Incontrare Gesù con i 5 sensi

di: Andrea Lebra

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«Quello che era da principio, quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono della Parola della vita […] noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. E la nostra comunione è con il Padre e con il Figlio suo, Gesù Cristo. Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia piena».

È il prologo della prima lettera di Giovanni (1,1-4).

Lo richiama Luca Pedroli, uno dei più apprezzati esperti della letteratura giovannea e docente stabile al Pontificio Istituto Biblico, in apertura (pp. 16-17) del suo recente saggio Vieni e vedi. I sensi nel Vangelo di Giovanni (Edizioni Messaggero, Padova 2025). Saggio che fa parte della nuova collana Impressioni Bibliche, proposta dalla casa editrice francescana in occasione della Domenica della Parola 2025 e dedicata all’approfondimento rigoroso di alcuni temi biblici ma con taglio divulgativo e sintetico.

Una collana che si prefigge di tenere insieme due dimensioniil segno che la Parola di Dio imprime in coloro che la ascoltano e, di conseguenza, la rilettura esistenziale che questa suscita. Da qui il titolo, Impressioni bibliche.

Il libro è dedicato agli studenti del Pontificio Istituto Biblico che hanno condiviso con l’autore «la ricerca in questo ambito così suggestivo e appassionante» del Quarto Vangelo.

Come scrive Giovanni Cesare Pagazzi nella Prefazione, si tratta di un «bel libro» che «mostra con competenza e gentilezza, con profondità pensosa e leggerezza piena di affetto» come il Vangelo spirituale per antonomasia, che è quello di Giovanni, «sia particolarmente attento ai sensi di Cristo e dei suoi discepoli» (p. 8).

Obiettivo dello studio

L’obiettivo dello studio del biblista vigevanese è duplice.

In primo luogo, egli intende mostrare la stretta connessione che intercorre nel Quarto Vangelo tra la percezione sensoriale e la testimonianza di Gesù (p. 18). Infatti «i sensi ci permettono di fare esperienza della realtà che ci circonda. Sono loro a fungere da via di conoscenza per eccellenza, per affrontare e decifrare tutto ciò con cui abbiamo a che fare. I sensi funzionano come porte dell’anima, sentinelle, messaggeri, veicoli tramite i quali entriamo in contatto con il mondo circostante e, di conseguenza, impariamo a conoscerlo» (p. 22).

In secondo luogo, l’autore si prefigge di verificare se e «come Giovanni, nel fare ricorso alla sfera sensoriale, riesca a sollecitare i sentimenti e l’immaginazione del lettore, così da permettergli di sperimentare in prima persona la comunione con Cristo che nel testo viene testimoniata e condivisa» (p. 32). Infatti, «gli elementi visivi, uditivi, tattili, gustativi e olfattivi del Vangelo non contribuiscono solamente a rendere la narrazione più viva e a suscitare emozioni, ma permettono al lettore di condividere la percezione di Gesù sperimentata dall’autore e dalla sua comunità e quindi a rafforzare la propria fede» (p. 31).

Per Giovanni, i sensi costituiscono lo strumento privilegiato non solo per esprimere una realtà soprannaturale e spirituale (p. 28), ma per far capire che ciò in cui si crede è qualcosa di reale e di vero (p. 120).

Struttura del saggio

Nella breve ma stimolante Prefazione di Giovanni Cesare Pagazzi si fa notare, tra l’altro, che non esiste alcun pensiero – anche il più segreto e il più astratto – che non abbia un impatto sensoriale (p. 7) e che non a caso gran parte della vita terrena di Gesù di Nazaret fu impegnata a guarire i sensi, dando la vista ai ciechi, l’udito ai sordi, restituendo la presa e il tatto a mani paralizzate (p. 9).

L’Introduzione evidenzia come l’esperienza sensoriale costituisca davvero una componente fondamentale del Quarto Vangelo, un testo dalla straordinaria profondità e intensità «capace di toccare nel cuore il nostro vissuto e la stessa esperienza di fede» (p. 11) in quanto scritto dal «discepolo amato» (Gv 19,26; 20,2; 21,7.20) che con il Signore Gesù ha instaurato una profonda relazione «fondata su un’autentica reciprocità» (p. 13).

Sei i capitoli del saggio.

Il primo si configura come una riflessione generale sull’efficacia della sfera sensoriale. Il filo rosso e la pietra angolare di tutta la letteratura giovannea sono rinvenibili nel cuore del Prologo del Quarto Vangelo: «E la Parola si fece carne e piantò la sua tenda fra noi» (Gv 1,14).

Condividendo in tutto la nostra condizione umana e le dinamiche che ci contraddistinguono, questa Parola – scrive Luca Pedroli – «si è resa accessibile alla sfera sensoriale, che rappresenta il luogo di acquisizione principale per quanto riguarda l’esperienza cognitiva umana. Il principio che ne consegue è che, per prendere dimestichezza con il mistero di Dio così come si è rivelato in Cristo, è necessario passare attraverso la percezione umana, di cui i cinque sensi costituiscono l’espressione più immediata ed efficace» (p.  21).

Gli altri cinque capitoli si soffermano sul ruolo ricoperto nel Quarto Vangelo dai cinque sensi: la vista (cap. 2 «Venite e vedrete»), l’udito (cap. 3 «Noi stessi abbiamo udito»), il gusto (cap. 4 «Il vino buono»), l’olfatto (cap. 5 «Tutta la casa si riempì dell’aroma») e il tatto (cap. 6 («Tendi la tua mano»).

Nella Conclusione Pedroli ci invita a riflettere sul fatto che è «proprio la maturazione nella nuova sensorialità a permettere di comprendere che Cristo è veramente risorto e cosa questo significa per noi. È così che si impara a percepire e a gustare la sua presenza, a cogliere il vero senso delle sue parole e a riconoscerlo, toccarlo, servirlo nei fratelli che incrociamo ogni giorno sul nostro cammino, a cominciare, come lui stesso ci ha insegnato, dagli ultimi e dai più bisognosi» (pp. 122-123).

«Venite e vedrete»

I commentatori sono concordi nell’evidenziare il ruolo centrale che la vista – intesa sia in senso fisico che in senso figurato – ricopre nel Quarto Vangelo.

Basta pensare che i quattro verbi utilizzati da Giovanni con il significato di vedere ricorrono ben 114 volte: 67 volte il verbo ὁράω (horào); 24 volte il verbo ϑεωρέω (theoréo); 6 volte il verbo ϑεάομαι (theàomai); 17 volte il verbo βλέπω (blépo).

Non per nulla Giovanni è l’evangelista che ha come simbolo l’aquila, un uccello che vola alto e vede in profondità. «Il percorso che porta alla fede, così come viene presentato nel Quarto Vangelo, si delinea quindi nella forma di un vedere che si affina sempre di più e che confluisce nella testimonianza» (p. 48).

«Noi stessi abbiamo udito»

Dopo la vista, il senso che registra più riferimenti è l’udito, espresso nel verbo ἀκούω (akùo) che ricorre più di cento volte negli scritti giovannei, e poco meno di cinquanta volte si trovano nel Quarto Vangelo (p. 49).

Esso ha molteplici significati: dall’avere ed esercitare la facoltà di udire al ricevere notizie o informazioni su qualcosa; dall’ascoltare e comprendere un messaggio al recepirlo trasformandolo in testimonianza di vita e discernendo tra il bene e il male.

L’udito – inteso anch’esso sia in senso fisico che in senso metaforico e spirituale – permea il Vangelo di Giovanni. E lo fa in modo particolarmente intenso quando si tratta di credere (p. 53), tanto che si può convintamente convenire con chi ritiene che «la fede genuina, secondo il Quarto Vangelo, si genera attraverso l’ascolto» (p. 54): un ascolto al quale deve fa seguito il mettere in pratica ciò che si è udito (p. 58). La fede, infatti, consiste «nell’udire la voce o le parole di Gesù, obbedendogli in un ascolto interiore» (p. 58).

«Il vino buono»

Delle quindici ricorrenze del gusto, espresso nel verbo γεύομαι (ghèuomai), che si contano nel Nuovo Testamento, solo due si trovano nel Quarto Vangelo: nel famoso episodio delle nozze di Cana (Gv 2,1-12) e in uno dei frequenti confronti tra Gesù e i giudei rinvenibile in Gv 8,52 («Se uno osserva la mia parola non sperimenterà/gusterà la morte in eterno»).

Si tratta di due «passi dalla forte pregnanza teologica, anche se con prospettive differenti: uno in relazione all’acqua diventata vino (2,9) e l’altro in riferimento alla morte (8,52).

«A Cana l’acqua diventata vino buono non costituisce solo l’inizio dei segni compiuti dal Signore […], ma simboleggia innanzitutto la gioia comunicata dalla Parola, dalla rivelazione e dal Vangelo di Cristo» (p. 70).

«Non gustare la morte in eterno significa, in definitiva, avere la grazia di entrare nella dimensione ultima, escatologica che è donata a chi ascolta la Parola del Signore, la custodisce e la osserva» (p. 74).

Il gusto, chiamato direttamente in causa dai verbi «mangiare» (ἐσθίω, esthìo) e «bere» (πίνω, pìno), «si rivela come luogo privilegiato di esperienza spirituale, che si traduce nel passaggio dalle più elementari azioni di assaggiare, mangiare e bere alla sperimentazione della presenza di Dio e dei segni tangibili del suo amore disseminati nella vita di ogni giorno» (p. 82).

«Tutta la casa si riempì dell’aroma»

Nel Quarto Vangelo si fa riferimento all’olfatto solo in due occasioni: nella prima si utilizza il verbo ὄζω (ozo) che esprime mandare (cattivo) odore; nella seconda si utilizza il sostantivo ὀσμή (osmè) che significa (buon) odore.

Nonostante la scarsa presenza di un vocabolario appartenente in modo stretto al campo lessicale dell’olfatto, quest’ultimo ricopre un ruolo speciale nel Quarto Vangelo in quanto si rivela come chiave di lettura della morte e della risurrezione del Signore Gesù.

La prima ricorrenza dell’olfatto è presente nell’episodio della rianimazione di Lazzaro. A Gesù che chiede di togliere la pietra dall’ingresso del sepolcro dove da quattro giorni giace il corpo di Lazzaro, Marta fa notare che il corpo del fratello, essendo cominciata la fase di decomposizione, già manda cattivo odore (Gv 11,39).

Troviamo la seconda ricorrenza dopo la rianimazione di Lazzaro. A Gesù che siede a tavola con lui a Betania in una cena organizzata in suo onore e servita da Marta, Maria cosparge i piedi con una libbra di olio profumato di puro nardo del valore di «trecento denari», riempiendo dell’aroma di quel profumo tutta la casa (Gv 12,3).

Il fatto che il profumo di puro nardo cosparso da Maria sui piedi di Gesù sia così intenso e buono «lo pone immediatamente in contrapposizione all’odore che avrebbe emanato il cadavere di Lazzaro» (p. 87). Il cattivo odore del cadavere di Lazzaro non si avverte perché Gesù lo riporta in vita. «L’aroma intenso diffuso da Maria sostituisce al dramma della morte la gioia irrefrenabile della vita donata da Gesù» (p. 90), con la conseguenza che la rianimazione di Lazzaro e l’unzione di Betania – episodi collocati da Giovanni prima dei capitoli dedicati alla passione di Gesù – vengono rilette come segno della sua morte e della sua risurrezione (p. 90).

«La casa accogliente e familiare di Betania, con Maria insieme al fratello Lazzaro e alla sorella Marta, diventa simbolo della nuova famiglia instaurata da Cristo nello scenario nuziale della Pasqua, costituita da tutti coloro che aderiscono pienamente a lui nella fede e che, per questo, si riconoscono rigenerati nella vita che non ha più fine» (p. 106).

«Tendi la tua mano»

Anche le radici verbali del campo semantico del tatto non sono molto presenti nell’opera giovannea. Il verbo tecnico greco che significa «toccare» (ἅπτομαι, hàptomai) è presente nel Quarto Vangelo solo una volta, nell’episodio dell’incontro tra il Cristo Risorto e Maria di Magdala (Gv 20,17).

Nel momento in cui si rende conto che il «giardiniere» è in realtà Gesù risorto, Maria è mossa dal desiderio di «stringere saldamente» il suo Signore e di non lasciarlo più. La richiesta di Gesù «non mi toccare» (μή μου ἅπτου, me mu hàptu), «è formulata in greco da Giovanni all’imperativo presente, indicando così non tanto il comando di fare qualcosa, ma l’interruzione brusca di un’azione prolungata, già in atto, per cui andrebbe intesa come: Ora basta, non continuare a tenermi. L’idea allora è che la Maddalena l’avesse abbracciato, lo stesse stringendo forte e non lo volesse più lasciare» (p. 112).

La dimensione tattile è, però, presente nel Vangelo di Giovanni in altre modalità. Ed è comunicata soprattutto grazie al termine mano (χείρ, chèir) che nel Quarto Vangelo compare 15 volte (p. 102).

Basta prendere in esame l’episodio che vede come protagonista Tommaso, il quale, per credere che Gesù, nonostante la morte in croce, è vivo, vuole mettere il dito nel segno dei chiodi e la mano nel segno della ferita del costato (Gv 20,25). Gesù lo asseconda e, quando riappare nuovamente, presente Tommaso, gli dice: «metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco e non essere incredulo, ma credente» (Gv 20,27).

«Il tatto, con tutta la sua carica di fisicità che comporta, si rivela quindi come via ideale per trasformare il cuore dell’uomo incredulo, rendendolo libero dalle proprie preclusioni e dai limiti dovuti alla visione puramente umana, alla propria carne» (p. 115).

«Occhi, orecchie, bocca, mani, naso» della comunità credente di ogni tempo

Il prezioso saggio di Luca Pedroli ci permette «di rilevare come l’esperienza sensoriale costituisca davvero una componente fondamentale dello stile, della modalità di trasmissione e del messaggio stesso del Quarto Vangelo.

È come se Giovanni facesse intendere che è sempre attraverso i cinque sensi che costituiscono la modalità di conoscenza empirica di cui siamo dotati, che siamo chiamati a entrare in relazione con Cristo e a riconoscerlo presente nella storia e nella nostra vita. E questo in forza del mistero dell’incarnazione, il mistero di un Dio che si fa uomo, che si rende accessibile, tangibile.

Gli occhi, le orecchie, la bocca, le mani e il naso dei personaggi e dello stesso autore devono diventare quelli del lettore e della comunità di ogni tempo, così che ognuno possa sentirsi coinvolto con tutto sé stesso in questo processo graduale di discernimento, di rivelazione, di interazione» (p. 117).

Il bilancio. Livia Pomodoro: «Abbazie europee, laboratori di futuro»

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Livia Pomodoro racconta il bilancio di un itinerario spirituale e laico Per rivedere il modo vivere in comunità Un pellegrinaggio che va da Canterbury a Cisternino, nel sud dell’Italia Alla ricerca di ciò che rende attuali presenze secolari come monasteri e certose Livia Pomodoro, già presidente del Tribunale per i minorenni di Milano, del Tribunale di Milano e dell’Accademia di Brera, è presidente e direttrice artistica dello Spazio Teatro No’hma. Dal 2018 è titolare della cattedra Unesco Food Systems for Sustainable Development and Social Inclusion presso l’Università Statale di Milano. Nel 2019 è stata designata dalla Diocesi di Milano referente per la tutela delle fragilità. Da anni coltiva e nutre l’eredità artistica della sorella Teresa, fondatrice del Teatro No’hma, alla cui memoria ha istituito un premio internazionale, ma non solo. Qui ci racconta infatti il frutto di un progetto che l’ha vista pellegrinare attraverso le abbazie d’Europa in un’esperienza di incontro, riflessione e rigenerazione che intreccia spiritualità, ecologia, tradizione e futuro. Le sue sono parole che aiutano a riscoprire il valore di luoghi talvolta apparentemente lontani, ma ancora capaci di offrire risposte urgenti alla frammentazione e al disorientamento del nostro tempo.

Da tutto questo è nato il libro In cammino (Marsilio, 236, euro18,00), progetto che dal 2023 ha toccato le principali abbazie europee attraverso sette nazioni (Inghilterra, Francia, Germania, Olanda, Belgio, Svizzera, Italia), in una sorta di pellegrinaggio tradotto in chiave moderna che ha avuto come meta luoghi simbolo della storia e della spiritualità europea. Le abbazie e i monasteri che costellano l’Italia e l’Europa, infatti, non rappresentano soltanto le vestigia di un glorioso passato, ma sono spazi vivi, carichi di memoria e di futuro, in cui la storia ha lasciato tracce feconde, ancora in grado di suggerire modelli, ispirare gesti, sollecitare nuove visioni. È da questa intuizione che prende forma il viaggio qui narrato, un pellegrinaggio laico tra edifici e paesaggi, simboli e consuetudini, alla ricerca di ciò che rende attuali queste presenze secolari. Si va dal coro di Canterbury alla biblioteca di San Gallo, in Svizzera, da Orval e Scourmont, in Belgio, alle due Chiaravalle italiane, dall’hortulus di Fulda, in Germania, alle api di Morimondo, da Notre-Dame di Cîteaux, culla d’origine dei cistercensi, a Santa Maria di Follina, tra le colline trevigiane, dall’«abbazia verde» di Plankstetten, in Baviera, alla certosa di San Lorenzo di Padula e a Cisternino, nel Sud d’Italia.

Come è nato tutto questo?

«Tre anni fa – spiega Pomodoro – abbiamo iniziato a Canterbury il nostro progetto sulle abbazie d’Europa. Il progetto nasce da una mia lettura di Goethe sul fatto che l’identità dell’Europa fosse nata pellegrinando. Per questo ho pensato che sarebbe stato utile partire proprio dalle abbazie, che sono sempre state fari nelle civiltà d’Europa e hanno sempre cercato di fare passi avanti nel proporre forme di vita comunitaria, trasformando territori ridotti in cocci per via delle guerre, in comunità sostenibili e abitabili. In questo percorso abbiamo coltivato il rapporto prima di tutto con il territorio, poi ci sono stati momenti di spiritualità e abbiamo scelto una parola per ogni abbazia: su quella parola è stato costruito un percorso, laico, etico e culturale».

Ventitrè abbazie percorse in lungo e in largo, ma non solo un viaggio per viaggiare.

«È stato – prosegue Pomodoro – un viaggio di conoscenza e approfondimento, soprattutto di incontro con popoli, persone, comunità diverse tra di loro, ma anche un viaggio di desiderio di vita in armonia, senza asperità date dal conflitto, che non fa bene all’umanità, né al pianeta in cui viviamo, che poi è l’unico che abbiamo a disposizione».

C’è una tappa o una parola del viaggio che l’ha colpita più profondamente?

