi 7,32-35; Marco 1,21-28)

di Ermes Ronchi – avvenire.it

Vangelo e parola del giorno 23 Settembre 2023 San Pio da Pietralcina, presbitero

LETTURA DEL GIORNO

San Pio da Pietralcina, presbitero

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo a Timòteo
1Tm 6,13-16

Figlio mio, davanti a Dio, che dà vita a tutte le cose, e a Gesù Cristo, che ha dato la sua bella testimonianza davanti a Ponzio Pilato, ti ordino di conservare senza macchia e in modo irreprensibile il comandamento, fino alla manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo,
che al tempo stabilito sarà a noi mostrata da Dio,
il beato e unico Sovrano,
il Re dei re e Signore dei signori,
il solo che possiede l’immortalità
e abita una luce inaccessibile:
nessuno fra gli uomini lo ha mai visto né può vederlo.
A lui onore e potenza per sempre. Amen.

VANGELO DEL GIORNO

Dal Vangelo secondo Luca
Lc 8,4-15

In quel tempo, poiché una grande folla si radunava e accorreva a lui gente da ogni città, Gesù disse con una parabola: «Il seminatore uscì a seminare il suo seme. Mentre seminava, una parte cadde lungo la strada e fu calpestata, e gli uccelli del cielo la mangiarono. Un’altra parte cadde sulla pietra e, appena germogliata, seccò per mancanza di umidità. Un’altra parte cadde in mezzo ai rovi e i rovi, cresciuti insieme con essa, la soffocarono. Un’altra parte cadde sul terreno buono, germogliò e fruttò cento volte tanto». Detto questo, esclamò: «Chi ha orecchi per ascoltare, ascolti!».
I suoi discepoli lo interrogavano sul significato della parabola. Ed egli disse: «A voi è dato conoscere i misteri del regno di Dio, ma agli altri solo con parabole, affinché
vedendo non vedano
e ascoltando non comprendano.
Il significato della parabola è questo: il seme è la parola di Dio. I semi caduti lungo la strada sono coloro che l’hanno ascoltata, ma poi viene il diavolo e porta via la Parola dal loro cuore, perché non avvenga che, credendo, siano salvati. Quelli sulla pietra sono coloro che, quando ascoltano, ricevono la Parola con gioia, ma non hanno radici; credono per un certo tempo, ma nel tempo della prova vengono meno. Quello caduto in mezzo ai rovi sono coloro che, dopo aver ascoltato, strada facendo si lasciano soffocare da preoccupazioni, ricchezze e piaceri della vita e non giungono a maturazione. Quello sul terreno buono sono coloro che, dopo aver ascoltato la Parola con cuore integro e buono, la custodiscono e producono frutto con perseveranza.

PAROLE DEL SANTO PADRE

Questa del seminatore è un po’ la “madre” di tutte le parabole, perché parla dell’ascolto della Parola. Ci ricorda che essa è un seme fecondo ed efficace; e Dio lo sparge dappertutto con generosità, senza badare a sprechi. Così è il cuore di Dio! Ognuno di noi è un terreno su cui cade il seme della Parola, nessuno è escluso. La Parola è data a ognuno di noi. Possiamo chiederci: io, che tipo di terreno sono? Assomiglio alla strada, alla terra sassosa, al roveto? Se vogliamo, con la grazia di Dio possiamo diventare terreno buono, dissodato e coltivato con cura, per far maturare il seme della Parola. Esso è già presente nel nostro cuore, ma il farlo fruttificare dipende da noi, dipende dall’accoglienza che riserviamo a questo seme. Spesso si è distratti da troppi interessi, da troppi richiami, ed è difficile distinguere, fra tante voci e tante parole, quella del Signore, l’unica che rende liberi. Per questo è importante abituarsi ad ascoltare la Parola di Dio, a leggerla. E torno, una volta in più, su quel consiglio: portate sempre con voi un piccolo Vangelo, un’edizione tascabile del Vangelo, in tasca, in borsa… E così, leggete ogni giorno un pezzetto, perché siate abituati a leggere la Parola di Dio, e capire bene qual è il seme che Dio ti offre, e pensare con quale terra io lo ricevo. (Angelus, 12 luglio 2020)

