Filosofia. Il Gesù di Massimo Recalcati tra Legge e desiderio

Caravaggio, "Incoronazione di spine", 1602-1604

Caravaggio, “Incoronazione di spine”, 1602-1604 – WikiCommons

Avvenire

Chi conosce, ama e frequenta le comunità spirituali e religiose, sa o intuisce che alla base della vasta e profonda crisi che le attraversa c’è una crisi di desiderio. Una carestia del desiderio e di cose da desiderare, che si ritrova soprattutto nelle persone più generose e con autentiche vocazioni. Siamo tutti in attesa di una resurrezione dei desideri.
In questa attesa, molto utile è la lettura di La legge del desiderio. Radici bibliche della psicoanalisi (Einaudi) dello psicoanalista e filosofo Massimo Recalcati.

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Il desiderio, pilastro della psicoanalisi, è il centro anche della riflessione personale di Recalcati, costruita attorno ad una intuizione, la cui origina si trova in Lacan, che la nota tipica del desiderio è desiderare qualcuno che a sua volta ci desidera, perché l’essenza e la vocazione del nostro desiderio è essere desiderati da un altro desiderio. Si comprende allora perché la fondazione biblica è particolarmente attraente per Recalcati, perché la fede cristiana è un incontro gratuito di desideri, nostri e di Dio.

La fondazione biblica della psicoanalisi di Massimo Recalcati è tra le operazioni intellettuali più interessanti di attualizzazione dell’eredità biblica nella modernità; e sebbene Recalcati si collochi, esplicitamente, sulla linea di Lacan (e di Freud), il suo contributo è molto più di un semplice sviluppo di tesi precedenti. Nel 2022 aveva pubblicato La legge della Parola, sull’Antico Testamento, e ora con questo secondo volume il suo lavoro si conclude, o dovrebbe concludersi secondo l’autore (p. xi). Credo e mi auguro invece che lo continui, perché i nodi non sciolti e le potenzialità sono ancora molti, e tra questi il nesso tra grazia, etica del desiderio ed etica della responsabilità, presente ma poco sviluppato nel libro: “Il dono della grazia non esonera affatto dalla responsabilità soggettiva, ma, al contrario, l’accentua” (p. 412).
L’idea del libro è bene espressa nel primo capitolo, che ne è anche una sintesi, talmente efficace da generare inevitabilmente molte, forse troppe, ripetizioni nel corso del volume (di 482 pagine). In realtà, la tesi la troviamo già nella breve Introduzione: “Gli uomini religiosi non sanno cosa significa spendere tutta la propria vita nell’amore, non sanno cosa significa desiderare e amare la vita. Il loro risentimento li avvelena, la loro impotenza li intossica, la loro tristezza li inaridisce… La loro ipocrisia cinica non permette di avere fede del miracolo del desiderio” (p. v). E quindi, “la Legge non può limitarsi a interdire il desiderio perché il vero volto della Legge coincide proprio con quello del desiderio. È questo a impegnare Gesù sino alla fine dei suoi giorni: testimoniare che la Legge non è avversa al desiderio…, perché la Legge è, in realtà, il nome più proprio del desiderio, è il nome più proprio della vita viva” (p. vii).
La tensione, o meglio l’alternativa tra Legge e desiderio, è il centro teorico del libro, che nella sua ultima parte da duale diventa ternario con l’inserimento della dimensione (paolina) della grazia che fa sì che la Legge lungi dall’opporsi al desiderio ne diventi la sua possibilità concreta e buona. Il buon desiderio è quello che, alla luce del mito di Adamo ed Eva nella Genesi, desidera il “Godimento ‘di tutto’ a condizione però che venga esclusa la possibilità di godere del ‘tutto’” (p. 75). Perché la condizione umana pur potendo e dovendo desiderare ‘tutto’ (‘tutto è vostro’) non può desiderare ‘il tutto’ (‘e voi siete di Dio’) – da qui il senso buono del limite posto da Elohim su un solo albero del giardino.
Il senso con cui Recalcati parla di Legge è, di fatto, quello della lettera di Paolo ai Romani, che, non a caso, è forse il testo più citato nel volume, e alla quale è dedicato l’ottimo ultimo capitolo. Lo è in un duplice significato: come Legge nemica e assassina del desiderio e dello spirito, cioè come ‘maledizione della Legge’ (Gal 3,13), e come Legge nuova portata da Gesù, quella Legge dell’agape che è la levatrice del desiderio: “Fintanto che l’umano resta all’interno della dialettica perversa tra Legge e desiderio non c’è salvezza. Il circolo è vizioso: l’esistenza della Legge provoca il peccato che infrange compulsivamente la Legge” (p. 386). Già nel primo capitolo questi concetti sono ben espressi e fondati nel Nuovo Testamento: dai discorsi di Gesù ai discepoli alle polemiche coi sacerdoti, dai miracoli alle parabole, per finire con la morte e resurrezione del Cristo – un Cristo che Recalcati chiama sempre ‘Gesù’, e ci piace.
Recalcati vuole dimostrare che il desiderio è il centro dell’insegnamento spirituale ed etico di Gesù: il desiderio, infatti, “si configura come la forma più radicale del dovere e, di conseguenza, la Legge non può, a sua volta, che affermarsi come una Legge del desiderio della quale Gesù si fa testimone, e non più come una Legge contro il desiderio… Di conseguenza la vita che si perde, la vita smarrita, la vita emarginata, la vita che si sottrae alla vita, non è più la vita che non obbedisce alla Legge – la vita che, trasgredendo la Legge, si perde nel peccato – ma quella che avendo paura della vita vive non tanto senza Legge ma senza desiderio” (pp. 9-10). Nel libro torna anche il grande tema del Sacrificio, che è un’altra colonna portante dell’edificio di Recalcati, perché sacrificio, Legge e desiderio sono aspetti profondamente intrecciati: “La Legge viene innanzitutto emancipata dal culto del sacrificio. Anche questo è un tema ricorrente nella predicazione di Gesù: non è la vita che deve sottomettersi sacrificalmente al potere della Legge, ma è il potere della Legge che deve servire la vita” (p. 10). Non è infatti difficile rintracciare in Gesù, sulla scia dei profeti (Isaia, Osea) una chiara presa di posizione contro la logica del sacrificio in nome dell’agape e della misericordia.
Una digressione. C’è un conflitto, un’alternativa, un “fossato” (J. Jeremias) tra la fede di Cristo e quella del tempio, cioè tra la fede fondata sull’hesed e quella fondata sui sacrifici, tra la civiltà della gratuità e la civiltà del calcolo, tra la religione dell’amore e quella commerciale. Amore e sacrifici: due strade religiose diverse, opposte, incompatibili, come rivela anche il verbo ebraico usato da Osea (hps), che dice chiaramente che Dio ama, gradisce, vuole, apprezza l’hesed e non vuole, non ama, non gradisce i sacrifici, gli danno fastidio. Noi possiamo, con coraggio, arrivare a dire: “I sacrifici sono meno importanti dell’amore, ma un po’ di culto ci vuole pure, qualche offerta al tempio non fa male a nessuno, il popolo ama queste pratiche”. I profeti veri e grandi no. Loro ci dicono altro, ci dicono l’opposto. Sono tremendi e radicali, squilibrati, partigiani, divisivi, non gentili, esagerati, eccessivi. Come Gesù di Nazareth, che ci spiega Osea, mostrandoci che l’alternativa-fossato-conflitto tra amore e sacrificio non si limita alla sola vita religiosa ma si estende all’intera vita sociale. Non solo ci ripete, con Osea, che la sua religione non è quella dei sacrifici, ma quella dell’amore-hesed-agape; ci dice anche che la cultura del sacrificio è un rapporto sbagliato con la vita, non solo con Dio. Perché è la relazionalità basata sul calcolo e non sulla generosità, sull’economico e non sull’eccedenza. La logica del sacrificio è prima una trappola antropologica e dopo una questione teologica e religiosa. È la logica di chi vive facendo conti, calcolando i costi e benefici di ogni azione, perché, in fondo, è ateo, non crede che siamo amati, che nel mondo esiste un grande candore, che siamo figli. La fede sacrificale imprigiona Dio in una gabbia più angusta di quella dell’uomo più tirchio. Chi imposta la vita sui sacrifici crede nella meritocrazia perché non crede nella grazia, non si fida della grande provvidenza del mondo e quindi si compra una piccola provvidenza privata che non lo sazia mai. I profeti lottano con tutte le loro forze contro i sacrifici per dirci: voi valete di più delle vostre opere, siete più grandi dei vostri calcoli, siete migliori dei vostri contratti, siete amati anche se non lo meritate: perché ti amo e basta, non per i tuoi meriti, ti amo per te. Combattere la religione dei sacrifici allora significa rinunciare ad una visione del mondo meschina, impoverita, avara. I profeti e Gesù allargando la nostra idea di Dio allargano l’idea che noi abbiamo degli altri e di noi stessi.
Torniamo a Recalcati. Indagando il trittico Legge-Sacrificio-Desiderio, Recalcati entra all’interno di prassi e tradizioni molto importanti nella vita cristiana, mettendone (delicatamente ma efficacemente) in discussione il senso primo: “Verginità, interdizione e repressione della sessualità, pratiche ascetiche, digiuno, celibato, non sono precetti che egli si preoccupa di imporre a chi lo segue. Il percorso di auto-sacrificio come percorso di santificazione non trova nella sua predicazione nessun avallo.… Egli vuole liberare l’uomo da un’idea di Padre come colui che il figlio deve temere perché il suo disegno repressivamente normativo è quello di impedirne la libertà” (pp. 16-17). E quindi può affermare che “il salvato è ogni volta colui che non ha ceduto di fronte alla Legge del proprio desiderio, che è stato in grado di mantenersi conforme a questa Legge” (p. 34). Perché “la Legge che percuote la vita sanzionando implacabilmente l’offesa, il reato, il peccato annienta il desiderio interpretandolo solo come una minaccia per la Legge stessa. È questo il funzionamento basilare del Super-io messo in luce da Freud: una Legge che rimprovera costantemente il desiderio per la sua stessa esistenza con una ‘straordinaria durezza e severità’ poiché lo identifica a una colpa inemendabile” (p. 61).
Quindi enuncia le due malattie del desiderio quando sbaglia il rapporto con la Legge (e con la grazia), l’impotenza e l’utopia: “L’impotenza è l’indice di una vita contratta che rinuncia alla vita perché si sente schiacciata dalla paura della vita. I Vangeli sono pieni di riferimenti a questa malattia che coinvolge tra gli altri anche gli stessi discepoli di Gesù… Difendere la propria esistenza dalla vita interpretata come una minaccia significa non cogliere il dono della creazione” (pp. 36-37). La patologia dell’utopia è invece quella che “nella predicazione di Gesù assume la forma essenziale della fede nel regno come qualcosa che dovrebbe risarcire la vita delle sue miserie e dei suoi dolori in un tempo sempre a venire, in un mondo trascendente situato al di là di questo mondo… La critica alla malattia dell’utopia si esplica chiaramente nell’ira con la quale Gesù fulmina il fico sterile, in Matteo 21,18-22” (pp. 46-48).
La malattia dell’impotenza, cioè di un desiderio sacrificato alla paura di affrontare il rischio della vita vera, è individuata da Recalcati nel ‘terzo servo’ della Parabola dei Talenti di Matteo, offrendoci una delle letture più originali e convincenti di questo difficile testo. Nella parabola dei talenti la malattia dell’impotenza e il dinamismo della pulsione securitaria sono messe a nudo: “Il terzo servo resta afflitto dall’impotenza… E’ ‘stato preso dalla paura’. Ma da quale paura? Innanzitutto dalla paura di perdere il solo talento che aveva ricevuto. Per questa ragione si sente spinto a conservarlo seppellendolo sotto terra. Manca in lui la fede nella forza del desiderio come facoltà di moltiplicazione della vita, di estensione, di allargamento del suo orizzonte. Per paura di perdere la sua vita il servo assume un atteggiamento conservatore, inibito, ritentivo che gli costerà la perdita di tutto ciò che ha… Per Gesù è questo il solo vero peccato capitale che si possa commettere: rendere la propria vita sterile, non generare, non desiderare, seppellire il proprio talento. Si tratta di un vero e proprio tradimento. Il soggetto tradisce la Legge del suo desiderio, volta le spalle alla sua vocazione” (p. 40). E così può aggiungere: “La vita capace di generare i frutti è vita desiderante; la vita sterile, è la vita che ha invece sottomesso la vita stessa alle malattie dell’impotenza o dell’utopia” (p. 49). Una patologia associata al rapporto sbagliato con il desiderio è quella che, con Freud, Recalcati chiama masochismo morale, il bisogno di auto-punizione per scontare ipotetiche colpe: “Il masochista vuole essere trattato come un ‘povero bambino piccolo e inerme’ che cerca riparo offrendosi come un oggetto passivo nelle mani onnipotenti dell’Altro” (p. 131).
Uno scoglio naturale di una lettura del vangelo come Legge del desiderio poteva essere la croce, la passione e morte di Gesù, che Recalcati così schiva: “La condizione della croce non coincide con la rinuncia al proprio desiderio, ma ai prestigi del proprio Io, alla sua immagine narcisistica. La rinuncia a cui Gesù invita non concerne affatto il desiderio quanto piuttosto l’Io come ostacolo al desiderio” (p. 129). Infatti, “Gesù crocifisso non è affatto il simbolo del carattere necessario e masochista del sacrificio, ma quello del suo definitivo abbandono” (p. 137). E la croce “non è il simbolo del sacrificio, ma ciò che mette a morte il sacrificio, è ciò che rende per sempre vano il sacrificio” (p. 138). Perché “nella sua passione non c’è alcuna traccia di un’immolazione sacrificale” (p. 304). Dovremmo anche aggiungere che, nella prospettiva paolina, chi è nel peccato lo è in virtù di una logica sbagliata che gli fa apparire come peccato ciò che è solo il frutto di un rapporto sbagliato con la Legge – nel peccato ci mettiamo da soli, Dio non c’entra.
I miracoli di Gesù sono letti come incontri di un maestro errante, che annuncia un inatteso di gratuità, nel quale invita le persone ad entrare. E scrive, citando Lacan, che “si tratta di guarire il soggetto delle illusioni che lo trattengono sulla via del suo desiderio” (p. 150). Il miracolo è l’annuncio di una sorpresa vera, e può far iniziare una nuova vita se si riesce ad essere fedele a questa novità – la vera fedeltà è all’inatteso. Da qui la domanda di Gesù al paralitico di Betzeda: tu vuoi guarire? (Gv 5,6): “Vuoi davvero rinunciare alle catene protettive dell’impotenza, alla sicurezza che ti garantisce restare nell’attesa passiva di una guarigione? (p. 192). Guarire significa allora superare il ‘tornaconto della malattia’ (Freud), di ogni malattia, fisica e morale.
Anche l’amore per i bambini di Gesù viene letto da Recalcati in questa prospettiva desiderante: “I bambini che vanno verso Gesù, vanno, in realtà, verso il fuoco del loro desiderio. Ogni bambino non appartiene a nessuno se non alla legge del proprio desiderio” (p. 186).
Molto bella, forse la parte più convincente di un libro già molto convincente, è la lettura della Resurrezione, che dal capitolo 9 si conclude con il 10 su San Paolo. Letta dalla prospettiva della Legge del desiderio, la resurrezione ha anche un grande significato antropologico, contiene cioè un messaggio di salvezza universale, ed è davvero bello. Recalcati la guarda a partire dalla stupenda categoria biblica del ‘resto’: il primo resto indistruttibile che tornerà dall’esilio è ciò che continua a vivere dopo la morte, grazie ad una resurrezione: “Il vuoto del sepolcro ci costringe a cercare Gesù tra i vivi e non tra i morti. E’ questa un’altra lezione fondamentale della Pasqua cristiana: esiste sempre un resto indistruttibile e eternamente vivente in ogni morte. Sempre qualcosa di chi non è più con noi, resta con noi”. Una Lezione fondamentale che si completa in “un’altra altrettanto decisiva: come si può restare fedeli all’evento che ha cambiato la nostra vita? Come si può non lasciarlo morire? … Accade per ciascuno di noi: sono stato fedele all’incontro che ha cambiato la mia vita? L’incontro con un amore, con un maestro, con un ideale, con una vocazione? Ho vissuto coerentemente quell’incontro assumendomene pienamente il rischio? Oppure l’ho tradito, gli ho voltato le spalle e l’ho ripudiato?”. Quindi conclude: “Più che un episodio sovrannaturale – la rianimazione di un morto – la resurrezione resta un evento impensabile che rompe la nostra rappresentazione ordinaria della vita e della morte” (p. 341).
Da qui la sua riflessione sulla Maddalena e il noli me tangere (che in parte riprende da J.L. Nancy), che spiega in rapporto alla fede di Tommaso che invece vuole ‘toccare’: “La fede non può ridursi ad una verifica empirica della verità, ma consiste nella risposta alla chiamata del desiderio incarnata da Gesù, nell’accoglienza della sua grazia… Perché implica un vero e proprio salto nel vuoto, una fiducia nell’incontro con la grazia. È quello che mostra Abramo” (p. 360).
Alcune note a pie’ di pagine su (pochi) aspetti più problematici, che scrivo in un spirito positivo nei confronti di un progetto che seguo con interesse e ammirazione.
Nel capitolo dedicato a Maria, non il più riuscito anche perché vi è una lettura dei primi due capitoli di Luca non abbastanza teologica e metaforica che lo porta a scrivere che Maria “sapeva benissimo che essendo Gesù il figlio di Dio…” (p. 221). Maria non sapeva ‘benissimo’ cosa fosse quel suo figlio, e probabilmente non lo sapeva affatto; altrimenti diventa difficile spiegare la fonte evangelica più antica su Maria, quando con i fratelli si reca da Gesù per riportarlo a casa perché pensava che fosse “fuori di senno” (Marco 3). Un altro uso improprio del vangelo lo troviamo quando afferma che la donna che versa l’olio profumato sul capo di Gesù fosse “la Maddalena” (p. 31), che non ha nessuna base nei vangeli (anzi dai vangeli sappiamo che non era la Maddalena). Anche la lettura del tradimento di Giuda, in sé interessante e suggestiva (Giuda tradisce perché a sua volta tradito da Gesù), poggia su una ipotesi – che Giuda credesse in un messianismo politico – che non trova fondamento nei vangeli: “E Gesù, agli occhi di Giuda, non è innanzitutto colui che ha tradito la promessa della liberazione politica della Palestina dal dominio romano?” (p. 266). La seria fondazione biblica della psicanalisi che sta operando Recalcati non ha bisogno di queste affermazioni che l’esegesi ha da tempo superato. Infine, da una parte Recalcati critica molto (e ci piace) la metafora economico-finanziaria applicata al Cristianesimo, ma dall’altra usa, sulla scia dei suoi maestri, spesso parole come “debito simbolico” verso il padre (p. 238), etc., che non aiutano per una vera fuoriuscita da quel pericoloso registro retributivo.
Concludo con le parole, delicate e commoventi, che troviamo in apertura del libro, nei ringraziamenti: “Ringrazio, infine, la mano di Gesù che da bambino sentivo sopra la mia testa”.

