Fare spazio alla sapienza di Dio, lasciarsi guidare con fiducia, scrutare l’orizzonte secondo le direzioni che essa indica: questa è la traccia che Raphaël Buyse, sacerdote francese della diocesi di Lille, segue nel suo ultimo libro, Una saggia follia

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Fare spazio alla sapienza di Dio, lasciarsi guidare con fiducia, scrutare l’orizzonte secondo le direzioni che essa indica: questa è la traccia che Raphaël Buyse, sacerdote francese della diocesi di Lille, segue nel suo ultimo libro, Una saggia follia (Qiqajon, 2023, pp. 121, 10€).

La scrittura di Buyse ha un merito, ed è quello di saper aprire sentieri, infondendo speranza e coraggio, per vivere nel tempo di oggi la fede cristiana — come già aveva dimostrato in un precedente testo, Un Dio diverso.
La sua è una meditazione che sa prendere con delicatezza il lettore per mano, accompagnandolo passo passo, non ergendosi a maestro e guida, ma presentandosi come compagno di cammino: dietro ogni pagina del sacerdote c’è la sua vita, la sua esperienza, le sue intuizioni, le sue fatiche, la sua fede, il suo sguardo sul mondo, alla scuola di grandi figure che egli ricorda spesso, a partire da Madeleine Delbrêl. Così in Una saggia follia, secondo la lettura paolina della sapienza di Gesù di Nazareth — follia per chi non si pone alla scuola del Vangelo, nel suo radicale ribaltamento di valori —, egli vuole farsi guidare dallo Spirito in una rilettura sapienziale di alcune grandi coordinate esistenziali, a partire dalla ricchissima pagina del Vangelo di Giovanni custodita nel capitolo 21: sette discepoli che tornano a pescare, invano, dopo la resurrezione, per assistere nuovamente alla manifestazione del Cristo sulla riva del lago. Così, dalla scena giovannea, Buyse risale ai nostri giorni, cogliendo stimoli, domande, aperture che dalla Parola possono derivare per il momento che ci coglie: «la sapienza dello Spirito ci insegna che non vi è altro luogo di santità — cioè di salute — e di vocazione — vale a dire di compimento di ciò che siamo — al di fuori della vita che ci è data qui e ora, poiché “se ci mancasse qualcosa, Dio ce l’avrebbe già data”, diceva Madeleine Delbrêl». Tutti sperimentano la notte delle ‘reti vuote’, sia a livello personale, sia a livello ecclesiale, quando impegni, progetti e azioni risultano inutili per raccogliere risultati, quando lo scacco, il buio e lo smarrimento sembrano prevalere: «Quando le nostre reti risalgono vuote, si prepara qualcosa del mistero dell’alleanza. Non ci resta che crederci. Lì si gioca la speranza cristiana». E opportunamente Buyse invoca parresia nel conteggio dei fallimenti personali e comunitari, oltre maschere e pose di scarso realismo: «Noi non abbiamo il coraggio di parlare tra noi delle nostre reti vuote: eppure, è buono e salutare ammettere reciprocamente che la vita è a volte dura per noi».
Per non subire la tenebra, è importante non essere soli, aprendosi all’altro, secondo il modello dei discepoli sul lago: erano sette, ancora ‘superstiti’ della vicenda accaduta a Gerusalemme.

Ma si deve avere il coraggio di seguire la sapienza, che domanda di «fare la stessa cosa, ma diversamente», perché (regola troppo spesso dimenticata, nella sua ovvietà), «non si può cambiare ciò che non va rifacendo le stesse cose di prima». Eppure per riconoscere la visita del risorto servono silenzio, umiltà, onestà, permanenza nelle circostanze che la vita offre, oltre fughe e utopie: «Lo Spirito ci fa capire anche che Dio ci parla attraverso le nostre vite. Nessuno è più triste di colui che non osa ascoltarsi, che ha paura dei suoi desideri e delle sue aspirazioni profonde, che non osa dire ciò di cui ha bisogno per vivere. Perché il Signore passa anche da lì».

È l’amore gratuito del risorto che può cucire e sostenere, aiutando ripartenze e nuovi inizi, come accade a Pietro, capace di buttarsi in acqua appena si accorge che lo sconosciuto sulla riva è Gesù… quel Pietro capace anche di ammettere, infine, di fronte alle domande del maestro, solo la fragilità del suo bene: è una lezione che dovremmo custodire ogni qual volta si scelgono uomini e donne per compiti e responsabilità: «Bisogna ammettere che nella chiesa è molto raro farsi domande sull’amore. Ci si chiede se qualcuno sa animare un’assemblea, se ha spirito organizzativo, se è leale verso i superiori. Ci si chiede se è capace di cavarsela nelle relazioni mondane o se canta abbastanza bene. Quasi mai ci si chiede se ama la gente. Ora ciò sembra essere la sola domanda che interessa a Gesù: è proprio in questa domanda che si gioca il destino dell’uomo e della chiesa». L’amore per Dio, l’amore per l’uomo, l’amore per il mondo: grandi direttrici che Buyse delinea per il cristiano che abita l’attualità, a chiusura della sua fertile meditazione.