Nella festa dell’Assunta, alcune parole del cardinal Martini possono aiutarci a cogliere il senso profondo di una festa che guarda oltre il tempo

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La festa di Ferragosto, ancora una volta – in questo tempo per tutti così fragile, tra passato e futuro, in mezzo a sentieri sconosciuti –, interpella i cristiani con l’invito a guardare al volto e alla vita di Maria, nella luce della comunione definitiva della sua vita con la Vita del Figlio. Vorrei condividere alcune parti dell’omelia che il card. Martini ha pronunciato in Duomo, a Milano, il 15 agosto 2001, per aiutare quanti sostano sulla Parola a entrare in questa festa del mezzo agosto.

“La prima e la terza lettura che abbiamo appena ascoltato ci aiutano a penetrare nel significato di questa festa e insieme ci richiamano due insegnamenti fondamentali: uno ci ricorda il carattere conflittuale del nostro cammino di fede e l’altro che allarga gli orizzonti della nostra preghiera.

Nel brano dell’Apocalisse di san Giovanni – con un affresco drammatico, avvincente, ricco di simboli misteriosi – viene descritta la lotta cosmica che si svolge nella storia: la donna rappresenta il popolo di Dio che affronta il dramma di una storia segnata dal peccato e dal rifiuto della trascendenza. Il drago, cioè il serpente antico, è segno della violenza, della morte, simbolo di tutte le forze del male. Secondo la tradizione patristica, fin dai tempi di Agostino, in Maria contempliamo anche l’icona e il modello della Chiesa – e di ogni credente – che giunge alla vittoria attraverso quelle che sono chiamate le “doglie del parto”, attraverso cioè l’incessante lotta contro le forze ostili, contro la menzogna e l’inganno, passando anche attraverso la persecuzione e il martirio. Questa pagina biblica ci insegna che l’esistenza cristiana non è un semplice itinerario che va di luce in luce; è invece uno scontro senza sosta tra tenebre e luce, tra mondanità e valori evangelici, tra egoismo e dono di sé, tra vendetta e perdono, tra violenza e mitezza; non c’è prova che venga risparmiata a chi vive il Vangelo. Ma chi si affida a Dio sarà vittorioso. In questo sabato del tempo la Madonna ci sostiene nella difficile avventura della fede; ci aiuta a contrastare le forze che tentano di opporsi alla legge della Croce, che sa trarre il bene dal male, ci consola nell’impegno quotidiano della testimonianza e della carità; ci protegge e ci infonde speranza certa nella vittoria finale.

Un secondo insegnamento ci è offerto dal testo del vangelo. Alle parole ispirate di Elisabetta che proclama Maria beata perché ha creduto, ella risponde con il Magnificat. Maria ama Dio con un amore grande e lo “magnifica”, vorrebbe cioè che fosse riconosciuta e proclamata pienamente la sua grandezza, perché Dio l’ha colmata di grazia, si è chinato su di lei. Ed esulta, cioè salta di gioia, danza, loda Dio come Signore e salvatore. Nel suo canto Maria loda il Signore della storia, che sa confondere i piani dei potenti e rovesciare la scala di valori a cui i cosiddetti potenti si ispirano. Maria ci consegna così un secondo prezioso messaggio di questa festa: quello del primato della lode nella nostra vita.15
Rivolgiamo allora la nostra invocazione all’Assunta che, con la radicale santità della sua vita, è primizia del mondo nuovo, è la nostra terra promessa.

O Maria, Madre della fede, che ti sei lasciata possedere totalmente da Dio, prega per noi affinché possiamo amarlo come tu lo ami, aiutaci a vedere il mondo come lo vedi tu, a contemplare la storia come luogo della bontà, della misericordia, dell’amore del Padre e di Gesù per tutta l’umanità, per i poveri, gli umili, i sofferenti, gli emarginati, per me, per ciascuno di voi. Madre della speranza, che hai pazientato con pace nel Sabato Santo, mentre il tuo Figlio morto giaceva nel sepolcro, insegnaci a guardare con pazienza e perseveranza a ciò che viviamo in questo sabato del tempo in cui molti, anche cristiani, sono tentati di non sperare più nella vita eterna e neppure nel ritorno del Signore. Tu che sei la Madre dell’amore e della lode, donaci di partecipare ogni giorno della nostra vita alla tua lode, al tuo Magnificat, di esultare con te per le piccole e grandi cose che il Signore continua a operare in mezzo a noi, di gioire con te nella certezza che Gesù Risorto è già presente, pur se in modo velato, nel mondo e nella storia. Amen”.
vinonuovo.it

