Spiritualità. Eucaristia. Quel dono di vita che in tante liturgie non giunge al cuore

In un momento in cui tanti cristiani si chiedono che senso abbia frequentare celebrazioni spesso slegate dall’umana quotidianità, un libro riesce a far vivere la messa con l’incanto del primo amore

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Papa Francesco: elevazione eucaristica

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Una questione di vita vera. Fin dalle prime battute di questo libro si resta stupiti dalla capacità dell’autore di tradurre in parole e con “credibile pienezza” il tema della centralità dell’Eucaristia per il cristiano. Lui stesso, del resto, sottolinea che il suo essere prete ha avuto una “sterzata” nel momento in cui la vita concreta si è “finalmente” incrociata con la gioiosa presenza del Risorto nella liturgia eucaristica, ricevendone la consapevolezza che in essa c’è la radice, il cuore, il senso di ogni cosa. Ma anche la certezza che se perdessimo Dio o giungessimo a negarlo la nostra vita diventerebbe un incomprensibile involucro vuoto. Un rischio dal quale, però (e anche questo lo si dice al principio), è Maria che si incarica di liberarci: bussa al nostro cuore e se scegliamo di aprire, lei torna a indicarci la strada. Perché fede è amore, Dio è amore, Eucaristia è amore, il senso della vita è amore. E dopo un prologo così scoperto e incisivo l’autore fornisce alla stessa maniera una spiegazione teologico-spirituale del perché lui vive e desidera così tanto restare ancorato all’Eucaristia, quindi al rito della Messa e, di conseguenza, a Maria. Stiamo parlando di Cos’è la Messa? (Cantagalli, pagine 87, euro 14) di Ricardo Reyes Castillo, sacerdote e parroco della diocesi di Roma oltre che dottore in Sacra liturgia.

Un libro che nei fatti è una vera e propria dichiarazione d’amore in un momento storico in cui sempre più spesso i cristiani, anche fra i più assidui alla messa, si domandano per quale ragione frequentare liturgie domenicali vissute e celebrate in modo da risultare “slegate” dall’umana quotidianità, quella che si tocca con mano, che prova dolore e vergogna, che chiede felicità, ha bisogno di speranza e sente un intimo quanto incompreso desiderio di spiritualità. E don Ricardo racconta la liturgia come un movimento vitale in cui l’umano e il divino si susseguono e si accompagnano in progressivi e tangibili passaggi di approfondimento nella concretezza e di elevazione spirituale in cui il rumore del fare si sussegue e si fonde con i cori angelici. «La liturgia – afferma – è un movimento, come tutto il cosmo è un movimento. Un dare la vita per ricevere la vita, riconoscere la morte per sperimentare la resurrezione. L’Eucarestia è il movimento del creato. Il nostro essere ha bisogno di far parte di questo movimento, di sentire quella musica di Dio, quel santo gioco dell’anima nel quale Dio si manifesta». Leggendo questo piccolo libro non si possono non ricordare i racconti di tanti mistici su quel che accade durante la messa. Pensiamo ad Anna Caterina Emmerick, a santa Faustina Kovalska, a Natuzza Evolo, ma anche al «se voi vedeste quello che vedo io!» con cui padre Pio rispondeva alla domanda sul perché le sue messe duravano così tanto. E forse quel punto interrogativo in fondo al titolo del libro sta a indicare lo stesso senso di stupore che si prova nel leggere di quelle visioni spirituali. Del resto padre Pio sottolineava: «Se la gente sapesse cosa accade sull’altare durante la messa, dovrebbero mettere i carabinieri dinanzi alle chiese per contenere le folle».