In appendice, egli ricorda alcune persone che, a suo avviso, sono stati depositarie di sapienza: il benedettino Frédéric Debuyst, anziano monaco che con dolce saggezza ha aiutato l’autore in un momento di personale smarrimento; Ambrogio di Milano; Dietrich Bonhoeffer. Tre esempi di come, nelle diversità di tempi e carismi, la sapienza di Dio opera per costruire il bene dell’umanità e per rendere abitabile il mondo, secondo il disegno di amore del Padre.
Una saggia follia è un piccolo libro prezioso, che può arricchire la preghiera dei giorni che conducono alla Pasqua e poi alla Pentecoste.
vinonuovo.it

Reggio Emilia. Cent’anni di psichiatria. A Piero Benassi il Primo Tricolore

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Neurodiversità e autismo nell’infanzia 18 nov 2023 – Piero Benassi (ph. Laura Sassi)

laliberta.info

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Giovedì 4 aprile, alle ore 15 nella Sala del Tricolore, il sindaco Luca Vecchi consegnerà il Primo Tricolore al professor Piero Benassi, medico psichiatra, per trent’anni – dal 1964 al 1994 – direttore dell’Ospedale psichiatrico San Lazzaro di Reggio Emilia.

La cerimonia è promossa dal Comune di Reggio Emilia in collaborazione con l’Università degli studi di Modena e Reggio Emilia e il Lions Club Reggio Emilia Host, a pochi giorni dal centesimo compleanno del professor Benassi.

La consegna del Primo Tricolore vuole essere un riconoscimento a un cittadino illustre di Reggio Emilia, la cui storia professionale, di ricerca e docenza si è incentrata sullo studio della mente e sulla psichiatria. Per l’occasione in Sala del Tricolore sarà distribuita ai presenti una copia del nuovo libro di Piero Benassi, Come funziona il cervello?

Oltre ad aver diretto a lungo l’Ospedale San Lazzaro, fra i principali istituti psichiatrici italiani, gestendone fra l’altro la complessa fase della chiusura, Benassi è stato docente di Psichiatria all’Università di Bologna e direttore della Rivista Sperimentale di Freniatria dal 1964 al 1997.
Per Decreto del presidente della Repubblica (7 gennaio 1999), Benassi ha ricevuto la Medaglia d’Oro al merito della Sanità pubblica.

È autore di oltre trecento pubblicazioni scientifiche e dal 2002 al 2014 è stato presidente dell’Associazione per il Museo di Storia della Psichiatria presso il San Lazzaro di Reggio Emilia. Dal 2002 al 2014, inoltre, è stato vicepresidente della Società italiana di Psichiatria.

Tra i numerosi titoli a sua firma, negli ultimi anni ha pubblicato: Compendio delle cure psichiatriche e le vulnerabilità della condizione umana (2018); Storie di una psichiatria viva (2019); Narrazioni e storie in psichiatria (2020); Ansia, fobie, ossessioni. La relazione che cura (2021); Una storia di libertà (2022). Nel 2023 ha pubblicato La storia del famoso manicomio San Lazzaro di Reggio Emilia.

La partecipazione è libera, a riempimento dei posti a disposizione.

Don Peppino Diana

di: Fabrizio Mandreoli

peppe diana

Il profeta fa da sentinella: vede l’ingiustizia, la denuncia e richiama il progetto di Dio (Ez 3,16-18).
Il profeta ricorda il passato e se ne serve per cogliere nel presente il nuovo (Is 43).
Il profeta invita a vivere, e lui stesso vive, la solidarietà nella sofferenza (Ger 8,18-20).
Il profeta indica come prioritaria la via della giustizia (Ger 22,3; Is 58)
(G. Diana, Educare alla legalità, Napoli 19 marzo 1992)

È uscito in questi ultimi mesi il libro di Sergio Tanzarella, Don Peppino Diana. Un prete affamato di vita, presso il Pozzo di Giacobbe. Un testo composto da otto intensi capitoli a cui si aggiunge un allegato (163-206) con alcune preziose testimonianze su don Diana che fu ucciso dalla camorra il 19 marzo 1994, esattamente trent’anni fa.

