Appuntamenti culturali in Cattedrale a Reggio Emilia

Calendario ricco e fitto di appuntamenti per questo tempo di Quaresima: l’Ente Cattedrale ha organizzato tanti eventi musicali e spirituali.

Si inizia domenica 5 marzo con la Meditatio Ante Missam e si conlude sabato 1°aprile con la scara rappresentazione “Sotto la croce” a cura dei giovani della parrocchia di Sant’Agostino.

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Pupi Avati su Dante, suo valore è poesia non politica

 © ANSA

– Il suo Dante ha fatto commuovere 1.000 studenti di Civitanova appena ieri in una delle decine di proiezioni scolastiche con cui il film di Pupi Avati prolunga la sua vita oltre la proiezione in sala.

Il regista, che si è documentato per mesi diventando ancora più di prima un grande appassionato del Sommo Poeta, interpellato sulle dichiarazioni del ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano giudica l’uscita, “sia detto senza alcuna polemica, un po’ pretestuosa.

Nel senso che il valore di Dante, il motivo per il quale è sopravvissuto fino ad oggi e oltre oggi è la sua dismisura poetica, immensa, misteriosa, non certo la sua posizione politica”. Avati riflette e aggiunge: “è anacronistica, visto che parliamo di 700 anni fa e di un contesto completamente diverso. Non la sua posizione politica nè la sua omniscienza lo ha reso immortale, considerato il tempo medioevale, e neppure l’uso del volgare, ma semmai il volgare applicato ad una opera poetica cosi vasta”. Nel film, con Sergio Castellitto-Boccaccio e Alessandro Sperduti-Dante, “mi sono ben tenuto alla larga dall’attribuirgli una posizione politica. Alcuni dantisti lo hanno analizzato per le sue scelte, ma Dante ‘si mise in proprio’, disgustato da tutto e il periodo peggiore della sua vita al quale attribuisce le sue disgrazie furono i due mesi in cui fu priore ‘scendendo’ in politica”. “Se penso a Dante – aggiunge Avati – e all’ideologia non mi verrebbe mai in mente la destra ma diciamo ad onore del vero che la visione delle cose del mondo di Dante è totalmente inapplicabile all’ oggi, con un mondo davvero diverso”. (ANSA).

Cultura / L’oro di Troia era lo stesso oro usato a Ur, Ebla e Lemno

oro di troia usato ur ebla lemno

AGi – L’oro nei gioielli dell’età del bronzo ritrovati a Troia, a Poliochni, un insediamento sull’isola di Lemno che si trova a circa 60 chilometri da Troia, di Ebla in Siria e di Ur, in Mesopotamia, hanno la stessa origine geografica e venivano commerciati, più di 3500 anni fa, su grandi distanze, molto probabilmente fino alla valle dell’Indo in Pakistan. Questa scoperta è stata fatta da un team internazionale di ricercatori e i risultati sono stati pubblicati sul Journal of Archaeological Science.

Utilizzando un innovativo metodo laser mobile, il gruppo di lavoro internazionale è stato per la prima volta in grado di analizzare campioni dei famosi gioielli della prima età del bronzo di Troia e Poliochni. Lo studio è stato avviato da Ernst Pernicka, direttore scientifico del Curt-Engelhorn Center for Archaeometry (CEZA) presso i musei Reiss-Engelhorn di Mannheim e direttore del progetto Troy dell’Università di Tubinga, e Barbara Horejs, direttrice dell’Istituto archeologico austriaco ( ÖAI) presso l’Accademia austriaca delle scienze di Vienna. Insieme a loro anche Massimo Cultraro ricercatore dell’Istituto di Scienze per il Patrimonio del Consiglio Nazionale delle Ricerche.

oro di troia usato ur ebla lemno

Il team internazionale ha riunito scienziati e archeologi del Curt-Engelhorn Center for Archaeometry, dell’Istituto archeologico austriaco di Vienna e del Museo archeologico nazionale di Atene. Da quando Heinrich Schliemann scoprì il tesoro di Priamo a Troia nel 1873, l’origine dell’oro è rimasta un mistero. Il professor Pernicka e il team internazionale hanno ora potuto dimostrare che deriva da quelli che sono noti come depositi secondari come i fiumi e che la sua composizione chimica non è solo identica a quella degli oggetti d’oro dell’insediamento di Poliochni a Lemno e delle tombe reali a Ur in Mesopotamia, ma anche con quella di oggetti provenienti dalla Georgia.

“Ciò significa che devono esserci stati legami commerciali tra queste regioni remote”, afferma Pernicka. Lo studio è stato reso possibile grazie a un sistema di ablazione laser portatile (pLA) che ha consentito al team di effettuare un’estrazione minimamente invasiva di campioni dai gioielli del Museo Archeologico Nazionale di Atene. Le collane, i ciondoli, gli orecchini ei girocolli del museo sono così preziosi che non è consentito trasportarli in un laboratorio o effettuare qualsiasi esame che lasci un segno visibile sugli oggetti.

oro di troia usato ur ebla lemno
Ori del tesoro di Poliochni, oggi presso il Museo Nazionale di Atene

Tutti i metodi precedentemente disponibili hanno avuto esito negativo a causa di almeno uno di questi vincoli. Al contrario, lavorando in loco, il dispositivo laser portatile fonde un foro così piccolo negli oggetti che non può essere visto ad occhio nudo. “Il primo importante risultato – ha detto all’AGI Massimo Cultraro – è che a Troia e a Poliochni gli orafi impiegavano oro proveniente da depositi alluvionali, ovvero minerale proveniente dalla disgregazione di rocce trasportate dalle acque di fiumi”.

Il secondo risultato, “sul piano archeometrico, geologico e mineralogico – ha aggiunto l’archeologo – è che abbiamo scoperto che la fonte per i due depositi è la medesima e la stessa sorgente è stata impiegata anche per realizzare i gioielli di due importanti città del Vicino Oriente, Ebla e Ur. La prima (in Siria), come è noto, è un altro importante scavo di una missione italiana”.

Infine, ha aggiunto “nel caso di Poliochni e Troia, all’originaria fonte che ad oggi resta sconosciuta, ma da ricercare certamente in area mesopotamica, si aggiunge una seconda sorgente indiziata dalla presenza di un basso contenuto di platino. Queste caratteristiche compositive sono compatibili con le sorgenti di oro identificate in Georgia e in Armenia, cioè nel Caucaso”. Proprio in questa regione c’è una delle miniere d’oro conosciute.

“Un interessante esempio di miniera – ha detto Cultraro – è quella identificata nel distretto di Sakdrisi (Georgia sud-orientale), oggetto di esplorazioni sistematiche di una missione georgiano-tedesca fin dal 2002. I filoni aurei venivano raggiunti attraverso l’apertura di strette gallerie che scendono fino a 25 m. dal suolo. Le datazioni al C14 confermano che lo sfruttamento del giacimento aurifero di Sakdrisi risale alla seconda metà del III millennio a.C (2500-2200 a.C.), estendendosi fino ad epoche più recenti. Alla fase dell’età del Bronzo sono state assegnate asce in pietra e mazzuoli, che rappresentavano lo strumentario usato dai minatori, insieme a stoviglie in terracotta legate alla vita degli operai. La presenza, inoltre, di tracce di attività fusoria lascia intuire che la prima sbozzatura e lavorazione del minerale, appena estratto, avvenisse, in loco”. il quadro che emerge è che già 1500 anni prima di Cristo, esisteva una fitta rete commerciale che andava oltre i confini politici.

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Circolazione di gioielli in oro di manifattura mesapotamica nel Mediterraneo della fine del II milliennio

“Sono noti, fin dai primi scavi a Troia, i rapporti tra l’Egeo e il Mediterraneo orientale nel corso dell’età del Bronzo – ha spiegato l’archeologo – Il numero di materiali, ceramici, in metallo e in pietre preziose, provenienti dalla Mesopotamia è notevolmente cresciuto e oggi possiamo concludere che il mondo anatolico, con le isole di fronte alla costa troiana (Lemnos, Imbros, Samos, Chios), fosse il maggiore destinatario di questi prodotti. Sono manufatti di lusso destinati all’élites locali che si autorappresentavano con gioielli realizzati da artigiani anatolici ma con oro e argento importato. Schliemann aveva anche trovato alcune asce da parata in lapislazzuli di importazione dall’area centro-asiatica. Siamo nel periodo in cui commercianti mesopotamici aprono vie carovaniere lungo la costa meridionale dell’Anatolia e attraverso gli altopiani dell’entroterra. Restano oscure le ragioni di questo rapido rafforzamento delle relazioni internazionali tra le due aree, ma certamente la formazione dell’impero di Akkad, sotto il suo fondatore, Sargon I il Grande, e la conseguente apertura verso i porti della costa siro-palestinese, ha certamente favorito tale processo di interazione”.

Anche l’Italia e la Sicilia in particolare potrebbero essere stati parti di questa fitta rete. “Stiamo lavorando – ha concluso Cultraro – alla determinazione dell’origine e caratterizzazione su base isotopica dell’oro e dell’argento impiegato nella Sicilia prima dell’arrivo dei Greci, all’incirca tra 1300 e 750 a.C. Uno degli stereotipi, ancora oggi imperanti nel campo dell’archeologia nazionale, è che siano stati i coloni greci ad aver introdotto l’artigianato su metallo prezioso, oro e argento. Oggi possiamo sostenere con certezza che manufatti in oro e in argento circolavano in Sicilia e, più in generale nel Mediterraneo occidentale, fin dal 1600 a.C., probabilmente frutto dei contatti con la più antica marineria egeo-micenea. Anche in questo caso alle indagini chimico-fisiche sui metalli conservati in varie collezioni siciliane si associa l’indagine su documenti d’archivio, che riferiscono della riapertura di miniere d’argento in Sicilia durante l’occupazione araba. Non si esclude che molte di queste miniere, che andrebbero ricercate nel distretto peloritano di Messina, siano state in uso fin dal periodo greco”

Libro Narrativa Italiana: La costanza è un’eccezione di Alessia Gazzola

Descrizione
Dalla creatrice dell’Allieva una nuova, travolgente avventura per Costanza Macallè e un mistero da risolvere risalente alla Venezia di fine Seicento.

Facciamo il punto. Costanza, dopo la laurea in medicina, è stata costretta a lasciare la sua amata e luminosa Sicilia per trasferirsi nel freddo e malinconico Nord. A tenere in caldo i cuori, però, ci pensa Marco, incantevole padre della sua incantevole Flora che Costy, non senza qualche incertezza, ha deciso di portare nella vita della figlia. Dopo varie tribolazioni, Marco ha praticamente lasciato la storica (e decisamente perfetta) fidanzata all’altare. Costanza (seppur decisamente imperfetta) credeva che l’avesse fatto per lei, ma non ne è più così sicura considerato che Marco prende tempo e si comporta in modo piuttosto ambiguo. Come sempre, però, nella vita di Costanza non c’è spazio per la riflessione: lei è una madre lavoratrice e precaria che al momento si sta autoconvincendo di aver compiuto la scelta giusta decidendo di lasciare l’Istituto di Paleopatologia di Verona per un impiego da anatomopatologa a Venezia. Come se la situazione non fosse abbastanza complicata, gli ex colleghi la richiamano per un incarico dal lauto compenso: l’ultima discendente di un’antica famiglia veneziana, gli Almazàn, desidera scoperchiare le tombe dei suoi antenati per scoprire cosa c’è di vero nelle dicerie calunniose che da secoli ammantano di mistero il casato. Costanza non vorrebbe accettare, ma questa storia a tinte fosche solletica la sua curiosità… e poi scopre che nell’operazione è coinvolto anche Marco. Che il cantiere possa rappresentare un’occasione d’oro per trovare un equilibrio vita-lavoro? O, per meglio dire: che il cantiere possa rappresentare un’occasione d’oro per cercare di capire cosa c’è davvero tra lei e Marco? Con coraggio, determinazione e tanta, tanta costanza, questa eroina dai capelli rossi affronterà nuove sfide, svelerà antiche trame mentre proverà a comprendere il suo cuore.

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FILOSOFIA Vico più attuale di Hobbes per ritrovare la “polis”

Due volumi analizzano il pensiero politico degli autori e le sue ricadute nel Novecento. Dall’inglese sono venuti i nazionalismi, i totalitarismi e l’idea di guerra di tutti contro tutti. Mentre il napoletano invita a riscoprire l’eredità religiosa

di GIUSEPPE BONVEGNA

Parlare del pensiero politico di Thomas Hobbes potrebbe sembrare quasi scontato oggi, quando l’Europa si trova di nuovo in guerra per la prima volta dai tempi della fine della Seconda Guerra Mondiale: dato che Hobbes è stato il pensatore moderno che ha teorizzato la guerra di tutti contro tutti come aspetto costitutivo della natura umana e l’autorità politica come finalizzata esclusivamente a evitare la guerra e a garantire la pace.

Eppure, il lavoro su >> Hobbes nel Novecento, mandato in stampa quest’anno dall’Istituto per gli studi filosofici di Napoli (a cura di Guido Frilli, pagine 247, euro 23,00), acquista un suo peso specifico se messo a confronto con un’altra operazione simile che Mimesis ha voluto dedicare a un altro autore moderno, successivo a Hobbes, che riveste anche lui un’importanza capitale per la nostra coscienza politica: Giambattista Vico.

Quello che infatti Hobbes, alla metà del Seicento, aveva pensato riguardo alla natura umana e all’autorità politica sarebbe stato solo in minima in parte ripetuto da Vico un secolo dopo, in pieno illuminismo: la natura umana, per Vico, è anche polemos, ma soprattutto polis raggiungibile però, a differenza della città hobbesiana e illuminista, non solo (e non tanto) con mezzi umani ( >>> Polis e polemos. Giambattista Vico e il pensiero politico, a cura di Gennaro Maria Barbuto e Giovanni Scarpato, pagine 360, euro 28,00).

 

Il pensatore napoletano opponeva a Hobbes (e a Cartesio) una visione premoderna «lontana dai sogni sull’età dell’oro e dai vagheggiamenti utopistici» del pensatore inglese che di lì a pochi anni si sarebbero ritrovati e perfezionati in Jean-Jacques Rousseau. Convinto che l’ordine del mondo non derivasse dalla coscienza umana, ma andasse cercato attraverso una Scienza Nuova che individuasse un’altra origine, Vico aveva incontrato la tradizione religiosa, sulla base della quale «il bestione errante » cominciò a uscire dal caos, dando avvio alla storia intesa come Provvidenza: vale a dire cammino non sempre consapevole (ma chiaro nella propria finalità) attraverso il quale l’umanità si protende alla conservazione della vita attraverso il recupero delle Forme ideali nel tempo.

La polis è il momento in cui si realizza la sintesi tra ideale e temporale e Vico, per questo, fu l’iniziatore della filosofia della prassi all’interno del pensiero moderno. Egli intendeva tuttavia la prassi come il tentativo non di rivoluzionare il mondo a partire da un’idea della mente, ma di recuperare un ideale trascendente che non ci appartiene e la cui ricerca dà inevitabilmente luogo a una crisi del pensiero: proprio quando l’ideale sembra essere raggiunto, esso non si lascia catturare e quindi un ciclo della storia si conclude, come se l’umanità, non avendo più ragioni per continuare a perfezionarsi, senta il bisogno di tornare all’immaginazione per salvarsi da quella ‘barbarie della riflessione’ che è l’eccesso di riflessività.

Per questo sguardo rivolto più all’indietro che in avanti, Vico restava una voce inascoltata nell’epoca dell’illuminismo. I filosofi dell’Encyclopédie avrebbero invece fatto della negazione hobbesiana di Dio in nome del pensiero astratto la base di quel progressismo concretizzatosi prima nella Rivoluzione francese e nel nazionalismo ottocentesco e poi nelle rivoluzioni politiche del Novecento (nazionalsocialismo, fascismo e comunismo): le quali si sarebbero presto sviluppate in regimi totalitari, mutuando dal nazionalismo, come ha messo in luce Hannah Arendt nelle Origini del totalitarismo (1951), aspetti importanti come l’antisemitismo. Ma voce, quella di Vico, forse ancora più attuale, rispetto alla hobbesiana, nel nostro tempo: mentre infatti ‘non possiamo non dirci hobbesiani’, perché domina ancora il Leviatano di Hobbes nella prospettiva nazionalista, rivoluzionaria e totalitaria in forme che si estendono (a diversa intensità) dall’Atlantico al Mar Cinese (passando per gli Urali) e che contemplano tutte la guerra come mezzo di risoluzione dei conflitti internazionali, non è inutile riscoprire i fondamenti di un mondo diverso e che abbiamo perduto.

Almeno per incamminarsi, dopo il disincanto weberiano del mondo e la conseguente definizione dello Stato come comunità di uomini che pretende ‘il monopolio dell’uso legittimo della forza fisica’, verso un salutare re-incanto che possa includere, vichianamente, anche un recupero della tradizione religiosa e del suo rapporto con una polis non totalitaria.

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Notizie attualità 26 Agosto 2022



Voglia di normalità e spettacoli live, cultura attrae turismo

L’estate 2022 segna un ritorno alla normalità per le attività culturali dal vivo e per la relativa spesa.

Voglia di normalità che è ormai nei fatti e che genera un’inversione di tendenza anche se ancora parzialmente condizionata dal Covid. La spesa media per beni e consumi culturali estivi sarà di 125 euro a persona.

A crescere in misura particolarmente significativa rispetto a giugno è la visita a mostre, musei e siti archeologici (+14%), l’andare al cinema (+13%) e al teatro (+5%), la partecipazione agli eventi dal vivo, soprattutto spettacoli all’aperto (+7%), concerti e festival culturali (+6%).
    Sono alcuni dei risultati che emergono dall’Osservatorio di Impresa Cultura Italia Confcommercio, in collaborazione con Swg, sui consumi culturali degli italiani.
    In crescita anche la lettura di libri sia in cartaceo (+6%) che in digitale (+2%). Il 45% degli intervistati fruirà dell’offerta culturale estiva nella propria città anche se meno ricca di eventi rispetto al periodo pre-pandemico.
    Si conferma che le iniziative culturali sono un importante attrattore nelle località turistiche: il 68% degli intervistati che andranno in vacanza parteciperà ad attività culturali nelle località di villeggiatura con una spesa media pro capite di 95 euro. Gli eventi più attrattivi per i turisti sono quelli enogastronomici, seguiti dalle visite a musei e siti archeologici, concerti e festival culturali. In generale, un’ampia platea di turisti guarda con attenzione all’offerta culturale durante le vacanze e soggiorna in luoghi dove sa di trovare iniziative culturali interessanti.
    Per il Presidente di Impresa Cultura Italia-Confcommercio, Carlo Fontana, “i segnali positivi sui consumi culturali estivi e la ritrovata normalità per gli eventi dal vivo sono un’ottima notizia. Ci sono, dunque, i presupposti perchè questa tendenza positiva si confermi e si rafforzi anche nei prossimi mesi. Per questo, ora più che mai, servono misure mirate ed efficaci che spingano la ripresa dei consumi e gli investimenti nel settore”.
    (ANSA).



Cultura. Al Meeting di Rimini vanno in scena le mostre, per incontrare la realtà

Un cartellone particolarmente ricco: dai 100 anni di don Giussani al magistrato Rosario Livatino, dall’organizzazione Memorial all’opera di Fernando Pessoa
Un’immagine della mostra su Gilbert Keith Chesterton

Un’immagine della mostra su Gilbert Keith Chesterton – Meeting di Rimini

Avvenire

Le mostre sono gli eventi più gettonati dal pubblico del Meeting. In passato – se si eccettua l’edizione 2020, svolta quasi interamente in modalità online a causa dell’emergenza Covid – sono state registrate oltre 150mila prenotazioni nell’arco di una settimana, dato molto superiore a quelli registrati negli eventi che si svolgono in Italia. Gli argomenti scelti hanno a che fare con gli ambiti più diversi, ma c’è un “quid”, una modalità di presentarli che aiuta a capire il motivo di questo successo: cosa c’entro io? cosa comunica a me il protagonista della mostra?

«Temi e personaggi hanno un legame con le grandi domande che abitano il cuore dell’uomo e quindi risultano sempre attuali al di là dell’epoca in cui si collocano – spiega Alessandra Vitez, responsabile delle esposizioni –. Si cerca di comunicare cosa nasce nei curatori delle mostre dall’incontro con un autore o con un evento, e di favorire un paragone con il vissuto del visitatore. Non si propongono soluzioni costruite a tavolino rispetto a certe tematiche (l’ambiente, le migrazioni, le sfide della bioetica, l’educazione), quanto un’ipotesi di cammino che ciascuno possa verificare. In tutto questo, il maestro che ci guida è la realtà. La disponibilità a starle davanti senza schemi precostituiti aiuta a scoprire molti più aspetti di quelli ipotizzati e così cresce il cammino di conoscenza delle cose e dell’umano».

Le mostre di quest’anno (ingresso gratuito con prenotazione tramite l’app Meeting Rimini) muovono da questa logica, a partire da quella dedicata al centenario della nascita di don Giussani che propone un’immersione nella sua figura e una nutrita galleria di testimonianze rese da chi lo ha conosciuto o da chi è stato conquistato dal suo carisma (vedere intervista a Prosperi a pagina…).
In occasione dei quarant’anni dalla fondazione, l’associazione Famiglie per l’accoglienza ha proposto a 14 artisti di esprimere con un’opera ciò che ha mosso la loro creatività dopo avere conosciuto padri e madri che vivono la dimensione della gratuità praticando l’adozione, l’affido e altre forme di ospitalità. Su una grande piazza si affacciano le stanze che ospitano quadri, sculture, fotografie, video, realizzate per l’occasione e che documentano il “contraccolpo” suscitato negli artisti.

Un’esperienza di immersione viene proposta anche a chi visita la mostra “Sub tutela Dei” dedicata al magistrato Rosario Livatino ucciso dalla mafia nel 1990 e beatificato l’anno scorso, dove sono presentate anche testimonianze di ex mafiosi che, colpiti dalla sua figura e dalla fede che lo animava, hanno avviato un percorso di conversione. Un altro esempio di testimonianza “contagiosa” viene da “Nulla sarebbe stato possibile senza di lei”, esposizione dedicata ad Armida Barelli, una delle protagoniste della nascita dell’Università Cattolica che ha segnato la prima metà del Novecento con la sua volontà di rafforzare la fede e la presenza cattolica in Italia, promuovendo iniziative laicali senza distinzione di ceto e dando un contributo fondamentale all’emancipazione delle donne.

La “passione per l’uomo” proposta dal titolo del Meeting 2022 è documentata in termini molto coinvolgenti nella mostra “Uomini, nonostante tutto” con testimonianze e documenti su Memorial, la prima organizzazione indipendente fondata nel 1989 da Sacharov per custodire la memoria delle vittime delle repressioni sovietiche e liquidata dalle autorità russe nel 2021. Vengono presentate lettere che i padri scrivevano alle famiglie dai lager e piccoli oggetti (ricami, disegni, pupazzetti) che le madri nei lager confezionavano per i figli per mantenere vivo un legame che a causa del passare degli anni e della propaganda di regime sembrava destinato a spezzarsi. Emergono storie di dolore e di verità e la resistenza di chi non rinuncia all’anelito di libertà anche in condizioni proibitive.

L’arte è da sempre presente nel cartellone del Meeting: quest’anno vengono presentati sei artisti del Novecento e il fotografo Gus Powell, una mostra è dedicata ai tesori di Ascoli e una alla vita e alle opere di Gino Severini. Un gruppo di studenti universitari portoghesi guiderà all’incontro con lo scrittore Fernando Pessoa, figura complessa ed enigmatica. Oltre alle opere firmate in prima persona, ha scritto usando decine di eteronimi: veri e proprio “alter ego” inventati da lui, ognuno con una sua personalità e un suo stile letterario. Un caso unico nella letteratura mondiale, e un “compagno di cammino” nel tentativo di approfondire una delle sfide più attuali: la tensione tra la frammentazione dell’io e della società e il desidero di unità, di compiutezza, che pure continuiamo a vivere.

In oculis facta” indaga il ruolo che le immagini ricoprono nella conoscenza scientifica. L’esigenza di rappresentare la natura precede di gran lunga la scienza moderna; nonostante la diversità abissale che le caratterizza, forse esiste un legame nascosto fra i dipinti rupestri dell’uomo primitivo e le recenti spettacolari immagini offerte dai telescopi più potenti: da dove nasce questa nostra esigenza di raffigurare il mondo che ci circonda?

Alle esplorazioni di Giovannino Guareschi sulla Via Emilia è dedicata “Route 77, tre anni dopo”, mentre “Costruire sempre” propone l’incontro con don Emilio de Roja, prete friulano protagonista di un’affascinante avventura educativa con i ragazzi difficili. Infine, in collaborazione con il Ministero degli Esteri, un percorso espositivo dedicato alle sfide della sicurezza alimentare.

LA STORIA / L’Aida sontuosa dei Colla Marionette con l’anima

Non sempre “testa di legno” è un’accezione negativa. Quando si parla di marionette, infatti (i fantocci a corpo intero azionati attraverso dei fili di refe, da non confondere con i burattini che invece sono figurine a mezzo busto animati da una mano), ci si riferisce a una forma di spettacolo intelligente che ci riporta ai tempi dell’infanzia e all’amato Pinocchio.

Questi “attori di cirmolo” (ma possono essere anche di tiglio o nocciolo) sul palcoscenico sono in grado di “interpretare” ogni genere teatrale, dalla commedia dell’arte ai classici greci, dalle fiabe al musical e persino il complicato melodramma, dove si recita, si canta e si balla. Ma la bravura delle marionette dipende da chi manovra i nove sottilissimi fili attaccati ai loro arti e alla testa e gli presta la voce dando così un preciso carattere al personaggio. La scrittura dei copioni, i costumi e le scenografie fanno il resto del successo. E a differenza degli attori in carne ed ossa, le marionette quando vengono “messe in gioco” non deludono mai gli spettatori perché ne stimolano la fantasia: le tecniche di manipolazione usate per animarli, infatti, riescono a riprodurre sia i gesti più impercettibili sia quelli più eclatanti, come salti, piroette e voli in aria, come si deve a un filone teatrale improntato alla parodia.

Una delle più grandi e antiche compagnie marionettistiche, attiva da più di due secoli, è la milanese “Carlo Colla & Figli” che ha messo in scena, nei teatri di ogni angolo del mondo, oltre trecento titoli divertendo grandi e piccini: I promessi sposi, Cenerentola, Il gatto con gli stivali, La Tempesta di Shakespeare (nella traduzione di Eduardo), Cristoforo Colombo, L’orfanella delle stelle, per citare solo alcuni tra quelli che hanno divertito di più il pubblico. Ma nel vasto repertorio ci sono anche i classici di Goldoni e Moliére, le fiabe di Perrault e, specialità, opere liriche di Giuseppe Verdi e Gioacchino Rossini. Gli eredi del fondatore Giovanbattista Colla, un ricco commerciante meneghino che ricavò un teatrino in una sala del suo palazzo dietro al Duomo, hanno saputo rinnovare ad ogni spettacolo la tradizione di famiglia. Ed oggi, grazie a loro, si può parlare di marionette moderne, con spettacoli dove sono entrate scenografiche raffinate ed effetti speciali, da colossal cinematografico. Un apporto decisivo alle innovazioni è stato quello di Eugenio Monti Colla, storico direttore artistico della compagnia e regista di quasi tutti gli spettacoli allestiti finora. Nella sede milanese dei Colla, in via Montegani, c’è l’atelier nato nel 1994 e gestito dall’Associzione Grupporiani che si occupa di produzione e distribuzione, con decine di ‘Geppetti’ al lavoro per scolpire blocchi di legno che, assemblati fra loro, avranno fattezze sempre perfette (le marionette devono mostrare le caratteristiche somatiche e fisiche dei personaggi che rappresentano). Qui, esperti artigiani realizzano e restaurano anche scenografie e costumi dalle stoffe leggere da modellare sui corpi di legno. E sempre qui viene custodito l’archivio storico della Compagnia: 30mila pezzi tra pupazzi, abiti di scena, sculture, trucchi e parrucchi, attrezzeria, materiali utilizzati nei più importanti allestimenti e i libri mastri degli spettacoli.

La tradizione dei Colla trova le sue radici nell’antichissima arte che ci è stata tramandata in scritti di Aristotele, Platone, Erodoto, Apuleio dove si parla di bambole con arti mobili usate per rappresentare le loro commedie. Il più recente nome di marionetta deriverebbe invece dalla festa delle “piccole Marie di legno”, dette “mariette” a Venezia nel X secolo. Ma è nella secondo metà del Cinquecento che si afferma questa forma di spettacolo, con l’istituzione del primo teatro italiano del genere a Londra. E con la commedia dell’arte le marionette si diffondono soprattutto nel Nord Italia diventando sempre più popolari (mentre al Sud c’è l’opera dei pupi, incentrata sull’epopea cavalleresca). Il padre di Carlo Goldoni nel suo teatrino veneziano di San Tomà allestì anche uno spettacolo di marionette per il quale il figliolo, a soli otto anni, scrisse la sua prima commedia. Nel 1850 Milano e Torino vantano già teatri stabili dedicati esclusivamente alle marionette: il Gerolamo e il Gianduia che presero i nomi da maschere locali. Fiorirono ovunque le compagnie: nel capoluogo lombardo la famiglia Colla diventa celebre per le storie di Gerolamo della Crina, buffo personaggio di legno che darà il nome alla sala che si trova in piazza Beccaria, una bomboniera ottocentesca detta “La piccola Scala”. Nel 1993 i Colla entusiasmarono il raffinato pubblico del Festival dei Due Mondi di Spoleto diretto da Giancarlo Menotti con l’opera musicale Dalla terra alla luna, trama fiabesca, scene sontuose ed effetti speciali meccanici. Il melodramma è uno dei cavalli di battaglia della Compagnia milanese, in particolare quello verdiano che meglio si presta a rappresentare i canoni “romantici” del teatro delle marionette con le figure dell’eroe, del malvagio suo antagonista e della bella contesa tra i due (come accade nei pupi siciliani con le storie ispirate alla letteratura epica di origine medievale). Ed ecco allora, nel rispetto della tradizione, che fino al 3 luglio, il Piccolo Teatro di Milano ospita Aida, nell’edizione originale diretta da Eugenio Monti Colla. Lo spettacolo comprende parti cantate e parti recitate. Inoltre, stravolgendo l’opera verdiana, a causa della pressante richiesta del pubblico che affollava il Teatro Gerolamo alla prima rappresentazione, il finale prevede il crollo del tempio e la fuga di Radames e Aida verso le sognate “foreste imbalsamate”. Duecento figure sono animate da 13 marionettisti e 5 voci recitanti, le musiche registrate sono quelle dell’orchestra della Scala diretta da Arturo Toscanini nel 1949. Uno spettacolo da non perdere.

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Piccolo di Milano: dietro le quinte della compagnia milanese attiva da più di due secoli in cui, in tutto il mondo, ha messo in scena oltre 300 titoli, divertendo grandi e piccini. Fino al 3 luglio le repliche dell’opera di Verdi con le musiche registrate dell’orchestra della Scala diretta da Toscanini nel 1949

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Turismo culturale digitale, l’Italia è nella top ten europea

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La pandemia ha cambiato il nostro modo di approcciarci alla cultura: tecnologia e digitalizzazione hanno un ruolo sempre più importante nella ripresa economica del turismo, al punto da inserire l’Italia tra i 10 Paesi europei che offrono la migliore esperienza digito-turistica.

E’ il risultato della ricerca della Rome Business School, uno studio sull’industria culturale in Italia: “L’impatto della pandemia e la svolta digitale”. Dall’indagine – a cura di Giosuè Prezioso, docente del Master in Arts and Culture Management, Alexandra Solea, Program Director dell’Executive Master in Gestione dell’Arte e dei Beni Culturali, e Valerio Mancini, Direttore del Centro di Ricerca di RBS – risulta che il 73% dei musei permette visite online e che ha aumentato servizi digitali e attività in realtà virtuale.

Nel 2021 l’Italia è passata dal 21esimo al nono posto in classifica per l’integrazione tra tecnologia e digitale, superando Paesi come Germania e Francia. In Italia crescono i tour virtuali sulle piattaforme web (+25,4%), il servizio online di prenotazione (+20,4%), la loro presenza sui canali social (+18,6%), l’attività di promozione e presentazione delle collezioni online (+18%) e i corsi formativi didattici a distanza (+13,6%). La ricerca sottolinea molti progetti virtuosi del digitale: tra questi spiccano le iniziative del Museo Egizio di Torino con passeggiate immersive e guidate dal Direttore e con il lancio del videogioco “Ritorno a Deir-el Medina”. Un altro caso virtuoso è quello dell’Università degli Studi di Bari, che ha fatto rete con le più iconiche realtà culturali della Puglia e per ognuna di queste ha prodotto degli NFT (Non Fungible Token, prodotti digitali creati sul web) che, battuti in un’asta presso l’Ateneo, hanno creato fondi per salvaguardarle.
Dall’indagine emergono anche altri dati interessanti: le aste sono il settore culturale che ha recuperato più in fretta dopo la pandemia (+47%) mentre il più colpito è quello delle arti performative e della musica (-90% e -76% ). L’Italia rientra anche nella top 10 mondiale per ricavi da NFT e ha il primato per la vendita di un NFT del “Tondo Doni” di Michelangelo.
L’opera, infatti, è ora in versione digitale ed è un pezzo unico: realizzato attraverso un brevetto esclusivo, è la prima opera al mondo resa unica grazie a un sistema crittografato brevettato che impedisce la manomissione e la copia e tramite NFT ne certifica la proprietà.
Dal 2020, inoltre, sono aumentati gli arrivi nel nostro Paese che risulta così il quarto in Europa per presenze negli esercizi ricettivi. Nel 2021, le città storico-artistiche italiane hanno accolto 43,6 milioni di turisti, con un aumento del +15,3% rispetto a 5 anni fa. Roma si conferma la principale destinazione turistica, con il 6,4% del totale degli arrivi rilevati, mentre le regioni maggiormente interessate dalla spesa internazionale per vacanza culturale sono Lazio, Veneto, Toscana, Lombardia e Campania, che insieme rappresentano l’81,3% della spesa totale per vacanza culturale.
Infine, va ricordato che il PNRR mette a disposizione del comparto Cultura 7 miliardi per digitalizzazione, innovazione e competitività. I maggiori investimenti sono destinati a migliorare l’attrattività dei borghi, la sicurezza sismica e la tutela e la valorizzazione del paesaggio rurale. Per i trasporti nel PNRR c’è “L’atlante della mobilità dolce”, il progetto pensato da Amodo, RFI e Gruppo FS Italiane, che ha mappato un territorio virtuale di oltre 100mila kmq, connesso da oltre 3.000 stazioni ferroviarie; permetterà una maggiore attrattività del Belpaese anche grazie a spostamenti più agili e nuovi collegamenti. (ANSA).

Pasolini 100: carriera cinematografica in mostra a Montecatini

 © ANSA

MONTECATINI TERME (PISTOIA) – Nel centenario della nascita Fedic (Federazione italiana dei Cineclub) dedica una mostra iconografica a Pier Paolo Pasolini: l’esposizione si terrà alla Terme Tamerici di Montecatini (Pistoia) dal 23 giugno al 31 luglio. Attraverso manifesti, locandine, fotobuste e altro materiale, provenienti dalla collezione privata del giornalista Giuseppe Mallozzi (presidente del cineclub ‘Il Sogno di Ulisse’ di Minturno), sarà tracciato, si spiega, “un percorso espositivo che attraverserà l’intera carriera cinematografica del poeta di Casarsa, da Accattone fino alla sua ultima, dolorosa opera, Salò o le 120 giornate di Sodoma”.

L’iniziativa è promossa all’interno della 72/a edizione di Italia film Fedic, dal 22 al 26 Giugno al Cinema Imperiale di Montecatini.
La mostra, “corredata da ampi apparati informativi sulle opere e sulla biografia di Pasolini, intende portare il pubblico ad affrontare un viaggio nella cinematografia” di Pasolini, con un “focus specifico sulla Trilogia della vita, che comprende Il Decameron, I Racconti di Canterbury e Il Fiore delle mille e una notte, un trittico di pellicole girate tra il 1970 e il 1974 ispirate a tre grandi classici della letteratura mondiale, che l’autore definì ‘una polemica profondamente ideologica contro il mondo moderno così com’è, cioè il mondo del neocapitalismo, della modernità intollerante'”. In esposizione anche cinque fotografie inedite provenienti dall’archivio dello Studio fotografico Rosellini, che documentano la presenza di Pier Paolo Pasolini a Montecatini Terme nel dicembre 1973: il poeta fu ospite nell’ambito del progetto dal titolo ‘Processo allo scrittore’ ideato dall’Amministrazione comunale dell’epoca, a cui aderirono tra gli altri Carlo Cassola e Alberto Moravia. 
ansa

OFFICINA DEL PENSIERO “Praedicate evangelium” e insegnamento della religione: educazione o cultura?

di Sergio Ventura
Sabato 19 marzo 2022 è stata pubblicata, dopo nove anni di gestazione, la Costituzione apostolica “Praedicate evangelium” che riforma la Curia romana a partire dal 5 giugno, giorno della Pentecoste. Piano piano arriveranno analisi più compiute e complessive di questa riforma. Nel frattempo, se Luigi Accattoli la definisce «rivoluzionaria nell’intenzione missionaria e sinodale, buona in una decina di decisioni innovative, irrilevante nell’immediato», Stefano Sodaro si chiede «cosa potrebbe accadere oggi con l’allestimento di un’opera cinematografica – pasoliniana ma, purtroppo, ahinoi, senza Pasolini – che s’intitolasse “Praedicate Evangelium”», mentre Andrea Grillo ha segnalato in essa (all’art.93) la presenza di una grave svista subito corretta.

Per quanto è di mia competenza, vorrei evidenziare un aspetto che forse non è una svista, ma una convinzione inveterata negli ambienti curiali che prima o poi dovrà essere corretta. Infatti, già qualche anno fa nell’Instrumentum laboris (§193) per il Sinodo dei giovani si rischiò fortemente di confondere insegnamento della religione e catechesi (o evangelizzazione), anche se poi, fortunatamente, il paragrafo non fu ripreso nel Documento finale. Ora un problema analogo – e quindi un’occasione persa – se non venisse corretta – si ripropone nella Costituzione apostolica in questione.

Uno dei dicasteri istituiti dalla “Praedicate Evangelium”, per unire congregazioni e pontifici consigli «la cui finalità era molto simile o complementare» e «razionalizzare le loro funzioni con l’obiettivo di evitare sovrapposizioni di competenze e rendere il lavoro più efficace» (art.11), è quello per la Cultura e l’Educazione (artt.153-162). Esso sarà costituito da due sezioni, una per la Cultura e l’altra per l’Educazione, nelle quali confluiranno il Pontificio Consiglio della Cultura e la Congregazione per l’Educazione Cattolica.

Se è vero che nella definizione generale del dicastero è scomparso l’aggettivo cattolica (per motivi facilmente intuibili), è altrettanto vero che il contenuto degli articoli dedicati alla sezione Educazione fa esplicito «riferimento alle scuole, agli Istituti superiori di studi e di ricerca cattolici ed ecclesiastici» (art.153, §2), alla «promozione della identità cattolica delle scuole e degli Istituti di studi superiori» (art.159, §2), alle «norme secondo le quali debbono essere erette le scuole cattoliche di ogni ordine e grado e, in esse [scuole cattoliche – ndr], si debba provvedere anche alla pastorale educativa come parte dell’evangelizzazione» (art.160, §1).

Mi ha lasciato, perciò, molto perplesso il §2 dell’art.160, perché in esso è previsto che la sezione Educazione «promuove l’insegnamento della religione cattolica [IRC] nelle scuole». A meno che per scuole non si intenda esclusivamente le scuole cattoliche (ma non credo), e in assenza di ogni riferimento a tale insegnamento negli articoli concernenti la sezione Cultura, ciò significa che esso è stato pensato all’interno di una sezione che si occupa in modo esplicito di istituti e istituzioni educative in sé e per sé cattoliche (art.161).

Ora, è vero che in sé anche nell’IRC deve essere «salvaguardata l’integrità della fede cattolica» – e su ciò «vigila» la sezione Educazione (art.159, §2). Ed è vero che si potrebbe anche sostenere come, attraverso l’IRC, «i principi fondamentali dell’Educazione, specialmente quella cattolica, siano recepiti ed approfonditi in modo che possano venire attuati contestualmente e culturalmente» (art.159, §1). Però, quel «recepiti» e quell’«attuati» dovrebbe far suonare un campanello d’allarme. L’IRC – di per sé, in qualità di Chiesa-già-in-uscita (o estroversa) – ha come scopo diretto non tanto quello di far recepire o di attuare i principi in questione (ciò che potrebbe essere al massimo – ma evitando ogni proselitismo – lo scopo indiretto), bensì quello di attualizzarli e di disporli all’incontro con gli studenti e le studentesse che liberamente vogliano confrontarsi (e anche “scontrarsi”) con essi. Non cogliere tale differenza comporta il serio rischio di perpetuare lo storico equivoco intra ed extra ecclesiale che confonde l’IRC con il catechismo o con l’evangelizzazione tout court (senza alcuna differenziazione, come si diceva un tempo, tra evangelizzazione e pre-evangelizzazione) o che lo riduce a questione meramente dottrinaria e (di statica trasmissione) dottrinale.

Guardando, invece, agli articoli dedicati alla sezione Cultura, mi sembra di ritrovare un’atmosfera più familiare e consonante con l’art.9, co.2 della L. 121/85 di ratifica ed esecuzione dell’accordo tra Stato e Chiesa sulle modifiche al Concordato lateranense. Se l’accordo di revisione lega l’IRC, oltre che alle «finalità della scuola», alla «cultura religiosa» e ai «principi del cattolicesimo» ma solo in quanto «parte del patrimonio storico del popolo italiano», nei rispettivi §2 degli artt.153 e 157 della “Praedicate evangelium” si enfatizza la missione della sezione Cultura per la «promozione della cultura» e la «valorizzazione del patrimonio culturale» (alla cui tutela e conservazione esorta l’art.155). L’IRC stesso, in fondo, costringe l’insegnante di religione – e tramite di lui la Chiesa – a praticare letteralmente ciò che chiede l’art.154, quando quest’ultimo invita la sezione Cultura al costante «confronto con le molteplici istanze emergenti dal mondo della Cultura, favorendo specialmente il dialogo quale strumento imprescindibile di vero incontro, reciproca interazione e arricchimento vicendevole, cosicché le varie culture si aprano sempre di più al Vangelo come anche la fede cristiana nei loro confronti».

Se guardiamo, infatti, all’IRC dal punto di vista degli studenti e delle studentesse che lo frequentano (ma anche delle loro famiglie e del restante personale scolastico), come non riconoscere che in esso si esercita e si raffina – ad intra – l’arte del «dialogo tra le molteplici culture presenti all’interno della Chiesa, favorendo così il mutuo arricchimento» (art.156, §1)? Come non riconoscere che in esso si esercita e si raffina – ad extra – l’arte del «dialogo con coloro che, pur non professando una religione particolare, cercano sinceramente l’incontro con la Verità di Dio» (art.158) o, semplicemente, sono in «ricerca sincera del vero, del buono e del bello» (art.154)?

Se guardiamo, poi, non solo alla credenza (o meno) e all’appartenenza ecclesiale degli studenti e delle studentesse (delle loro famiglie e del personale scolastico), ma anche agli estremamente differenziati contesti geografici di provenienza, si può non riconoscere come nell’IRC si «valorizzino e proteggano le culture locali con il loro patrimonio di saggezza e di spiritualità [quale] ricchezza per l’intera umanità» (art.156, §2)?

In definitiva, mi sembra che vi siano pochi (pochissimi?) elementi per poter affermare che la decisione di inserire l’IRC nella sezione Educazione non sia del tutto inadeguata. Ma spero di aver mostrato che vi sono molti più elementi per poter affermare che tale scelta dovrebbe essere rivista, affinché l’IRC venga inserito nella sezione Cultura – ad esempio aggiungendo un secondo paragrafo nell’articolo 155, o forse meglio nell’art.158, che suoni nel modo seguente: «Promuove il ruolo culturale dell’insegnamento della religione cattolica nelle scuole».

D’altronde, una correzione importante è già stata apportata per l’art.93. Perché, entro il 5 giugno, non potrebbe avvenire lo stesso per il § 2 dell’art.160? Si eviterebbe di cristallizzare ad un livello molto alto di fonti del diritto della Chiesa una visione non adeguata di quello che potrebbe essere oggi un insegnamento della religione [rectius teologico] nelle scuole pubbliche. E sarebbe un modo di dimostrare che stiamo definitivamente prendendo sul serio, da un lato, la priorità della postura missionaria sulla tutela della dottrina che caratterizza la “Praedicate evangelium”, e dall’altro lato, il fatto che ogni atteggiamento missionario ed evangelizzatore risulta fallimentare senza un’inculturazione ben meditata e senza un ascolto dialogico (pre-evangelizzatore) ben praticato. Aspetti, quest’ultimi, che verrebbero esaltati da un IRC il cui “ruolo culturale” venga definitivamente chiarito ed evidenziato.
di Sergio Ventura – Vino Nuovo

Notizie 24 Marzo 2022


La riflessione. Tempo di fiamme e poesia (Per il Natale che viene)

La logica estrema del dono ha la sua paradossale e sovrana radice nel giorno dello Straniero Bambino
Da Avvenire

In alto: Marco Lodola, “Natività”, 2021. Scultura luminosa scatolata, in lamiera verniciata di nero illuminata con led e decorata con pellicole colorate. Dalla mostra Admirabile signum, a La Spezia

In alto: Marco Lodola, “Natività”, 2021. Scultura luminosa scatolata, in lamiera verniciata di nero illuminata con led e decorata con pellicole colorate. Dalla mostra Admirabile signum, a La Spezia – Collezione Fondazione Carispezia
Credo che moltissimi tra noi siano rimasti trasecolati dall’esortazione della Commissaria europea all’Uguaglianza, poi formalmente ritirata, a non utilizzare più parole come Natale o Maria per non offendere chi non è cristiano. Non penso che saranno molti ad ascoltare questa perorazione quando, ora che torna il momento di scambiarci gli auguri natalizi, ma non mi sembra tempo perso sostare un attimo col pensiero su ciò che il Natale, per fortuna, continua a significare per noi.

Quale festa sa ancora creare nel mondo – buona parte del mondo, non solo l’Occidente – le risonanze, gli echi, le vibrazioni, le luci, gli aloni del Natale? Nonostante gli attentati allo spirito dello stupore e del dono prodotti senza tregua dalla civiltà del banale e del disincanto, dai colpi di maglio dell’abitudine e dal duro pane del nonsenso quotidiano (fino all’assedio del Covid-19), il Natale resiste come un castello di sogni leggerissimo ma imprendibile nella sua essenza, come l’isola che non c’è di tutte le utopie, come la montagna incantata della bellezza più limpida e tenace. A ogni nuovo Natale che si avvicina quanti sono gli esseri umani toccati da un sentimento di sollievo, grati a una festa capace, nonostante tutto, di farli respirare, di liberarli, almeno per qualche giorno, dai virus dell’angoscia, dell’amarezza, dello spleen? Certamente milioni. Eppure molte persone fra noi non “sentono” il Natale, o nutrono nei suoi confronti dubbi, sospetti, indifferenza, disagio. È in primo luogo per loro che il grande teologo Karl Rahner nel 1962, cioè in un momento in cui l’Occidente era percorso dall’euforia di un rinato benessere materiale, scrisse: .

Per parte mia non ho dubbi: coloro che non sentono, che non “capiscono” il Natale sono gli stessi che non amano la poesia, che non intendono come la poesia non sia un lusso ma un bisogno primario per l’anima. Simile alla carità nella sua forza profonda – nella sua capacità, per dirla con Paolo di Tarso, di perdonare, credere, sperare senza riserve –, la poesia resiste a ogni genere di distruzione perché sa cogliere “l’altro lato” della realtà, il nocciolo segreto della vita, la ricchezza delle cose anche più comuni. Ogni vera poesia è, in germe, una specie di vangelo, cioè un annuncio del carattere miracoloso del mondo: i grandi poeti, da Francesco d’Assisi a Giovanni Pascoli ad Attilio Bertolucci, sanno ricordarci il miracolo supremo – il fatto che il mondo esiste, che non c’è solo il nulla – con parole spesso semplicissime, con immagini che sembrano fiorire dal lapis di un bambino. A sua volta l’annuncio dei Vangeli è essenzialmente poesia: Cristo non è solo un filosofo rivoluzionario (un maestro in grado di pensare in modo radicalmente “altro”, come ha evidenziato Frédéric Lenoir in uno splendido libro), è soprattutto uno straordinario poeta. Cosa ci rivelano le sue parole, le sue metafore, i suoi apologhi? Forse il senso ultimo del suo insegnamento è inattingibile, ma almeno questo è chiaro e comprensibile a tutti: che nel Regno di Dio le cose e le creature più sublimi sono le più piccole, fragili e inappariscenti: che la Verità sfugge ai concetti, alle idee rigide, alle categorie (ecco perché in certi momenti il modo migliore per testimoniarla è il silenzio): che c’è un legame essenziale tra il visibile e l’invisibile, la realtà e l’Altrove, la povertà e la ricchezza, la morte e la vita. Di questa immensa rivelazione il Natale è il fulcro, il punto di convergenza e di irradiazione, il “fuoco” vivo, la fiamma umilissima e abissale. Nel racconto natalizio di Luca trionfa ciò che i giapponesi chiamano wabi: la bellezza del frugale e del povero, la gloria dello spoglio, del minimo, della nudità, del delicato, del nascosto. Mostrare, come fa il racconto del Natale cristiano, che nell’ombra si manifesta la luce più grande (quella che nel Prologo del Vangelo di Giovanni riapparirà nella sua splendente purezza metafisica) è possibile solo nel vortice inebriante, rapinoso del paradosso. Nessun messaggio, nessuna creazione è così profondamente paradossale come la poesia evangelica, e così capace di far fluire lo spirito del paradosso in altri testi, in altre poesie, in altre creazioni. Da Efrem il Siro che nel suo inno sulla Natività scrive fino all’Andrej Rublëv che dipinge la culla del Dio neonato con la forma di un sarcofago; dai cortocircuiti teologici del Paradiso dantesco () fino all’Ungaretti che in una poesia del Sentimento del tempo evoca un Dio piccolo e sorridente () come figura suprema di quei momenti in cui , cos’è stata la vicenda dell’arte, della letteratura e della musica cristiana se non una straordinaria Via del Paradosso?

Il Paradosso è traboccato oltre i domini della creazione estetica, ha invaso anche le sterminate terre dell’esperienza mistica. Ma nemmeno le cattedrali della filosofia ne sono rimaste immuni. Per uno dei più mirabili filosofi cristiani, Agostino d’Ippona, , secondo la folgorante sintesi di Jeanne Hersch. Per Lev Šestov, spirito intrepido e ribelle, ostinatamente dissidente nella storia della filosofia moderna, segnato dalla Bibbia in un modo tutto suo, sono i risvegli improvvisi da quel sonno che ci rinchiude nell’illusione della ragione.

Il carattere, paradossale fino alla provocazione, dello spirito cristiano è sempre stato scandalo per il mondo, ma i Vangeli ci dicono che solo chi non è disposto a spingersi fuori, lontano dalle abitudini, affidandosi alla “lucida manía” dei profeti, può credere che la via inaugurata dal Natale sia soltanto una forma di follia. Certo, il Dio che Cristo ci ha rivelato non è solo il bambino indifeso, dolcissimo del presepe ma anche lo Straniero, . (Questo aspetto di Cristo è stato colto assai bene da Pasolini nel suo “Vangelo secondo Matteo”: qui Gesù non è solo umanissimo e ; spesso la sua predicazione ha qualcosa di irto, di lancinante e quasi di selvaggio anzitutto per gli apostoli.) Ma lo Straniero è anche il Dio vicinissimo a noi, colui che ci salva con la forza inaudita della gratuità, con la bellezza del dono puro, senza perché.

L’aspetto più autentico del dono in certe culture arcaiche è, secondo Marcel Mauss, il suo carattere eccessivo, cioè la tendenza del donatore a dare “tutto” ciò che possiede, senza temere di rovinarsi. Sommersi dai vacui eccessi del consumismo, storditi dalle troppe offerte di oggetti da acquistare, soprattutto nel periodo natalizio, non siamo più in grado di capire la generosità, la magia, la poesia umana delle forme “primitive” di eccesso. Il Dio dei Vangeli, però, pratica proprio l’eccesso senza misura nel momento in cui dona: se interviene a un pranzo di nozze, come a Cana, offre ai commensali una quantità enorme di vino (secondo le indicazioni di Giovanni potrebbero essere stati più di settecento litri); se uno degli esseri più reietti, un brigante crocifisso, ha un disperato bisogno del suo perdono, glielo concede subito, addirittura gli schiude il Paradiso senza chiedergli nulla in cambio.

Al Museo del ‘900 di Milano la milionaria collezione Mattioli. E’ la più importante al mondo. In comodato gratuito le 26 opere

Il museo del Novecento di Milano ospiterà la collezione Mattioli, la più importante collezione al mondo di opere futuriste e dell’avanguardia italiana di inizio ‘900 Dichiarata indivisibile e insostituibile dallo Stato nel 1973, è formata da 26 opere fra cui Materia di Boccioni, e lavori di Balla, Carrà, Morandi e Modigliani. La collezione, che ha un valore assicurativo di quasi 143 milioni è stata ceduta in comodato gratuito per 5 anni rinnovabili. Così “il museo del 900 diventa il più importante al mondo sul futurismo” dice all’ANSA Anna Maria Montaldo, direttrice del polo arte moderna e contemporanea del Comune.
L’importanza della cessione non sta solo nel valore in sé delle opere – fra cui ‘Mercurio passa davanti al sole’ di Giacomo Balla, ‘Manifestazione interventista’ di Carlo Carrà, ‘Bottiglie e fruttiera’ di Giorgio Morandi e ‘Composizione con elica’ di Mario Sironi – ma nel fatto che arricchiscono e completano una collezione già di grande valore. ‘Ballerina blu’ di Gino Severini, ad esempio, si aggiungerà alla ‘Ballerina bianca’ già presente. In termini calcistici, sarebbe come unire Messi a una grande squadra dove già gioca Ronaldo.
Dal 1997 al 2015 la collezione Mattioli è stata esposta al Peggy Guggenheim Museum di Venezia. E’ invece del 2017 l’annuncio che sarebbe andata per due anni a Palazzo Citterio, cioè lo spazio dedicato al Novecento di Brera, che però non è ancora pronto per l’apertura.
Al momento le opere sono esposte al Museo Russo di San Pietroburgo, come parte fondamentale della mostra ‘Futurismo italiano della collezione Mattioli. Cubofuturismo russo del Museo Russo e collezioni private’. A Milano arriveranno la prossima primavera e “la prospettiva – rivela Montaldo – è di presentare la galleria del futurismo con la collezione Mattioli nell’ottobre 2022”. (ANSA).

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