Naturalmente Reyes Castillo non è il frate di Pietrelcina e non scrive da mistico, ma offre una lettura teologica della liturgia che ben fa comprendere cosa significa aprire il cuore al mistero, soprattutto ai più giovani, ai quali il libro si rivolge nella grafica e nell’umiltà di modi, risultando capace di aprire a livelli di lettura molteplici ed efficaci. È davvero difficile trovare un testo in cui queste cose si dicano con tanta semplicità e nessun timore di venire presi per ingenui. Ed è comunque evidente che qui non si tratta di ingenuità e nemmeno di candore. Si coglie, piuttosto, la semplicità di un presbitero che, da smarrito che era, ha ritrovato la strada del primo amore, per dirla con l’ammonimento di Apocalisse alla Chiesa di Efeso. Il sentirsi figli avvolti nel manto di Maria, rigenerati nella sua dinamica relazionale. Don Ricardo lo racconta in margine: a 45 anni si è trovato a vivere un sacerdozio “in carriera”, molto diverso da quello a cui pensava in principio. Entrato in crisi, ha scelto di vivere alcuni mesi in una comunità di recupero con «giovani che combattevano diversi tipi di dipendenza… Non è stato facile. Ho lottato con i miei schemi e le mie paure». Finché un giorno «era il 24 dicembre, fui incaricato di pulire le stanze e i bagni dei ragazzi» e nel pulire, completamente solo, «mi sentii nel posto giusto. Felice. In quel momento è cominciato a crollare il muro. Iniziai a ritrovare le sensazioni del mio essere innamorato di Dio, ricercatore del suo amore. E riscoprii una cosa fondamentale: la serenità nel donarsi». La liturgia eucaristica è un dono e per viverla davvero bisogna imparare a lasciarsi amare. Don Ricardo lo spiega così: «In questo libro parlo di ciò che ho toccato, dell’amore che sgorga dall’Eucaristia e che ho assaporato in modo unico in quei mesi… L’Eucaristia è riposo, forza, perdono, luce, speranza, attesa, movimento, sorpresa, amore che dà senso e colore a ogni cosa. Per questo ho voluto scrivere in modo semplice la meraviglia che vivo ogni volta…». Col desiderio che tutti si immergano nella medesima pienezza di vita.

avvenire.it

 

In Santo Stefano a Reggio Emilia: Madonna del Carmelo, tra le devozioni più antiche e più amate. Il 16 luglio, la Chiesa festeggia la Madonna del Carmelo. Un’antica devozione che risale ai profeti della Bibbia

ll culto mariano del Carmelo, caso unico tra i culti dei santi, affonda le sue radici nove secoli prima della nascita di Maria. Il primo profeta d’Israele, Elia, dimorando sul Monte Carmelo, ebbe la visione della venuta della Beata Vergine. La vide alzarsi in una piccola nube, portando una provvidenziale pioggia e salvando Israele da una devastante siccità. E’ uno dei culti più antichi della Roma cristiana, così come l’Ordine carmelitano che si ricollega a quanto descritto nella Bibbia, quando si racconta che Elia ebbe la profezia del Mistero della Vergine e Madre e della nascita del Figlio di Dio. Già nel I secolo, gli eremiti che si ritirarono sul monte costruirono una cappellina a Lei dedicata. “I carmelitani hanno la tradizione di essere legati alla Madonna ma anche a Elia, cioè alla capacità, come quella del profeta, di ascoltare Dio”:

“Gli fu detto: ‘Esci e fermati sul monte alla presenza del Signore’. Ecco, il Signore passò. Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento ci fu un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto ci fu un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco ci fu il mormorio di un vento leggero.”

L’iconografia popolare

Secondo l’iconografia popolare, la Madonna del Carmelo non tiene in braccio Gesù, ma distende le braccia in avanti offrendo lo scapolare. L’immagine fa riferimento all’apparizione del 16 luglio 1251: la Madonna si mostrò a san Simone Stock, consegnò uno scapolare e gli rivelò i privilegi connessi a tale culto. “Non è un portafortuna o un talismano”  ma un segno di salvezza. Significa essere rivestiti della sua grazia, cioè dei suoi doni. Se noi diciamo oggi ‘voglio lo scapolare’, penso di voler ricevere questo segno di salvezza che mi rimanda alle virtù di Maria; mi aiuta a impegnarmi a vivere come lei”.

Le Confraternite intitolate alla Madonna del Carmine

Nel tempo, le Confraternite intitolate alla Madonna del Carmine e il favore di alcuni papi, che La arricchirono di privilegi spirituali, ne aumentarono la devozione popolare.
Nel 1623, un decreto della Congregazione dell’Indice consacrava la “Tradizione del Sabato”, ossia l’aiuto che la Beata Vergine del Carmelo dà in questo giorno ai suoi devoti morti in grazia di Dio per il raggiungimento immediato della pienezza dell’amore divino.

