Al teatro Cavallerizza un incontro sulla cultura a conclusione del mandato Vecchi

evento ancora cultura Reggio Emilia

REGGIO EMILIA – I progetti e le realizzazioni, i valori e le motivazioni che sono stati alla base di questi obiettivi e le sfide del futuro sono i temi proposti nell’incontro ‘Ancora Cultura! – Cosa abbiamo fatto, perché lo abbiamo fatto, cosa ci immaginiamo‘ promosso dall’Amministrazione comunale nell’ambito delle iniziative di Immagina Domani a conclusione del mandato amministrativo.

L’incontro, organizzato insieme con Fondazione i Teatri, Centro nazionale coreografico Aterballetto e Fondazione Palazzo Magnani, è previsto mercoledì 21 febbraio 2024 alle ore 18 al teatro Cavallerizza-Centro Zavattini di viale Allegri.

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Manzoni, Dostoevskij, Foster Wallace: la presa di coscienza della lotta dell’uomo per il bene e il bello è possibile grazie alla grande letteratura

Mario Pomilio

Mario Pomilio

Come nasce il volume miscellaneo curato da Flavio Felice, professore di Storia delle dottrine politiche all’Università del Molise, intitolato Lo sguardo politico dei grandi narratori pubblicato da Rubbettino (Pagine 140, euro 16) e qual è l’idea di fondo che lo sostiene?

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È il direttore de “l’Osservatore romano”, Andrea Monda, a raccontarci nella Prefazione al volume che gli scritti qui raccolti sono già apparsi, “sotto forma di singoli articoli”, sulle pagine del suo quotidiano e sotto l’egida del rapporto tra Letteratura e Politicaaccampando una schiera di scrittori scelti tra Otto e Novecento: Leopardi e Manzoni, l’americano James Fenimore Cooper e Dostoevskij, Eliot Orwell e Huxley, Camus e Mario Pomilio, David Foster Wallace. Ma è nella Postfazione, affidata al filosofo Dario Antiseri, significativamente intitolata In che senso arte e letteratura offrono conoscenza con mezzi non scientifici, che si costituisce la prospettiva entro cui leggere i singoli saggi.

Antiseri convoca Gadamer, Popper, Cassirer, ma anche Heidegger, Giorgio Pasquali, Noam Chomsky, Italo Calvino, Ezra Pound, Carlo Bo e soprattutto il filosofo americano Nelson Goodman, il quale, “più di ogni altro”, ha ai nostri giorni indagato nel modo più “interessante” e “profondo” “sul carattere cognitivo dell’arte”, per arrivare a sostenere che, se la “scienza è monoglotta”, l’arte “è invece poliglotta”, facendoci “conoscere realtà e situazioni disparate utilizzando strumenti e registri linguistici diversi”. Difficile non concordare sul fatto “che ignorare i grandi scrittori e i grandi poeti, vivere a distanza dalle opere d’arte”, significhi in qualche modo “condurre una vita spiritualmente più povera”. Antiseri, sulla scorta di Goodman, non ha dubbi che, “in quanto modalità di scoperta”, le arti debbano essere prese in considerazione “non meno seriamente delle scienze”, anche perché “raffigurazioni o descrizioni di personaggi inesistenti” possono dirci molto sul mondo. Così Goodman citato da Antiseri: “chiedersi se una persona è un don Chisciotte o un don Giovanni è una domanda vera e propria, quanto chiedersi se una persona è paranoica o schizofrenica”.