«Ogni abbazia è uno scrigno prezioso dove ci sono esperienze straordinarie: la prima parola era “pellegrinaggio”, la seconda “spiritualità”, poi “silenzio”, “bellezza”, “terra”, e ancora “acqua”, “cibo” come nutrimento del corpo ma anche dell’anima; abbiamo continuato con “radici”, “intrecci”, “lentezza” e “velocità”. Quello che ci hanno insegnato questi viaggi è che la velocità del nostro mondo è banale e superficiale, la lentezza del viaggio invece permette di pensare, conoscere ed esprimere la possibilità di essere uomini senza differenza. Poi abbiamo scelto le parole “purezza” e “regola”, abbiamo ragionato su “l’arte del custodire”, perché dovremmo tornare a imparare da ciò che abbiamo visto e sentito. E ancora “biodiversità”, “tradizione”, “pace”, “passione”, “grano”».

Lei scrive che questi luoghi non sono solo testimonianze del passato, ma sono luoghi “carichi di futuro”. Cosa ci danno?

«Si incontrano difficoltà in ogni territorio, ma in ciascuno si fa fronte con umanità e allegria. L’insegnamento è quello di ritrovare le ragioni della pace, e non quelle della guerra, della concordia e non dell’odio, così come la capacità di comprendere».

Quali aspetti della vita delle abbazie possono essere d’ispirazione per la società contemporanea?

«La società ha necessità di riapprendere la consapevolezza del vivere insieme e delle conoscenze antiche. E poi ricondurre le persone al senso della responsabilità individuale e collettiva, questo fa di noi quello che potremmo essere in futuro come umani, capaci di vivere in comunità».

Avvenire

È il libro (per bambini) più venduto di sempre. E anche il più tradotto

bambina legge libro

Secondo il Guinness World Records, il libro più venduto in assoluto è La Bibbia (avrebbe una diffusione compresa tra i 6 e i 7 miliardi di copie), mentre il libro non religioso più venduto potrebbe essere Don Chisciotte della Mancia di Miguel de Cervantes (1605-1615). Siamo molto lontani dalle cifre del testo sacro: 500 milioni di copie, secondo quanto si legge nel saggio di William Egginton (The man who invented fiction : how Cervantes ushered in the modern world).
Ma proviamo a essere più specifici: qual è il libro per bambini più venduto di tutti i tempi?

Per alcune testate, come l’Atlantic o lo Smithsonian Magazine, potrebbe trattarsi di Il piccolo principe (Le Petit Prince) di Antoine de Saint-Exupéry (1943), che ha venduto 200 milioni di copie. Non è una lettura destinata soltanto ai bambini, anzi, uno dei punti di forza del romanzo è la capacità di sciogliere le sue metafore con nuovi significati man mano che lo si rilegge, crescendo. Tuttavia molti editori ne consigliano la lettura a partire dagli 11 anni.

Le vendite non sono l’unico record del romanzo: secondo CTVnews, nel 2017 avrebbe superato il numero di 505 traduzioni in lingue e dialetti diversi: il testo più tradotto, ma sempre se si escludono i religiosi.

Il piccolo principe
“Il libro più tradotto al mondo dopo la Bibbia”, conferma la descrizione dell’editore BUR, che ha pubblicato un’edizione di Il piccolo principe in Italia. “Oltre 140 milioni di copie vendute”, continua, con una stima diversa da quella sopra indicata, ma risalente al 2016.

“Il piccolo principe – si legge nella sinossi ufficiale della casa editrice – è un bestseller eterno che ha attraversato decenni e confini, entrando nella vita di milioni di bambini e adulti. La storia di un piccolo uomo senza età venuto dallo spazio, un principe che dalle stelle giunge sulla Terra come per magia. Partito dall’asteroide B 612, in cui viveva in compagnia di tre vulcani e una piccola rosa vanitosa, durante il suo viaggio il piccolo principe conoscerà pianeti diversi e adulti molto strani, dal vecchio re senza sudditi al geografo che non sa com’è fatto il suo mondo, e poi, giunto sulla Terra nel deserto del Sahara, si confida con un pilota, un serpente, un giardino di rose, una volpe. Alla pura ricerca della verità sull’amore. Una favola sul significato dell’amicizia e sul senso autentico della felicità, scritta con parole che risuonano come una musica senza tempo, in grado di rivelare con onestà e candore i valori più intimi dell’esistenza”.

Libro. Itinerario geografico-teologico di Mosè

di: Roberto Mela

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L’autore, Michelangelo Priotto, è presbitero della diocesi di Saluzzo (CN). Dopo il conseguimento della laurea in Teologia Biblica presso lo Studium Biblicum Franciscanum di Gerusalemme, ha conseguito, nel 1985, il dottorato in Scienze Bibliche al Pontificio Istituto Biblico di Roma. Ha insegnato alla Facoltà teologica dell’Italia settentrionale e all’ISSR di Torino, ed è stato direttore della rivista Parole di Vita dal 1996 al 2007. Attualmente è professore ordinario allo Studio Teologico Interdiocesano di Fossano (CN) e professore invitato allo Studium Biblicum Franciscanum di Gerusalemme.

Dopo aver illustrato il cammino geografico-teologico dei patriarchi della Genesi, in questo nuovo studio Michelangelo Priotto offre il profilo del cammino geografico–teologico di Mosè, l’ultimo grande patriarca del Pentateuco.

Nella premessa del libro egli riassume felicemente il contenuto e la finalità dello studio compiuto. Si fa notare che l’attenzione primaria si fissa sulla sua persona e, in particolare, sul suo dialogo con YHWH. Vengono perciò selezionati e commentati i passi più̀ significativi che delineano il cammino interiore dell’incontro di Mosè con Dio, a cominciare dai prodromi connessi con la sua nascita miracolosa sulle rive del Nilo fino alla sua morte ai piedi del monte Nebo.

L’oggetto di questo studio è il Mosè letterario, quello cioè che appare dalle pagine del racconto biblico. Non si tratta però di una semplice figura creata dal narratore, bensì̀ del ritratto teologico delineato dalla generazione dell’esilio, che, sulla scia di una lunga tradizione, voleva non solo celebrare il personaggio, ma proporlo come modello della rinnovata fede in YHWH.

Quello che ci descrive la pagina biblica è un Mosè vivo, profondamente legato al suo popolo e, allo stesso tempo, testimone di un’intensa ricerca e comunione con l’Altissimo.

In concreto, verranno descritti i tratti essenziali del rapporto di Mosè con Dio che emergono dalla narrazione dei libri dell’Esodo, dei Numeri e del Deuteronomio; non si tratta di tre personaggi diversi, ma di un’unica figura plasmata dall’articolazione di una storia ricca e appassionante.

Dopo le Sigle e le Abbreviazioni (pp. 5-6), l’autore espone una premessa generale al suo lavoro (pp. 7-10).

«Il principio ispiratore della precedente ricerca – ricorda Priotto – si basava sull’assunto che la descrizione degli spostamenti geografici dei patriarchi significasse anche e soprattutto un itinerario esistenziale alla ricerca di quel Dio che li chiamava ad attuare il suo progetto salvifico. Anche nel caso di Mosè l’itinerario geografico è molto significativo e ampio, perché include ben quattro libri biblici: l’Esodo, il Levitico, il libro dei Numeri e, infine, il libro del Deuteronomio» (p. 7).

«Quello che ci descrive la pagina biblica – prosegue l’autore – è un Mosè vivo, profondamente legato al suo popolo e, allo stesso tempo, testimo­ne di un’appassionata ricerca e comunione con Dio. Non era sufficiente una tradizione storica autentica ma scarna di particolari biografici; la memoria scritturistica, guidata dallo Spirito, ha riempito, per così dire, lo spazio esistenziale mostrando come l’uomo Mosè abbia incontrato Dio e si sia abbandonato a lui in profonda comunione» (ivi).

Senza indulgere a commenti meramente psicologici, il volume intende dimostrare «come sia proprio questa comunione dialogica con Dio a costituire la ragione interiore degli avvenimenti narrati e la trama spirituale della biografia mosaica» (p. 8).

Nello studio di Priotto viene privilegiato «lo studio dei passi in cui questo dialogo si fa esplicito e costitu­isce di fatto la fonte degli avvenimenti narrati. Se, nella premessa narrativa del libro dell’Esodo, è Dio che interviene gratuitamente nella storia di Mosè, dopo l’esperienza teofanica al roveto l’incontro con lui diventa dialogo vocazionale, contemplazione te­ofanica, preghiera di intercessione, dialogo liturgico nella Tenda del convegno.

Se, in una prospettiva soltanto critica e umana, questo dialogo fra Mosè e Yhwh rischia di essere relegato soltanto nell’ambito dell’autocoscienza, senza alcuna fon­dazione reale – ammonisce Priotto –, lo studio accurato dei passi biblici inerenti ad esso mostrerà la realtà di questa presenza divina nella vita di Mosè. La vicenda esistenziale di Mosè con i suoi tratti positivi e negativi, entusiasmanti e problematici, di abbandono fiducioso e di contestazione, mostrano quanto l’incontro con Yhwh incida concretamente nelle scelte dell’azione del patriarca» (p. 8).

Il volume dello studioso si articola in tre parti: Il Mosè dell’Esodo: alla ricerca di Dio; Il Mosè dei Numeri: fedeltà e innovazione; Il Mosè del Deuteronomio: verso la vera Terra promessa.

Il primo aspetto di Mosè analizzato è quello presente nel libro dell’Esodo. È un Mosè alla ricerca di Dio. Priotto presenta il libro, il secondo del Pentateuco, con la sua struttura e la sua collocazione nel Pentateuco, di cui ricorda il problema critico. L’autore affronta la figura storica di Mosè: il nome, il retroterra storico della tradizione dell’esodo, la parentela madianita di Mosè, gli inizi del culto di YHWH e si chiede se esista un Mosè dimenticato.