Come ogni anno ci riuniamo il 16 luglio, per testimoniare la nostra devozione alla Beata Vergine del Monte Carmelo ed avere da Lei luce e conforto per la nostra vita. Ognuno di noi ha un patrimonio di esperienze di gioia e di dolore, di accoglienza e di rifiuto, di successo e di sconfitta. Ognuno di noi prende coscienza di come la precarietà del presente e l’incertezza del futuro ci rendano fragili. Molte volte, basta una parola sbagliata, nel momento sbagliato, per distruggere un rapporto d’amicizia e di collaborazione, e una parola giusta, nei tempi e nei modi corretti, per salvare una vita. La grande forza che abbiamo per resistere a queste nostre fragilità umane è la promessa di Gesù di non lasciarci mai soli e di restare con noi tutti i giorni della nostra vita, sino alla fine del mondo.

Se, ora, volessimo sintetizzare il messaggio della Parola di Dio sulla pietà popolare potremmo dire che il profeta Isaia e lo stesso Gesù ci chiedono di unire alla nostra pietà popolare la testimonianza della fede. Il profeta Isaia scrive: “smettete di presentare offerte inutili; l’incenso per me è un abominio; anche se moltiplicaste le preghiere, io non le ascolterei…Cessate di fare il male, imparate a fare il bene, cercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova”. E Gesù dice ai suoi ascoltatori: “Chi avrà tenuto per sé la propria vita, la perderà; e chi avrà perduto la propria vita per causa mia, la troverà. Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato”.

La pietà popolare è ricca di canti, preghiere, devozioni ai santi Patroni e alla Madonna, venerata sotto diversi titoli, tra cui quello della Beta Vergine del Monte Carmelo. Però, questa ricchezza potrebbe diventare povertà. Sembra un paradosso che una vita ricca di religiosità possa diventare povera! Il paradosso si chiarisce se spieghiamo che cosa intendiamo per ricchezza e povertà dal punti vista religioso. La ricchezza è fatta di devozione esteriore, di pratiche religiose, di voti e promesse. La povertà è costituita da mancanza di fede interiore, di motivazioni spirituali, di valori evangelici. La fede interiore è soprattutto quella di San Francesco d’Assisi, Santa Teresa d’Avila, Madre Teresa di Calcutta, che pregavano dicendo: Deus meus et omnia, Dio mio e tutto. La fede interiore, dunque, è quella che ci porta a Dio, che ci aiuta a pregarlo, amarlo, lodarlo, ringraziarlo nei modi, nei luoghi, nei tempi giusti. Ma come si arriva a Dio nel modo giusto, se Lui è l’Inaccessibile, l’Onnipotente, l’Altissimo, il Misterioso? Ce lo indica S. Agostino, che ha scritto: ambula per hominem et pervenies ad Deum: percorri la via dell’uomo e arrivi a Dio. In buona sostanza, per S. Agostino, la via per arrivare a Dio nel modo giusto è l’uomo. Anche San Giovanni Paolo II, nell’enciclica Redemptor Hominis, ha scritto che “l’uomo è la via fondamentale della Chiesa”. Nessuno di noi, perciò, deve pretendere di aver la corsia preferenziale per arrivare a Dio senza passare per l’uomo. San Giovanni chiama bugiardo chi dice di amare Dio e odia o trascura il proprio fratello (1Gv, 4, 20). La cartina di tornasole del nostro vero amore di Dio è l’amore del prossimo, ossia la virtù della carità. Per praticare la virtù della carità non bisogna essere intelligenti, ricchi, super eruditi. I gesti di amore sono i più semplici della nostra vita. Addirittura, talvolta, basta un semplice sguardo, una stretta di mano, un saluto di incoraggiamento, un complimento sincero per rendere felice una persona. Gesù promette la sua ricompensa a chi ha dato da bere “anche un solo bicchiere d’acqua fresca a uno dei discepoli”.

Ora, la festa della Madonna del Monte Carmelo, nel proporci la venerazione del profeta Elia, ci offre un esempio concreto di come la pratica della carità avvicini a Dio nel modo giusto. Elia è in cammino verso il Monte Carmelo per sfuggire alla persecuzione della regina Gezabele, che lo aveva minacciato di morte. Giunge a Sarepta, una città della Fenicia, in casa di una vedova, di cui non sappiamo il nome, definita da quello che le manca, il marito, che vive con il figlio orfano. Elia è accolto dalla vedova e, alla sua domanda di dargli da bere e da mangiare, lei gli offre tutto ciò che ha, anche se, trovandosi in tempo di carestia, sa che non le resterà più nulla per sé. Elia, come ricompensa, le promette che la farina e l’olio non mancheranno mai dalla sua casa.