Libro. La portalettere

La portalettere Libro di  Francesca Giannone

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Salento, giugno 1934. A Lizzanello, un paesino di poche migliaia di anime, una corriera si ferma nella piazza principale. Ne scende una coppia: lui, Carlo, è un figlio del Sud, ed è felice di essere tornato a casa; lei, Anna, sua moglie, è bella come una statua greca, ma triste e preoccupata: quale vita la attende in quella terra sconosciuta? Persino a trent’anni da quel giorno, Anna rimarrà per tutti «la forestiera», quella venuta dal Nord, quella diversa, che non va in chiesa, che dice sempre quello che pensa. E Anna, fiera e spigolosa, non si piegherà mai alle leggi non scritte che imprigionano le donne del Sud. Ci riuscirà anche grazie all’amore che la lega al marito, un amore la cui forza sarà dolorosamente chiara al fratello maggiore di Carlo, Antonio, che si è innamorato di Anna nell’istante in cui l’ha vista. Poi, nel 1935, Anna fa qualcosa di davvero rivoluzionario: si presenta a un concorso delle Poste, lo vince e diventa la prima portalettere di Lizzanello. La notizia fa storcere il naso alle donne e suscita risatine di scherno negli uomini. «Non durerà», maligna qualcuno. E invece, per oltre vent’anni, Anna diventerà il filo invisibile che unisce gli abitanti del paese. Prima a piedi e poi in bicicletta, consegnerà le lettere dei ragazzi al fronte, le cartoline degli emigranti, le missive degli amanti segreti. Senza volerlo – ma soprattutto senza che il paese lo voglia – la portalettere cambierà molte cose, a Lizzanello. Quella di Anna è la storia di una donna che ha voluto vivere la propria vita senza condizionamenti, ma è anche la storia della famiglia Greco e di Lizzanello, dagli anni ’30 fino agli anni ’50, passando per una guerra mondiale e per le istanze femministe. Ed è la storia di due fratelli inseparabili, destinati ad amare la stessa donna.

Libro. Domani, domani

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Salento, 1959. Lorenzo e Agnese hanno perso tutto. E lo capiscono quando, con gli occhi tristi che si porta dietro da una vita, il padre annuncia di aver venduto il saponificio di famiglia, un’eredità che lui ha vissuto come una condanna. Per Lorenzo e Agnese, invece, quella fabbrica che il nonno ha creato dal nulla, che profuma di talco, di essenze floreali e di oli vegetali, e che occupa ogni loro pensiero, era la certezza di un presente sereno e la promessa di un futuro da tracciare insieme, uniti. Quindi l’idea di rimanere lì come semplici operai sotto un nuovo, arrogante padrone è devastante per entrambi. Lorenzo, orgoglioso e impulsivo, se ne va sbattendo la porta, col cuore colmo di rabbia e con un solo obiettivo: trovare i soldi necessari per riprendersi quello che è suo. Ma Agnese non lo segue: tanto risoluta se si tratta di formulare saponi quanto insicura quando le tocca abitare il mondo al di fuori del saponificio, dichiara: «Io resto dov’è casa mia». È una crepa profonda, apparentemente insanabile, quella che si apre tra fratello e sorella e li spingerà su strade opposte e imprevedibili. Perché vogliono la stessa cosa, Lorenzo e Agnese, almeno finché l’amore non li porterà di nuovo a un bivio. Ognuno dei due farà una scelta, tracciando un altro domani… Sarà per entrambi un domani senza rimpianti?   Questa è la storia della passione che prima unisce e poi divide un fratello e una sorella. Una storia che parla di decisioni prese ascoltando la mente o il cuore oppure tutti e due. Di quell’istante che può cambiare una vita intera. Ma anche di un’Italia che, incredula, sta scoprendo un improvviso benessere, che lavora alla catena di montaggio e poi canta con Mina e balla al ritmo del twist, giovane, creativa, impaziente…

Libro. Il canto dei cuori ribelli

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Aveva quattordici anni Smita quando con la sua famiglia ha dovuto lasciare l’India in circostanze drammatiche. Una volta al sicuro in America, ha scacciato dal cuore la nostalgia per i crepuscoli aranciati e il profumo inebriante dei cibi che il padre le comprava dai venditori ambulanti e giurato a se stessa che mai più sarebbe tornata in quei luoghi che l’avevano così profondamente ferita. Ma anni dopo si ritrova a dover accettare con riluttanza l’incarico di coprire una storia di cronaca a Mumbai, per il suo giornale. Seguendo il caso di Meena – una giovane donna sfigurata brutalmente dai suoi fratelli e dai membri del suo villaggio per aver sposato un uomo di un’altra religione – Smita si ritrova di nuovo faccia a faccia con una società che appena fuori dallo skyline luccicante delle metropoli le pare cristallizzata in un eterno Medioevo, in cui le tradizioni hanno più valore del cuore del singolo, e con una storia che minaccia di portare alla luce tutti i dolorosi segreti del suo passato. Eppure, a poco a poco le sue difese cominciano a vacillare, i ricordi a riaffiorare e la passione a fare nuovamente breccia in lei… Sullo sfondo di un meraviglioso Paese sospeso tra modernità e oscurantismo, in un crescendo di tensione, due donne coraggiose e diversamente ribelli si confrontano con le conseguenze di due opposti concetti di onore e di libertà, in una storia indimenticabile di tradimento, sacrificio, devozione, speranza e invincibile amore.