Vangelo del giorno

Dal Vangelo secondo Giovanni
Gv 20,24-29

Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dicevano gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo».
Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: «Pace a voi!». Poi disse a Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!». Gli rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!». Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!».

Possediamo soltanto ciò che doniamo agli altri. Commento Vangelo XIII Domenica Tempo ordinario – Anno A

In quel tempo, Gesù̀ disse ai suoi apostoli: «Chi ama padre o madre più̀ di me non è degno di me; chi ama figlio o figlia più̀ di me non è degno di me; chi non prende la propria croce e non mi segue, non è degno di me. Chi avrà̀ tenuto per sè́ la propria vita, la perderà̀, e chi avrà̀ perduto la propria vita per causa mia, la troverà (…)». Chi ama la propria famiglia più di me, non è degno di me. Ma allora chi è degno di te, Signore, della tua altissima pretesa? Padre madre fratello figlia… sono le persone a me più care, indispensabili per vivere davvero. Sono loro che ogni giorno mi spingono ad essere vero, autentico, a diventare il meglio di ciò che posso diventare. Ma la sua non è una competizione di emozioni, da cui sa che non uscirebbe vincitore se non presso pochi eroi, o santi o profeti dal cuore in fiamme. Eppure lo sappiamo che nessuno coincide con il cerchio della sua famiglia. Anche già per unirsi a colei che ama, l’uomo lascerà il padre e la madre!
Il Vangelo, croce e pasqua, un’eternità di luce, non si spiegano interessandosi solo della famiglia, e neppure una storia di giustizia, un
mondo in pace. Bisogna rompere il piccolo perimetro e far entrare volti e nomi nel cerchio del proprio sangue, generare diversamente vita e futuro; staccarsi, perdere, spezzare l’eterna ripetizione di ciò che è già stato. Chi avrà perduto, troverà. Perdere la vita, non significa farsi uccidere: una vita si perde solo come si perde un tesoro, donandola. Noi possediamo, veramente, solo ciò che abbiamo donato ad altri. Come la donna di Sunem della prima lettura, che d’impulso dona al profeta Eliseo piccole porzioni di vita, piccole cose: un letto, un tavolo, una sedia, una lampada, e riceverà in cambio una vita intera, un figlio, insieme al coraggio del futuro. Risento l’eco delle parole di Gesù: Chi avrà perduto la sua vita per causa mia la troverà. Gesù parla di una causa per cui vivere, che vale più della stessa vita. E Lui, che l’ha perduta per la causa dell’uomo, l’ha ritrovata. Infatti il vero dramma dei viventi è non avere niente e nessuno per cui valga la pena mettere in gioco e spendere la propria vita. E a noi, spaventati dall’impegno di dare vita e di seguire una causa che valga più di noi stessi, Gesù aggiunge una frase dolcissima: chi avrà dato anche solo un bicchiere d’acqua fresca non perderà il premio. Croce e acqua, il dare tutto e il dare quasi niente. I due estremi di uno stesso movimento, un gesto vivo, significato da quell’aggettivo così evangelico: fresca! L’acqua, fresca dev’essere! Vale a dire procurata e conservata con cura, l’acqua migliore che hai, acqua affettuosa, bella, con dentro l’eco del cuore. La vita nell’acqua: stupenda pedagogia di Cristo, secondo cui non c’è nulla di troppo piccolo per chi vuol bene. Dove amare non equivale ad emozionarsi o a tremare per una creatura, ma si traduce con l’altro verbo sempre di corsa, semplice e concreto, fattivo, urgente di mani limpide e allegre come acqua fresca: il verbo dare. (Letture: 2 Re 4,8-11.14-16a; Salmo 88; Romani 6,3-4.8-11; Matteo 10,37-42)

 

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“Padre nostro”, breviario del vangelo

>>> Piero Stefani, Padre Nostro. Il breviario del Vangelo, Ed. Terra Santa, Milano 2023, pp. 112, € 13,30 con 5 % sconto.

di: Roberto Mela

Pietro Stefani è un noto docente della Facoltà dell’Italia settentrionale, redattore della rivista Il Regno, dove cura la rubrica mensile «Le parole delle religioni», e autore di numerose pubblicazioni. In questo testo commenta la preghiera del Padre Nostro (= PN), definita da Tertulliano come breviarium totius evangelii.

Si tratta di un’edizione totalmente nuova dell’opera comparsa in prima edizione nel 1991. Nella Premessa al volume (pp. 7-10), Stefani ricorda che sono state operate migliorie stilistiche e che ci si è confrontati con la nuova traduzione della CEI 2008 (vedi la traduzione «non abbandonarci alla tentazione»). Tutte le citazioni provengono da questa traduzione, tranne alcune indicate nel luogo. Anche la bibliografia (pp. 109-112) è stata aggiornata.

Alla Premessa segue una Nota storico-liturgica (pp. 11-40) che illustra la definizione di Tertulliano citata sopra. In questa nostra presentazione ci soffermiamo soprattutto su questa Nota.

Tradizioni diverse: Matteo e Luca
Il lavoro esegetico-teologico attuato per il PN si applica a tutti i testi del NT: due testi diversi, due diverse ambientazioni; l’influsso delle comunità sulla redazione del testo; la ricerca di una possibile composizione originaria ad opera di Gesù; il confronto con i testi della tradizione cristiana e della tradizione giudaica che hanno contenuti similari; il confronto come le antiche fonti extracanoniche.

La redazione lucana è più breve, non riporta le sette richieste presenti in Mt, e tralascia le due richieste presenti in Matteo: «Sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra» e «liberaci dal male».

Rilevanti sono pure le differenze contenute nelle parti comuni, presenti sia nella richiesta del pane (Matteo: «Dacci oggi il nostro pane quotidiano»; Luca: «Dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano») che in quella del perdono (Matteo: «E rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori»; Luca: «E perdona a noi i nostri peccati, anche noi infatti perdoniamo ad ogni nostro debitore»).

Un’altra grande differenza è data alla formulazione ampia di Matteo e dal suo andamento liturgico, mentre Luca inizia in modo concentrato affidandosi a una sola parola: «Padre».

Diversa è pure l’ambientazione. In Matteo siamo al centro del Discorso della Montagna, mentre Luca ambienta il PN nel cammino verso Gerusalemme e lo collega ad altri momenti in cui Gesù è mostrato in atteggiamento di preghiera. Gesù insegna il PN su richiesta dei discepoli che lo vedono pregare.

La tradizione preferì il testo di Matteo perché più completo, ma apprezzò l’ambientazione lucana posta in un contesto di preghiera.

La tradizione la presenta come la preghiera che Gesù stesso aveva insegnato ai suoi discepoli, in continuità con la sua. Oggi si tende a dare la maggior originalità al testo più breve.

Alcuni termini lucani sono meno semitici e più greci («peccati» e non «debiti»), dato la comunità destinataria del Vangelo. Matteo propone, da parte sua, un andamento liturgico apprezzato da un gruppo che intende distinguersi da altri e propone una variante conclusiva di acclamazione recepita nella tradizione protestante.

Nel Discorso della Montagna, la preghiera del PN è situata nel contesto dell’insegnamento sul digiuno e sull’elemosina, ed è caratterizzata dalla brevità; nella pratica, essa è spesso recitata comunitariamente e per questo può essere esposta al pericolo del «farsi vedere» condannato da Gesù nel suo insegnamento sul digiuno, la preghiera e l’elemosina..

Nella Didaché, il PN assume una funzione demarcante rispetto agli «altri» ed è posta fra le istruzioni battesimali. Il PN è caratteristico delle comunità cristiane e inserito già nel III secolo nella liturgia battesimale.

La catechesi ai misteri di Cirillo e Giovanni di Gerusalemme (IV secolo) fornisce il primo esempio, liturgicamente ormai definito, di una connessione tra il Padre nostro e la celebrazione eucaristica.

Il PN è visto come «iniziazione ai misteri». Il nascondimento previsto in Matteo si è trasformato in riservatezza propria di un gruppo che celebra un rito riservato agli iniziati e assume un carattere sacrale. Si sottolinea l’«osare» pregare il PN.

Col Concilio Vaticano II il PN nell’eucaristia è proclamato da tutta l’assemblea. Via via il PN ha assunto una natura liturgico-sacrale. L’orientamento liturgico è, d’altronde, già presente nell’incipit del PN in Matteo («che sei nei cieli»). Il «nostro» viene introdotto per distinguersi da altri gruppi. La versione lucana è meno predisposta a essere assunta in un contesto comunitario, ma conserva una componente «sociologica» («Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli», Lc 11,1).

Il Padre nostro e le preghiere giudaiche
I tratti di orientamento liturgico presenti nel PN inducono a comparazioni con altre preghiere giudaiche. Il primo materiale liturgico giudaico risale al III secolo e quindi non ci sono dipendenze dirette presenti nel PN. Per Stefani resta indispensabile confrontare il Padre nostro con due tra le massime preghiere giudaiche: il Qaddish e le Diciotto benedizioni.

Il Qaddish è molto affine al PN. Nelle Diciotto benedizioni compaiono i temi legati alla paternità del Signore, alla sua unicità e al suo nome, al perdono e all’elargizione dei beni necessari alla vita e, infine, all’avvento della redenzione. Nella quinta benedizione compare l’espressione «Padre nostro» (che inficia le osservazioni di Origene).

Interessante nel giudaismo è, inoltre, la «preghiera breve». Dal punto di vista giudaico, il PN si presenterebbe come una “preghiera breve”. Il PN è imparentato con quelle che i rabbi definiscono «suppliche». «Il Padre nostro rientra nell’ambito delle preghiere spontanee, libere, personali, eppure rappresenta, nel contempo, una formulazione riassuntiva, o ricapitolatrice, della preghiera comune d’Israele. È perciò significativo che la “preghiera di Gesù” possieda tratti che l’apparentano a un ampio spettro di preghiere ebraiche, da quelle collettive e solenni alle suppliche individuali» (p. 29).

Peculiarità del PN è menzionare la lode come una richiesta («passivo divino»). «In definitiva, la componente di supplica resta una chiave di comprensione fondamentale della “preghiera del Signore”» (p. 30). Il passivo divino caratterizza il PN, la richiesta della venuta del Regno e la possibilità di vivere le richieste del Discorso della montagna. L’annuncio di Gesù chiarisce il PN e viceversa.

Originariamente il PN era la preghiera tipica del discepolo che aveva abbandonato tutto per seguire Gesù. La «preghiera del Signore» si presenta come «l’espressione orante del radicalismo migratorio dei discepoli al seguito del Messia Gesù, in cui essi sperimentano ogni giorno Dio quale Padre» (F. Mussner, cit. a p. 32).

Il PN ha rapporti con il Discorso della Montagna e con il discorso dell’invio in missione di Mt 10 e par. «La “preghiera del Signore” conserva in sé un segno profondo tanto della condizione orante del gruppo dei discepoli, quanto di quella propria dello stesso Gesù» (p. 33), come si evince dalla preghiera di Gesù al Getsemani («Abba!»), che riporta la richiesta dell’esecuzione della volontà del Padre e l’esortazione fatta ai discepoli di vegliare per non entrare nella tentazione.

Commentari e influssi del Padre nostro
«Il Padre nostro è definibile “breviario” del Vangelo ma – scrive Stefan –, osservato in un’altra prospettiva, può anche definirsi cellula generativa dei vari volti assunti dalla spiritualità cristiana. In effetti, sarebbe possibile tracciare l’intera storia spirituale del cristianesimo in base ai commenti dedicati alla “preghiera domenicale”» (p. 34). Essi sono come uno specchio in cui si rifrangono tutti i vari orientamenti della spiritualità cristiana.

Tra i Padri greci, lo studioso ricorda i commenti di Clemente Alessandrino, Origene, Cirillo (o Giovanni) da Gerusalemme, Gregorio di Nissa, Giovanni Crisostomo, Teodoro di Mopsuestia, Cirillo d’Alessandria e Massimo il Confessore; tra i latini Tertulliano, Cipriano, Ambrogio, Girolamo, Agostino, Giovanni Cassiano, Pietro Crisologo.

Nel Medioevo latino, si segnalano i commenti di Rabano Mauro, Ruperto di Deutz, Pietro Abelardo, Ugo e Riccardo di San Vittore, Francesco d’Assisi, Bonaventura da Bagnoregio, Tommaso d’Aquino, Meister Eckhart.

All’epoca umanistica risalgono i commenti di Nicola Cusano, Giovanni Pico della Mirandola, Gabriele Biel, Girolamo Savonarola.

Lutero ha commentato numerose volte il Padre nostro e Calvino lo ha chiosato nel terzo volume delle Istituzioni della religione cristiana.

Un ampio commento di carattere spirituale alla “preghiera del Signore” è contenuto nel Cammino di Perfezione di Teresa d’Avila.

A partire da Lutero, il PN è entrato nei catechismo e così è avvenuto anche per il Catechismo della Chiesa cattolica. Stefani cita i commentari moderni al PN nella Bibliografia (pp. 109-112).

Il PN ha avuto un enorme influsso sulla vita cristiana, diventando l’espressione più alta dell’indissociabile unione tra lex credendi, lex orandi e lex vivendi.

Fu però il giudaismo a rendere la preghiera, anche liturgica, un’attività fondata su sé stessa, indipendente da ogni altro rito o culto, o da determinati luoghi o da particolari persone (tipo sacerdoti).

Il PN si inserisce nella tradizione ebraica della preghiera nella quale Gesù è cresciuto. Il PN rappresenta una preghiera che rappresenta la perenne unità dei due Testamenti. Esso costituisce un ponte verso l’ebraismo, ma è soprattutto una via attraverso cui le categorie ebraiche continuano a vivere all’interno della Chiesa.

Il PN ha una limitata ambientazione narrativa e per questo ha avuto scarso influsso sia nelle arti narrative che figurative, a differenza dell’Annunciazione a Maria. Anche nella musica il PN non ha avuto grande rilievo, essendo recitato dal solo celebrante nell’antica scelta liturgica.

Stefani conclude la sua nota storico-liturgica affermando che «la relativa difficoltà di trascrivere su altri registri la “preghiera di Gesù” pone in rilievo l’indissolubile unione di familiare prossimità e di austera elevatezza propria di una preghiera rivolta dalla terra a un Padre che è nei cieli».

L’autore riserva alle pp. 43-96 il suo commento al PN, che egli definisce «commento teologico». Lo suddivide in vari capitoli, così titolati: «Ritorno all’origine» (pp. 43-50), «Padre, che sei nei cieli» (pp. 51-62); «Sia santificato il tuo nome» (pp. 63-68); «Venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà» (pp. 69-74); «Dacci il nostro pane quotidiano» (pp. 75-78); «Rimetti a noi i nostri debiti» (pp. 79-82); «Non abbandonarci alla tentazione» (pp. 83-92); «Liberaci dal male» (pp. 93-96).

Al commento segue un’Appendice (pp. 97-98), la parafrasi dantesca del PN (pp. 99-106), il testo greco di Mt 6,9-13 e Lc 11,2-4 e quello latino della Vulgata.

Conclude la bibliografia (pp. 109-112), che cita, fra l’altro, i commentari moderni.

«Non portarci dentro la tentazione»
Ci soffermiamo su una richiesta presente nel PN particolarmente difficile da interpretare correttamente.

Stefani ricorda che le due richieste del non essere abbandonati alla tentazione (così la nuova traduzione CEI 2008) e di essere liberati dal male sono strettamente connesse. «Per chi si confronta con le sventure di cui è colmo il nostro mondo – commenta l’autore –, è pensabile che il senso delle due richieste poste una accanto all’altra sia: non indurci nella tentazione di credere che tu, Padre, non sia capace di liberarci dal male; il tuo non intervenire non istilli dubbi nel nostro cuore» (p. 84). La penultima domanda apre la porta alla fiducia nel rivolgere al Padre l’ultima, quella della liberazione dal male che continua a dilagare attorno al credente e dentro di lui.