La vicenda del profeta Elia ci aiuta a capire come comportarci nei momenti di scoraggiamento, di fallimento, di solitudine. Egli visse lo scoraggiamento e il fallimento in modo drammatico, tanto che di fronte al peso della persecuzione chiese al Signore di lasciarlo morire. Ma il Signore gli offrì un pane miracoloso che gli diede la forza per continuare il cammino. Con la forza datagli da questo pane misterioso Elia camminò per 40 giorni e 40 notti e giunse fino al monte Oreb, dove il Signore gli parlò attraverso un vento leggero e gli diede il coraggio di portare a termine la sua missione.

Non tutti noi portiamo lo scapolare. Anche se non portiamo lo scapolare, però, chiediamo alla Vergine del Monte Carmelo la benedizione perché, sull’esempio del profeta Elia, purifichi il nostro culto del Dio vivente da tante preghiere superstiziose. Tante volte, anche involontariamente, scambiamo i santuari mariani per una banca dove ritirare le grazie con il bancomat delle novene e delle processioni. Chiediamole il rafforzamento della nostra fede nel Dio misericordioso, per seguirlo ed amarlo anche al di sopra dei vincoli familiari. Chiediamole il dono della preghiera dei santi: “Dio mio e tutto”. La fanciulla Maria di Nazareth ha creduto alla parola dell’Arcangelo e, rinunciando ai suoi progetti personali, ha affidato il suo futuro alla Parola di Dio: “si compia in me secondo la tua parola” (Lc 1, 28). Sul suo esempio, fidiamoci della Parola di Dio, anche quando non la comprendiamo, la troviamo particolarmente dura ed esigente. Custodiamola nel nostro cuore, come faceva la Madre di Gesù, nella rinnovata convinzione che “non di solo pane vive l’uomo ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio” (Mt 4, 4). Anche se, come i discepoli, fatichiamo notte e giorno senza prendere niente, sulla parola di Gesù, gettiamo la rete (cfr. Lc 5, 5) e camminiamo secondo lo Spirito. Il nostro futuro, per fortuna, non è nelle nostre mani ma nelle mani di Dio. Mani che creano dal nulla, guariscono dal male, accompagnano nel buio, conducono alla meta fissata per ognuno di noi sin dall’eternità.

Fonte: vaticannews e chiesadioristano

 

Teilhard de Chardin: tra teologia, mistica e scienze

Pierre Teilhard de Chardin | DISF.org

di: Marco Casadei – settimanews

Se Walter Benjamin, immaginandolo nostro contemporaneo, avesse potuto leggere la Laudato si’, con particolare attenzione al paragrafo 83, non faticherebbe a proclamare dischiuso il tempo della leggibilità anche per le opere di P. Teilhard de Chardin[1]. Dopo l’innegabile ostracismo ecclesiastico, patito a motivo di posizioni filosofico-teologiche giudicate all’epoca non omologhe all’ortodossia magisteriale, sembra finalmente potersi inaugurare, per il paleontologo gesuita, una nuova stagione.

Preceduta, infatti, da ormai qualche decennio di disarmo tra l’arrocco dottrinalistico della dogmatica e le pregiudiziali positivistiche delle scienze, l’enciclica summenzionata − così come, più implicitamente ma con abbondanza, si può riscontrare in Evangelii gaudium e in Fratelli tutti − annovera, tra i tanti, anche il merito di riferirsi in modo esplicito e altamente autorevole al mirabile portato teilhardiano.

A dire il vero, una più discreta disseminazione delle sue tracce è già accaduto di rinvenirne lungo la direttrice dei pronunciamenti papali post-conciliari, senz’altro in alcune riflessioni di Paolo VI e di Benedetto XVI. Perfino nelle pieghe dei grandi documenti conciliari, Gaudium et spes in primis, non mancano rinvii a qualche inedito del gesuita francese, certamente per virtù dei suoi primi grandi estimatori, il domenicano M.-D. Chenu e il confratello H. de Lubac, che non solo gli fu fedele amico e interprete tra i più acuti del suo pensiero, ma anche strenuo difensore all’interno della stessa Compagnia.