I temi e le questioni sollevati dalla ricostruzione di Sergio Tanzarella sono davvero molteplici a livello ecclesiale e politico, qui desideriamo segnalare una caratteristica triplice del lavoro del professore di storia del cristianesimo della Facoltà dell’Italia meridionale. Si tratta, nello stesso tempo, di un’opera rigorosamente storica, di un lavoro appassionato e partecipe ai problemi del contesto e quindi – per la serietà dell’analisi storica e per la passione civile che la anima – capace di suggerire piste di riflessione molto serie e feconde per la teologia cristiana.

Un lavoro dunque di storia, passione e teologia. Articoliamo la presentazione dell’intreccio di queste caratteristiche attraverso l’individuazione di alcuni possibili vettori interpretativi, forse utili per il lettore.

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Bonifica storica

In primo luogo, sin dalla premessa, l’autore sottolinea il punto di partenza della ricerca ossia la faticosa storia della memoria del martirio di don Diana, il disinteresse delle amministrazioni locali e il desiderio di ricostruzione della vita di un prete «con una vita assolutamente normale vissuta in una delle tante, comuni e infinite periferie suburbane del Mezzogiorno. Anonime e inospitali» (8).

Ricostruzione che desidera essere precisa e basata sulle fonti proprio per l’importanza della testimonianza di don Diana: «Chissà che i lettori di questo libro dedicato a te Peppino, i più lontani e i più sconosciuti, non riprendano coraggio proprio grazie alla tua morte di martire, e che nelle nostre terre ancora più irrimediabilmente disperate del 1994, la rassegnazione possa essere vinta grazie al ricordo del tuo impegno nella ricerca della verità, alla tua vita controcorrente e al tuo coraggio di dare il giusto nome a cose, avvenimenti e realtà […] per la liberazione da una condizione di oppressione, di sudditanza e di morte» (14). Molto significativa in tal senso la dedica iniziale all’amico giornalista Mario Tudisco (15-16).

In secondo luogo, l’autore mostra la questione della ricerca storica fin qui svolta, che a parte alcune eccezioni, ha molto sofferto per imprecisioni, cose non vere, fantasie: «Il nome di Peppino Diana è [infatti] entrato nella ritualità di certa antimafia di maniera di taluni professionisti che, ignorando sia il contesto in cui maturarono le sue scelte sia le motivazioni che quelle scelte sostennero, si limitano a pronunciare il nome come uno slogan. E invece la figura di Diana meriterebbe maggiore attenzione e rispetto, e certo più impegno nel raccogliere tutte le fonti disponibili, soprattutto quelle del contesto di una estrema problematicità sociale ed ecclesiale come quella del casertano, per comprenderne la complessità all’interno degli anni ’80 e dei primi anni ’90. Questo libro non ha quindi la pretesa di completezza e vuole tracciare un primo elenco di problemi aperti che possa promuovere una ricerca storica sulla figura e sull’opera di Diana senza curarsi delle menzogne dei calunniatori […] e senza cadere però nella pochezza dell’agiografia spicciola carica di pacchiani errori storici, dannosa forse più delle calunnie» (19).

Viene svolto, quindi, un lavoro di bonifica storica per discernere il vero dal falso e soprattutto per cogliere l’orizzonte di fondo della vicenda di don Diana che «è da comprendere all’interno di una pastorale che non si accontentava più di celebrare i funerali degli uccisi dalla camorra […] e di adempiere alla gestione del sacro. Diana matura progressivamente una coscienza sacerdotale come parroco che gli impone: una pastorale di aderenza alla realtà, di lettura dei segni dei tempi, di comprensione del dovere per la Chiesa e della parresia» (29-30). Fa parte di questa ricerca storica attenta e circostanziata la capacità di rileggere criticamente anche la fiction del 2014 su don Diana in un capitolo intitolato significativamente Don Peppino Diana non è don Matteo.

Il contesto sociale e la formazione

In un terzo passaggio, l’analisi si fa serrata e mostra l’importanza della ricostruzione del contesto sociale, economico e politico che da al lavoro storico profondità e un senso esatto della temporalità degli eventi. Il capitolo in questione mostra l’intreccio impressionante tra malavita organizzata e responsabili politici e istituzionali, locali e nazionali, con l’appoggio di un deleterio collateralismo tra Democrazia Cristiana e Chiese locali. Il testo va letto in maniera integrale per rendersi conto che non si tratta di affermazioni generiche, ma di una ricostruzione precisa corroborata con documenti degli anni 1993-1994 della Commissione Parlamentare Antimafia in cui emerge l’ambiente della pastorale di Diana.

Un contesto «nel quale la forza criminale della camorra non prosperava soltanto di forza propria ma […] era alimentata da sezioni significative della pubblica amministrazione e da apparati dello stesso Stato in parte complici, in parte indifferenti. E tutto questo si manifestava nei momenti più significativi della democrazia: le elezioni. Le campagne elettorali erano condotte, come del resto lo sono ancora oggi, con viveri, promesse, benefici, minacce, un controllo pedissequo del voto, con gli elettori assenti presi casa per casa e condotti a votare» (54). Lo studio dell’ambito di vita di don Diana mostra così «un impegno generoso nella palude di una società dove la camorra esercitava una quasi incontrastata egemonia» (57).

Un ministero pastorale che proprio in un tale difficilissimo contesto si configura e si ispira alla profezia biblica ed evangelica, come emerge nelle parole dello stesso Diana nel 1992: «Il nostro impegno di denuncia è profetico, ma una profezia viva, vissuta. Non vi dico che parecchi di noi hanno sofferto anche delle telefonate strane. Io, qualche anno fa, ho tra le mie esperienze anche qualche piccola pistolettata. Ormai i confetti di piombo ci fanno quasi compagnia fissa tutti i giorni. Non a caso in una settimana ho celebrato tre funerali di morti di camorra» (58).

In un quarto momento Tanzarella ricostruisce in maniera analitica la formazione umana e intellettuale presso la sezione san Luigi della Facoltà Teologia dell’Italia Meridionale diretta dai padri gesuiti. È un testo importante (61-82) perché mostra le radici formative di una pastorale di natura profetica in cui risuona la svolta post conciliare della Compagnia di Gesù con la guida di Arrupe nella direzione della promozione della fede e della giustizia nel loro intrinseco legame. In particolare risulta di non poca rilevanza l’approfondita formazione alla lettura della Bibbia e alla sua corrente profetica.

Il coraggio della Parola

Tale ricostruzione della formazione di Diana permette di meglio delineare i tratti e le fonti del suo modo di interpretare e vivere la propria missione sacerdotale. Egli si ispira a figure come Oscar Romero, legge Primo Mazzolari e Carlos Mesters in cui la lettura biblica è sempre radicata nella comprensione viva del dolore del popolo. «È certo attraverso queste esperienze e letture che egli matura progressivamente la consapevolezza della necessità di una azione pastorale che non resti indifferente alle gravissime emergenze sociali che si vivono in quel tempo in Italia e nella provincia di Caserta stretta nella morsa delle associazioni criminali di numerosi e sanguinari gruppi camorristici e nella complessiva assenza e complicità delle istituzioni dello Stato. Tutti i dodici anni di ministero sono punteggiato da questo continuo e doloroso confronto in un territorio socialmente ed ecologicamente devastato e nel quale in poco più di un decennio vi furono molte centinaia di omicidi» (86).

Sono anni di febbrile attività in cui insieme con i confratelli parroci e diversi laici si lavora per una pastorale di effettivo rinnovamento che denunci il male e chiami al bene con «appello alla forza della parola». Alcuni documenti della Chiesa italiana degli anni Ottanta e la pastorale di Antonio Riboldi, vescovo di Acerra, costituiscono un altro tassello di un modo serio di prendere la realtà, letta e interpretata evangelicamente. Ma è soprattutto l’esempio, l’impronta pastorale e il legame personale, che si sviluppa dal 1991, con il vescovo di Caserta Raffaele Nogaro[1] – a cui è dedicato un intero capitolo del libro (137-151) – che animano e sostengono la prospettiva di una Chiesa che si sente chiamata a rispondere alle domande sollevate da una tale emergenza sociale e umana.

È in questo quadro che viene descritta l’uscita il 24 dicembre 1991 della lettera manifesto Per amore del mio popolo scritta dai sacerdoti della forania di Casal di Principe. Una lettera di straordinaria concisione e chiarezza in cui emerge «una grande e sofferta riflessione: essere segno di contraddizione. In questa realtà c’è bisogno che qualcuno inizi a essere segno di rottura, di contraddizione e quindi una forma di denuncia» (103). Lettera che attinge all’ispirazione profetica in cui la descrizione della realtà di ingiustizia e l’appello al bene e alla conversione sono due facce della stessa medaglia.

Nel 1992 affermerà don Diana: «Noi vogliamo testimoniare che se Cristo ci ha lasciato una Parola, questa Parola non la dobbiamo strapazzare, come per tanti anni abbiamo fatto, forse l’ho fatto io, lo abbiamo fatto tutti noi, spesso lo facciamo in questo nostre riunioni che convochiamo. Non bisogna strapazzare la Parola di Cristo, va fatta vivere, va spiegata […] e quindi quella Parola di salvezza la dobbiamo presentare, averne coraggio, non avere paura. Avere il coraggio di dire a una persona che usa l’arma che deve smettere» (104). La descrizione, a livello locale e nazionale, del quinquennio ‘90-’95, in cui avviene l’uccisione di don Diana, è magistrale e crediamo meriti un’attenta lettura (104-110).