La prova a cui si è sottoposti è, innanzitutto, quella del compimento stesso della volontà di Dio. Come mostra Gesù nel Getsemani, l’accettazione della volontà del Padre è connessa alla richiesta che il peso non sia troppo grave da portare. L’accettazione della volontà del Padre è collegata al vegliare per non entrare nella tentazione.

La petizione del non essere abbandonati è l’unica espressa al negativo, ma poi è bilanciata dalla richiesta positiva di essere liberati dal male. «La richiesta conclusiva rivolta al Padre fa dunque comprendere il senso autentico della domanda di non essere introdotti nella prova – commenta Stefani –: prima si chiede di non essere fatti entrare nella tentazione, poi si domanda di essere tenuti lontani dal male. In entrambi i casi la metafora è spaziale» (p. 87).

Fin dall’antichità ha fatto difficoltà il pensiero che Dio possa indurre qualcuno alla tentazione. «Indurre» è per Stefani una traduzione infelice e fuorviante. «La traduzione interpretativa “non abbandonarci” può rivendicare a se stessa una maggiore corrispondenza alla visione contemporanea di un Dio sempre misericordioso, ma non è la “vera”» (p. 88).

Lo studioso cita a p. 88 nota 85 il pensiero del biblista Crimella, critico nei confronti della traduzione CEI 2008. «Il senso della petizione – commenta Stefani –, salvaguardandone nel contempo l’ineliminabile carattere paradossale, potrebbe essere reso meglio con un “non farci entrare”, espressione che non ha in sé stessa alcun senso di istigazione» (ivi). «… in questa supplica del Padre nostro – annota – conviene conservare la forza scandalosa che già sconcertava i Padri. Allora si cercò di attenuarne l’impatto, ricorrendo, per lo più, a un’impostazione ben sintetizzata dalle parole di Ilario di Poitiers: “Non ci abbandonare a una tentazione che non possiamo sopportare”. La difficoltà deriva dall’aver dimenticato che solo individuando il diretto coinvolgimento di Dio nella tentazione se ne può cogliere davvero la paternità» (pp. 88-89). «Gesù nell’orto visse in modo diretto il legame tra tentazione e paternità di Dio. Prima di lui, sia pure in maniera diversa, il nesso era stato sperimentato da Israele nel deserto» (p. 89).

Secondo Stefani, occorre capire bene il senso di «tentare». Nel deserto sia Israele che Dio sono a turno «tentati» e «tentatori». Proprio nella sua qualità di figlio, Israele diventa una prova e una tentazione per colui che lo ha generato. Le mormorazioni sono una vera prova per il Signore. Generando il suo popolo, egli lo espone alle tentazioni della vita. Anche Gesù le ha provate. Soprattutto la prova nell’orto del Getsemani e quella dell’abbandono sulla croce sono una prova e una tentazione a cui il Padre può rispondere solo con la potenza della risurrezione.

Schweitzer e altri hanno interpretato la prova in senso «escatologico». La «croce» e la «consumazione della storia» sono prove collegate e dure. Bisogna pregare perché siano accorciate, il calice passi, che il Padre non ci faccia entrare nella tentazione. La prima domanda è quella di essere risparmiati. «Nell’“assenza”, la “presenza” è costretta ad assumere l’aspetto della domanda – conclude Stefani il suo commento a questa domanda –. Fu così anche per Gesù in croce: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mt 27,46; Mc 15,34; Sal 22,2). Solo pregando il Padre perché non ci abbandoni o interrogandolo sul perché della sua assenza si coglie il significato della richiesta di non essere fatti entrare nella tentazione» (p. 91).

Il volume riporta un ricco commento teologico al Padre Nostro, frutto di una lunga frequentazione biblica e della tradizione ebraica. Scritto in linguaggio non tecnico, praticamente senza note a piè di pagina, l’opera è un’utile sussidio per la preghiera più «praticata» dai discepoli di Gesù, ma che non finisce mai di stupire per la sua profondità di significati.

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