Una «ri-trattazione» opportuna
Il Convegno nazionale «Muovere verso» − Teilhard de Chardin: tra teologia, mistica e scienze, promosso dall’Istituto superiore di scienze religiose «A. Marvelli» di Rimini e San Marino-Montefeltro, grazie alla collaborazione della Facoltà teologica dell’Emilia-Romagna (patrocinante l’evento assieme al Comune di Rimini) e col prezioso sostegno di alcune associazioni culturali, tra cui gli omonimi Centro Studi e Associazione – meritori nel diffonderne l’opera –, desidera accogliere il provocatorio invito lanciato da Francesco. Grazie alla sua neppur troppo velata «riabilitazione» teologica, è sembrato così quantomai opportuno avviare una vera e propria «ri-trattazione» dell’intero percorso intellettuale teilhardiano, pubblicato per la maggior parte postumo e ancora poco frequentato, soprattutto presso gli ambiti formativi ecclesiali/ecclesiastici.

Numerosi e di non poco interesse appaiono gli elementi provenienti dal suo genio di scienziato gesuita – non l’unico celebre esempio della storia, per la verità. Dove l’un aspetto (versante scientifico) sembra misteriosamente radicarsi, in unità con l’altro (versante credente) e «senza confusione né separazione» (Concilio di Calcedonia), nel «golfo della molteplicità potenziale» (I. Calvino) che è l’in-comune dell’immaginazione umana.

Vocazione nella/della vocazione[2], quella di Teilhard, che sa di sagace «ana-cronismo» o d’«inattualità» profetica, certamente per il tempo in cui si è svolta la sua biografia; e dai cui tratti, apparentemente antitetici, vengono sviluppandosi convergenze inter-/trans-disciplinari quantomai appellanti e coniugazioni spirituali, ad oggi ancora sorprendentemente inesplorate.

«Muovere verso» non si presta, dunque, solo ad essere titolo sufficientemente efficace per il convegno a lui dedicato, ma racconta icasticamente il convergere incessante di tre componenti, scientifica, teologica e mistica, tanto nella sua formazione, quanto nell’esercizio del suo comprendere la realtà. In un’unica trama, ordita dall’istanza mistica – definita «scienza delle scienze» dal noto e stimato paleontologo –, l’approccio rigorosamente scientifico viene a feconda alleanza con il versante più robustamente filosofico-teologico, per un rapporto genuinamente riuscito e tra le più attuali eredità teilhardiane, in una visione cosmo-teandrica genialmente sintetizzata nelle due grandi opere L’ambiente divino e Il fenomeno umano[3].

«Ortodosso che la pensa come gli eterodossi»
Autodefinitosi «ortodosso che la pensa come gli eterodossi» – si pensi, una per tutte, all’interpretazione assai scabrosa offerta in merito alla concezione teologica del cosiddetto «peccato delle origini» – Teilhard concepisce l’intero della sua acribia intellettuale come una «educazione del vedere», sentendo, sì, tutto il peso del suo essere «nel mezzo», ma vivendolo nondimeno come singolare connotazione vocazionale ad essere ponte fra gli uni e gli altri, muovendosi verso la verità tutta intera, mai tuttavia senza l’altro.

Grazie all’autorevolezza e allo spessore degli esperti chiamati ad intervenire, si cercherà ultimamente di offrire una complessiva, quanto sperabilmente adeguata ricognizione dell’impianto speculativo proprio a p. Teilhard de Chardin, senza trascurare significativi affondi di carattere epistemologico, antropologico (con un focus sulla «ecologia integrale») e teologico, soprattutto sul versante del dialogo interreligioso, di cui fu un autentico pioniere.

[1] L’apertura del paragrafo ha il sapore e le fattezze di una mirabile sintesi della visione teilhardiana della realtà: «Il traguardo del cammino dell’universo è nella pienezza di Dio, che è stata già raggiunta da Cristo risorto, fulcro della maturazione universale».

[2] Si potrebbe a buon diritto applicare a Teilhard de Chardin la riflessione agambeniana in merito alla tensione generativa e, in quanto tale, costitutiva del mistero (miracoloso) significato dalla vocazione messianica, nella prospettiva della teologia paolina. In forza di essa, infatti, «la nullificazione messianica operata dall’hōs mē [“come non” – cf. 1Cor 7,29-31] inerisce perfettamente alla klēsis [chiamata/vocazione], non sopravviene a essa in un secondo tempo […] né aggiunge a essa qualcosa. La vocazione messianica è, in questo senso, un movimento immanente – o, se si vuole, una zona di assoluta indiscernibilità tra immanenza e trascendenza, tra questo mondo e quello» (G. Agamben, Il tempo che resta. