“Padre nostro”, breviario del vangelo

>>> Piero Stefani, Padre Nostro. Il breviario del Vangelo, Ed. Terra Santa, Milano 2023, pp. 112, € 13,30 con 5 % sconto.

di: Roberto Mela

Pietro Stefani è un noto docente della Facoltà dell’Italia settentrionale, redattore della rivista Il Regno, dove cura la rubrica mensile «Le parole delle religioni», e autore di numerose pubblicazioni. In questo testo commenta la preghiera del Padre Nostro (= PN), definita da Tertulliano come breviarium totius evangelii.

Si tratta di un’edizione totalmente nuova dell’opera comparsa in prima edizione nel 1991. Nella Premessa al volume (pp. 7-10), Stefani ricorda che sono state operate migliorie stilistiche e che ci si è confrontati con la nuova traduzione della CEI 2008 (vedi la traduzione «non abbandonarci alla tentazione»). Tutte le citazioni provengono da questa traduzione, tranne alcune indicate nel luogo. Anche la bibliografia (pp. 109-112) è stata aggiornata.

Alla Premessa segue una Nota storico-liturgica (pp. 11-40) che illustra la definizione di Tertulliano citata sopra. In questa nostra presentazione ci soffermiamo soprattutto su questa Nota.

Tradizioni diverse: Matteo e Luca
Il lavoro esegetico-teologico attuato per il PN si applica a tutti i testi del NT: due testi diversi, due diverse ambientazioni; l’influsso delle comunità sulla redazione del testo; la ricerca di una possibile composizione originaria ad opera di Gesù; il confronto con i testi della tradizione cristiana e della tradizione giudaica che hanno contenuti similari; il confronto come le antiche fonti extracanoniche.

La redazione lucana è più breve, non riporta le sette richieste presenti in Mt, e tralascia le due richieste presenti in Matteo: «Sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra» e «liberaci dal male».

Rilevanti sono pure le differenze contenute nelle parti comuni, presenti sia nella richiesta del pane (Matteo: «Dacci oggi il nostro pane quotidiano»; Luca: «Dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano») che in quella del perdono (Matteo: «E rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori»; Luca: «E perdona a noi i nostri peccati, anche noi infatti perdoniamo ad ogni nostro debitore»).

Un’altra grande differenza è data alla formulazione ampia di Matteo e dal suo andamento liturgico, mentre Luca inizia in modo concentrato affidandosi a una sola parola: «Padre».

Diversa è pure l’ambientazione. In Matteo siamo al centro del Discorso della Montagna, mentre Luca ambienta il PN nel cammino verso Gerusalemme e lo collega ad altri momenti in cui Gesù è mostrato in atteggiamento di preghiera. Gesù insegna il PN su richiesta dei discepoli che lo vedono pregare.

La tradizione preferì il testo di Matteo perché più completo, ma apprezzò l’ambientazione lucana posta in un contesto di preghiera.

La tradizione la presenta come la preghiera che Gesù stesso aveva insegnato ai suoi discepoli, in continuità con la sua. Oggi si tende a dare la maggior originalità al testo più breve.

Alcuni termini lucani sono meno semitici e più greci («peccati» e non «debiti»), dato la comunità destinataria del Vangelo. Matteo propone, da parte sua, un andamento liturgico apprezzato da un gruppo che intende distinguersi da altri e propone una variante conclusiva di acclamazione recepita nella tradizione protestante.

Nel Discorso della Montagna, la preghiera del PN è situata nel contesto dell’insegnamento sul digiuno e sull’elemosina, ed è caratterizzata dalla brevità; nella pratica, essa è spesso recitata comunitariamente e per questo può essere esposta al pericolo del «farsi vedere» condannato da Gesù nel suo insegnamento sul digiuno, la preghiera e l’elemosina..

Nella Didaché, il PN assume una funzione demarcante rispetto agli «altri» ed è posta fra le istruzioni battesimali. Il PN è caratteristico delle comunità cristiane e inserito già nel III secolo nella liturgia battesimale.

La catechesi ai misteri di Cirillo e Giovanni di Gerusalemme (IV secolo) fornisce il primo esempio, liturgicamente ormai definito, di una connessione tra il Padre nostro e la celebrazione eucaristica.

Il PN è visto come «iniziazione ai misteri». Il nascondimento previsto in Matteo si è trasformato in riservatezza propria di un gruppo che celebra un rito riservato agli iniziati e assume un carattere sacrale. Si sottolinea l’«osare» pregare il PN.

Col Concilio Vaticano II il PN nell’eucaristia è proclamato da tutta l’assemblea. Via via il PN ha assunto una natura liturgico-sacrale. L’orientamento liturgico è, d’altronde, già presente nell’incipit del PN in Matteo («che sei nei cieli»). Il «nostro» viene introdotto per distinguersi da altri gruppi. La versione lucana è meno predisposta a essere assunta in un contesto comunitario, ma conserva una componente «sociologica» («Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli», Lc 11,1).

Il Padre nostro e le preghiere giudaiche
I tratti di orientamento liturgico presenti nel PN inducono a comparazioni con altre preghiere giudaiche. Il primo materiale liturgico giudaico risale al III secolo e quindi non ci sono dipendenze dirette presenti nel PN. Per Stefani resta indispensabile confrontare il Padre nostro con due tra le massime preghiere giudaiche: il Qaddish e le Diciotto benedizioni.

Il Qaddish è molto affine al PN. Nelle Diciotto benedizioni compaiono i temi legati alla paternità del Signore, alla sua unicità e al suo nome, al perdono e all’elargizione dei beni necessari alla vita e, infine, all’avvento della redenzione. Nella quinta benedizione compare l’espressione «Padre nostro» (che inficia le osservazioni di Origene).

Interessante nel giudaismo è, inoltre, la «preghiera breve». Dal punto di vista giudaico, il PN si presenterebbe come una “preghiera breve”. Il PN è imparentato con quelle che i rabbi definiscono «suppliche». «Il Padre nostro rientra nell’ambito delle preghiere spontanee, libere, personali, eppure rappresenta, nel contempo, una formulazione riassuntiva, o ricapitolatrice, della preghiera comune d’Israele. È perciò significativo che la “preghiera di Gesù” possieda tratti che l’apparentano a un ampio spettro di preghiere ebraiche, da quelle collettive e solenni alle suppliche individuali» (p. 29).

Peculiarità del PN è menzionare la lode come una richiesta («passivo divino»). «In definitiva, la componente di supplica resta una chiave di comprensione fondamentale della “preghiera del Signore”» (p. 30). Il passivo divino caratterizza il PN, la richiesta della venuta del Regno e la possibilità di vivere le richieste del Discorso della montagna. L’annuncio di Gesù chiarisce il PN e viceversa.

Originariamente il PN era la preghiera tipica del discepolo che aveva abbandonato tutto per seguire Gesù. La «preghiera del Signore» si presenta come «l’espressione orante del radicalismo migratorio dei discepoli al seguito del Messia Gesù, in cui essi sperimentano ogni giorno Dio quale Padre» (F. Mussner, cit. a p. 32).

Il PN ha rapporti con il Discorso della Montagna e con il discorso dell’invio in missione di Mt 10 e par. «La “preghiera del Signore” conserva in sé un segno profondo tanto della condizione orante del gruppo dei discepoli, quanto di quella propria dello stesso Gesù» (p. 33), come si evince dalla preghiera di Gesù al Getsemani («Abba!»), che riporta la richiesta dell’esecuzione della volontà del Padre e l’esortazione fatta ai discepoli di vegliare per non entrare nella tentazione.

Commentari e influssi del Padre nostro
«Il Padre nostro è definibile “breviario” del Vangelo ma – scrive Stefan –, osservato in un’altra prospettiva, può anche definirsi cellula generativa dei vari volti assunti dalla spiritualità cristiana. In effetti, sarebbe possibile tracciare l’intera storia spirituale del cristianesimo in base ai commenti dedicati alla “preghiera domenicale”» (p. 34). Essi sono come uno specchio in cui si rifrangono tutti i vari orientamenti della spiritualità cristiana.