Nel vivo del nostro tempo

In un quinto passaggio, molto significativo, l’autore continua la propria ricostruzione concentrandosi sul periodo successivo la morte di don Diana, utilizzando soprattutto la documentazione relativa ai vari processi riguardanti il suo omicidio. È una lettura estremamente istruttiva per comprendere la qualità umana e morale di don Diana nelle varie testimonianze e nello stesso tempo per cogliere l’insieme di depistaggi, calunnie e sospetti – anche istituzionali – che hanno circondato la sua figura.

Eloquente, in proposito, risulta il trattamento vessatorio e pregiudiziale riservato a Mons. Nogaro nell’interrogatorio del 6 dicembre 2002 (131-134) e significative le conclusioni del nostro autore in cui mostra, a fronte del contesto sociale degradato – che ha portato all’uccisione di don Diana e dopo la sua morte a vari tentativi di inquinarne la memoria – sull’importanza di un lavoro serio e approfondito, di natura culturale ed educativa per lavorare ad un risanamento ambientale e sociale nella linea di un’attuazione della carta costituzionale nei suoi desideri di una vera giustizia sociale (134-135).

Un’ultima parola – ed è un sesto passaggio – sul capitolo conclusivo Nel nodo del dramma umano. Il tema meriterebbe da solo una trattazione ampia ed adeguata, qui basti ricordare come un senso vivo e non apatico del contesto sociale di allora e di oggi, insieme con un lavoro storico senza sconti fanno di questo libro uno straordinario strumento di analisi anche teologica. Il capitolo conclusivo consiste infatti in una rilettura alla luce dell’insegnamento di papa Francesco – insieme con una comprensione acuta di una rinnovata teologia del martirio – della testimonianza umana e cristiana di don Diana che può rappresentare una sorta di cartina di tornasole per molte questioni della vita della Chiesa di ieri e di oggi.

Leggere la conclusione da infatti l’impressione di trovarsi nel vivo delle questioni del tempo attuale in cui la Chiesa pare chiamata a scegliere se auto-preservarsi – o meglio se preservare brandelli e rottami di una pastorale che sembra non interrogare e non parlare più – oppure preoccuparsi con tutte le forze disponibili – umane e spirituali, culturali e operative – del «reale inserimento del vangelo nel popolo di Dio e nei concreti bisogni della storia» (Francesco, EG 95). Questo è il nodo che l’impressionante vicenda di don Diana – letta con intelligenza, amore e precisione – conduce ad affrontare senza finzioni e con un forte desiderio di verità ed autenticità.

Fonte: settimanannews

[1] Si veda M.C. Caiola, A. Carfora, L. Kocci, F. Mandreoli, S. Tanzarella, Il vescovo Raffaele Nogaro. 90 anni di radicale mitezza, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani 2024.

Meditazioni sul vangelo di Luca

di: Roberto Mela

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Matteo CrimellaSeguire Gesù. Sette meditazioni sul Vangelo di Luca, Terra Santa Edizioni, Milano 2024, pp. 128, qui con sconto 5% a Eur 14,25.

Matteo Crimella è presbitero ambrosiano, dottore in Scienze Bibliche e insegna Sacra Scrittura presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale (Milano), al Seminario Teologico del PIME (Monza) e al Collegio Alberoni (Piacenza).

In questo libro egli mette a frutto il lavoro compiuto nella tesi dottorale, imperniato sul «triangolo drammatico».

Nel Vangelo di Luca egli ritrova vari racconti imperniati apparentemente su due personaggi, ma che, in verità, si rivelano essere un triangolo di interpreti che ritrovano in una persona una posizione superiore, decisiva nel rivelare la verità del racconto stesso e di ciò a cui rimanda, il regno di Dio.

Sette meditazioni

Crimella analizza con sinteticità esemplare per chiarezza e profondità di suggerimenti sette brani del Vangelo di Luca. Seguendo il metodo della lectio divina, egli propone dapprima il testo in traduzione personale, quindi la lectio che intende scoprire cosa dice il testo, quale tratto del mistero di Dio intenda rivelare. È il significato del testo.

Segue la meditatio che si domanda cosa il testo voglia dire oggi alla Chiesa, alla comunità e al lettore credente.

L’ultimo passo è l’oratio, rappresentato per lo più da una preghiera di santi e di uomini di Dio vissuti nei due millenni di cristianesimo.

Lc 7,36-50: Il fariseo e la peccatrice

Lc 7,36-50 riporta la scena del fariseo, la peccatrice e Gesù. Crimella esamina a livello narrativo/narratologico i vari personaggi, le loro azioni, parole, sentimenti, giudizi ecc. Il fariseo mostra giudizio, disprezzo verso la donna e anche scarsa accoglienza della persona di Gesù, invitato forse solo per acquistare ulteriore fama. Il personaggio che emerge nel triangolo drammatico è Gesù, che si rivela non solo come profeta (realtà messa in dubbio dal fariseo), ma anche come colui che perdona i peccati, colui che salva.

A causa della parabola inserita nel racconto – con una sua logica –, gli autori si domandano se sia l’amore a causare il perdono, o non piuttosto l’inverso. Non occorre scegliere. Dio e Gesù avvolgono le persone col perdono preveniente e sanante, attirano le persone alla salvezza per il loro essere accoglienti e suscitano ulteriore amore. Alla fine, viene lodata la fede della donna come elemento che porta alla salvezza.

L’oratio è rappresentata da un testo di santa Teresina, che traccia un itinerario per vivere e morire d’amore.

Lc 10,25-37: Il Buon Samaritano

La famosa parabola del Buon Samaritano (Lc 10,25-37) mette in campo un sacerdote e un levita, il Samaritano e il ferito. Crimella ripercorre la lettura allegorica che ha imperato per secoli, per poi passare a un’interpretazione basata su una lettura di tipo narrativo/narratologico. I primi due personaggi si rispecchiano l’un l’altro nel loro disinteresse per il malcapitato, mentre lo scomunicato samaritano soccorre il ferito con tutto sé stesso.

Crimella sottolinea, però, come la parabola sia raccontata dal punto di vista del ferito. Essa interroga sull’identità del prossimo non più a partire dal donatore, ma da quello del beneficiario, senza nome e senza identità, un membro dell’umanità. C’è un capovolgimento di prospettiva. Quando sono posto in una condizione di indigenza, qualunque sia la mia identità, aspetto che un altro si riconosca prossimo per me.

L’oratio riporta un brano della lettera pastorale Farsi prossimo del card. Martini.

Lc 10,38-42: Marta e Maria

Nel triangolo drammatico rappresentato da Marta, Maria e Gesù nell’intimità di una scena domestica di ospitalità (Lc 10,38-42), Crimella sottolinea il fatto che non si intende opporre vita attiva e vita contemplativa, ma proporre un itinerario che recupera positivamente Marta in vista di un cammino di discepolato senza eccessive «dis-trazioni». La ripetizione del nome «Marta, Marta» è tipica dei racconti di vocazione.

La cosa buona che non verrà tolta a Maria è ascoltare Gesù come discepola. A questo è invitata anche Marta, descritta come «occupata» e «confusa». Ella non è giudicata negativamente per il suo servizio ma ammonita per l’eccessiva preoccupazione, dispersione e inquietudine che le impediscono l’ascolto della parola di Dio.

L’accoglienza di Marta e l’ascolto di Maria sono – secondo Crimella – le tappe di un itinerario che passa dall’ospitalità all’attitudine discepolare, scartando invece l’occupazione distratta. Un detto dei padri del deserto ammonisce sulla necessità sia del lavoro che della preghiera.

Un brano di Origene a commento della Lettera ai Romani esalta la fatica e le continue veglie di coloro che scrutano in profondità le Scritture.

Lc 15,11-32: Il padre e i due figli

Molto ricca di spunti è anche la lettura della famosa parabola del padre e dei due figli (Lc 15,11-32). Nella lectio lo studioso rammenta tre interpretazioni tradizionali del racconto: la penitenziale, quella morale e quella etnica.

Quello che si instaura è un triangolo drammatico, che rivela la personalità dei vari personaggi, per porre in primo piano la figura del padre. Egli accondiscende al cammino libertario del figlio cadetto. (Crimella ricorda che la pratica della donatio inter vivos fosse in auge, quindi il figlio minore non «uccide il padre» domandandogli la propria parte di eredità in anticipo).

Il figlio minore torna a casa per fame. Il figlio maggiore vive in casa da schiavo, vittima della logica della giustizia retributiva, senza aver compreso mai il cuore del padre.

Nell’accoglienza di chi ritorna e nella premura per far partecipare anche il maggiore alla festa, Gesù rivela tramite il personaggio del padre l’identità di Dio Padre e la novità della logica del regno di Dio, in cui vige l’accoglienza, la fraternità, il perdono.

La parabola infatti è raccontata a giustificazione del comportamento di Gesù che accoglieva i peccatori, rivelando in tal modo la logica del Padre e del regno (Lc 15,1-3). Se il Samaritano era narratologicamente una figura “piatta”, il padre della parabola assume invece uno spessore di notevole rilievo e si avvicina a quella di Gesù che risolve la contestazione di Marta nei confronti di Maria.

Il padre della parabola risolve le contestazioni rivelando un punto di vista inedito, con una sorpresa che però è soprattutto rivelativa, ossia teologica. Le parabole che precedono il racconto, quelle della pecora perduta e della dramma smarrita, presentano dei personaggi che si oppongono al resto. Entrambe sono ritrovate, come entrambi i figli sono ritrovati dal padre buono e dalla sua grazia: si attende solo la risposta della libertà (i figli non sono pecore o monete…).

Una preghiera del rito maronita per la quarta domenica di Quaresima ricorda Gesù che rivela l’amore del padre misericordioso.

Lc 16,19-31: Il ricco epulone e Lazzaro

Nell’ambito contestuale costituito dal tema della ricchezza, la parabola di Lazzaro, il ricco e Abramo (Lc 16,19-31) oppone le figure del povero Lazzaro che, alla sua morte, è accolto nel seno di Abramo e quella dell’anonimo ricco epulone talmente ingolfato nella sua vita di ingozzamento nella ricchezza più sfrenata da non accorgersi del povero – di cui conosce il nome! –) che giace alla sua porta.

L’opposizione dei personaggi, il ribaltamento di sorte che accade dopo la loro morte rivelano la grazia che abbraccia Lazzaro – di cui non si dice che fosse buono e impeccabile – e la squallida sepoltura che attende il ricco. Egli chiede imperiosamente ad Abramo che Lazzaro gli dia da bere (pensa ancora di comandare…) e poi si preoccupa della conversione e della salvezza dei suoi cinque fratelli.

Abramo, però, gli rivela il punto di vista superiore nel triangolo drammatico. La colpa del ricco è esplicitamente collegata al tema generale della ricchezza che rende senza volto e ignari dei fratelli bisognosi. Neppure una risurrezione miracolosa ed estemporanea di qualche morto può convertire il cuore dei fratelli del ricco epulone. Hanno la legge di Mosè, le Scritture. Sono sufficienti. In esse è rivelata la volontà di Dio sul rapporto ricchezza-povertà.

Nella parabola è decisiva la pressante richiesta di conversione. È evidente che per un discepolo di Gesù la sua risurrezione e la sua parola sono fattori estremamente importanti, che aiutano enormemente a fare la differenza e a rivelare il disegno di Dio e la logica del Regno da vivere fin d’ora sulla terra.

Aelredo di Rievaulx, uomo docile e misericordioso, ricorda al Signore Gesù tutta la sua debolezza e povertà. «Signore Gesù, io sono povero, e anche tu lo sei; sono debole e anche tu lo sei; sono uomo, ma anche tu lo sei. Ogni mia grandezza viene dalla tua piccolezza; ogni mia forza viene dalla tua debolezza… Io ti seguirò, Signore Gesù».

Lc 18,9-14: Il fariseo e il pubblicano

La parabola del fariseo, il pubblicano e Dio (Lc 18,9-14) sembra avere come tema dominante quello della preghiera fatta correttamente. Quella quel fariseo è in realtà un monologo verso sé stesso e un giudizio sprezzante sul pubblicano. Quella del pubblicano è ben fatta e ben rivolta a Dio con sincerità.

Crimella invita a sfuggire a due trappole: la tipizzazione dei due personaggi (pensando che tutti i farisei siano così…) e che il racconto fittizio riguardi la preghiera e il modo di pregare.

Per capire la parabola occorre, invece, distinguere tra il quadro del racconto (vv. 10-13) e la sua cornice (va. 9 e 14).

La cornice fornisce il significato ultimo della parabola. Essa è raccontata per/rivolta a/contro alcuni (farisei, astanti?) che confidano fiduciosamente su sé stessi per la loro vita spirituale, mentre disprezzano gli altri.

Nella cornice del quadro viene affermato che il pubblicano torna a casa giustificato, innalzato perché si è umiliato.

Il triangolo drammatico è costituito dalle due figure opposte, specchio per tutti, e il giudizio superiore espresso da Gesù/Dio è contenuto nella logica del regno di Dio. Le parole di Gesù (e quelle iniziali di Gesù/Luca) dirimono la questione del triangolo drammatico, imperniato non tanto sulla preghiera (tema del contesto invero), quanto sulla falsa presunzione di innocenza e di superiorità espressa da chi pensa di essere a posto grazie alla pura osservanza della Legge, adempiuta addirittura con surplus di radicalità.

In questa parabola si vede chiaramente il vantaggio del lettore. Egli, a differenza dei personaggi, è messo a parte della risposta divina. Tira dunque le conseguenze: le opere buone del fariseo (opere che rimangono buone) sono vanificate dal giudizio spietato nei confronti del pubblicano. Come nella parabola del padre e dei due figli, il riconoscimento della paternità di Dio chiede pure la fraternità, condizione necessaria per intendere la paternità.

L’oratio riporta una strofa di una preghiera composta dal katholikos della Chiesa armena Nersēs Šnorhali (1103-1173), tutta percorsa dalla coscienza del peccato e dalla meraviglia per la misericordia di Dio.

Lc 23,39-43: I due ladroni

L’analisi del racconto dei due “ladroni” crocifissi con Gesù (Lc 23,39-43) chiude il volume di Crimella.

I due malviventi/terroristi hanno reazioni opposte di fronte a Gesù crocifisso e sofferente come loro. Uno lo insulta e chiede con tono sprezzante la salvezza, l’altro riconosce la propria colpa, l’innocenza di Gesù e chiede di ricordarsi di lui quando entrerà nel suo Regno.

Il confronto drammatico fra le due figure è risolto dalla posizione superiore e risolutiva di Gesù che, con autorevolezza, assicura al «buon ladrone» che il giorno stesso sarà con lui, cioè nel paradiso. L’ironia drammatica di Luca è suprema: mentre Gesù è schernito, in realtà sta salvando l’umanità proprio condividendo l’impotenza, la debolezza, l’iniquità. Nell’ultima cena egli aveva interpretato il significato profondo della sua morte come il compimento del versetto di Is 53,12 (cf. Lc 22,37) sull’essere annoverato fra gli empi.

Il «buon ladrone» intuisce che «l’impotenza di Gesù a salvarsi da sé non contraddice la sua messianicità ma, misteriosamente, ne dispiega la forma più propria e nuova. L’innocente è il Messia che dispone di sé e la cui potenza va oltre la morte in quanto invoca perdono per i suoi stessi uccisori. Gesù ha inaugurato il suo Regno e la venuta potente di quello stesso Regno inizia a manifestarsi appieno nella croce. Il legno dell’infamia diventa trono di misericordia. “Padre, perdona loro, infatti non sanno quello che fanno!” (23,34)» (pp. 119-120).

Il buon ladrone è l’unico nel Vangelo a chiamare Gesù con il suo solo semplice nome, e lo fa con continuità (il verbo che contiene la richiesta è all’imperfetto). «La fede di quest’uomo è domandare salvezza a un condannato che non salva nemmeno sé stesso», annota Crimella (p. 121).

Egli ragiona così: «Sì, Gesù: se tu invochi il Padre per i tuoi nemici, allora, posso invocarti anch’io, malfattore concrocifisso con te! Proprio perché perdoni loro, allora puoi salvare anche noi!» (ivi). La relazione personale con Gesù si precisa come un luogo paradisiaco, e l’«oggi» non è semplicemente temporale, ma momento escatologico di salvezza. La salvezza è offerta gratuitamente.

Secondo Crimella, Luca non rappresenta solo due personaggi contrapposti, ma li mostra come «un’unica figura complessa, che consente di costruire un cammino di fede completo, attraverso due diverse reazioni all’incontro con Cristo crocifisso: prima imprecando nella ribellione, ma infine invocandolo nella conversione» (p. 123).

I due concrocifissi con Gesù non sono due malfattori contrapposti, ma rappresentano un itinerario dalla ribellione impenitente che urla con blasphemia la propria rabbia al presunto Messia che suscita repulsione e disprezzo (cf. Is 52,2b-3) a uno sguardo che cambia e in quelle sofferenze intravede una misteriosa causa di salvezza (cf. Is 53,4-5). Dal sarcasmo si passa all’affidamento.

In questo momento Gesù raggiunge la più profonda comunione coi peccatori, con la distanza da Dio. Gesù si è fatto peccato. Il punto più basso dell’incarnazione è insieme il punto più alto dell’amore. Gesù ha assunto nella sua carne il peccato, è entrato in comunione col rifiuto di Dio, con la seconda morte.

«Solo la coscienza di essere peccatori bisognosi di misericordia apre le porte del paradiso, nella beatitudine perfetta in comunione con Dio. La coscienza di essere perdonati ben al di là del nostro merito ci permette di vivere già qui la gioia delle beatitudini» (p. 126).

Il volume di Crimella è un prezioso aiuto per la lectio su alcune pagine decisive del Vangelo di Luca, Vangelo che rivela pienamente il volto del Dio di Gesù, un Dio di misericordia che risolve positivamente le situazioni complesse dell’uomo confrontato non solo con un’altra realtà che gli sta di fronte, ma coinvolto in realtà in un triangolo drammatico di salvezza.

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