Libro. Come l’arancio amaro

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«Carlotta mia, io dell’arancio amaro conosco solo le spine e ormai non mi fanno più male. Ma il profumo del suo fiore bianco è il tuo, è quello della libertà.» A cosa serve essere giovane e piena di progetti, se sei nata nel tempo sbagliato? Tre protagoniste straordinarie fronteggiano la sfida più grande: trovare il senso del proprio essere donne in un mondo che vorrebbe scegliere al posto loro. Nardina, dolce e paziente, che sogna di laurearsi ma finisce intrappolata nel ruolo di moglie. Sabedda, selvatica e fiera, che vorrebbe poter decidere il proprio futuro ma è troppo povera per poterlo fare. Carlotta, orgogliosa e determinata, che vorrebbe diventare avvocato in un mondo dove solo i maschi ritengono di poter esercitare la professione. E un segreto, che affonda nella notte in cui i loro destini si sono uniti per sempre. Tra gli anni Venti e gli anni Sessanta del Novecento, Sabedda, Nardina e Carlotta lottano e amano sullo sfondo di un mondo che cambia, che attraversa il Fascismo e la guerra, che approda alla nuova speranza della ricostruzione. Per ciascuna di loro, la vita ha in serbo prove durissime ma anche la forza di un amore più grande del giudizio degli uomini. Partendo da una storia vera, Milena Palminteri esordisce con un romanzo maturo e travolgente, scritto con una lingua ricca di sfumature, popolato di personaggi memorabili per la dolente fierezza con cui abbracciano i propri destini.

Libro. L’età fragile

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Non esiste un’età senza paura. Siamo fragili sempre, da genitori e da figli, quando bisogna ricostruire e quando non si sa nemmeno dove gettare le fondamenta. Ma c’è un momento preciso, quando ci buttiamo nel mondo, in cui siamo esposti e nudi, e il mondo non ci deve ferire. Per questo Lucia, che una notte di trent’anni fa si è salvata per un caso, adesso scruta con spavento il silenzio di sua figlia. Quella notte al Dente del Lupo c’erano tutti. I pastori dell’Appennino, i proprietari del campeggio, i cacciatori, i carabinieri. Tutti, tranne tre ragazze che non c’erano più. Amanda prende per un soffio uno degli ultimi treni e torna a casa, in quel paese vicino a Pescara da cui era scappata di corsa. A sua madre basta uno sguardo per capire che qualcosa in lei si è spento: i primi tempi a Milano aveva le luci della città negli occhi, ora sembra che desideri soltanto scomparire, si chiude in camera e non parla quasi. Lucia vorrebbe tenerla al riparo da tutto, anche a costo di soffocarla, ma c’è un segreto che non può nasconderle. Sotto il Dente del Lupo, su un terreno che appartiene alla loro famiglia e adesso fa gola agli speculatori edilizi, si vedono ancora i resti di un campeggio dove tanti anni prima è successo un fatto terribile. A volte il tempo decide di tornare indietro: sotto a quella montagna che Lucia ha sempre cercato di dimenticare, tra i pascoli e i boschi della sua età fragile, tutti i fili si tendono. Stretta fra il vecchio padre così radicato nella terra e questa figlia più cocciuta di lui, Lucia capisce che c’è una forza che la attraversa. Forse la nostra unica eredità sono le ferite. Con la sua scrittura scabra, vibratile e profonda, capace di farci sentire il peso di un’occhiata e il suono di una domanda senza risposta, Donatella Di Pietrantonio tocca in questo romanzo una tensione tutta nuova.
Famiglia Cristiana

Tre libri per stare in dialogo con Dio

Un Festival di Spiritualità è l’idea che nasce dalla collaborazione tra la Libreria Bizzocchi e il settimanale La Libertà per promuovere la letteratura religiosa, materia considerata da tanti come un prodotto di nicchia e accessibile a pochi. In realtà è vastissima la scelta tra la gamma di libri che trattano di spiritualità e non solo, ma non è così diffusa tra il grande pubblic

L’iniziativa aderisce al progetto “Parole in Movimento” del Comune di Reggio Emilia realizzato con il finanziamento del Centro per il libro e la lettura.
“Abbiamo scelto di partecipare a questo progetto perché è una bella occasione per promuovere letture profonde e impegnate ma anche belle e semplici che possano ispirare i lettori – dice Beatrice Borelli, titolare della libreria Bizzocchi – e in accordo con il settimanale diocesano abbiamo lanciato questa idea del Festival che prevede tre appuntamenti con tre libri diversi e i rispettivi autori”.

Il filo conduttore delle tre serate è la preghiera, intesa come un dialogo in verticale verso Dio.
“La preghiera ci mette in contatto diretto con il cuore – prosegue Beatrice – e i tre titoli scelti ci sono sembrati i più idonei a spiegare quanto essa possa essere importante per aprirci questo canale preferenziale nel rapporto che ognuno può avere con Dio”.
I tre libri, tutti editi da San Paolo, saranno presentati al Teatro Sant’Agostino a Reggio Emilia nel prossimo mese di ottobre.

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Si inizia mercoledì 2 ottobre alle ore 21 con il libro “Iniziazione alla preghiera”. L’autore, fra Roberto Pasolini sarà in dialogo con la sociologa Catia Iori. Si tratta del mistero della preghiera, delle parole, espressioni e silenzi con cui restiamo in un dialogo d’amore con Dio. Un dialogo tanto misterioso per chi crede di non averne mai fatto esperienza, quanto familiare per chi ha già imparato a immergersi in esso con la spontaneità del cuore. Le pagine di questo libro vogliono essere un umile e utile strumento di iniziazione a un’arte di cui oggi, forse più che in altri tempi, si avverte una profonda nostalgia e un rinnovato interesse

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Il secondo appuntamento da segnare in agenda è per giovedì 10 ottobre alle ore 21 con la presentazione del volume “La preghiera dei Salmi”, scritto da Rosanna Virgili che sarà intervistata da Annamaria Fulloni, scrittrice e già insegnante di religione.
Pregare con i Salmi è tradizione antichissima, biblica, patristica e monastica, degli ebrei e dei cristiani. Il Salterio è un “microcosmo” di molteplici aspetti: letterario, simbolico, teologico, dell’umanità, della preghiera, della storia, della liturgia. Contiene il grido, il dolore, la letizia e la tristezza, i timori, i dubbi, le speranze, l’esperienza tutta della vita e della morte umana. Contiene una “anatomia di tutte le parti dell’anima”, secondo il famoso aforisma di Calvino.

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Chiude il ciclo di incontri, giovedì 17 ottobre alle ore 21, padre Calogero Di Fiore che, intervistato da Edoardo Tincani, direttore del settimanale La Libertà, discorrerà del suo libro “Nomadi con Dio, La spiritualità del cammino”. La metafora del cammino, profondamente biblica, può essere un’efficace proposta nell’educazione dei giovani alla fede, ma anche degli adulti. Pensarsi nomadi è scegliere di non arroccarsi sulle proprie sicurezze acquisite, è decidere di uscire fuori dagli schemi per vedere con il cuore e con l’anima ciò che è invisibile agli occhi. Mettersi in cammino è conoscersi e accettarsi per quello che si è, costruire un’immagine di sé stessi reale e riconciliata, accettando di lasciarsi guarire dai mille silenzi e incontri che la strada offre, incoraggiandoci a non credere che tutto è perduto per sempre.

Aspettiamo i nostri lettori in questi tre momenti per conoscere gli autori e le loro parole, dando così più spazio e respiro alla dimensione della spiritualità; durante le serate sarà possibile intervenire per porre domande.

laliberta.info

Libro: «Vi racconto l’avventura della vita oltre l’immaginazione»

Il nuovo libro del prete-scrittore prende in prestito le parole dei grandi scrittori per raccontare il cammino che ognuno di noi compie dalla nascita alla morte, al di là dello scorrere del tempo

Don Paolo Alliata

Don Paolo Alliata – archivio

Pubblichiamo il prologo del nuovo libro di Paolo Alliata L’avventura umana. Quando la letteratura accompagna il nostro cammino, in uscita il 24 settembre per Mondadori (pagine 204, euro 18,00). Prendendo in prestito le parole dei grandi scrittori, don Alliata accompagna il lettore in un’esplorazione profonda e illuminante del cammino che ogni essere umano compie dalla nascita alla morte, un’avventura che non si esaurisce nel semplice trascorrere del tempo, ma che vuole conferire significato e direzione alla nostra esistenza. Nonostante i tempi cambino, infatti, la letteratura di ieri e di oggi offre un supporto prezioso nell’affrontare questioni esistenziali come la difesa della libertà e del bene comune, il confronto intergenerazionale, la responsabilità verso gli altri, la verità e l’ineluttabile esperienza della morte. Passando da Remarque a Umberto Eco, da Van Gogh a Tolstoj, Alliata ci guida in un viaggio letterario toccante e inedito ai confini tra terra e cielo. Alliata, sacerdote ambrosiano, è autore di numerosi saggi che indagano il rapporto tra pittura, letteratura e spiritualità. Tre dei quali sono usciti proprio quest’anno: La voce leggera delle pagine. Intrecci di letteratura e spiritualità (Àncora), Vento e sorgente (Centro ambrosiano) e L’amore fa i miracoli. Tra le pagine dei grandi romanzi (Ponte alle Grazie).

In che cosa consiste l’avventura umana, il viaggio a cui ciascuno di noi è chiamato fin dalla nascita? Nell’accumulare semplicemente il tempo, giorno dopo giorno, o nel dargli un senso, una direzione, un significato? L’avventura di diventare umani. Che cosa si intende di preciso? Qual è il significato profondo di questa espressione? Ognuno è esistenzialmente impegnato a rispondere, e lo sta già facendo, che ne sia consapevole o meno. La visione cristiana delle cose suggerisce che si tratta di diventare pienamente quel che siamo, incarnarci nella nostra identità di figli e figlie di Adamo, assomigliare un po’ di più a Colui che è il più umano dei figli di Adamo, quel Gesù di Nazareth che si lasciava chiamare figlio dell’Uomo, lui, figlio di Dio, e che in quel binomio − uomo e Dio − non vedeva una contrapposizione, semmai una realizzazione, una compiutezza, via e meta del viaggio. È un modo per dire che la vita merita davvero di essere vissuta, perché è un’opportunità ricca e degna di tutto l’impegno. Come recita quell’aforisma impropriamente attribuito a Chesterton: «La vita è la più bella delle avventure, ma solo l’avventuriero lo scopre». Nei capitoli di questo libro affronteremo alcuni degli snodi fondamentali del cammino di ognuno di noi, del percorso di vita che ci caratterizza: l’evoluzione, l’indipendenza, la ricerca della libertà, il confronto tra generazioni, la questione della verità, l’esperienza del morire come cruciale passaggio esistenziale. Concluderemo con un capitolo dedicato a Pinocchio, che riassume per intero l’avventura umana nel suo germogliare da tronco inanimato per poi crescere e affermarsi come bambino in carne, ossa e spirito.

Il grande Gianni Rodari ci ha regalato, tra gli altri, quel piccolo tesoro che è il racconto intitolato “La strada che non andava in nessun posto”. «All’uscita del paese si dividevano tre strade: una andava verso il mare, la seconda verso la città e la terza non andava in nessun posto». Martino è un bimbo curioso e dal piglio esplorativo, per restare in tema di avventurieri. Dove va la terza strada? domanda un po’ a tutti. E quelli a cercare di farlo star buono: non va da nessuna parte, non l’ha mai percorsa nessuno, è sempre stata lì… Martino però non si accontenta di risposte di circostanza, non è disposto a lasciarsi anestetizzare dalla banalità imperante. Gli danno il nomignolo di Martino Testadura, perché non si arrende al tran tran degli adulti senza curiosità. Martino è l’immagine di chi vede quel che gli altri non vedono. Gli abitanti del paese hanno tutti i giorni la terza strada davanti agli occhi, ma non se ne accorgono. Nella Bibbia chi vede sotto la superficie, chi scorge le cose nascoste ai più, è il profeta oppure il sapiente, che la Parola del Signore istruisce. Diventiamo umani quando ci lasciamo raggiungere e destare dalla Parola a riconoscere quel che c’è, a non perdere per strada l’essenziale. Vale anche rispetto alle persone: lo sguardo è davvero umano quando sa scorgere gli invisibili, quelli che nessuno vede o vuol vedere, gli scartati, i messi da parte. Vien da pensare a quanti incontri di questo tipo sono raccontati nei Vangeli, con Gesù che si ferma ad ascoltare e a dar parola a mendicanti, vedove senza risorse e pubblici peccatori stizzosamente evitati dai più. E allora eccolo lì, Martino l’intrepido, che affronta la strada che non va in nessun posto, e tiene duro anche quando ha male ai piedi, e non desiste neppure quando è stanco. Trova ostacoli, rovi e spine, ma tira dritto. E arriva a un cancello, al grande parco, al sontuoso palazzo: là c’è una bella signora che lo accoglie, e pare aspettarlo da molto tempo. «“Toh,” si rallegrò Martino, “io non sapevo che sarei arrivato, ma lei sì”». E la bella signora, così allegra e sorriden- te: «“Allora non ci hai creduto.” “A che cosa?” “Alla storia della strada che non andava in nessun posto.” “Era troppo stupida. E secondo me ci sono anche più posti che strade.” “Certo, basta aver voglia di muoversi. Ora vieni, ti farò visitare il castello”».

L’uomo e la donna maturi sono degli avventurieri, sanno per esperienza − e per averci posto tante volte attenzione − che il mondo è grande, è molto più ampio della loro immaginazione, e che «ci sono più posti che strade». E che l’esistenza ha un vasto respiro. Vivono «nella possibilità», per dirla con Emily Dickinson. Il racconto di Rodari si conclude con Martino Testadura che se ne torna a casa stracarico di ricchezze. L’eroe, nei racconti di tutti i tempi e geografie, torna a condividere con la comunità il tesoro che ha trovato. Non si sogna neanche di tenerlo per sé, la sua gioia è di farne parte ai suoi. Ma quelli del villaggio si lasciano subito pigliare dall’avidità: si mettono sulla strada che non andava in nessun posto per scoprire anche loro giardino, palazzo e bella signora, e riempirsi le tasche di oro e gioielli. E rientrano tutti scornati la sera stessa, pieni solo di lividi e graffi: «Perché certi tesori esistono soltanto per chi batte per primo una strada nuova, e il primo era stato Martino Testadura». Perché l’uomo e la donna di Dio − se così vogliamo dire −, l’uomo e la donna maturi, sono degli innovatori, aprono strade nuove, prima inesplorate; le strade nuove erano inesplorate perché erano soltanto le loro. Ognuno di loro ha aperto la sua strada. Sul letto di morte Francesco d’Assisi dice ai suoi discepoli: «Dio mi ha mostrato il mio sentiero, adesso indichi a voi il vostro». Non si copia nessuno, non si può seguire il sentiero di un altro. Per dirla con Carl Gustav Jung: «La mia via non è la vostra via, dunque non posso insegnarvi nulla. La via è in noi, non in dèi, né in dottrine, né in leggi. In noi è la via, la verità e la vita. Guai a coloro che vivono seguendo dei modelli! La vita non è con loro. Se voi vivete seguendo un modello, allora vivrete la vita del modello, ma chi dovrebbe vivere la vostra vita, se non voi stessi? Gli indicatori di via sono caduti, davanti a voi si aprono incerti percorsi. Esiste solo una via ed è la vostra via. Cercate la via? Vi metto in guardia dall’imboccare la mia strada. Per voi può essere quella sbagliata». Eliot scrisse che non smetteremo mai di esplorare, e alla fine di tutto questo andare ritorneremo al punto di partenza per conoscerlo per la prima volta. Ecco, dunque. Partiamo.

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Libro sul Credo. La vita del mondo che verrà

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“Aspetto…la vita del mondo che verrà”, recita il Credo niceno-costantinopolitano. “Et exspecto…vitam venturi saecŭli” dove saecŭlum sta per secolo, stirpe, generazione, età, epoca, mondo.

I termini di questa folgorante, appassionante professione di fede meritano di essere chiariti. Attendiamo? Stiamo a guardare (spectāre)? Oppure crediamo? Oppure speriamo? La vita che avrà luogo nel futuro è da pensare analoga alla vita terrena? Oppure ha per suo rivoluzionario ed esclusivo referente la vita di Gesù risorto prima dell’Ascensione? La vita “al futuro” è già presente hic et nunc ed è apprezzabile nei suoi doni-primizie, o è solo in potenza (una potenza che attende chi la porterà all’atto)? Oppure è come un microscopico germe orientato verso un’intrinseca, spontanea crescita quantitativa? Il granello di senape esploderà fecondamente da sé alla stagione opportuna? Oppure si deve attendere un intervento decisivo, una soprannaturale iniziativa divina?

E tale intervento sarà efficace da solo, oppure, per quanto unilaterale e scuotente, sarà condizionato, nei suoi effetti, al nostro assenso? Forse ogni volta che una persona fa del bene contribuisce ad aprire le porte a una vita nuova. Ma se il regno tarda, non c’è che rimettersi al Dio che, confermando l’atto creatore, condurrà a salvezza quanto di positivo troverà nel mondo.

Iniziazione all’escatologico
Nel rispondere ai suddetti quesiti, due teologi e un biblista di scuola ambrosiana (nel solco della lezione di Giuseppe Colombo, 1923-2005: si pensi al volume collettivo edito da Glossa, Facoltà teologica milanese, “L’evidenza e la fede”, 1988), elaborano un’escatologia che potremmo chiamare “di iniziazione” o “ascensionale”. Gli stretti rimandi tra i contributi, la competenza degli autori e la densità tematica raccomandano la lettura di questo saggio, che consentirà approfondimenti innovativi e aprirà feconde discussioni. Un indice della letteratura citata, un elenco finale degli argomenti ed uno delle fonti bibliche menzionate avrebbero agevolato la fruizione d’insieme.

Gli autori di riferimento più espliciti sono: lo stesso Sequeri, Florenskij, Mancini, Salmann, Bloch, Moioli, Nitrola, Bonhoeffer, Rahner, Balthasar e appunto Colombo[1]. Non è svolto in questo libro un confronto punto a punto con le disparate, confliggenti correnti dell’escatologia (realizzata, conseguente, relazionale, cosmica, ecc.), poiché ci si concentra sull’esposizione di una sola linea congetturale, quella privilegiata dagli Autori, i quali non sottolineano punti di disaccordo tra loro, ma grazie a un Prologo (affidato a Sequeri) e a un Riepilogo (Bonazzoli), siglano un lavoro comune e sinergico. L’opera non è un trattato, ma ambisce a “riaprire il Credo”, dando al biblista la prima e l’ultima parola e ai teologi il compito di interpretare, integrare e mantenere in tensione dialettica le diverse affermazioni teoriche.[2]

“Iniziazione” è la cifra interpretativa della vita umana, dal suo esordio natale, alla morte, al dopo morte. Iniziazione non è, di per sé, un nome cristiano (“ire in”, andare verso). Essa è l’insieme dei riti che propiziano il passaggio (di un individuo o gruppo) da uno status all’altro, entro comunità che segnano e celebrano le transizioni dei cicli di vita, prospettando un incremento di maturità dell’esistere. Sequeri, nel volume L’iniziazione[3], ha proposto una versione cristiana del termine, in grado di collegare i gradi e i tempi dell’evoluzione spirituale, avendo come riferimento un destino, meglio una destinazione trascendente[4].

Come è tipico dei racconti dell’origine, fra cui lo stesso duplice mito adamitico di Genesi, le narrazioni disegnano l’origine, il ruolo, il fine e il senso dell’uomo nel cosmo, attribuendo alla creatura pensante un posto peculiare di rappresentanza. Il nostro destino è comunque Dio. Il nostro cuore è inquieto (e percorre le fasi vitali che gli si presentano innanzi) poiché e fino a che non riposa in Lui (Agostino).

Ora, sia nella vita individuale sia in quella universale (delle creature umane e di quelle non umane, del cosmo intero, sia pure indirettamente), il credente può sperimentare una crescita, potremmo dire, non automatica ma condizionata dalla libertà con cui l’uomo risponde all’appello unilaterale divino. Di che appello si tratta? E come ci si presenta Dio? Dio non è “condizionatamente giusto”, bensì “incondizionatamente buono”, e non fa valere a ogni costo la legge della retribuzione, ma la stravolge in nome della logica del perdono (sempre) possibile a chi si converta a lui e creda nel suo amore[5].

L’antropologo De Martino direbbe che, nei riti (come quelli appunto d’iniziazione), l’uomo fa passare nel valore ciò che in natura passa da sé. Il sapere della fede cristiana riconosce, accoglie e prega, portando a parola e a gesti (ordinari e sacramentali), la pedagogia, con cui un Dio affidabile ha pensato alle sue creature, proprio a loro, nell’atto di porle all’essere, rinnovare patti, inviare una sua privilegiata icona visibile, risuscitandola dalla morte e promettendo un ritorno, in cui il Giudizio non sarà che la faccia “seconda” della misericordia, paziente, tenera e testarda, con cui egli attende il sì dell’uomo.

Destinazione
La «vita del mondo che verrà» compie la promessa di redenzione, che fa nuova la creatura umana e la conferma nel suo rapporto con Dio, con la comunità di fratelli e sorelle e con il cosmo. E’ questa la vera “seconda nascita dall’alto” (dialogo con Nicodemo), che riempie di amore (non più esposto a separazioni) sia le precedenti figure iniziatiche (prototestamentarie) di «berit» (“alleanza” in ebraico), sia le chiamate dei pescatori alla sequela del Nazareno. L’Uno (detto in termini più filosofici) adempirà le gradite evidenze che la vita ci riserva (il patto sponsale, la speciale consacrazione a Dio, l’affidamento al Signore nella malattia, la preghiera di lode e così via), sottraendole alla corrosione della morte.

Essendo il fine (cui l’uomo è destinato) esattamente la vita in Dio, anche la morte può essere letta come un passaggio[6]. La dettagliata esegesi paolina, compiuta da Manzi, individua la seguente continuità: lo Spirito, sin dai primi giorni terreni, prende dimora nella persona credente, vivifica l’Io/anima (dotata di coscienza, volontà, sensibilità) e la fa nascere una seconda volta, abilitandola a dire “Abba, Padre!”. Tale anima, deputata di per sé a dar forma al corpo, assume via via una dimensione spirituale più differenziata. Quando la morte viene, il corpo animato (il soma psichico) è sotterrato, mentre il soma pneumatico fruisce di un progressivo incremento di docilità spirituale e agapica (che stringe il singolo al destino di tutti i figli di Dio), cosicchè esso è reso idoneo a venir risuscitato. Non fa differenza la condizione in cui la parusìa accade al soggetto: essa riguarderà l’Io senza organismo, se il credente è defunto; riguarderà invece l’Io col suo organismo nel caso di chi sperimenta da vivo il ritorno del Messia (come pensava di sé Paolo). Il risultato è una trasformazione della psiche a spirito e conseguentemente una trasfigurazione dell’organismo a corpo veramente umano[7]. La dottrina sull’anima “separata” dal corpo è confermata dagli Autori e risignificata come “trascendenza singolare” dell’essere umano, la quale è irriducibile all’organismo corporeo ricevuto nel venire al mondo[8]. L’espressione scelta dagli Autori è quella di “anima sensibile”, ossia recettiva alle affezioni e in fremente attesa della vita che verrà[9].

Qual è dunque l’immortalità che è lecito sperare? Gli Autori invitano a rappresentare in modo più vivido e generoso ciò che la stringata formulazione dottrinale condensa in scarne, timide, astratte formule concettuali[10]. Si sentono autorizzati a questo annuncio più plastico, in forza sia del contenuto delle parabole del regno, sia dell’identità del narratore Gesù, crocifisso e risorto, che i credenti attendono come giudice finale.

Il volume parla di “compensazione retorica”, ossia di un’adeguazione linguistica più fedele e ricca di ciò che la tradizione ha configurato come “regola”[11]. La grazia salvifica, del resto, è ben più ampia, feconda ed esigente della stessa pratica sacramentale e del giudizio ecclesiale, il quale, appunto per questo, non è autorizzato a pronunciarsi sulla condanna eterna di chicchessia.

Ci permettiamo di far subito notare, al proposito, che la medesima autorità può invece ufficialmente riconoscere, a privilegiati soggetti credenti “toccati da Dio”, sia santità terrena che beatificazione celeste. La divaricazione è menzionata in più punti del volume ma non è portata a fondo. Si dovrebbe a nostro avviso evitare in qualche caso, per maggior coerenza, tanto una precipitosa glorificazione post-mortem (il defunto è rientrato certamente e felicemente nella casa del Padre?), quanto un ricorso strumentale a una sorta di “elenco” nominativo dei “membri” della communio sanctorum (prudenza e ragionevole dubbio modererebbero le derive delle indulgenze “speciali”: il mio santo, il mio accordo, le mie attenuanti).