Tra i Padri greci, lo studioso ricorda i commenti di Clemente Alessandrino, Origene, Cirillo (o Giovanni) da Gerusalemme, Gregorio di Nissa, Giovanni Crisostomo, Teodoro di Mopsuestia, Cirillo d’Alessandria e Massimo il Confessore; tra i latini Tertulliano, Cipriano, Ambrogio, Girolamo, Agostino, Giovanni Cassiano, Pietro Crisologo.

Nel Medioevo latino, si segnalano i commenti di Rabano Mauro, Ruperto di Deutz, Pietro Abelardo, Ugo e Riccardo di San Vittore, Francesco d’Assisi, Bonaventura da Bagnoregio, Tommaso d’Aquino, Meister Eckhart.

All’epoca umanistica risalgono i commenti di Nicola Cusano, Giovanni Pico della Mirandola, Gabriele Biel, Girolamo Savonarola.

Lutero ha commentato numerose volte il Padre nostro e Calvino lo ha chiosato nel terzo volume delle Istituzioni della religione cristiana.

Un ampio commento di carattere spirituale alla “preghiera del Signore” è contenuto nel Cammino di Perfezione di Teresa d’Avila.

A partire da Lutero, il PN è entrato nei catechismo e così è avvenuto anche per il Catechismo della Chiesa cattolica. Stefani cita i commentari moderni al PN nella Bibliografia (pp. 109-112).

Il PN ha avuto un enorme influsso sulla vita cristiana, diventando l’espressione più alta dell’indissociabile unione tra lex credendi, lex orandi e lex vivendi.

Fu però il giudaismo a rendere la preghiera, anche liturgica, un’attività fondata su sé stessa, indipendente da ogni altro rito o culto, o da determinati luoghi o da particolari persone (tipo sacerdoti).

Il PN si inserisce nella tradizione ebraica della preghiera nella quale Gesù è cresciuto. Il PN rappresenta una preghiera che rappresenta la perenne unità dei due Testamenti. Esso costituisce un ponte verso l’ebraismo, ma è soprattutto una via attraverso cui le categorie ebraiche continuano a vivere all’interno della Chiesa.

Il PN ha una limitata ambientazione narrativa e per questo ha avuto scarso influsso sia nelle arti narrative che figurative, a differenza dell’Annunciazione a Maria. Anche nella musica il PN non ha avuto grande rilievo, essendo recitato dal solo celebrante nell’antica scelta liturgica.

Stefani conclude la sua nota storico-liturgica affermando che «la relativa difficoltà di trascrivere su altri registri la “preghiera di Gesù” pone in rilievo l’indissolubile unione di familiare prossimità e di austera elevatezza propria di una preghiera rivolta dalla terra a un Padre che è nei cieli».

L’autore riserva alle pp. 43-96 il suo commento al PN, che egli definisce «commento teologico». Lo suddivide in vari capitoli, così titolati: «Ritorno all’origine» (pp. 43-50), «Padre, che sei nei cieli» (pp. 51-62); «Sia santificato il tuo nome» (pp. 63-68); «Venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà» (pp. 69-74); «Dacci il nostro pane quotidiano» (pp. 75-78); «Rimetti a noi i nostri debiti» (pp. 79-82); «Non abbandonarci alla tentazione» (pp. 83-92); «Liberaci dal male» (pp. 93-96).

Al commento segue un’Appendice (pp. 97-98), la parafrasi dantesca del PN (pp. 99-106), il testo greco di Mt 6,9-13 e Lc 11,2-4 e quello latino della Vulgata.

Conclude la bibliografia (pp. 109-112), che cita, fra l’altro, i commentari moderni.

«Non portarci dentro la tentazione»
Ci soffermiamo su una richiesta presente nel PN particolarmente difficile da interpretare correttamente.

Stefani ricorda che le due richieste del non essere abbandonati alla tentazione (così la nuova traduzione CEI 2008) e di essere liberati dal male sono strettamente connesse. «Per chi si confronta con le sventure di cui è colmo il nostro mondo – commenta l’autore –, è pensabile che il senso delle due richieste poste una accanto all’altra sia: non indurci nella tentazione di credere che tu, Padre, non sia capace di liberarci dal male; il tuo non intervenire non istilli dubbi nel nostro cuore» (p. 84). La penultima domanda apre la porta alla fiducia nel rivolgere al Padre l’ultima, quella della liberazione dal male che continua a dilagare attorno al credente e dentro di lui.