Quando nel 1923 fu introdotto con la Riforma Gentile l’insegnamento dell’economia nelle superiori, Luigi Einaudi, “già allora uno dei più noti economisti del Paese”, intervenne sul “Corriere della Sera” per avvertire che, “mentre la lettura di certi compendi d’economia” non avrebbe prodotto fra i più giovani “alcun frutto se non di noia”, esito probabilmente più fortunato avrebbe invece ottenuto chi avesse saputo “far penetrare i giovani nello spirito dei capitoli economici dei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni”. Einaudi non avrebbe potuto immaginare che decenni di obbligo scolastico avrebbero reso quel capolavoro uno dei romanzi più invisi e incompresi della storia della letteratura italiana. Leggo queste informazioni nel brillante saggio di Alberto Mingardi, in cui ci si prova a dimostrare come il gran lombardo fosse “un attento studioso di economia”, restituendoci nelle sue pagine, tra molto altro, anche “un saggio perfetto di quella che Frédéric Bastiat (…) considera la differenza fra un buono e un cattivo economista”. Se l’articolo del giovane Nicolò Bindi dedicato al Leopardi del Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani risulta onesto ma scolastico, più attraente sembra senz’altro il contributo di Alberto Giordano, che si cimenta con Cooper, noto in tutto il mondo per il romanzo L’ultimo dei Mohicani, qui però indagato per un’opera politica del 1838, The american Democrat. Dico Cooper: colui che, con uno sguardo tutt’altro che pacificato, “celebrò l’intraprendenza, l’audacia, l’onestà e il senso di giustizia dell’americano medio”. Ricchi di spunti sono gli articoli di Maurizio Serio su Dostoevskij (e l’identità russa) e di Angelo Arciero su T. S. Eliot, concentrato sulla “difesa del prepolitico”, ovvero “quel dominio della morale e della teologia in cui trovavano spazio gli interrogativi fondamentali del pensiero politico”. Ma è l’intervento di Alfonso Lanzieri sull’ultimo romanzo dell’ormai mitizzato David Foster Wallace, Il re pallido, là dove si racconta “la vita degli impiegati dell’Agenzia delle Entrate degli Stati Uniti”, a fornirci maggiori suggestioni, restituendoci “un’epica della noia”, da non confondere assolutamente con “l’elitario spleen degli esistenzialisti”.

Ho lasciato per ultimi i veloci saggi di Danilo Breschi su Albert Camus (che è anche l’autore d’una convincente comparazione tra le differenti distopie di Orwell e di Huxley) e di Valerio Perna su Mario Pomilio, proprio perché incarnano una figura di scrittore che, pur confrontandosi con le ideologie dominanti dell’epoca cui appartennero, lo ha fatto in una posizione originale e solitaria, irriducibilmente anticonformista. Scrive Breschi: “Ho sempre colto in Camus l’antitesi al dandy, perché l’opera d’arte ha ricalcato in lui l’uomo che precocemente è diventato, subito collocato a metà strada fra la miseria e il sole”. Nato in Algeria e quasi subito orfano di padre, consegnato a un “assurdo” che è quello di un mondo “privato di ogni valida ragione per restarvi, una volta nati”, Camus –”esattamente come i due protagonisti del suo romanzo più celebre, La peste (1947)” – si trovò in bilico tra due fedeltà: quella alla “bellezza”, glorificata dalla luce assordante d’un sole meridiano, e l’altra agli “umiliati”, in obbedienza a un istintivo senso di rivolta, sempre fuggendo quello spirito gregario e partigiano che fu di moltissimi della sua generazione. Altrettanto non allineato fu il percorso di Pomilio, l’appassionato lettore di Manzoni, l’autore di Il quinto evangelio, il cristiano “precursore prima, e portavoce poi, della disposizione religiosa successiva al Concilio Vaticano II”, che incontrò anche il socialismo come «utopia morale», per un vivo senso della storia intesa religiosamente «come direzione verso il trascendente».

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Reggio Emilia. Nelle marionette l’uomo di oggi ritrova il gioco. Ma anche la gnosi

Quella del burattinaio è una figura che viene da lontano: gli antichi automi e la Commedia dell’arte. Palazzo Magnani ne indaga i rapporti con le avangiuardie
L'ingresso di Palazzo Magnani a Reggio Emilia /

L’ingresso di Palazzo Magnani a Reggio Emilia / – Foto di Alessandro Meloni

avvenire.it

Otello Sarzi aveva una faccia da burattinaio buono, un vecchio signore dalla lunga barba bianca, ma che nella sua storia fece entrare anche la militanza antifascista. Reggio gli aveva reso omaggio nel 2022 per in centenario della nascita, ma ora ha allestito una rassegna che incorona l’arte di Sarzi con le opere dei maggiori artisti del Novecento che si sono misurati con la marionetta. Era il burattinaio che muoveva le storie per bambini e per adulti di un teatro popolare del quale, come scrisse mezzo secolo fa Gianni Rodari nel suo libro più ricco di idee, Grammatica della fantasia, Sarzi resisteva a tener desta la tradizione. Anzi, Rodari chiedeva: «Chi, a parte Otello Sarzi e pochi intimi?».

Un’arte rara e, secondo alcuni, desueta quella delle marionette, a cui Palazzo Magnani, fino al 17 marzo, dedica una rassegna che lega il mondo dell’infanzia e le avanguardie. In realtà, i burattini sono una volgarizzazione di una delle più straordinarie creazioni nate dalla predisposizione umana al simulacro. S’intrecciano e, anzi, in qualche modo hanno un loro sviluppo nelle figure della Commedia dell’arte, ma la loro storia comincia molto prima e si dirama molto dopo, nelle diverse invenzioni della scienza moderna, tant’è che James Bradburne già direttore del Museo di Brera, si spinge fino alle recentissime discussioni che mettono in gioco l’etica davanti all’Intelligenza Artificiale e «ci costringono a riconsiderare la misura nella quale anche noi possiamo essere considerati delle marionette mosse da fili, poteri o programmi invisibili».

La mostra offre molti materiali tipici della storia che burattini e marionette hanno scritto in rapporto alla nostra umanità. Da Pulcinella a Pinocchio, “il” burattino italiano per eccellenza, il teatro degli attori e quello dei simulacri si sono scambiati le parti: ancora Bradburne nota che gli inizi del Novecento segnano una trasformazione del concetto di “infanzia” sul piano del diritto e della cultura. Ed è vero, ma gli studi sulla condizione del bambino in questo passaggio della modernità, la nuova centralità dell’infanzia nella costruzione sociale, parallela all’emancipazione delle donne, non deve far dimenticare che alla fine dell’Ottocento e ai primi del Novecento il bambino è ancora un oggetto perturbante a cui vengono addossate colpe che relativizzano quelle dell’adulto. Questo sfondo che conserva una sua opacità, s’impregna di quei valori perturbanti di cui è portatore il bambino (a suo modo, una marionetta in carne e ossa, che l’adulto può manipolare perché «altamente influenzabile»). Ma, è sempre Bradburne che scrive, «il gioco creativo stesso dei bambini era una fonte estetica d’ispirazione per gli artisti che piuttosto che liquidare le marionette e i burattini come semplici giochi infantili, compresero il potenziale delle figure per immaginare un mondo migliore»: così forse lo vedeva Picasso nelle scenografie per il balletto Parade dove i costumi di scena e i personaggi raffigurati – nel contrasto fra il sipario dominato da Pegaso e il costume di scena del Cavallo –, hanno una chiara derivazione dalle fantasie infantili che diventano il fluido vitale di un’estetica cubistizzante e quasi fiabesca, ma sono anche un modo di abitare lo spazio; così si può dire per il Pupazzo bianco di Depero, la Scimmia e il Selvaggio Rosso, ovvero gli allestimenti per Strawinsky, e così via con i topi bianchi e i gatti neri, la gallina o il serpente.

Enrico Prampolini, ‘Dieci burattini futuristi’ (1922)
Enrico Prampolini, “Dieci burattini futuristi” (1922) – .

Ma ecco che l’avanguardia e l’immaginazione satirica ispirano il pezzo più bello della mostra, i Dieci burattini futuristi, riuniti su una piattaforma circolare che ruota, con le figure di diversa altezza con le caricature di Vittorio Emanuele III, Giolitti e Mussolini, Gabriele d’Annunzio e Saverio Nitti e don Sturzo, ma anche personificazioni del fascismo, del Mondo di allora, del Diavolo (forse il comunismo), cui s’aggiunge un’attrice all’epoca di grande nome, Dina Galli – l’opera, che in origine doveva avere dodici personaggi, prese forma nella collaborazione di Prampolini col Cabaret del Diavolo di Gino Gori, un ritrovo romano che veniva pubblicizzato come fantastico, geniale, intellettuale, aristocratico, mondano nei primi decenni del secolo. Fino a un paio d’anni fa questo teatrino figurava anonimo e portava la data 1922, ma grazie a una fotografia che mostra Gori e questi fantocci, Nicoletta Boschiero ha potuto attribuirne definitivamente la paternità a Enrico Prampolini. In quest’opera avanguardia e teatro di figura convivono sotto una duplice valenza artistica e politica, come fu anche per le marionette d’artista russe, quando Lenin intuì che potevano servire all’alfabetizzazione dei futuri uomini sovietici.

Sul versante astratto ed esoterico che rivive nelle esperienze del Cabaret Voltaire, di Sophie Täuber-Arp e Paul Klee al Bauhaus, e, in particolare, col geniale allievo di Oskar Schlemmer – l’autore del Balletto Triadico e riscopritore del classico di Kleist sul Teatro delle marionette – ossia Andor Weininger, il quale realizzò forme astratte colorate che stavano sulla scena sostituendo gli attori in carne e ossa, il Mechanische Buhnen-Revue che rifiutava ogni elemento naturalistico (il nuovo orizzonte del Teatro di marionette è infatti inseparabile dall’esperienza della Grande Guerra dove i giovani europei tornavano alle loro case, molti di loro feriti o mutilati. Il burattino con i suoi arti slegati e mossi da fili era anche l’immagine di un uomo a cui avessero reciso i tendini, in cui tanti forse si rispecchiavano: così potè sembrare il manichino di Carrà e De Chirico).

La persistenza del teatro di marionette giavanesi e le ricerche simboliche e orientaleggianti del burattinaio viennese Richard Teschner, che si formò all’accademia d’arte di Praga, ricreano il dualismo insito nella figura del burattino, in un legame che dal XII secolo arriva fino all’età moderna e contemporanea aprendo lo sguardo a due “prototipi” che, peraltro, trovano poco spazio nella mostra reggiana: il precedente degli automi arabi del XII secolo, di cui ci sono giunte varie documentazioni e che legano il tema della meraviglia alla scienza grazie agli “ingegnosi meccanismi” semoventi che anticipano di secoli la gnosi sepolta negli automi moderni degli inventori settecenteschi; e l’altro tema, quasi ignorato dalla mostra, del Golem che collega il burattinaio di marionette all’uomo che, nell’antica leggenda ebraica, sfida Dio, plasma un uomo artificiale dal fango ma cade sotto le more divine che puniscono l’hybris umana. 

Appuntamenti culturali in Cattedrale a Reggio Emilia

Calendario ricco e fitto di appuntamenti per questo tempo di Quaresima: l’Ente Cattedrale ha organizzato tanti eventi musicali e spirituali.

Si inizia domenica 5 marzo con la Meditatio Ante Missam e si conlude sabato 1°aprile con la scara rappresentazione “Sotto la croce” a cura dei giovani della parrocchia di Sant’Agostino.

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laliberta.info

Pupi Avati su Dante, suo valore è poesia non politica

 © ANSA

– Il suo Dante ha fatto commuovere 1.000 studenti di Civitanova appena ieri in una delle decine di proiezioni scolastiche con cui il film di Pupi Avati prolunga la sua vita oltre la proiezione in sala.

Il regista, che si è documentato per mesi diventando ancora più di prima un grande appassionato del Sommo Poeta, interpellato sulle dichiarazioni del ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano giudica l’uscita, “sia detto senza alcuna polemica, un po’ pretestuosa.

Nel senso che il valore di Dante, il motivo per il quale è sopravvissuto fino ad oggi e oltre oggi è la sua dismisura poetica, immensa, misteriosa, non certo la sua posizione politica”. Avati riflette e aggiunge: “è anacronistica, visto che parliamo di 700 anni fa e di un contesto completamente diverso. Non la sua posizione politica nè la sua omniscienza lo ha reso immortale, considerato il tempo medioevale, e neppure l’uso del volgare, ma semmai il volgare applicato ad una opera poetica cosi vasta”. Nel film, con Sergio Castellitto-Boccaccio e Alessandro Sperduti-Dante, “mi sono ben tenuto alla larga dall’attribuirgli una posizione politica. Alcuni dantisti lo hanno analizzato per le sue scelte, ma Dante ‘si mise in proprio’, disgustato da tutto e il periodo peggiore della sua vita al quale attribuisce le sue disgrazie furono i due mesi in cui fu priore ‘scendendo’ in politica”. “Se penso a Dante – aggiunge Avati – e all’ideologia non mi verrebbe mai in mente la destra ma diciamo ad onore del vero che la visione delle cose del mondo di Dante è totalmente inapplicabile all’ oggi, con un mondo davvero diverso”. (ANSA).

Cultura / L’oro di Troia era lo stesso oro usato a Ur, Ebla e Lemno

oro di troia usato ur ebla lemno

AGi – L’oro nei gioielli dell’età del bronzo ritrovati a Troia, a Poliochni, un insediamento sull’isola di Lemno che si trova a circa 60 chilometri da Troia, di Ebla in Siria e di Ur, in Mesopotamia, hanno la stessa origine geografica e venivano commerciati, più di 3500 anni fa, su grandi distanze, molto probabilmente fino alla valle dell’Indo in Pakistan. Questa scoperta è stata fatta da un team internazionale di ricercatori e i risultati sono stati pubblicati sul Journal of Archaeological Science.

Utilizzando un innovativo metodo laser mobile, il gruppo di lavoro internazionale è stato per la prima volta in grado di analizzare campioni dei famosi gioielli della prima età del bronzo di Troia e Poliochni. Lo studio è stato avviato da Ernst Pernicka, direttore scientifico del Curt-Engelhorn Center for Archaeometry (CEZA) presso i musei Reiss-Engelhorn di Mannheim e direttore del progetto Troy dell’Università di Tubinga, e Barbara Horejs, direttrice dell’Istituto archeologico austriaco ( ÖAI) presso l’Accademia austriaca delle scienze di Vienna. Insieme a loro anche Massimo Cultraro ricercatore dell’Istituto di Scienze per il Patrimonio del Consiglio Nazionale delle Ricerche.

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Il team internazionale ha riunito scienziati e archeologi del Curt-Engelhorn Center for Archaeometry, dell’Istituto archeologico austriaco di Vienna e del Museo archeologico nazionale di Atene. Da quando Heinrich Schliemann scoprì il tesoro di Priamo a Troia nel 1873, l’origine dell’oro è rimasta un mistero. Il professor Pernicka e il team internazionale hanno ora potuto dimostrare che deriva da quelli che sono noti come depositi secondari come i fiumi e che la sua composizione chimica non è solo identica a quella degli oggetti d’oro dell’insediamento di Poliochni a Lemno e delle tombe reali a Ur in Mesopotamia, ma anche con quella di oggetti provenienti dalla Georgia.

“Ciò significa che devono esserci stati legami commerciali tra queste regioni remote”, afferma Pernicka. Lo studio è stato reso possibile grazie a un sistema di ablazione laser portatile (pLA) che ha consentito al team di effettuare un’estrazione minimamente invasiva di campioni dai gioielli del Museo Archeologico Nazionale di Atene. Le collane, i ciondoli, gli orecchini ei girocolli del museo sono così preziosi che non è consentito trasportarli in un laboratorio o effettuare qualsiasi esame che lasci un segno visibile sugli oggetti.

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Ori del tesoro di Poliochni, oggi presso il Museo Nazionale di Atene

Tutti i metodi precedentemente disponibili hanno avuto esito negativo a causa di almeno uno di questi vincoli. Al contrario, lavorando in loco, il dispositivo laser portatile fonde un foro così piccolo negli oggetti che non può essere visto ad occhio nudo. “Il primo importante risultato – ha detto all’AGI Massimo Cultraro – è che a Troia e a Poliochni gli orafi impiegavano oro proveniente da depositi alluvionali, ovvero minerale proveniente dalla disgregazione di rocce trasportate dalle acque di fiumi”.

Il secondo risultato, “sul piano archeometrico, geologico e mineralogico – ha aggiunto l’archeologo – è che abbiamo scoperto che la fonte per i due depositi è la medesima e la stessa sorgente è stata impiegata anche per realizzare i gioielli di due importanti città del Vicino Oriente, Ebla e Ur. La prima (in Siria), come è noto, è un altro importante scavo di una missione italiana”.

Infine, ha aggiunto “nel caso di Poliochni e Troia, all’originaria fonte che ad oggi resta sconosciuta, ma da ricercare certamente in area mesopotamica, si aggiunge una seconda sorgente indiziata dalla presenza di un basso contenuto di platino. Queste caratteristiche compositive sono compatibili con le sorgenti di oro identificate in Georgia e in Armenia, cioè nel Caucaso”. Proprio in questa regione c’è una delle miniere d’oro conosciute.

“Un interessante esempio di miniera – ha detto Cultraro – è quella identificata nel distretto di Sakdrisi (Georgia sud-orientale), oggetto di esplorazioni sistematiche di una missione georgiano-tedesca fin dal 2002. I filoni aurei venivano raggiunti attraverso l’apertura di strette gallerie che scendono fino a 25 m. dal suolo. Le datazioni al C14 confermano che lo sfruttamento del giacimento aurifero di Sakdrisi risale alla seconda metà del III millennio a.C (2500-2200 a.C.), estendendosi fino ad epoche più recenti. Alla fase dell’età del Bronzo sono state assegnate asce in pietra e mazzuoli, che rappresentavano lo strumentario usato dai minatori, insieme a stoviglie in terracotta legate alla vita degli operai. La presenza, inoltre, di tracce di attività fusoria lascia intuire che la prima sbozzatura e lavorazione del minerale, appena estratto, avvenisse, in loco”. il quadro che emerge è che già 1500 anni prima di Cristo, esisteva una fitta rete commerciale che andava oltre i confini politici.

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Circolazione di gioielli in oro di manifattura mesapotamica nel Mediterraneo della fine del II milliennio

“Sono noti, fin dai primi scavi a Troia, i rapporti tra l’Egeo e il Mediterraneo orientale nel corso dell’età del Bronzo – ha spiegato l’archeologo – Il numero di materiali, ceramici, in metallo e in pietre preziose, provenienti dalla Mesopotamia è notevolmente cresciuto e oggi possiamo concludere che il mondo anatolico, con le isole di fronte alla costa troiana (Lemnos, Imbros, Samos, Chios), fosse il maggiore destinatario di questi prodotti. Sono manufatti di lusso destinati all’élites locali che si autorappresentavano con gioielli realizzati da artigiani anatolici ma con oro e argento importato. Schliemann aveva anche trovato alcune asce da parata in lapislazzuli di importazione dall’area centro-asiatica. Siamo nel periodo in cui commercianti mesopotamici aprono vie carovaniere lungo la costa meridionale dell’Anatolia e attraverso gli altopiani dell’entroterra. Restano oscure le ragioni di questo rapido rafforzamento delle relazioni internazionali tra le due aree, ma certamente la formazione dell’impero di Akkad, sotto il suo fondatore, Sargon I il Grande, e la conseguente apertura verso i porti della costa siro-palestinese, ha certamente favorito tale processo di interazione”.

Anche l’Italia e la Sicilia in particolare potrebbero essere stati parti di questa fitta rete. “Stiamo lavorando – ha concluso Cultraro – alla determinazione dell’origine e caratterizzazione su base isotopica dell’oro e dell’argento impiegato nella Sicilia prima dell’arrivo dei Greci, all’incirca tra 1300 e 750 a.C. Uno degli stereotipi, ancora oggi imperanti nel campo dell’archeologia nazionale, è che siano stati i coloni greci ad aver introdotto l’artigianato su metallo prezioso, oro e argento. Oggi possiamo sostenere con certezza che manufatti in oro e in argento circolavano in Sicilia e, più in generale nel Mediterraneo occidentale, fin dal 1600 a.C., probabilmente frutto dei contatti con la più antica marineria egeo-micenea. Anche in questo caso alle indagini chimico-fisiche sui metalli conservati in varie collezioni siciliane si associa l’indagine su documenti d’archivio, che riferiscono della riapertura di miniere d’argento in Sicilia durante l’occupazione araba. Non si esclude che molte di queste miniere, che andrebbero ricercate nel distretto peloritano di Messina, siano state in uso fin dal periodo greco”

Libro Narrativa Italiana: La costanza è un’eccezione di Alessia Gazzola

Descrizione
Dalla creatrice dell’Allieva una nuova, travolgente avventura per Costanza Macallè e un mistero da risolvere risalente alla Venezia di fine Seicento.

Facciamo il punto. Costanza, dopo la laurea in medicina, è stata costretta a lasciare la sua amata e luminosa Sicilia per trasferirsi nel freddo e malinconico Nord. A tenere in caldo i cuori, però, ci pensa Marco, incantevole padre della sua incantevole Flora che Costy, non senza qualche incertezza, ha deciso di portare nella vita della figlia. Dopo varie tribolazioni, Marco ha praticamente lasciato la storica (e decisamente perfetta) fidanzata all’altare. Costanza (seppur decisamente imperfetta) credeva che l’avesse fatto per lei, ma non ne è più così sicura considerato che Marco prende tempo e si comporta in modo piuttosto ambiguo. Come sempre, però, nella vita di Costanza non c’è spazio per la riflessione: lei è una madre lavoratrice e precaria che al momento si sta autoconvincendo di aver compiuto la scelta giusta decidendo di lasciare l’Istituto di Paleopatologia di Verona per un impiego da anatomopatologa a Venezia. Come se la situazione non fosse abbastanza complicata, gli ex colleghi la richiamano per un incarico dal lauto compenso: l’ultima discendente di un’antica famiglia veneziana, gli Almazàn, desidera scoperchiare le tombe dei suoi antenati per scoprire cosa c’è di vero nelle dicerie calunniose che da secoli ammantano di mistero il casato. Costanza non vorrebbe accettare, ma questa storia a tinte fosche solletica la sua curiosità… e poi scopre che nell’operazione è coinvolto anche Marco. Che il cantiere possa rappresentare un’occasione d’oro per trovare un equilibrio vita-lavoro? O, per meglio dire: che il cantiere possa rappresentare un’occasione d’oro per cercare di capire cosa c’è davvero tra lei e Marco? Con coraggio, determinazione e tanta, tanta costanza, questa eroina dai capelli rossi affronterà nuove sfide, svelerà antiche trame mentre proverà a comprendere il suo cuore.

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FILOSOFIA Vico più attuale di Hobbes per ritrovare la “polis”

Due volumi analizzano il pensiero politico degli autori e le sue ricadute nel Novecento. Dall’inglese sono venuti i nazionalismi, i totalitarismi e l’idea di guerra di tutti contro tutti. Mentre il napoletano invita a riscoprire l’eredità religiosa

di GIUSEPPE BONVEGNA

Parlare del pensiero politico di Thomas Hobbes potrebbe sembrare quasi scontato oggi, quando l’Europa si trova di nuovo in guerra per la prima volta dai tempi della fine della Seconda Guerra Mondiale: dato che Hobbes è stato il pensatore moderno che ha teorizzato la guerra di tutti contro tutti come aspetto costitutivo della natura umana e l’autorità politica come finalizzata esclusivamente a evitare la guerra e a garantire la pace.

Eppure, il lavoro su >> Hobbes nel Novecento, mandato in stampa quest’anno dall’Istituto per gli studi filosofici di Napoli (a cura di Guido Frilli, pagine 247, euro 23,00), acquista un suo peso specifico se messo a confronto con un’altra operazione simile che Mimesis ha voluto dedicare a un altro autore moderno, successivo a Hobbes, che riveste anche lui un’importanza capitale per la nostra coscienza politica: Giambattista Vico.

Quello che infatti Hobbes, alla metà del Seicento, aveva pensato riguardo alla natura umana e all’autorità politica sarebbe stato solo in minima in parte ripetuto da Vico un secolo dopo, in pieno illuminismo: la natura umana, per Vico, è anche polemos, ma soprattutto polis raggiungibile però, a differenza della città hobbesiana e illuminista, non solo (e non tanto) con mezzi umani ( >>> Polis e polemos. Giambattista Vico e il pensiero politico, a cura di Gennaro Maria Barbuto e Giovanni Scarpato, pagine 360, euro 28,00).

 

Il pensatore napoletano opponeva a Hobbes (e a Cartesio) una visione premoderna «lontana dai sogni sull’età dell’oro e dai vagheggiamenti utopistici» del pensatore inglese che di lì a pochi anni si sarebbero ritrovati e perfezionati in Jean-Jacques Rousseau. Convinto che l’ordine del mondo non derivasse dalla coscienza umana, ma andasse cercato attraverso una Scienza Nuova che individuasse un’altra origine, Vico aveva incontrato la tradizione religiosa, sulla base della quale «il bestione errante » cominciò a uscire dal caos, dando avvio alla storia intesa come Provvidenza: vale a dire cammino non sempre consapevole (ma chiaro nella propria finalità) attraverso il quale l’umanità si protende alla conservazione della vita attraverso il recupero delle Forme ideali nel tempo.

La polis è il momento in cui si realizza la sintesi tra ideale e temporale e Vico, per questo, fu l’iniziatore della filosofia della prassi all’interno del pensiero moderno. Egli intendeva tuttavia la prassi come il tentativo non di rivoluzionare il mondo a partire da un’idea della mente, ma di recuperare un ideale trascendente che non ci appartiene e la cui ricerca dà inevitabilmente luogo a una crisi del pensiero: proprio quando l’ideale sembra essere raggiunto, esso non si lascia catturare e quindi un ciclo della storia si conclude, come se l’umanità, non avendo più ragioni per continuare a perfezionarsi, senta il bisogno di tornare all’immaginazione per salvarsi da quella ‘barbarie della riflessione’ che è l’eccesso di riflessività.

Per questo sguardo rivolto più all’indietro che in avanti, Vico restava una voce inascoltata nell’epoca dell’illuminismo. I filosofi dell’Encyclopédie avrebbero invece fatto della negazione hobbesiana di Dio in nome del pensiero astratto la base di quel progressismo concretizzatosi prima nella Rivoluzione francese e nel nazionalismo ottocentesco e poi nelle rivoluzioni politiche del Novecento (nazionalsocialismo, fascismo e comunismo): le quali si sarebbero presto sviluppate in regimi totalitari, mutuando dal nazionalismo, come ha messo in luce Hannah Arendt nelle Origini del totalitarismo (1951), aspetti importanti come l’antisemitismo. Ma voce, quella di Vico, forse ancora più attuale, rispetto alla hobbesiana, nel nostro tempo: mentre infatti ‘non possiamo non dirci hobbesiani’, perché domina ancora il Leviatano di Hobbes nella prospettiva nazionalista, rivoluzionaria e totalitaria in forme che si estendono (a diversa intensità) dall’Atlantico al Mar Cinese (passando per gli Urali) e che contemplano tutte la guerra come mezzo di risoluzione dei conflitti internazionali, non è inutile riscoprire i fondamenti di un mondo diverso e che abbiamo perduto.

Almeno per incamminarsi, dopo il disincanto weberiano del mondo e la conseguente definizione dello Stato come comunità di uomini che pretende ‘il monopolio dell’uso legittimo della forza fisica’, verso un salutare re-incanto che possa includere, vichianamente, anche un recupero della tradizione religiosa e del suo rapporto con una polis non totalitaria.

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