L’autore segue e analizza i principali passi del libro.

Priotto presenta l’Egitto, il paese di Mosè: contesto, una casa di schiavitù (Es 1,8-22), dalla casa materna alla corte. Illustra quindi il paese di Madian, la fuga di Mosè in quel paese e varie figure incontrate: Ietro, Reuel, Obab, con la domanda circa l’esistenza di un culto yahwista qenita ed edomita.

Dopo la descrizione dei qeniti e degli edomiti, Priotto si sofferma sul dialogo vocazionale presente in Es 3–4, analizzando le fonti, la struttura e il contenuto della pericope. Sono presenti dialoghi vocazionali, l’autoproclamazione di YHWH, un primo invio con l’identità di Dio e quella di Mosè.

A un confronto serrato tra Mosè e YHWH seguono un secondo invio, con azioni e segni e un terzo invio con l’ultima obiezione di Mosè e risposta divina, la risposta positiva di Mosè e di Aronne, la partenza, l’attentato alla vita di Mosè (Es 4,24–26), l’incontro con Aronne e l’arrivo in Egitto.

In Es 5,22–7,7 c’è un nuovo dialogo vocazionale, con la crisi e la riconferma, la critica di Mosè e una doppia risposta di YHWH. All’oracolo di YHWH, seguono la riconferma e la genealogia di Mosè e di Aronne, con la missione di Mosè al faraone.

Un altro blocco narrativo analizzato da Priotto è Es 24,12-18; 32-34. Esso concerne la teofania, con il dialogo e la preghiera. Mosè sale sul monte e, al peccato di Israele, fa seguito la doppia intercessione di Mosè e il perdono. Mosè chiede di vedere la gloria di YHWH e, quando scende dal monte, il suo volto brilla di splendore.

Il complesso letterario di Es 40,1-38 riporta l’erezione della Dimora, luogo di presenza che offre l’occasione di un profondo dialogo tra Mosè e YHWH.

Nel trarre le conclusioni circa la presentazione della figura di Mosè nei vari libri biblici, citeremo espressamente le parole dello studioso, altrimenti difficilmente sintetizzabili.

«Nonostante lo scetticismo moderno, è tuttavia evidente – annota Priotto – che non si tratta di una figura inventata dal clero giudaico durante l’esilio di Babilonia nell’intento di ricostruire un’identità ebraica minacciata dalla scomparsa dell’Israele precedente. La tradizione orale e soprattutto cultuale – si pensi alla celebrazione della Pasqua o all’incipit del Decalogo – aveva conservato la memoria storica di una figura fondatrice della fede in Yhwh, liberatore dalla schiavitù egiziana e portatore di una fede e di una regola di vita in un nuovo paese. La grandezza e la novità di questa memoria mosaica consisteva nel fondare l’esistenza di Israele non su una monarchia, come d’abitudine nel Vicino Oriente Antico, bensì sulla profezia, sulla parola di un Dio rivelatore, grazie alla testimonianza di un uomo di fede, Mosè appunto. La tradizione seguente conserva, arricchisce e attualizza l’esperienza di questo profeta fondatore; di qui la ricchezza e anche la pluralità delle tradizioni raccolte in quel libro delle memorie che è il libro dell’Esodo» (p. 130).

Mosè arriva all’esperienza di YHWH come un Dio che lo ama e lo invia in missione. L’uomo è capax Dei. L’esperienza che Mosè gode nella teofania al roveto ardente è la vera meta dell’esodo: la comunione con Dio.

Mosè riceve, però, il dono di un’esperienza divina ancora più forte e importante di quella ricevuta al roveto ardente; è quella della teofania sinaitica. «[È] l’esperienza di una presenza personale – è a lui che Yhwh anzitutto appare – e di una presenza assolutamente gratuita. I fenomeni, pur nella loro eccezionalità, permangono nell’ordine della natura, ma servono come segno e invito all’uomo a guardare in alto, oltre sé stesso. La presenza di Dio si manifesta però nella Parola. È evidente che non si tratta semplicemente di un’esperienza uditiva, perché i locutori del Decalogo sono due» (p. 131).

Nella seconda teofania si accresce il dialogo tra YHWH e Mosè. Mosè riceve la Parola, dialoga, chiede di vedere la Gloria di YHWH.

«Il dono della presenza teofanica – annota Priotto – diventa strutturale grazie all’erezione della Dimora e, in particolare, alla Tenda del convegno che ne costituisce il cuore (c. 40). I due simboli che rappresentano la presenza di Yhwh, la nube e la gloria, ne definiscono pure la qualità: si tratta della presenza di un Dio trascendente, ma anche immanente e aperto alla comunione con l’uomo. I due simboli sono significativi, perché la nube, con la sua opacità, impedisce l’accesso diretto alla divinità, proteggendola da sguardi indiscreti o manipolatori; la gloria, da parte sua, dice invece lo “spessore”, cioè la visibilità di questa presenza che si fa vicina all’uomo. Ora è in questa presenza trascendente e immanente che Mosè viene invitato ad entrare, non più eccezionalmente, come al Sinai e in alcuni altri futuri momenti, ma abitualmente tramite il ministero della profezia e l’esercizio del ministero liturgico» (p. 132).

Il Mosè del libro dei Numeri presenta degli aspetti di fedeltà ma anche di innovazione. Priotto offre una premessa al libro, con cenni sulla sua origine e formazione. Si sofferma poi sulla struttura letteraria e geografico-teologica, sottolineando unità e coerenza letterarie nelle tre parti: Nm 1,1–10,10; 10,22–21,35; 22, –36,13.

Viene descritto un viaggio che è teologico (9,15-23).

Priotto si sofferma dapprima sul tragitto dal Sinai a Qades Barnea (Nm 10,11–12,16), in cui emerge la guida di YHWH e una doppia contestazione: a Taberà e a Kibrot-Taavà, con due dialoghi tra Mosè e YHWH. Il commento di Priotto si conclude sulla contestazione di Aronne e di Maria.

Nm 16 riporta la rivolta di Core, Datan e Abiràm.

Il peccato di Mosè (Nm 20,1-13) consiste nel percuotere la roccia due volte col bastone, invece di parlare ad essa pur col bastone in mano.

Nm 21 descrive il viaggio verso la terra di Moab, con la vittoria di Corma e l’episodio del serpente di bronzo. Da Obot si giunge all’Arnon, con la vittoria su Sicon, re di Chesbon. Descritta la situazione storico-geografica della regione di Chesbon e commentato il canto di Chesbon, viene presentata la figura di Mosè, il conquistatore (Nm 21,32-35).

Priotto offre a questo punto un excursus sulla tradizione del Mosè guerriero (pp. 218-224). Dalle tracce delle guerre di Mosè nella tradizione biblica, si passa alla conquista della terra e le guerre di Mosè secondo Ecateo di Abdera. Si illustrano le campagne etiopiche di Mosè in Artapano e in Flavio Giuseppe, per concludere con una storia delle guerre etiopiche di Mosè all’epoca persiana.

Nm 27,12-23 riporta il racconto della successione di Giosuè. Priotto ne illustra il contenuto e la struttura, per poi passare al commento. Si ricorda la redazione post-sacerdotale di Nm 27,12-23 e l’evidenza della figura di Eleazaro.

Nm 31 ricorda la guerra contro Madian e, dopo il commento, lo studioso descrive la popolazione dei madianiti.

Nm 32 riporta la spartizione della terra transgiordanica. L’autore commenta le problematiche letterarie e l’articolazione dell’unità, con una riflessione conclusiva.

Secondo Priotto, la peculiarità della figura di Mosè appare soprattutto in Nm 21–36.

A primo acchito, sembra che il tema principale sia il fatto che, a causa del peccato, sia Maria, che Aronne e Mosè devono morire. «Questa sezione del libro – annota lo studioso – si distacca dalle due precedenti, perché ha di mira soprattutto le prospettive dell’imminente sedentarizzazione. Inoltre, ed è molto significativo, questi capitoli finali affrontano il problema di una sedentarizzazione fuori dei confini della Terra promessa, come attestano vari testi» (p. 249).

«Al c. 32 Mosè, nonostante la perplessità iniziale, acconsente all’installazione di alcuni gruppi israelitici in Transgiordania, legittimando così – ricorda Priotto – la possibilità della diaspora. Certo, si difende il principio dell’unità e della solidarietà con gli altri gruppi israelitici, e questo deve avvenire prima, ma è importante l’affermazione che l’unità del popolo di Dio non è legata ad una unità geografica.

I cc. 27 e 36, che inquadrano l’ultima parte del libro affrontano il problema dell’eredità delle figlie di Selofcad, che appartengono al gruppo di Machir, della tribù di Manasse parzialmente stanziata in Transgiordania. Esse ottengono di poter ereditare la terra del proprio padre, nonostante la tradizione insegnasse che solo i figli maschi potevano ereditarla (27,5-8); possono, inoltre, ereditare anche se sposate con un uomo di un’altra tribù. Questa legiferazione apre dunque la possibilità di una pluralità di modi di appartenenza alla comunità di Israele, sia all’interno della Terra promessa che all’estero, qui in Transgiordania, dove risiede appunto parte della tribù di Manasse» (p. 249).

La Dimora non appare più al centro dell’organizzazione della comunità, come avveniva nei precedenti capitoli del libro.

«I membri dei gruppi israelitici autorizzati a installarsi in Transgiordania appartengono alla seconda generazione di coloro che sono usciti dall’Egitto – annota Priotto –; per essi, come per gli altri, gli avvenimenti del deserto sono paradigmatici (cf. 32,6–7). La loro installazione fuori della Terra promessa avviene sotto l’autorità di Mosè, accompagnata da Giosuè ed Eleazaro (32,28). Non si tratta, dunque, di una trasgressione, ma si inscrive nel quadro delle possibilità legali offerte agli Israeliti. Se la presenza del sommo sacerdote Eleazaro conferma la dimensione teocratica e ierocratica dell’organizzazione della comunità israelitica, legittima comunque delle modalità pluralistiche di appartenenza alla comunità. La fede giudaica può essere vissuta all’ombra del Tempio, ma anche nella diaspora. Pur riconoscendo la dimensione ierocratica della comunità, questi ultimi capitoli sottolineano ugualmente il ruolo e il valore dei responsabili non-sacerdotali» (pp. 249-250).

In questa terza parte del libro la figura di Mosè non solo non scompare, ma è attiva e autorevole.

«Certo – annota Priotto – c’è il riconoscimento della sua colpa, con la conseguenza della non entrata nella Terra promessa; ma questa potrebbe essere anche il segno di una concezione della terra meno legata alla territorialità fisica e più connessa all’unità di fede tra i membri del popolo di Dio. Al tempo della redazione del libro dei Numeri, verso la fine dell’epoca persiana e l’inizio dell’epoca ellenistica, l’autorità di Mosè significa soprattutto l’autorità di una Torà capace di rispondere alle nuove esigenze della comunità, pur nella fedeltà di fondo alla rivelazione che essa incarna. Si apre così la prospettiva di un giudaismo vissuto alle frontiere di Canaan e con ciò in rapporto diverso rispetto agli ambienti sacerdotali. Questa finale di Numeri – prosegue lo studioso – potrebbe avere la stessa funzione della finale del libro della Genesi con la storia di Giuseppe: la legittimazione di un giudaismo vissuto in diaspora. L’unità letteraria del libro rimane, ma si tratta di una unità dinamica e teologica; non serve soltanto a raccogliere in un contenitore le tradizioni e le disposizioni non recepite precedentemente nella Torà, ma a rispettare anche le diversità di un giudaismo che, nell’ultima parte del libro, si presenta con tratti particolari rispetto alla descrizione delle prime due parti (p. 250).

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Priotto si sofferma infine a lungo sul Mosè del Deuteronomio verso la vera Terra promessa. Egli introduce dapprima al contenuto e all’importanza del libro, alla sua formazione, alla sua caratteristica quale proposta di un ideale, alla sua struttura. L’autore commenta il ruolo del Deuteronomio in quanto chiusura del Pentateuco.

Come nei capitoli precedenti, lo studioso illustra e commenta i passi principali del libro.

Egli presenta e commenta il primo discorso di Mosè (Dt 1,1–4,43), presentando di seguito la struttura, il commento e il messaggio. Si commentano gli episodi di Esodo-Numeri (1,16–3,29): dall’Oreb a Qades Barnea, da Seir a Bet Peor, da Seir attraverso Edom, il passaggio nel territorio moabita e ammonita. Seguono le vittorie su Sicon e su Og, i preparativi per la conquista, con la preghiera di Mosè (3,8-29) e l’esortazione finale (4,1-40) che, dopo un prologo, presenta una parenesi e un epilogo.

Dt 4,44–5,33 riporta la mediazione di Mosè allOreb. Sono riportate la teofania, la mediazione di Mosè, il fatto di una parola parlata e ascoltata.

Una seconda supplica di Mosè è riportata in Dt 9,26-29.

Dt 18,9-22 presenta Mosè come il profeta.

In Dt 27–28 viene riportata la risposta al dono della Torah. Priotto espone, dapprima, il contesto e, in seguito, la struttura e la teologia di Dt 27,1-26 e quella di Dt 28,1-69. Quest’ultima pericope viene studiata nelle sue suddivisioni: 28,1-14.15-46.47-68.69.

Dt 31,1-30 riporta la scrittura della Torah. Lo studioso ne esamina la struttura e l’articolazione teologica, per proporre in seguito un commento sintetico.

Dt 32,1-47 contiene il cantico di Mosè. Il cantico vero e proprio è riportato nei vv. 1-43, di cui Priotto offre una presentazione letteraria e gli elementi teologici essenziali. All’introduzione (Dt 31,30), seguono il proemio (32,1-3), il Cantico di Mosè (Dt 32,4-43) e la sua conclusione narrativa (Dt 32,44-47).

Il drammatico annuncio della morte di Mosè è raccontato in Dt 32,48-52. Priotto ne presenta il contesto letterario e teologico, a cui fa seguire il commento vero e proprio.

Dt 33 presenta il canto di benedizione. Dopo l’introduzione narrativa (33,1), seguono la teofania (33,2-5) e le benedizioni (33,6-25). Dopo una breve premessa, Priotto propone il suo commento. Dt 33,26-29 chiude il capitolo con la conclusione salmica, anch’essa debitamente commentata dallo studioso.

Dt 34,1-12 riporta la morte di Mosè, la conclusione del Deuteronomio e del Pentateuco. Alla presentazione del testo segue il consueto commento.

Il lavoro di Priotto si avvia al suo compimento con una sintetica conclusione (pp. 401-402) e una riflessione sul dono di Mosè (pp. 403-404).

La pagina conclusiva del libro del Deuteronomio presenta l’esito della vita di Mosè. Il suo itinerario esistenziale non è scontato, «perché, se per tre volte risuona il divieto di Yhwh a Mosè di attraversare il Giordano (Dt 1,34–37; 3,26–27; 4,21–221), non si parla mai della sua morte; certo, egli riconosce di avere centovent’anni e di non essere più in grado di entrare e di uscire (Dt 31,2), cioè di guidare militarmente gli Israeliti, ma non di essere incapace di attraversare il Giordano. Il tema è quello dell’entrare nella Terra promessa, non della morte; come conferma, d’altronde, il commento del narratore, che riconosce a Mosè appena morto un’eccezionale vigoria fisica (Dt 34,7).

Pur riconoscendo la difficoltà interpretativa dell’argomento e silentio – commenta Priotto – sta di fatto che il Mosè deuteronomico, giunto al termine dell’esposizione della Torà e della successiva ultima benedizione agli Israeliti, non ha mai chiesto a Yhwh di prolungare la sua vita terrena, ma semplicemente di poter entrare nella Terra promessa. È Yhwh che parlando per la prima volta nel Deuteronomio della morte di Mosè ne prospetta a lui l’imminenza (Dt 31,14-16)! Dunque, è solo a que­sto punto che Mosè prende coscienza direttamente da Dio dell’imminenza della morte; per cui è su questa parola di Yhwh che si chiude significativamente col c. 34 il libro del Deuteronomio, e anche, di conseguenza, la “biografia mosaica” iniziata in Es 2: un punto di vista eccezionale per abbracciare l’intera figura di Mosè» (p. 401).

Della lunga esistenza di Mosè, Priotto ha studiato «quello che ne costituisce il dato centrale, cioè l’incontro e il rapporto di Mosè con Yhwh. Certo, gli elementi più appariscenti sono la liberazione dalla schiavitù egiziana e il dono della Legge, uniti all’imminente entrata nella Terra promessa; però la realtà che costituisce l’anima stessa della vita di Mosè è l’incontro con Yhwh e la comunione indissolubile con lui, in conformità al disegno esodale divi­no: “wāʼābī ʼetkem (vi ho fatto entrare in me)” (Es 19,4).

La contemplazione della Terra fisica di Canaan, se, da un lato, testimonia il compi­mento della promessa di Yhwh, dall’altro, ne evidenzia anche i limiti – ricorda Priotto –.

Al termine della vita, davanti a Mosè si apre quella che è la vera Terra promessa, cioè la comunione con Yhwh. Egli muore ʽalpî Yhwh (lett. «sulla bocca di Yhwh»: Dt 34,5), espressione che la tradizione ebraica interpreta alla lettera, come un gesto di particolare intimità di quel Dio che parlava con Mosè pānîm ʼel pānîm («faccia a faccia»: Dt 34,10). Il profeta può entrare così definitivamente nella pienezza della comunione con Dio.

Se la tradizione non conserva il ricordo del luogo della sepoltura, anzi lo esclude, perché opera di Dio (Dt 34,6) – osserva ancora lo studioso –, Mosè però sopravvive nella Torà. La parola, ricevuta al Sinai e proclamata agli Israeliti, viene posta a fianco dell’arca dell’alleanza (Dt 31,26), che già custodisce le dieci parole (Dt 10,5), e affidata ai leviti che, in tal modo, diventano i responsabili dell’eredità mosaica; grazie ad essi, la Torà verrà letta, interpretata e attualizzata nel corso delle generazioni dei credenti Israeliti, fino all’avvento di colui che, in quanto Parola del Padre, è il vero e ultimo Mosè, piena realizzazione del pro­getto esodico: “Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo” (Gv 1,17)» (p. 403).

Il volume si chiude con la bibliografa citata (pp. 405-414) e l’indice degli autori citati (pp. 415-418).

Il lavoro appassionato e molto ricco compiuto da Michelangelo Priotto, frutto della frequentazione dei testi biblici lunga tutta una vita, si propone come una presentazione completa della figura di Mosè liberatore, profeta e amico di Dio. Il linguaggio scientifico impiegato rimane sempre abbordabile. Mosè costituisce una figura fondamentale nel panorama biblico e spirituale di ogni appassionato del testo biblico. Il suo itinerario geografico-teologico è decisivo anche per quello di ciascuno che si sente interpellato dalla parola viva del Dio liberatore e vivificante.

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Una Chiesa in apprendimento

di: Vincenzo Rosito

vincenzo

Libera ritrascrizione dell’intervento dell’autore a termine della presentazione del suo libro Famiglia e apprendimento sociale (scheda libro online con 5% sconto), tenutasi presso l’Istituto Giovanni Paolo II il 30 maggio 2025.

Ripercorrendo la genesi e l’elaborazione di questo libro mi riconosco debitore nei riguardi di una persona e di una comunità.

La persona è certamente papa Francesco, infatti le radici del libro affondano nei giorni in cui tutti leggemmo per la prima volta il proemio di Veritatis gaudium.

Quelle pagine contenevano il sogno di nuove comunità di apprendimento chiamandoci a un lavoro comune sull’aggiornamento metodologico degli studi ecclesiastici. In quel modo Francesco consegnava, soprattutto alle istituzioni accademiche, non solo un programma di lavoro, ma un invito a riscoprire la passione istituente che caratterizza ogni autentica impresa di apprendimento comune.

***

Negli anni trascorsi con Francesco abbiamo non solo visto “cose nuove”, ma ci siamo mossi, ci siamo spostati da dove eravamo. In questo senso, abitando nella stessa chiesa, abbiamo condiviso speranze. Molti hanno riscoperto il coinvolgimento collettivo di chi impara a “fare altrimenti” alcune cose che sembravano scontate.

Da un lato Francesco ha restituito al Popolo di Dio l’entusiasmo di apprendere, mostrando che è possibile “fare altrimenti” una lezione, un seminario, una tesi o un libro. Dall’altro, immettendo la chiesa nella processualità dell’esperienza sinodale, Francesco ha mostrato l’entusiasmo di poter “fare altrimenti” anche un’assemblea ecclesiale, un incontro di catechesi, una celebrazione liturgica.

Non si è trattato tanto di guidare o di orientare, bensì di appassionare. Abbiamo visto un nuovo modo di esercitare l’autorità: creando le condizioni per molteplici imprese comuni. Animo!

Questa è stata la sensazione che in molti abbiamo provato e condiviso: con occhi colmi di futuro e mani ricolme di giorni, abbiamo ricollocato le “imprese comuni” lì dove storicamente stanno ovvero nei luoghi della vita, nell’orizzonte trasformativo del quotidiano di ogni comunità o raggruppamento cristiano.

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In questo contesto è nato in me il desiderio di trovare una categoria più profonda di altre, un concetto più fine per dire quello che ci stava accadendo.

È così che ho trovato nell’apprendimento la forma dei molteplici gesti che “danno animo” alle imprese comuni nella chiesa. Apprendere significa infatti trovare la strada insieme dentro situazioni che non si comprendono pienamente.

Nell’apprendimento così figurato, l’accento non cade mai necessariamente sullo sforzo volitivo e solitario di uno solo, ma è sempre sbilanciato verso la valorizzazione dei tentativi e degli adattamenti, dell’improvvisazione e della sperimentazione, degli aggiustamenti e delle riletture da parte di molti.

Sotto questa luce, dentro questo sguardo collettivo e abilitante, anche le forme di vita – come la stessa famiglia nucleare borghese – sono esse stesse spazi di apprendimento.

Non è forse la famiglia, ogni famiglia, prima di tutto uno spazio progressivo e relazionale in cui facciamo tentativi, ci adattiamo costantemente agli “spostamenti” degli altri, sperimentiamo e talvolta improvvisiamo nuove modalità di volerci bene, riaggiustiamo le distanze che ci avvicinano o ci separano, rileggiamo insieme la “nostra storia insieme”?

Analizzare oggi le famiglie contemporanee attraverso la lente dell’apprendimento sociale significa spostare decisamente il baricentro della discussione teologica e interdisciplinare dal “riduzionismo essenzialistico” delle forme di vita (come ha giustamente fatto notare Andrea Grillo), al dinamismo sperimentale delle forme di apprendimento che scandiscono le vite di coloro che fanno famiglia.

Solo adottando questo radicale slittamento prospettico è possibile accorgersi che l’apprendimento non è mai rimediale, ma è sempre istituente. Apprendere (mentre studiamo, giochiamo, collaboriamo, facciamo una gita insieme) non è mai soltanto un modo per sopperire a una mancanza, non è mai il tentativo di riempire un vuoto, colmando il buco o la sete di conoscenza. Apprendere invece significa sostanzialmente impegnarsi in due attività: assemblare collettivi e convocare saperi.

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Tali gesti riguardano e interpellano in maniera urgente soprattutto le istituzioni dell’apprendimento formale (scuole, università, istituzioni formative). Per questo ribadisco che non è solo urgente, ma soprattutto appassionante rifare lo Studium oggi. Lo dico ancora: animo! Ci vuole animo per contrastare la “naturalizzazione dell’infelicità nel mondo accademico” (Stefano Harney, Fred Moten).

L’animo è insorgenza, anzi l’animo è insorgente, non è solo coraggio o volitività, ma disponibilità al coinvolgimento collettivo, all’istituzione di nuove aggregazioni impensate, all’alleanza di tra soggetti e mondi lontani. Avere animo, nelle imprese di apprendimento sociale, significa aggregare corpi collettivi che “studiano insieme”.

C’è infatti “un modo di essere intellettuale che non sia sociale?” Per questo assemblare nuovi collettivi di studio (intergenerazionali, transdisciplinari, transnazionali) significa anche convocare saperi, comporre cioè non architettoniche multidisciplinari per verniciare di pluralismo metodologico i curricula accademici, ma fondare e moltiplicare comunità (anche informali) di apprendimento che sappiano lavorare altrimenti.

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L’altro debito che mi preme riconoscere è quello verso la comunità accademica del Pontificio Istituto teologico Giovanni Paolo II.

Questo libro non nasce soltanto dal desiderio di dare seguito e forma ad alcune intuizioni personali, ma dal desiderio di collocare le parole, le narrazioni e le intuizioni di molti studenti dentro uno spazio di apprendimento riflessivo. Potrei dire che questo libro non emerge tanto dalla ricerca, quanto dalla didattica.

Sono infatti convinto che le intuizioni più importanti e significative si nutrono all’interno dei dialoghi didattici e devono essere comprovate costantemente nell’incedere ordinario di corsi, lezioni, seminari, laboratori. La circolarità tra ricerca e didattica costituisce il dinamismo più entusiasmante e sorprendete che un dipartimento o un istituto universitario possano ospitare.

La corrispondenza tra insegnamento e investigazione è ancora oggi il luogo massimamente resistenziale e istituente di ogni realtà accademica. È il luogo in cui “abbiamo animo” di fare.

Sono sempre più convinto che per sostenere e alimentare tale circolarità dinamica non basta saper ascoltare gli altri, è necessario invece mettere gli altri nelle condizioni di poter parlare. Sebbene questi due gesti o attitudini siano interconnessi e complementari, creare le condizioni per dirsi e potersi raccontare diventa oggi il presupposto fondamentale di ogni comunità o aggregazione accademica di apprendimento.

In una famiglia, così come in un dipartimento di teologia o di filosofia, possono esserci questioni che non affiorano, domande che non trovano la forza per essere poste, realtà ed esperienze che non sono “dicibili” perché costerebbe troppa fatica, troppo coraggio per pronunciarle. Animo!

Ci vuole animo e dovremmo continuare a trovarlo, perché la “possibilità di dirsi” diventi un criterio condiviso e verificabile nelle pratiche familiari, così come nelle pratiche dell’apprendimento accademico.

Settimanan news

Pastorale. Chiesa domestica, cosa significa e qual è il suo futuro?

Secondo i teologi Paolo Carrara e Francesco Pesce «l’enfasi sulla famiglia chiesa domestica va di pari passo con un crescente senso di lontananza reciprocamente percepito tra Chiesa e famiglie».
Chiesa domestica, cosa significa e qual è il suo futuro?

Foto Siciliani

Avvenire

«L’enfasi sulla famiglia chiesa domestica va di pari passo con un crescente senso di lontananza reciprocamente percepito tra Chiesa e famiglie: se da una parte si constata che «da qualche tempo sono sparite le famiglie a messa», dall’altra le preoccupazioni pastorali non sembrano incrociare i nodi e le sfide della vita delle famiglie. Il linguaggio della predicazione e le attenzioni pastorali, a esempio, sono colti come incapaci di “mordere” la realtà della vita familiare; anche le consuetudini, gli stili e gli orari sono considerati come non più in sintonia con i ritmi e le dinamiche della vita quotidiana di una famiglia. In altre parole, la Chiesa è percepita poco domestica, poco familiare». Lo scrivono Paolo Carrara e Francesco Pesce nell’introduzione al libro “Per una Chiesa che sa di casa. Dalla famiglia chiesa domestica a una Chiesa più familiare” (San Paolo).

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Tanti spunti originali e stimolanti su una questione che interroga la Chiesa fin dal Vaticano II. Cosa significa concretamente l’espressione Chiesa domestica? Come innestare l’amore della famiglia in una pastorale missionaria? Qual è il vissuto delle famiglie in una prospettiva di fede? E poi si parla della collaborazione delle famiglie nella pastorale, della spiritualità della coppia, delle conseguenze sociali del rinnovamento ecclesiale in chiave familiare. Proprio alla luce dell’obiettivo di costruire una Chiesa più sinodale – concludono gli autori – «non è possibile per la Chiesa e la teologia tralasciare l’ascolto delle famiglie nei loro vissuti: le loro “domande ci aiutano a domandarci”, i loro “interrogativi c’interrogano”». Pubblichiamo qui alcuni stralci della prefazione di Gilles Routhier dell’Université Laval nel Québec, in Canada, docente di teologia ed ecclesiologia.

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Se la Chiesa si fa vicina alle famiglie, fa strada con loro, è a motivo del fatto che, come insegna l’inizio della costituzione Gaudium et spes, «nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel cuore» dei discepoli di Cristo, quindi non in vista di altro o di un altro progetto (che sia la difesa di una concezione del matrimonio o della regolazione delle nascite). La Chiesa è chiamata a farlo con benevolenza, per sostenere le famiglie affinché siano comunità di condivisione, di rispetto, di attenzione, di crescita e di solidarietà; in breve, comunità di alleanza. E ciò alla sequela del Buon Pastore che dichiarava «sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza» (Gv 10,10). Questo sta al primo posto. Certamente e per la stessa ragione, la Chiesa può intervenire in modo da metter in guardia contro ciò che fa morire, ma ciò che è più importante deve stare al primo posto (…). La questione di partenza non è dunque come attrezzare la famiglia affinché favorisca la fioritura della vita cristiana e permetta l’allargamento della Chiesa, ma un servizio in pura perdita, un vero dono alla famiglia. Certamente, la Chiesa, nel sostenere le famiglie, le chiama anche a essere comunità di fede, convinta che rimanere nell’amore di Dio faccia vivere (Gv 15). Non bisogna allora minimizzare l’importanza della famiglia nell’educazione alla fede e nella socializzazione religiosa.

La Chiesa come una famiglia? Cosa dobbiamo comprendere?

Anzitutto, ricordiamo che la famiglia ha una forma organizzativa elementare e favorisce relazioni immediate e informali. Questo è senza dubbio l’elemento principale. Chi vuole organizzare la Chiesa in piccole comunità (maisonnées) e chi vuol fare della famiglia una Chiesa domestica – modello questo che tende a diffondersi sempre di più, soprattutto negli ultimi anni – pretende di basarsi su un modello che si ritiene ispirato al Nuovo Testamento, la Chiesa domestica. Ritenendo, come cantano nell’opera rock Notre-Dame de Paris, che “il tempo delle cattedrali è finito” – così anche il tempo della parrocchia e dell’assemblea domenicale in un tempio che raccolga tutti gli abitanti di un luogo – il modello della Chiesa domestica viene sempre più proposto come soluzione. In effetti, si dice che la pandemia abbia dato un forte credito a questo modello chiedendo di coltivare la religione in famiglia, cosicché, d’ora in poi, il radunarsi cristiano dovrebbe svolgersi nella Chiesa domestica, un modello che avrebbe preceduto la comparsa delle assemblee nella basilica, le quali sarebbero apparse solo dopo il riconoscimento della Chiesa da parte di Costantino. Si tratterebbe di riscoprire una forma più antica, in grado di rispondere meglio alle esigenze dei fedeli in un contesto missionario, dopo il crollo della Chiesa di massa che ha caratterizzato gli ultimi secoli in Occidente. Inoltre, questa forma ecclesiale sarebbe più in sintonia con lo spirito del tempo e consentirebbe incontri a misura d’uomo.

Tuttavia, uno studio storico-sociale approfondito del ruolo della famiglia e delle piccole comunità (maisonées) nella diffusione del cristianesimo nei primi secoli ha dimostrato che i termini “piccola comunità” (maisonnée) e “famiglia” si riferiscono a realtà diverse da quanto questi termini indicano oggi in Occidente. I cristiani che si riunivano in casa di qualcuno non erano necessariamente un gruppo di persone con le stesse affinità o appartenenti allo stesso gruppo sociale. La piccola comunità (maisonnée) in questione spesso comprendeva tutti i cristiani della zona. Si riunivano – potevano essere anche 40-50 – in un luogo messo a disposizione dei fratelli da un cristiano (un mecenate, dato che si trattava di un sistema di patronato) che aveva beni sufficienti a fornire un luogo di ritrovo abbastanza grande per tutti i membri della Chiesa che appartenevano a classi sociali diverse. L’appartenenza a una piccola comunità (maisonnée) apriva un’ampia rete di relazioni e nuovi convertiti si aggiungevano alle comunità. Se la piccola comunità (maisonnée) era l’unità di base per l’insediamento del cristianesimo in città, la piccola comunità (maisonnée), che poteva includere i genitori e i loro figli, i fratelli e le sorelle, i nonni, gli schiavi, i dipendenti, i clienti e talvolta i partner commerciali, non era l’unico modello per la Chiesa. Già a quell’epoca, la Chiesa era in possesso di alcuni luoghi di culto, come testimonia l’Editto di Tolleranza di Galerio. Inoltre, erano presenti predicazioni nelle sinagoghe e nelle piazze, nei crocicchi e nelle strade.

La chiesa-casa non fu quindi l’unico modello di sviluppo della Chiesa, ma l’unica soluzione talvolta praticabile per riunire i fratelli diì una città. In relazione a una o un’altra piccola comunità (maisonnée) è anche probabile che il movimento cristiano abbia beneficiato di un’altra modalità di relazione sociale nella forma di associazioni volontarie, piccoli gruppi di amici, vicini o lavoratori associati. A Corinto, ad esempio, Paolo, beneficiando dei rapporti di vicinato del quartiere di etnia ebraica, ebbe i primi contatti con gli

artigiani e i loro clienti. Lì incontrò Priscilla e Aquila e condivise il loro mestiere di fabbricanti di tende, perché anche lui era un fabbricante di tende (At 18,2-4); con divise anche la loro casa. Il suo lavoro di tessitore gli aprì tutta una rete di contatti e fu un mezzo di evangelizzazione (1Tess 2,9). Infine, la diffusione del cristianesimo nell’Impero ha beneficiato delle strade romane, dei cantoni dell’esercito e dei gruppi di funzionari.

Questa breve panoramica ci avverte del rischio insito nell’uso della storia per legittimare o giustificare le scelte nella situazione attuale, conducendoci a proiettare nel passato le nostre attuali rappresentazioni della famiglia o del nucleo familiare, senza tener conto delle differenze di contesto. Se la storia è “maestra di vita”, come diceva Giovanni XXIII, è

anche vero che raramente una situazione storica si ripete identica. La storia può aiutarci a riflettere, ma non offre una soluzione pronta per la situazione attuale. Questo excursus ci mette anche in guardia dal pericolo di confondere “piccola comunità” (maisonnée) e “famiglia”, considerando queste due realtà come equivalenti. Una cosa è “la Chiesa in casa”, per usare l’espressione di Marie-France Baslez, e un’altra è pensare alla famiglia (soprattutto quella nucleare) come a una Chiesa in miniatura. In terzo luogo, occorre ricordare il modello di socialità promosso dalla piccola comunità (maisonée): relazioni brevi e spesso informali, relazioni di vicinato o professionali, relazioni brevi specifiche di gruppi, associazioni o reti, relazioni egualitarie che permettono la fraternità e la solidarietà (…)

Il percorso tortuoso della nozione di Chiesa domestica

È stato il Vaticano II a reintrodurre la nozione di Chiesa domestica, anche se incidentalmente. Durante la discussione dello schema De Ecclesia, questa aggiunta non ha suscitato alcun dibattito o discussione. Sembra essere stata data per scontata. Probabilmente non si pensava che l’inserimento di questa nozione fosse chiamato a un tale destino e che sarebbe stato ripreso con tanta creatività. Se vogliamo interpretare correttamente questo concetto, dobbiamo innanzitutto tornare al testo stesso. Cosa dice e cosa ci insegna nel contestoDa questa missione [degli sposi cristiani], infatti, procede la famiglia, nella quale nascono i nuovi cittadini della società umana, i quali per la grazia dello Spirito Santo diventano col battesimo figli di Dio e perpetuano attraverso i secoli il suo popolo. In questa che si potrebbe chiamare Chiesa domestica (velut Ecclesia domestica)6, i genitori devono essere per i loro figli i primi maestri della fede e secondare la vocazione propria di ognuno, quella sacra in modo speciale (LG 11). Innanzitutto, va notato che il passo del Vaticano II che fa riferimento alla nozione di Chiesa domestica (LG 11) non tratta direttamente della famiglia (questione che sarà affrontata nel primo capitolo della seconda parte della Gaudium et spes), né di un modo concreto o ideale di realizzare la Chiesa. Inoltre, anche se era stato chiesto di allegare a questa locuzione una nota che facesse riferimento a una testimonianza patristica sulla famiglia come ecclesiola, il suggerimento non è stato accolto (…).

Da un’analogia sulla fecondità della Chiesa e della famiglia a un’identità: la Chiesa è una Chiesa domestica

Tuttavia, questa nozione sarà sviluppata nel magistero dei papi a partire da Paolo VI. Questa ripresa, nella Evangelii nuntiandi (1975), modifica leggermente la nozione di Chiesa domestica. In primo luogo, viene abbandonata l’analogia tra la fecondità dell’una e dell’altra. Nella famiglia “dovrebbero riscontrarsi i diversi aspetti della Chiesa intera”. In breve, la famiglia è una Chiesa in miniatura e offre una sintesi o un concentrato della Chiesa, poiché ne contiene tutti gli aspetti. Poi, volendo insistere sull’evangelizzazione, come era lo scopo dell’esortazione, si lascia cadere il tema della nascita dei cittadini (…). Con spostamenti successivi, siamo passati dalla famiglia come Chiesa domestica (velut Ecclesia domestica) alla famiglia identificata con la Chiesa domestica e presentata come un modello di Chiesa che contiene in sé i vari aspetti o funzioni della vita della Chiesa. Siamo passati da una considerazione della fecondità della famiglia a una considerazione della famiglia per la crescita della Chiesa. Questi diversi passaggi ci portano a pensare che la Chiesa non si costruisce a partire dalle parrocchie, ma dalle famiglie. L’accento non è più sul tipo di socialità permessa dalla Chiesa nelle case e che può ispirare lo sviluppo di una Chiesa più fraterna, ma sul munus Ecclesiae della famiglia.

Infine, per sfocare ulteriormente l’orizzonte – qualora fosse necessario –, negli ultimi tempi si è passati, senza farci caso, dalla nozione di Chiesa domestica o di famiglia come Chiesa alla nozione di Chiesa come famiglia di Dio.

 

Salone del libro. Paul Murray: «Sono le storie che salvano, non i bunker»

Lo scrittore irlandese parla de “Il giorno dell’ape”, in cui narra i destini di una famiglia colpita dalla crisi. «Isolarsi non serve, la vita è relazione. Nella perdita attingiamo a risorse antiche»

Libro scrittore irlandese Paul Murray – scheda online su Amazon con 5% sconto

Avvenire

Ieri al Salone del Libro l’autore irlandese Paul Murray ha presentato con Sandro Veronesi Il giorno dell’ape (Einaudi, pagine 664, euro 22,00 qui con 5% sconto), il suo quarto romanzo, candidato al Premio Strega Europeo e definito dalla critica come «un’esperienza letteraria destinata a lasciare il segno». Al centro della storia ci sono i Barnes, una famiglia sull’orlo del disastro. Dickie, il padre, un tempo brillante imprenditore, passa le giornate a costruire un bunker invece di affrontare la crisi della sua concessionaria. Imelda, la moglie, cerca di salvare le apparenze vendendo di nascosto i suoi gioielli su internet. Cass, la figlia adolescente, ex studentessa modello, sembra voler sabotare il proprio futuro, mentre il dodicenne PJ sta progettando di scappare di casa. Ma cosa è andato storto? Murray racconta la storia di una famiglia tra identità e illusioni che si sgretolano, lasciandosi dietro le macerie finanziarie della crisi, ma anche tanti segreti, profonde ferite emotive ed esplorazioni della fragilità da diversi punti di vista. Lo fa attraverso una struttura narrativa polifonica e uno sguardo attento alle dinamiche di ogni membro della famiglia, sviluppando punti di vista diversi da cui far partire una narrazione che strizza l’occhio a temi come la perdita, il valore dell’apparenza, l’identità individuale e il collasso collettivo, la tensione tra modernità e tradizione, e molto altro, senza rinunciare a un tono talvolta ironico. Abbiamo intervistato Murray a partire dal dietro le quinte del suo libro, riflettendo sulla leggerezza in scrittura – tema del Salone di quest’anno – nonché sul prolifico periodo che sta vivendo negli ultimi anni la letteratura irlandese.

Partiamo dal titolo, che si riferisce a un dettaglio minimo ma importante del libro. Come lo ha scelto?

«È stata l’ultima cosa che mi è venuta in mente, dopo circa quattro anni di lavoro. Fino ad allora, lo chiamavo semplicemente “Murray, quarto libro”. I titoli sono difficili e importanti. Lavoravo in una libreria e sapevo quanto le persone facessero fatica a ricordarli: a volte mi chiedevano “il libro blu”, o “quello giallo”. Cercavamo qualcosa di incisivo e abbiamo valutato idee come “acque sotterranee”, poi è arrivata “l’ape”, ed è stato perfetto. Nel libro l’ape è inizialmente legata alla madre, Imelda, e alla sua vanità. Ma più avanti si scopre che dietro quella storia ce n’è un’altra, più oscura. Il libro parla proprio delle storie che raccontiamo agli altri e a noi stessi per evitare la verità, che spesso è troppo difficile da affrontare».

Come è stato il lavoro sui diversi punti di vista che caratterizzano il romanzo?

«Ogni volta che iniziavo una nuova sezione, la voce del personaggio emergeva in modo naturale, anche se non subito. Ogni voce era diversa in modi significativi. È stato bello lavorare sulle diverse voci, anche tramite scelte stilistiche come la punteggiatura o la sua assenza. Questi elementi aiutano a mostrare l’unicità dei personaggi. È stato emozionante scoprire una lingua specifica per ciascuno. Sono una famiglia, ma parlano lingue diverse e non riescono a capirsi. Questo è stato un motore narrativo molto potente».

In epigrafe cita il poeta inglese John Donne sul tema della paura, ma ho letto che aveva pensato anche di usare una frase di John Berger sul passato che non scompare.

«Lavoravo in un piccolo ufficio in città, senza wi-fi e con pochi libri. Uno di questi era Ritratti di John Berger, che non avevo mai letto prima. Quando ero bloccato o stanco, ne leggevo un pezzo. Berger è un pensatore brillante, sempre originale. Mi ha ispirato l’idea che nella scrittura si può deviare, sorprendere, creare qualcosa di diverso. Nell’epigrafe che avevo pensato si parla del passato che non è andato via, ma si accumula intorno a noi. È un’idea che mi affascina: quando affrontiamo grandi perdite, non ci aiutano Netflix o Amazon, ma qualcosa di più antico, come una storia raccontata da qualcuno».

In che modo la crisi economica in Irlanda ha influenzato la trama del libro e il comportamento dei personaggi?

«La crisi economica in Irlanda si è protratta dal 2008 al 2015 circa, e il settore automobilistico – che è al centro del libro – è stato tra i più colpiti. Prima c’era stato un boom economico, e durante quel periodo il settore era esploso: tutti compravano auto nuove. Quando è arrivata la crisi, tutto si è capovolto. La famiglia protagonista del libro è proprio all’apice di quella crisi: avevano molti soldi e definivano sé stessi attraverso la loro ricchezza. Svanendo questa si rendono conto che le persone non li vedono più come prima. Anche i rapporti all’interno della famiglia diventano problematici. È come se avessero costruito un’illusione, e fossero costretti ad affrontarne la scomparsa. È un ritratto fedele di come ci si sentiva in Irlanda in quel periodo».

Dickie nel libro costruisce un bunker invece di affrontare le difficoltà della sua concessionaria. Il bunker rappresenta una fuga dalla realtà o simboleggia qualcosa di più profondo?

«Il bunker può significare cose diverse per ciascun personaggio. Per alcuni è un gioco, per altri una fantasia. Per Dickie, però, diventa una vera fuga: inizia come una fantasia, ma poi diventa realtà. È un uomo di mezza età che si rifugia in un’illusione, pensando di potersi isolare dal mondo. Ma questo è impossibile: il mondo è fatto di relazioni. Dickie è terrorizzato dal rifiuto e pensa che l’unico modo per proteggere sé stesso e la famiglia sia nascondersi. È una tendenza simile a quella dei survivalisti americani: l’idea che si possa essere una “nazione di uno”».

Il tema del Salone di quest’anno è quello delle “parole tra noi leggere”. Cosa significa per lei leggerezza in scrittura?

«Durante un master in scrittura creativa, la mia tutor Ali Smith ci regalò le Lezioni americane. Sei promemoria per il prossimo millennio, di Italo Calvino. Uno dei saggi parlava di leggerezza. Diceva che leggerezza non è superficialità, ma planare sulle cose dall’alto. Per me leggerezza significa creare storie che, anche se affrontano temi profondi, riescono ad attirare il lettore, a farlo sentire libero. Trovo difficile leggere libri che suonano solo una nota, sempre la stessa. Mi piacciono quelli con toni misti: l’umorismo per esempio rende il dolore più potente, e viceversa. È una forma di equilibrio, un modo per sopravvivere. Nel mio primo libro, An Evening of Long Goodbyes, c’era già per esempio l’idea di eleganza che nasconde lo sforzo, di sopravvivenza attraverso la narrazione».

Quanto sono importanti nel suo libro il rapporto con il passato, con i segreti, con la spiritualità?

«Credo che durante il boom economico l’Irlanda abbia cercato di allontanarsi da tutte queste cose: passato, folclore, fiabe, spiritualità. Volevamo reinventarci come parte della globalizzazione. Ma c’è stato un costo: abbiamo perso il contatto con qualcosa di più profondo. Nel libro questi elementi sono nascosti, ma riemergono in alcuni personaggi. Imelda ha una zia che racconta storie e vede cose che gli altri non vedono. È un modo per sopravvivere. Dickie invece ha una visione moderna e pragmatica, ma fallisce perché il denaro finisce. Altri personaggi sono più legati al passato, e forse questo li aiuta. Nella vita, quando le nostre strategie falliscono – dopo una perdita, una morte – ci servono strumenti più antichi. Storie, radici. Il libro cerca di raccontare questo».

La letteratura irlandese è in un momento prolifico e di successo. Ha qualche autore di riferimento?

«Sì, ci sono tanti autori irlandesi validi. Scrivere è difficile e vivere di scrittura lo è ancora di più, ma negli ultimi anni è stato un buon periodo. Ci sono autori della mia generazione e più giovani che ammiro molto, come Mark O’Connell, Kevin Power, Nicole Flattery. Ce ne sono tanti. Se un autore riesce, questo può ispirare gli altri: “Se lui ce l’ha fatta – si pensa a volte – forse posso farcela anch’io”. È qualcosa che dà speranza».