Anche l’affettuosa preghiera di intercessione per i morti e la gioiosa intercessione dei santi per i vivi (le espressioni sono di Sequeri[12]) dicono qualcosa di vero sul rapporto tra vivi e defunti, ma dovrebbero assumere una festosità più matura, meno infantilmente di parte, ricentrata in forma cristologica. E’ l’intero corpo di Cristo che ci vuole tra le sue membra attive. Viceversa le nostre membra rigenerate da Cristo (in tal senso “sante”) chiedono al Figlio di entrare esse stesse finalmente in comunione con ogni altro vivente.

Torniamo alla questione dell’immortalità. È il Risorto a garantire che il regime di amore, che egli incarnava, si estenderà alla libertà dei beati, che respireranno e godranno una vita di carità. L’attestazione biblica, la tradizione pre-scolastica e la riscoperta contemporanea delle dimensioni esistenziali della fede propiziano una formulazione la più vicina possibile al mistero rivelato, testimoniato, trascritto in guisa di dottrina.

Per fare un esempio, la rappresentazione “forense” del giudizio finale (pur sostenuta da un’iconografia pittorica strepitosa), esige di essere riletta e raffigurata con immagini e parole di altra specie. Chi si pronuncia su di noi, lo fa perché ci ama e mantiene aperta una possibilità di conversione e purificazione anche dopo la determinazione della morte corporale. La pietà di Dio non è la faccia opzionale del magistrato inflessibile, è invece l’unica, radicale figura per pensare, narrare e immaginare colui che ci ha voluti vivi, ci accompagna nelle fatiche, ci invia un avvocato (il Paraclito), spera nel nostro sì al suo invito nel gaudio eterno. Quella divina è una giustizia interlocutoria, riconciliativa, riparativa (per usare termini della moderna filosofia del diritto).

Ecco perché la teoria dei due giudizi (individuale alla morte e collettivo alla parusìa, secondo la scansione temporale con cui siamo necessitati a pensare l’eterno) non va smentita: c’è un intervallo tra decesso e ri-creazione, c’è un kairos affettivo (e infatti la tradizione parla delle pene o del godimento delle anime), in cui una prima sentenza è emessa e la creatura ne prende atto, come in un’inaspettata fase riparativa del discorso giudiziario (“giudizio di salvezza” non è un ossimoro), affidando a Dio il compito di condonare i suoi debiti verso gli altri. La speranza gioca su questa possibilità di conciliazione, in cui verrà offerto un mondo abitabile e ospitale per i corpi risorti di tutti. Le parabole del Regno alludono appunto a una “vita eterna”, che viene peccaminosamente rifiutata non dai beoni e della prostitute, con cui Gesù s’intratteneva (scandalizzando i benpensanti del tempo), ma dai graziati gelosi e dai mediatori supponenti[13].

La seconda cifra decisiva di questa proposta escatologica è l’Ascensione, una sequenza d’immagini che, grazie alla comprensione dei precedenti scritturali, porta sul proscenio il corpo risorto di Gesù quale paradigma decisivo (quale riferimento primario nella dizione analogica: analogatum princeps) per pensare alla nostra vita post-mortale come a un’esperienza almeno simile alla parentesi temporale (tra Risurrezione e Ascensione) in cui Gesù appare ai suoi e documenta la resilienza trasformata delle proprie carne e ossa, midolla e giunture, di membra che hanno fame, di mani che sanno cucinare[14]. La compatibilità cristologica vale anche per il modo in cui l’ aldilà è immaginato, nel senso che ciò che Gesù non fa e/o non può fare, nemmeno Dio lo fa in riferimento ai sofferenti che aspettano i segni di una dedizione come quella offerta dal Nazareno, il quale amò i suoi fino alla fine.

I discepoli, e noi con loro, sono dunque invitati, ancora una volta, a correggere attese “troppo umane” e ingenue illusioni di potenza, confrontandosi con colui che porta al cielo proprio le membra trafitte e non uno spirito gnostico intatto (mai ferito dalla storia)sbarazzatosi finalmente di un rivestimento materiale posticcio. Nella vita affettiva di Dio “si apre un varco” e attraverso quel varco l’umanità di Gesù prende posto nel luogo del Figlio eterno, luogo che nessun altro mai occuperà[15]. E’ l’umano “installato in Dio” che ci consente di godere la vita che verrà, cioè la vita in Dio, vedendo custodite (riparate, riscattate, conciliate, mai neglette o annichilite) le nostre relazioni affettive (che ci legano alle altre creature) entro il grembo affettivo di Dio.

Ci accadrà dunque qualcosa di simile a ciò che è accaduto al Figlio? Gli Autori rispondono positivamente e, senza scivolare nel didascalico, propongono di far leva sull’analogia. Alla morte di individui storici (cioè nella transizione che comporta già l’incontro con Cristo e il morire in lui e quindi anche un giudizio da parte sua), tali soggetti non perderanno la loro storicità, spazialità, temporalità, relazionalità, desiderio d’amore, ma manterranno e perfezioneranno questi loro tratti, fino a quanto il compimento finale li libererà da ogni lacrima, colpa, solitudine, ingiustizia. In tal modo l’insegnamento tradizionale su espiazione e intercessione dei/per i defunti può essere predicata con decisione.

Già alla morte sapremo immediatamente della nostra eterna destinazione in Dio, un Dio che ci ospiterà nella sua intimità, accogliendo le parti più belle della nostra vita: memoria, libertà, affetti, emozioni, ruoli biografici. Ciò che era prima, ci era stato donato e conservato per venire a maturazione, passo dopo passo, anche dopo morte, e infine per mutarci nell’identità di risorti, i cui corpi avranno una triplice dimensione spirituale. Manzi riprende l’espressione “hyper” dallo Pseudo-Dionigi l’Areopagita (V o VI secolo – p. 196) e parla di un super-spazio, super-tempo, super-amore (agape), in cui vive il Signore risorto e in cui convivranno le nostre “esistenze”[16].

Godremo di spazi e tempi trasfigurati, non quindi coincidenti, ma coesistenti con quelli terrestri e in parziale continuità con essi[17]. Saremo le persone di prima, non altre. Saremo corpi reali, non più fisici né organici, ma non fantasmatici né “gassosi” né solo psichici (né del tutto “immateriali”), bensì dotati di capacità di contatto con le “cose”, sganciati dalle limitazioni che soffocavano intelligenza, decisione, percezione. Corpi di creature, quindi dipendenti dal loro Signore e sospesi a lui, ma diventati incorruttibili, immortali, gloriosi, forti (e non disciolti in un’indefinita trascendenza), fruitori ed elargitori di buone relazioni d’amore con le altre creature e l’unico creatore.

Questioni aperte
Il dibattito che si aprirà in merito a questa coerente, documentata e accattivante proposta, toccherà presumibilmente alcuni punti delicati sul piano teologico.

Sovraspaziale, sovratemporale, sovragapico sono i predicati attribuiti a una vita (quella del “secolo venturo”), che differisce da quella terrena (spaziale, temporale, agapica), ma non la contraddice totalmente[18] e quindi può venire nominata e immaginata con realismo, senza scivolare nell’apofasi, nella chiacchiera pseudo-devozionale o nel delirio mistico. E’ un pregio del volume aver riabilitato la connessione intrinseca tra le due modalità del pensiero: pensare cioè per concetti e per figure/storie/immagini mobili).

Si potrebbe far notare che la scansione natura-soprannatura ha mostrato debolezze variegate in sede teorica. La grazia è infatti interiore alla natura ed è come tale intrascendibile (Rahner). D’altro canto, la nozione teologica di “natura” è attingibile solo per astrazione e sottrazione rispetto all’ordine creato che è quello intriso di grazia (Balthasar)[19].

Ebbene, se il “sopra” (supernatural in inglese, oppure Übernatürlich, surnaturel, sobrenatural) indica un incremento quantitativo, tale divaricazione diventa in parte inservibile, in parte umiliante. Risulterebbe infatti svilita una fede religiosa (fides qua) che ambisca a rivendicare la mera capacità di utilizzare un cannocchiale gnoseologico un po’ più potente di quello (del medesimo tipo) impiegato dalla ragione (ratio).

Se invece il “sopra” implica una differenza qualititativa, si apre il problema di come descrivere ciò che risulta comunemente estraneo alla nostra esperienza corporea e che infatti viene attribuito dagli Autori alla modificazione dell’organismo indotta dallo Spirito. Che cos’è questo Über ? E’ qualcosa di “altro”? Di assolutamente oppure relativamente “altro”[20]? Che un corpo umano attraversi i muri, scompaia e ricompaia a piacere, si faccia presente in più luoghi, sia transitoriamente riconoscibile o invece (in altri momenti) irriconoscibile, tutto ciò non è logicamente contraddittorio, ma è, in senso nobile, paradossale[21]. Può essere preso alla lettera? Oppure ha una valenza simbolica come quando si dice che, pregando, si possono smuovere le montagne? Oppure si tratta di un oracolo veridico (anche questo in senso nobile), un oracolo in attesa di un ermeneuta, come quando le streghe profetizzano a Macbeth che la foresta di Birnam avanzerà, si muoverà verso il castello?

In E la vita del mondo che verrà i tre studiosi portano a fondo l’impegno teologico del XX secolo a costruire un’antropologia non contrapposta al dato sovrannaturale, un’antropologia più duttile a stringere i rapporti con l’ “oltre”. Il punto è che non disponiamo di un’ontologia dell’umano che sia in grado di cogliere intuitivamente l’essenza e i confini della natura creata. Facciamo un solo esempio. Da alcuni anni contestiamo la presunzione teorica di certi teologi morali di orientamento “mortalistico”, i quali affermano che la morte è condizione costitutiva dell’uomo. Noi, che invece siamo “immortalisti”, pensiamo che il senso di scandalo, sperimentato davanti al decesso di un nostro simile, evidenzi un’immagine di vita radicalmente diversa: l’uomo è un essere che non solo desidera legittimamente la vita e la felicità, ma che “costitutivamente” può non morire. In effetti gli era possibile (e tuttora gli è possibile, in linea di principio, anche se di fatto ne siamo purtroppo lontani) godere indefinitamente di Eden se avesse mangiato solo i frutti dell’albero della vita!

Occorre quindi fondare l’eidetica dell’umano sull’esperienza pratica del sentirsi donati a noi stessi. Balthasar ha chiarito in modo eloquente come il cristianesimo non sia né una filosofia della natura nè un’antropologia razionale: la rivelazione non va certamente contro nessuna buona aspirazione umana, ma il nostro cuore “comprende se stesso solo se ha anzitutto percepito l’amore, volto verso di lui, del cuore divino trafitto per noi sulla croce”[22].

In sintesi, non disponiamo di un’intuizione eidetica del “naturale” e la teologia fonda l’antropologia, in ultima analisi, sulla cristologia. Lungo questa strada, gli Autori s’imbattono inevitabilmente nella difficoltà di predicare universalmente ciò che attiene alla singolarità di Gesù. Infatti Gesù Cristo, creatore degli uomini, è la loro immagine perfetta; conseguentemente il destino dell’umano è la conformità con Gesù Cristo[23]. Ora, il “proprium” del Figlio (l’intimità impareggiabile col Padre) impedisce un’applicazione deduttiva all’uomo dei tratti che connotano Gesù in modo specifico. Il riferirsi immediato di Gesù cristo a Dio ne istituisce la trascendenza, che è irriducibile rispetto a ogni altra possibile attuazione dell’umano. I due termini dell’alleanza (il divino e l’umano) non si intendono a prescindere dal loro rapporto e previamente al loro patto (come se uno fosse la sopra-natura e l’altro la natura). Ma tra le due polarità una differenza ovviamente permane e il linguaggio simbolico si impegna a nominare contemporaneamente entrambe: identità e differenza.

Ciò apre diversi problemi. Gli Autori respingono la demitologizzazione alla Bultmann[24]. Con nostre parole, il mito non è sostituibile dal logos. Il simbolo dà a pensare (Ricoeur) e nel pensiero, apparentemente intellettuale e astratto, c’è già in azione una metafora sbiadita (Derrida). Ma la questione resta: “sovra”, “sopra” sono preposizioni e avverbi di luogo. Come possono venir predicati di “tempi” e “relazioni”? Il “sovraspazio” non è quello della fisica e l’”iperspazio” non è quello della science fiction, ma indica la trascendenza del referente teologico rispetto a quello scientifico o a quello del luogo comune. Ora, ciò che trascende non è descrivibile direttamente, ma solo mettendo in tensione l’intero esercito di metafore (come chiamava Nietzsche la verità: un mobile esercito di metafore) aventi, in questo caso, un rinvio spaziale. Jaspers aggiungerebbe: ciò che trascende si manifesta (come contenuto pensabile e credibile) a ciascuna persona secondo singolari e irripetibili cifre di lettura.

Nel volume di cui discorriamo, invece, gli Autori puntano a una verità unica, dottrinalmente definibile e trasmissibile. Essi percorrono l’unica via praticabile: narrare da capo le narrazioni neotestamentarie a proposito della vita e del post-mortem di Gesù. Lui è l’eschaton, il definitivo, che fa da parabola di ogni parabola. Lui ci trascende come Figlio, ma è immanente come Gesù e perciò ha il potere di portarci in e con lui entro una delle dimore, dove ha casa il Padre.

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Rispetto alla vita ordinaria, pertanto, Gesù il Messia rappresenta l’oltre, che anche noi saremo. Anche i nostri corpi godranno della docilità che il suo corpo manifestò in vita (camminare sulle acque, comandare agli spiriti immondi) e soprattutto dopo la sua morte (sepolcro vuoto, lini piegati, apparizioni di un non-fantasma, epifanie di un non-ologramma). E’ la buona notizia, la vittoria sulla morte, che la chiesa contemporanea non ha sempre il coraggio di attestare, per timore di critiche da parte di uno scientismo supponente e per il vistoso privilegio pastorale concesso ad iniziative di carità terrena.

È lecito comunque domandare a questa escatologia “dell’ascensione” se l’esegesi, che gli autori svolgono con acribia, non sia a sua volta guidata da una teologia implicita. In tal caso, non si potrebbe trarre dalla lettura dei testi neotestamentari (a loro volta intrecciati con altri del primo testamento) una delineazione univoca del significato di nozioni quali: natura, sovra-natura, corpo, spazio, temporalità, amore agapico, ma ci si dovrebbe limitare a difendere una specifica, parziale, provvisoria interpretazione dei medesimi[25].

Senza cadere in relativismi, bisogna riconoscere, a nostro avviso, che un’opzione escatologica precede e guida (e non invece “segue”) l’applicazione dell’apparato storico-critico a testi della Scrittura. E’ tale opzione che induce a operare un certo tipo di distinzione tra spazio e sovra-spazio, tra tempo e sovra-tempo, tra amore e sovra-amore. Detto simbolicamente, il tempo-di-Dio è già nel mondo (nel tempo-del-mondo) senza identificarsi con quest’ultimo, come accadrebbe nel panteismo. Per contro, il tempo-del-mondo (così come lo spazio e l’amore umani) è già da sempre nella vita trinitaria, se “assolutamente al principio la determinazione divina ha predestinato Gesù Cristo e in lui ha predestinato l’uomo” e con esso la creazione intera[26]. Per questo motivo, come dicevamo, i due poli risultano inscindibili: non c’è alcuno spazio, tempo o amore, la cui natura sarebbe immediatamente conoscibile, come dato antropologico, a monte del disegno di grazia (comprensivo di incarnazione, redenzione, risurrezione finale), che Gesù Cristo fonda ed esibisce esemplarmente per ogni uomo.

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Le parabole dell’èschaton. In un epistolario sul tema del male, cui quindici studiosi hanno risposto, abbiamo abbozzato una teoria delle parabole, quali narrazioni brevi aperte a significati molteplici[27].

Quali significati? Ci riferiamo ai seguenti:

il Regno, cui rinvia l’immagine o la microstoria tratta dalla vita ordinaria dell’ascoltatore;
il narratore identificato sia in Gesù che racconta, sia nella comunità che, attraverso l’evangelista, attesta ciò che il Narratore aveva narrato;
Gesù come parabola di ogni parabola, come il tema di fondo, il paradigma, l’aboutness ultimativo (costituito dal Figlio dell’Uomo come figura di auto-rappresentazione e auto-affezione privilegiata da Gesù);
la pratica narrativa, come via maestra per pensare Dio;
il principio (ἀρχὴ) di ogni racconto, il racconto infinito da cui i singoli racconti si ritagliano uno spezzone, la fonte (Verbum) da cui sorge e cui conduce il desiderio di narrare. Una fonte e un principio, che, paradossalmente, si mostra interessato a venir narrato!
Nella cortese replica al mio scritto il biblista Matteo Crimella faceva giustamente notare i rischi di una lettura allegorica delle parabole, le quali rivelano essenzialmente quale fosse lo sguardo di Gesù sul mondo e spianano la strada all’accoglienza del kerigma, Ma le parabole non assorbono il vangelo (mentre come curatore del volume collettivo io avevo forzato i racconti di Gesù entro la logica categoriale della teodicea). Le parabole sono meccanismi argomentativi che rimandano al mistero della persona di Gesù e che rimuovono pregiudizi. Ma esse non esplicitano meccanicamente la dottrina, esigono invece una successiva rifigurazione teologica.[28].

Ora, nel volume E la vita del mondo che verrà, Manzi precisa che ogni eventuale attribuzione di ruolo (il padrone è Dio, il furbo debitore è il fariseo, ecc.) va declinata con attenzione. In alcune parabole è chiaro che il Dio di Gesù Cristo non può essere il cinico, sanguinario padrone, che fa strage di chi si è rifiutato al suo signorile, implacabile. appello. In altre parabole invece, l’accostamento o addirittura l’identificazione è messa in bocca proprio a Gesù, che fa l’ermeneuta di se stesso.

Ciò che gli Autori auspicabilmente svilupperanno, dopo aver firmato questa bella opera collettiva, è una riflessione narratologica sulla polivalenza del racconto rispetto al logos[29]. Si afferma giustamente che è il secondo, il logos, a doversi aprire al primo, ma non si evidenziano rinvii del racconto alla pratica del narrare e al princìpio d’ogni racconto (come li abbiamo sopra chiamati)[30]. Senza questi approfondimenti, non si spiega perché sia la parabola il medium più ricco sul piano dell’esplorazione dell’eschaton, che è appunto fine, compimento, definitività.

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È aperta la questione di come possa darsi una sostanza spirituale, che sia al contempo a) separata dall’organismo precedente, che sta per scomporsi dentro la tomba in un disfacimento anti-vitale e b) in grado di svolgere funzioni sensibili e affettive e non solo quelle puramente intellettuali (come farebbe uno sterile intellectus siccus)[31].

Secondo la Commissione Teologica Internazionale espressasi sull’escatologia (1992), è lo stesso corpo quello che ora vive e quello che risorgerà. Non si vede come aggirare questa coincidenza. Anche quelle linee tomistiche, che difendono la sussistenza dell’anima separata e attribuiscono a tale anima la tendenza intrinseca a farsi corpo, a dar forma al corpo, a risorgere nel corpo, devono confrontarsi con la radicale speranza che tale corporeità sia quella pre-mortale, per quanto trasfigurata. Non basta una generica ipseità morale. Occorre una certa identità, o meglio una reidentificazione in grado di esibire un grado di continuità nonostante e attraverso i mutamenti di un corpo materiale, che la malattia mortale ha frantumato e che nell’ultimo giorno si ricomporrà. Non sarà una rianimazione, come fu per Lazzaro e non fu per Gesù. Ma anche per Gesù non ci fu sdoppiamento di corpi. Era il suo corpo di prima, quello risorto ed era inciso delle vecchie ferite, ma dotato di poteri trasmutati.

Le ipotesi storicamente accreditate sono diverse ma risultano tutte poco convincenti.

se il corpo è con-soggetto di attività, almeno per la conoscenza sensitiva, allora si dovrebbe riconoscere una corporeità all’anima (Io), ma ciò contrasta con la nozione tradizionale di spirito “separato”.
se l’anima separata non può più trarre i concetti dalle immagini/oggetti forniti dal corpo, di cui essa era forma, l’anima potrebbe ricevere direttamente da Dio le idee delle cose (ma sembra inopportuno scomodare Berkeley).
oppure, come sostengono gli Autori, lo Spirito creatore trasfigura il nostro spazio/tempo e abilita l’anima spirituale a fungere da regista della stessa percezione sensibile[32]. Per fare un esempio, si coglie la tenerezza di qualcuno in un suo gesto o parola, ma si avverte nel contempo che tale qualità affettiva trascende la singola manifestazione e attiene all’anima in quanto tale. Conclusione? L’anima spirituale, separata dal suo corpo mortale, è a suo modo “materiale” (più esattamente: non è immateriale[33]) e la sua rinnovata corporeità abiterà, coi fratelli, le sorelle e tutti i viventi, il “mondo” di Dio.
La tesi C) è interessante, ma è stata criticata da versioni escatologiche precedenti, perché proprio la lezione fenomenologica che distingue il Körper (corpo oggetto) dal Leib (corpo vissuto), esclude che si dia una Leiblichkeit senza Körper. Il corpo, che io sono (Leib), precede ontologicamente il corpo che io ho (Körper), ma non se può sbarazzare, poiché appunto nel moto trascendente, in cui l’identità soggettiva assume questa o quella prospettiva corporea, il Leib diventa (deve poter diventare o ridiventare) Körper. In tal modo si trasforma in dato studiabile a distanza appunto quella parte che prima costituiva per l’anima il suo proprio inoggettivabile ma pensabile Leib, carico di vissuti affettivi tipicamente personali.

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Ultimo punto controverso è la questione del male. Nella parabola dei lavoratori presi a giornata si evince che “nel giudizio finale tutti scopriranno di essere non in credito, ma in debito con Dio”[34]. La cultura odierna parla però un’altra lingua. Una larga parte della letteratura e del cinema contemporanei esprime un vissuto diverso: siamo stati chiamati, senza chiederlo, con la nascita, in una realtà attraversata anche da violenze e contraddizioni, da scandali ingiustificabili che travolgono bambini innocenti, del tutto inidonei a godere dei benefici di riti, iniziazioni o perfezionamenti spirituali. A chi, se non (anche) a Dio, i rappresentanti delle vittime chiederanno conto? Oltre i criminali colpevoli, c’è un fiume di negativo che attraversa il cosmo. Forse qualcosa della creazione è rimasto incompiuto? Qualcosa è andato storto?

Viene alla mente Paolo De Benedetti, il biblista ed ebraista che aveva abbozzato nientemeno che una teologia del debito di Dio. E’ arduo difendere un’ottimistica visione della vita e proclamare con gioia la “buona novella” (evangèlo), senza attraversare con ribrezzo quella fetta di male che i giorni sotto il sole ci riservano[35]. Giobbe rifiuta polvere e cenere e questo lo consola e gli dà la forza di chiamare Dio a testimone processuale, un Dio che lo loderà per la sua coerenza[36]!

Quanto scriviamo in questa sede è frutto di riflessioni personali che esulano dalle tesi esposte nel volume di Sequeri, Bonazzoli e Manzi, ma che ci sembrano utili per criticare una tendenza, che in bioetica clinica abbiamo visto purtroppo presente nel discutere o presumere di individuare addirittura un “senso del male”. Il cristianesimo (quello meditato dalla mistica renana, da Schelling, da Pareyson) non può far sua l’opzione quietista (diffusa nel seicento francese e spagnolo) secondo la quale chi ama Dio quale architetto e monarca dell’universo, non solo è saggio ma è anche felice, poiché contempla un mondo ordinato e armonico. Cosicchè amare Dio basterebbe alla salvezza e alla felicità in un colpo solo. Il semplice fatto di ipotizzare (leibnizianamente) che viviamo nel miglior mondo possibile (al quale forniamo una specie di approvazione forfettaria in quanto derivato e garantito dalla perfezione divina), non sembra realisticamente in grado di coniugare, in maniera fondata, a nostro avviso, beatitudine è virtù.

Il volume E la vita del mondo che verrà interpreta con coraggiosa coerenza cristiana alcune parole diventate difficili da utilizzare, a giudizio di studiosi come Hans Jonas, parole addirittura ambigue dopo le guerre mondiali e Auschwitz. “Iniziazione”, “prova”, “pedagogia”, “sofferenza salvifica”, “lontananza del Padre”, “riconciliazione”, sono termini ardui da giustificare razionalmente a fronte del destino straziante che ha strappato e violentato relazioni preziose. Nessun padre, potendo intervenire, avrebbe lasciato al criminale la potestà di infierire a quel modo sui suoi figli. O addirittura di abusarne.

Analogamente, l’assimilazione metaforica della morte a un “passaggio” o a un “sonno” o a una “nascita” risulta poco comprensibile a quanti, credenti e non, hanno appreso da Bloch e Moltmann a riconoscere, denunciare e contrastare il carattere “letale” della morte, le cui ganasce stritolano la storia e non rispettano alcunchè di separato, di extraterritoriale, di immune dal suo morso. La morte è un male, in sé, e merita un’opposizione. Se la morte strappa una vita, il rito porta a parola e a gesti questo lancinante dolore, non lo seda in forme consolanti.

Le virtù teologali si oppongono alla brutalità della fine non “grazie a” e “a causa di”, ma “nonostante e attraverso” il dolore assurdo e la malattia disabilitante, infausta e alienante, che i servi di YHWH sono costretti a patire. Nessun Dio che «desideri» condividere per sempre con l’uomo la propria sorgiva «gioia di vivere» assieme a noi (secondo una felice espressione di Sequeri[37]) può aver pensato a un percorso educativo o iniziatico che includa “prove” ingiustificatamente, sproporzionatamente onerose.

Manzi disegna con speranza il riposo eterno quale congedo dagli affanni ma anche quale festosa adunanza e aggiunge che i beati, ricordando i patimenti sopportati, ne custodiranno solo il senso salvifico, poiché ogni frammento del loro essere è ormai stato redento e riscattato in forma definitiva ed esperibile[38]. Intuizione efficace! la quale meriterà approfondimenti, poichè il ricordo di un’ingiusta violenza (fatta o subita) è intimamente connesso al vissuto emotivo (dolore, colpa, rabbia, ecc.). Si potrebbe forse dire che, se muta questa risonanza affettiva (anche nel ricordo), muta la stessa esperienza.

Elaborate queste precisazioni, la proposta escatologica di Iniziazione/Ascensione eviterà di venire fraintesa e fatta coincidere con una rasserenata Aufhebung idealistica, in cui ogni male trovi senso in vista di un bene maggiore e la ferita, il negativo subiscano un’elaborazione e un rimodellamento gioiosi.

Redenzione e affezione
La redenzione di un’affezione corporea sarà come la guarigione di una piaga. La percezione della sofferenza pregressa non sarà mai dimenticata e trasformata nel suo contrario. Sarà piuttosto superata e inscritta in sentimenti più vasti.

Lo stesso Gesù si presenta ai suoi con i segni della passione, per quanto essi possano essere apparsi urtanti o imbarazzanti per qualche discepolo. Il negativo rimane, come scriveva Pareyson, al modo di ciò che è rifiutato e sconfitto da Dio in nome del bene, ma che resta incistato nell’essere come possibilità abissale, come il “passato” del Dio-per-noi e con-noi. Come una maligna “mano sinistra” divina, paralizzata ma non amputata.

Dell’attivazione di tale possibilità negativa si può far complice la libertà cattiva dell’essere finito e libero. E l’uomo, anche nell’assemblea dei Santi, resterà un essere finito e libero. Infatti, senza memoria, senza desiderio, senza libertà di decidersi per l’Uno, non ci sarebbe vita umana risorta. Per questo ci auguriamo che qualcuno preghi per noi. Il nostro riposo in Dio non sarà congelamento o reificazione. Saremo anzi ancora più liberi, con i nostri affetti, ricordi e rapporti.

Saremo liberi per il Dio che ci ama e che ci trascende perennemente (Os 11,9: “sono Dio e non uomo”). Saremo conformati a lui, non omologati e sacralizzati, e saremo pienamente in grado di dirgli di sì, nella libertà e lungo un cammino ininterrotto d’iniziazione e ascesa. Non finiremo mai di nascere…[39].

Pierangelo Sequeri, Davide Bonazzoli, Franco Manzi, E la vita del mondo che verrà, Milano, Ed. Vita e Pensiero, 2024, pp. 271, euro 20. [agosto 2024 SettNews]
[1] Bonazzoli ricostruisce i momenti più significativi dell’evoluzione teologica in materia (pp. 90-114). Di Balthasar si sottolinea la svolta de-cosmologizzante: i Novissimi non sarebbero da intendere tanto come luoghi, quanto come forme della nostra relazione con Dio nel Figlio Gesù: “ogni uomo che muore viene incorporato nel corpo celeste, ossia nell’umanità risuscitata di Cristo” (Bonazzoli, p. 100, citando Balthasar). Gli Autori del volume recuperano però una componente “sovra-spaziale” e quindi anche sovra-cosmica.

[2] Bonazzoli, p. 265.

[3] P. Sequeri, L’iniziazione. Dieci lezioni su nascere e morire, Milano, Vita e Pensiero, 2022.

[4] Si legga l’ultimo capitolo, in particolare, «Generazione eterna come vita e destino»: “La nostra iniziazione, avviata con la nascita, mette alla prova io/noi, quanto alla serietà con cui diciamo di amare la vita” (p. 199). Nel volume E la vita del mondo che verrà, Sequeri riprende le precedenti categorie d’analisi, applicandole all’attuale condizione storico-culturale, nel lungo capitolo “Nascere è per sempre”, pp. 125-188, ma – come egli stesso riconosce a p. 137 – l’approccio è un po’ troppo celere e le tesi potrebbero risultare, a tratti, a qualche lettore (che non conosca scritti precedenti), un poco ellittiche e astratte.

[5] Se fosse un magistrato retributivamente inflessibile, nessuno potrebbe salvarsi. Se lo facesse, ci troveremmo per le mani un straccio di contratto insolvibile, invece che le tavole di un’alleanza creativa, redatte e siglate a nostro ultimativo beneficio.

[6] Manzi, p. 220.

[7] E’ citato Karl Rahner, La risurrezione della carne, a p. 217, nota 63. Rahner definisce il corpo spirituale di 1 Cor 15,44 “vera corporeità che è tuttavia pura espressione dello spirito, il quale è diventato tutt’uno con il Pneuma di Dio”.

[8] Sequeri, p. 12.

[9] Bonazzoli, p. 270.

[10] Sequeri, p. 13.

[11] Cfr. Sequeri, p. 17.

[12] Id., p. 25.

[13] Alle pp. 58-68, a firma di Manzi.

[14] Manzi, p. 202. Sequeri dichiara alle pp. 174, 177 e 187, la sua propensione a valorizzare l’originalità del dogma cristologico dell’ascensione corporale di Gesù, saldandolo con la fede nell’eterna generazione trinitaria del Figlio. Nel Mistero dell’Ascensione gli Autori rintracciano le ragioni per pensare a una transizione di ogni defunto verso un’identità che custodisca e riscatti la dimensione sensibile della sua precedente spiritualità.

[15] Sequeri, p. 176.

[16] Si può parlare anche di un iper-tempo o di un sovra-tempo (Bonazzoli, p. 268).

[17] Cfr. Manzi, a p. 195, ove si distingue continuità da discontinuità.

[18] Anzi la potenzia (Manzi, p. 195).

[19] G. Colombo, “voce “Soprannaturale”, Diz. Teol. Interdisc., Torino, Marietti, 1977, pp. 298-299, vol. III.

[20] Si ricorderà l’ambivalenza dello stesso Barth: 1) dell’alterità trascendente non si può dir nulla e la fine non è la fine del mondo né una catastrofe storica o tellurica, poiché l’assoluto ci appare e ci tocca ma non si lascia vedere; 2) in un secondo tempo Barth riconobbe l’importanza di assegnare una fine reale al mondo e un ruolo reale a chi vive l’avvento del Regno. Cfr. il commento di G. Greshake in “Escatologia”, voce in Dizion. Critico di Teol., di J.-Y Lacoste, ed. it. a cura di P. Coda, Roma, Borla – Città Nuova, 2005, p. 495. Vol. 1; ed. or. Parigi, 1998. Di seguito I. Sanna cura la seconda voce “Escatologia” nello stesso primo volume, pp. 498-502.

[21] Sulla nozione di paradosso in Marion (quale nozione tipica del fenomeno di Rivelazione) cfr. il nostro volume Ci ha Dio. In dialogo con Jean-Luc Marion, Venezia, Marcianum Press, 2024.

[22] H. Urs von Balthasar, Glaubhaft ist nur Liebe, ed. or. 1966, tr. it. Solo l’amore è credibile, Roma, Borla, 1982; tr. fr. p. 183, riportato da O. Boulnois, voce “Soprannaturale”, in J.-Y Lacoste, Dizion. Critico Teol., cit., p. 1276.

[23] Colombo, “Soprannaturale”, cit., p. 300.

[24] Si veda Manzi, p. 43.

[25] N. Ciola, “Soprannaturale”, voce, in Encicl. Filosof., Milano, Bompiani, 2006, p. 10869. F.G. Brambilla, “Dal soprannaturale all’uomo in Gesù Cristo”, in AA. VV., L’intelletto cristiano, Milano, Glossa, 2004, pp. 125-163.

[26] I. Biffi, in AA. VV., Veritatis Splendor, Roma, Dehoniane, 1994, p. 88.

[27] “Di che cosa parlano le parabole evangeliche?, in P.M. Cattorini, a cura di, La fede oltre le tenebre. Un epistolario teologico sulla questione del male, Carbonia, Susil, 2023, pp. 140-154.

[28] M. Crimella, “Le parabole e lo sguardo di Gesù”, in La fede oltre…, cit., pp. 162-166.

[29] Lo spazio è ovviamente tiranno, come Manzi stesso fa notare nella nota 20 di p. 53. L’immaginazione di Gesù, in merito allo statuto del regno, è poderosamente creativa ed è a stento costretta entro limiti pedagogici imposti dagli evangelisti. Il problema non è quindi di rigorizzare il racconto, ma di raccontarlo ancora, di espanderlo, di farne un’opera aperta, che nemmeno le biblioteche del mondo intero potrebbero contenere (il bel secondo finale del quarto evangelo!).

[30] Manzi, p. 44.

[31] Manzi riconosce le difficoltà teoriche di esibire una spiegazione (p. 233).

[32] Sequeri, p. 26.

[33] Nel senso precisato da Sequeri a p. 28: sensibile a sufficienza per ricevere e donare affezione.

[34] Manzi, p. 65.

[35] I. Bertoletti, Paolo De Benedetti. Una teologia del debito di Dio, Brescia, Morcelliana, 2013. Dio stesso avvertirebbe con dolore il ritardo del “ritorno” e si sentirebbe “in debito” verso l’uomo irredento e verso la creatura che geme incolpevole. Sinchè questo gemito si alzerà, Dio stesso resterà “diviso”. Non essendo tutto in tutti, Dio non è ancora se stesso e ne patisce, come se il segno dei chiodi gli facesse ancora male.

[36] G. Borgonovo, a cura di, “Giobbe”, in Bibbia, Torino, Einaudi, 2021, p. 326, v. II, cap. 42,6.

[37] Nel volume di AA.VV., Il significato cristiano della sofferenza, Brescia, La Scuola, 1982, p. 110.

[38] Manzi, p. 232.

[39] Bonazzoli, p. 271, scrive: “Per finire di morire, per finire di nascere.”.

in Settimana News

Libro. La promessa dell’amore. Accogliere e accompagnare le «coppie imperfette»:

coppia

Con l’esortazione apostolica Amoris laetitia del 2016, frutto di due anni di discernimento sul tema della famiglia, la Chiesa cattolica ha inteso aggiornare la sua riflessione sull’amore coniugale all’interno delle grandi trasformazioni sociali e culturali in atto nel nostro tempo.

Nel suo recente volume La promessa dell’amore. Accogliere e accompagnare le «coppie imperfette»: una lettura psicoanalitica dell’Amoris laetitia (Effatà, Cantalupa 2023), lo psicoanalista Nicolò Terminio torna a riflettere sul recente testo magisteriale il quale risulta fondamentale per ripensare la pastorale familiare all’interno delle comunità credenti. Lo intervistiamo a partire dai contenuti del suo volume.

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  • Nella sua rilettura psicoanalitica dell’Amoris laetitia, il passaggio dal giudizio all’accoglienza delle cosiddette «coppie imperfette» assume un ruolo centrale. Perché risulta fondamentale l’accoglienza?