La prova a cui si è sottoposti è, innanzitutto, quella del compimento stesso della volontà di Dio. Come mostra Gesù nel Getsemani, l’accettazione della volontà del Padre è connessa alla richiesta che il peso non sia troppo grave da portare. L’accettazione della volontà del Padre è collegata al vegliare per non entrare nella tentazione.

La petizione del non essere abbandonati è l’unica espressa al negativo, ma poi è bilanciata dalla richiesta positiva di essere liberati dal male. «La richiesta conclusiva rivolta al Padre fa dunque comprendere il senso autentico della domanda di non essere introdotti nella prova – commenta Stefani –: prima si chiede di non essere fatti entrare nella tentazione, poi si domanda di essere tenuti lontani dal male. In entrambi i casi la metafora è spaziale» (p. 87).

Fin dall’antichità ha fatto difficoltà il pensiero che Dio possa indurre qualcuno alla tentazione. «Indurre» è per Stefani una traduzione infelice e fuorviante. «La traduzione interpretativa “non abbandonarci” può rivendicare a se stessa una maggiore corrispondenza alla visione contemporanea di un Dio sempre misericordioso, ma non è la “vera”» (p. 88).

Lo studioso cita a p. 88 nota 85 il pensiero del biblista Crimella, critico nei confronti della traduzione CEI 2008. «Il senso della petizione – commenta Stefani –, salvaguardandone nel contempo l’ineliminabile carattere paradossale, potrebbe essere reso meglio con un “non farci entrare”, espressione che non ha in sé stessa alcun senso di istigazione» (ivi). «… in questa supplica del Padre nostro – annota – conviene conservare la forza scandalosa che già sconcertava i Padri. Allora si cercò di attenuarne l’impatto, ricorrendo, per lo più, a un’impostazione ben sintetizzata dalle parole di Ilario di Poitiers: “Non ci abbandonare a una tentazione che non possiamo sopportare”. La difficoltà deriva dall’aver dimenticato che solo individuando il diretto coinvolgimento di Dio nella tentazione se ne può cogliere davvero la paternità» (pp. 88-89). «Gesù nell’orto visse in modo diretto il legame tra tentazione e paternità di Dio. Prima di lui, sia pure in maniera diversa, il nesso era stato sperimentato da Israele nel deserto» (p. 89).

Secondo Stefani, occorre capire bene il senso di «tentare». Nel deserto sia Israele che Dio sono a turno «tentati» e «tentatori». Proprio nella sua qualità di figlio, Israele diventa una prova e una tentazione per colui che lo ha generato. Le mormorazioni sono una vera prova per il Signore. Generando il suo popolo, egli lo espone alle tentazioni della vita. Anche Gesù le ha provate. Soprattutto la prova nell’orto del Getsemani e quella dell’abbandono sulla croce sono una prova e una tentazione a cui il Padre può rispondere solo con la potenza della risurrezione.

Schweitzer e altri hanno interpretato la prova in senso «escatologico». La «croce» e la «consumazione della storia» sono prove collegate e dure. Bisogna pregare perché siano accorciate, il calice passi, che il Padre non ci faccia entrare nella tentazione. La prima domanda è quella di essere risparmiati. «Nell’“assenza”, la “presenza” è costretta ad assumere l’aspetto della domanda – conclude Stefani il suo commento a questa domanda –. Fu così anche per Gesù in croce: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mt 27,46; Mc 15,34; Sal 22,2). Solo pregando il Padre perché non ci abbandoni o interrogandolo sul perché della sua assenza si coglie il significato della richiesta di non essere fatti entrare nella tentazione» (p. 91).