L’accoglienza risulta fondamentale per superare una delle tentazioni principali dell’essere umano: quella di identificarsi in un modello predefinito che assomiglia a un’immagine allo specchio invece che allo slancio della propria vocazione. L’accoglienza ci mette quindi in una posizione di recettività verso l’alterità che si manifesta nell’incontro con gli altri, ma risulta fondamentale anche nel rapporto con noi stessi, con quel mistero che ci abita. Dare preminenza all’accoglienza vuol dire dunque essere sintonizzati con l’altro superando il desiderio narcisistico di ritrovare nell’altro un doppione del proprio io. Nel mio libro l’accoglienza è uno dei vettori psicologico-relazionali fondamentali per trasformare la tentazione del narcisismo umano in un’apertura capace di trasformare la nostra esistenza in modo generativo.

  • Nel volume lei sostiene che l’empatia più che immedesimazione dell’altro coincide con l’accettazione del mistero e dunque dell’alterità dell’altro. Questa declinazione dell’empatia quale valore assume per i vissuti familiari?

Secondo questa accezione l’empatia è una forma di sintonizzazione con l’altro in quanto alterità radicale, un altro cioè che non è assimilabile alle nostre aspettative o ai nostri fantasmi inconsci. L’empatia è la capacità di saper sostare di fronte all’altro quando l’altro è un estraneo e non corrisponde al personaggio che abita nella nostra immaginazione. Questa possibilità relazionale aperta dall’empatia è fondamentale nelle coppie e nelle trame delle famiglie, soprattutto quando si incrina la possibilità di comprendere l’altro attraverso le proprie proiezioni immaginarie, cioè quando l’altro disconferma tutto ciò che avevamo proiettato sulla base delle nostre aspettative.

In ciascun essere umano esiste il desiderio di corrispondere al desiderio dell’altro, ma esiste anche il desiderio di avere un proprio desiderio, e l’empatia si configura come la capacità di trovarsi di fronte alla singolarità del desiderio dell’altro senza cercare di addomesticarlo secondo le proprie aspettative. Paradossalmente è proprio il dono di questa libertà favorita dalla sintonizzazione empatica che consente a due desideri singolari di incontrarsi, di incontrarsi non in quanto sovrapponibili ma proprio perché radicalmente differenti. Nei legami familiari è dunque molto importante distinguere una forma di empatia basata sull’assimilazione dell’altro in base ai propri fantasmi (che dal mio punto di vista non è una vera empatia) da un’empatia che invece si fonda sulla possibilità di contemplare l’esistenza dell’altro come un mistero che continua a sorprenderci e ad attivarci verso una nuova scoperta.

  • Quanto la creatività, l’immaginazione e il desiderio sono importanti nelle relazioni familiari e, in genere, di coppia?

Per la psicoanalisi il desiderio è una esperienza analoga a quella della vocazione perché è una chiamata, una chiamata di cui non siamo padroni e che per quanto discernimento potremo compiere rimarrà sempre come un mistero. Per vivere il proprio desiderio è necessario essere creativi, cioè essere disposti a dare testimonianza della propria singolarità.

La scoperta della propria singolarità avviene grazie a un campo relazionale, non esiste un cammino di esplorazione e realizzazione della propria vocazione senza la compagnia degli altri. Senza la relazione con gli altri difficilmente possiamo incamminarci nella realizzazione creativa della nostra unicità. Allo stesso tempo va notato che è importante entrare in relazione con gli altri non per trovare una risonanza narcisistica che conferma il valore di sé, ma occorre pensare agli altri come dei compagni di viaggio nella ricerca della propria verità.

In questo modo possiamo comprendere che la dimensione relazionale si configura non come un rispecchiamento narcisistico, ma come l’istituzione di una dimensione terza che non coincide con due individualità in gioco o con la somma dei componenti del campo familiare. Nelle relazioni che sono abitate dall’esperienza del desiderio viene generata l’esperienza del Terzo, un Terzo che supera gli individui e gli fa scoprire che esiste qualcosa che li supera. È questa la dimensione del legame. Quindi la dimensione del desiderio è ciò che permette alla coppia e al campo familiare di esistere come superamento dell’ego e di configurarsi invece come esperienza di un gioco in cui si scopre chi si è per sé stessi e per gli altri.

  • A suo parere, la comunità ecclesiale dovrebbe ripensarsi attraverso un senso di appartenenza fondato sulla relazione e non sull’identificazione. Questa declinazione, quali percorsi progettuali potrebbe ispirare nella prospettiva pastorale?

Questa è una domanda davvero difficile perché non è possibile formulare una risposta generale. Da psicoanalista preferirei accostarmi a una singola realtà locale e studiarla insieme a chi vi appartiene per verificare quali sono i modelli identificatori che l’hanno caratterizzata e soprattutto la ragione per cui le identificazioni hanno preso quella forma. Le identificazioni sono importanti perché danno una rappresentazione alle aspirazioni dell’identità dei singoli soggetti e della comunità che li accoglie. Tuttavia bisogna considerare le identificazioni come dei vestiti prêt-à-porter e non come dei vestiti su misura. Le identificazioni sono come dei vestiti che non coincidono del tutto con la verità del soggetto, né corrispondono alla modalità più vera per realizzare lo slancio della vocazione. L’esperienza della vocazione di solito scompagina l’identificazione di un soggetto facendogli scorgere una verità che supera le credenze che aveva su sé stesso. E questa è una sfida che non riguarda soltanto il singolo, ma anche i gruppi e le comunità.

Va inoltre precisato che non bisogna confondere questa prospettiva con l’idea che qualsiasi forma di identificazione vada bene. La questione riguarda sempre quali sono i vincoli identificatori e relazionali che permettono un’apertura verso l’altro. Le identificazioni sono pericolose perché possono spingere verso la chiusura e la soluzione per evitare la chiusura non è abolire le identificazioni perché se si aboliscono le identificazioni si perdono anche i vincoli che ci permettono di rappresentarci. Sarebbe importante sostenere delle identificazioni insature e suscettibili di una trasformazione storico-sociale perché le identificazioni sono solo uno strumento per rappresentarci e per rivolgerci agli altri, ma non vanno confuse con l’essenza della nostra verità.

In estrema sintesi, direi che ciascuna comunità dovrebbe interrogarsi sul rapporto tra identificazione ed esperienza dell’amore sapendo che c’è una differenza e quindi chiedersi di volta in volta quali modelli identificatori proporre per aprirsi all’esperienza dell’amore. Avendo inoltre consapevolezza che l’esperienza dell’amore non è garantita dall’identificazione, semmai è l’esperienza dell’amore che consente di dare a quella forma di identificazione la legittimità di rivestire la nudità dell’essere del soggetto.

  • Dal sito della Pastorale per la cultura della diocesi di Palermo (tuttavia.eu), 25 luglio 2024
  • in settimananews.it

La pena di morte non fa giustizia, è un veleno per la società

“Un cristiano nel braccio della morte. Il mio impegno a fianco dei condannati” è il titolo del libro di Dale Recinella, edito dalla Libreria Editrice Vaticana, in uscita martedì 27 agosto, con la prefazione di Papa Francesco. Recinella, 72 anni, già avvocato di successo a Wall Street, dal 1998 accompagna spiritualmente come cappellano laico i condannati a morte in alcuni penitenziari in Florida insieme alla moglie Susan. In questo volume racconta la sua esperienza nata dall’incontro con Gesù

Altro libro dell’Autore per approfondire:

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Dialogo interreligioso. Dobner: “Ascoltare la tradizione della Chiesa, ancorandoci a Israele”

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Dialogo interreligioso. Dobner: “Ascoltare la tradizione della Chiesa, ancorandoci a Israele”

La studiosa carmelitana, nel suo volume dal titolo “La Tenda”, approfondisce la Scrittura con una chiave di lettura che sia radicata nella tradizione ebraica, ma anche in quella cristiana, nell’ottica della Bibbia dell’amicizia

Una rassegna di temi molto cari alla tradizione ebraico-cristiana con una lettura trasversale, che parte dalla Bibbia e arriva fino all’insegnamento dei maestri d’Israele e dei padri della Chiesa. Ecco il percorso condotto da Cristiana Dobner, carmelitana, nel libro “La Tenda. Dio in cammino fra noi e in noi” (EDB edizioni). La Tenda diviene la metafora di un luogo mistico dove ebrei e cristiani sono chiamati a riunirsi per condividere l’amore del Padre che è nei cieli e cammina con loro. Pagine che rilanciano l’urgenza di un confronto rispettoso delle diverse spiritualità.

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Come nasce l’idea di scrivere questo libro e cosa l’ha spinta a farlo?
Soprattutto ascoltare la Scrittura, che per i monaci e per chi vive di ascesi è entrare nell’irruzione di Dio con la sua Parola.Oggi bisogna imparare ad ascoltare quella che è la tradizione della Chiesa, dei padri e dei nostri teologi, però anche ancorarci all’ascolto di Israele.Bisogna imparare ad ascoltare quello che era l’ambiente in cui il Signore Gesù è vissuto.

“Perché insegno? Perché ci credo”: in un libro voci di insegnanti creativi e motivati

libro “Perché insegno? Perché ci credo” con un sottotitolo sintesi del volume: “Un bravo insegnante fa la differenza”.

Che l’impegno educativo oggi conosca una profonda crisi è sotto gli occhi di tutti. In generale gli adulti sembrano aver perso di vista il loro ruolo e la loro responsabilità nei confronti delle nuove generazioni spesso abbandonate a se stesse di fronte alla vita. Tuttavia, le buone pratiche scolastiche in Italia ci sono, scrive Michele De Beni, uno dei due curatori del libro che presenta alcune significative esperienze d’insegnamento

Adriana Masotti – Città del Vaticano

L”educare è stata la mia professione, una vocazione che viene da lontano e che cerco di rinnovare ogni giorno”. Si presenta così Michele De Beni che, insieme al collega Claudio Girelli, ha curato il libro “Perché insegno? Perché ci credo” con un sottotitolo sintesi del volume: “Un bravo insegnante fa la differenza”. Psicoterapeuta, pedagogista, De Beni, insegna attualmente Programmazione e Valutazione dei processi formativi all’Istituto Universitario Sophia di Loppiano ed è coordinatore per l’Italia del Programma internazionale “Cognitive Research Trust”.  Claudio Girelli è pedagogista, professore di Pedagogia sperimentale all’Università di Verona, direttore del Corso di Laurea in Scienze della Formazione primaria e co-direttore della rivista on line “RicercAzione” di IPRASE, ente della Provincia autonoma di Trento.

“Invito tutti, dai politici ai genitori, a sostenere gli insegnanti”, si legge nella quarta di copertina al volume pubblicato da Città Nuova editrice. Sono parole di Andria Zafirakou, vincitrice del premio internazionale Global Teacher Prize 2018 che prosegue: “Dopotutto se la prossima generazione dovrà essere in grado di affrontare le colossali sfide che l’aspettano (…), essa avrà bisogno della migliore istruzione possibile, e quindi di insegnanti validi”. L’amara costatazione di Keishia Thorpe, insegnante americana vincitrice del Premio nel 2021, riportata nell’Introduzione di De Beni, fa pensare: “In realtà non abbiamo molta credibilità, e ci facciamo carico di molto. Gli studenti vengono nelle nostre aule e noi siamo madri, consiglieri, siamo insegnanti, siamo coach, e non credo che otteniamo l’attenzione che ci meritiamo”.

Il libro a cura di Michele De Beni e Claudio Girelli sui temi dell’educazione e dell’insegnamento

Le buone testimonianze
“Perché insegno? Perché ci credo” è un libro scritto da insegnanti per insegnanti e per quanti hanno a cuore una scuola e un’educazione di qualità. Presenta le “buone pratiche” di molti docenti italiani, inclusi tra i 50 finalisti del Global Teacher Prize, che credono nel loro lavoro perché convinti che un bravo insegnante può davvero “fare la differenza e dare speranza al futuro delle giovani generazioni”. Sono: Katja Battaglia, Lorella Carimali, Antonio Curci, Leonardo Durante, Annamaria Gatti, Daniele Manni, Carlo Mazzone, Giuseppe Paschetto, Armando Persico, Maria Raspatelli, Barbara Riccardi, Slavi Snoj.

De Beni: decisivo è offrire ai giovani un “orizzonte di senso”

“Da una buona scuola – sostiene Michele De Beni – può veramente partire la scintilla che ispirerà i nostri studenti per tutta la vita, attori critici e costruttivi di cambiamenti”. Ai media vaticani, il curatore legge la situazione educativa attuale ed esprime la sua speranza per una passione e un’assunzione di responsabilità ritrovate da parte degli adulti nei confronti delle nuove generazioni.