Il volume riporta un ricco commento teologico al Padre Nostro, frutto di una lunga frequentazione biblica e della tradizione ebraica. Scritto in linguaggio non tecnico, praticamente senza note a piè di pagina, l’opera è un’utile sussidio per la preghiera più «praticata» dai discepoli di Gesù, ma che non finisce mai di stupire per la sua profondità di significati.

settimananews.it

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Il Vangelo. Pentecoste, la sinfonia di linguaggi dello Spirito

Pentecoste, la sinfonia di linguaggi dello Spirito

Domenica di Pentecoste Anno A

La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati».Lo Spirito Santo è Dio in libertà. Rifiuto della monotonia. Scelta della sinfonia. Ultima parola, che si offre sempre come nuova, come altra: alla nave come costa, alla terra come nave; al navigante come nostalgia di casa, all’uomo di casa come nostalgia del mare. Dio in libertà. Che fa cose che non t’aspetti. Che dà a Maria un figlio “fuorilegge’”, a Elisabetta un figlio profeta. E a noi dona tutto ciò di cui abbiamo bisogno per dare, a nostra volta, vita, o meglio ancora: per dare alla vita. La Parola di Dio oggi prova una sinfonia di linguaggi per tentare di dire qualcosa della vastità dello Spirito: non sono che semplici fessure, feritoie aperte sul mistero.1. La prima lettura (Atti 2,1-11) racconta di Apostoli come “ubriachi”, inebriati da qualcosa che li ha storditi di gioia, come un capogiro, una divina seduzione, violenta e felice. E la prima Chiesa, arroccata sulla difensiva, viene lanciata fuori e in avanti. La nostra Chiesa tentata, oggi come allora, di arroccarsi e chiudersi, perché in crisi di numeri, perché aumentano coloro che si dichiarano indifferenti o infastiditi, questa Chiesa, amata e infedele, può ancora attingere a quello slancio originario.2. Il salmo tra le letture (Sal 104,30) apre la seconda fessura: “Mandi il tuo spirito, sono creati, e rinnovi la faccia della terra”. Una delle affermazioni più belle e rivoluzionarie della nostra fede è offerta dalla Prece eucaristica III, quando il presidente proclama: “Tu, che per mezzo di Cristo e per opera dello Spirito fai vivere e santifichi l’universo”. Non solo l’uomo, ma tutto ciò che esiste; non solo doni vita, ma semini santità nell’universo, santità della luce, l’umile santità del bosco, del bambino che nasce, del cuore che ama, dell’anziano che pensa. Una divina liturgia santifica l’universo.3. La terza finestra sulla Pentecoste la apre Paolo nella seconda lettura (1Cor 12,5). Lo Spirito dà a ciascuno una manifestazione particolare per il bene comune. Sposa vite diverse, consacra vocazioni differenti, benedice la genialità e l’unicità di ogni vita. Lo Spirito non vuole banali ripetitori, ma discepoli geniali, edificatori di una Chiesa che trova unità attorno alla croce, varietà e creatività attorno allo Spirito.4. Infine il Vangelo racconta la Pentecoste come un incontro leggero nella sera di Pasqua: “soffiò su di loro e disse: ricevete lo Spirito santo” (Gv 20,22). In quella stanza chiusa e dall’aria stagnante, entra il grande, ampio e profondo ossigeno del cielo. Entra il respiro di Dio che non sopporta schemi e chiusure, che viene per farci vivi, sottile e profondo come il respiro, umile e testardo come il battito del cuore. (Letture: Atti

2,1-11; Salmo 104; Prima Lettera ai Corinzi 12,3b-7.12-13; Giovanni 20,19-23)© riproduzione riservata

di Ermes Ronchi, avvenire.it

Dio regala vita infinita a chi produce amore. Commento al Vangelo. Domenica di Pasqua Anno A

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Dopo il sabato, all’alba del primo giorno della settimana, Maria di Màgdala e l’altra Maria andarono a visitare la tomba. (…) L’angelo disse alle donne: «Voi non abbiate paura! So che cercate Gesù, il crocifisso. Non è qui. È risorto, infatti, come aveva detto (…)».All’alba, alle prime luci, quasi clandestinamente, due donne si recano alla tomba nel giardino. Vuote le mani, vengono solo per
visitare la tomba: guardare, osservare, sostare, ricordare. Sono le stesse donne che venerdì hanno abitato, senza arretrare di un centimetro, il perimetro attorno alla croce. Un angelo scese dal cielo, si avvicinò,
rotolò la pietra e si pose a sedere su di essa. Non apre il sepolcro perché Gesù esca, è già uscito, ma per mostrarlo alle donne: il sepolcro è vuoto, il Nazareno è già altrove. Come, non è detto. Il mistero di Dio resta intatto. Donne, angelo, guardie, il brivido della terra, cielo, pietra, alba: tutti sono convocati perché Gesù Cristo cattura dentro il suo risorgere tutto l’universo; è energia che si dirama per tutte le vene del mondo, una forza che ha imbevuto di sé tutta la trama del creato. «E non riposerà più, fino a che non avrà raggiunto l’ultimo ramo della creazione e rovesciata la pietra dell’ultima tomba» (M.Luzi). Le donne hanno il cuore grande abbastanza per parlare con gli angeli:
“So che cercate Gesù, non è qui!”. Voi cercatrici, mendicanti dell’amato, continuate, ma con occhi nuovi.
Che bello questo: non è qui!
Cristo c’è, esiste, vive, ma non qui. Non è rinchiuso in nessun luogo. Va cercato altrove, diversamente, via dal territorio delle tombe, è in giro per le strade, un Dio da cogliere nella vita. Dappertutto, ma non qui, fra le cose morte.
Bisogna cercare più a fondo: non c’è luogo che lo contenga, non chiesa, non parole o liturgie. Lui è oltre, sempre oltre è il suo infinito cammino.Non è qui, vi precede, è davanti ad aprire la nostra immensa migrazione verso la vita. È davanti, a ricevere in faccia il vento, il sole, il futuro, la violenza. Andate, vi precede. Un Dio migratore, abbiamo, che ama gli spazi aperti, che apre cammini, attraversa pietre e spalanca tombe. Pasqua vuol dire ‘passare’. Non è festa per stanziali, ma per migratori, per chi inventa sentieri che facciano scollinare verso più giustizia, più pace, più armonia con il creato, verso terra nuova e cieli nuovi.Vi precede in Galilea. Là lo vedrete. Ucciso a Gerusalemme, risorto a Gerusalemme, ma l’incontro avverrà ai margini, lontano dal centro dei poteri omicidi, in Galilea dove tutto ha avuto inizio con tre anni di strade, lago, pani e pesci, olivi, le lezioni sulla felicità, intese amicali. Devono
rileggere tutta la vita di Gesù per capire la sua risurrezione. Devono ripercorrere la sua vita dall’inizio, allora capiranno che Dio l’ha
risuscitato perché una vita così non può finire. Che gesti e parole così meritano di non morire, hanno dentro la vita indistruttibile che Dio regala a chi produce amore.

Letture: Atti degli apostoli 10,34a.37-43; Salmo 117; Colossesi 3, 1-4; Matteo 28, 1-8 (Vangelo della Veglia pasquale nella notte santa)

La resurrezione di Lazzaro. Il commento di monsignor Giacomo Morandi


Nella quinta domenica di Quaresima il Vangelo ci presenta l’episodio della resurrezione di Lazzaro. La rabbia e la delusione delle sorelle di Lazzaro davanti al fratello morto diventano una professione di fede nel dialogo con Gesù. Davanti alla morte di Lazzaro il Signore anticipa la prospettiva della vita eterna e la domanda che rivolge a Marta rimbalza fino a noi: “Credi tu questo?”.

Vangelo 25 Marzo 2023 Annunciazione del Signore

Dal Vangelo secondo Luca
Lc 1,26-38

In quel tempo, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nàzaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse: «Rallégrati, piena di grazia: il Signore è con te».
A queste parole ella fu molto turbata e si domandava che senso avesse un saluto come questo. L’angelo le disse: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine».
Allora Maria disse all’angelo: «Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?». Le rispose l’angelo: «Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio. Ed ecco, Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito anch’essa un figlio e questo è il sesto mese per lei, che era detta sterile: nulla è impossibile a Dio».
Allora Maria disse: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola». E l’angelo si allontanò da lei.

Parola del Signore.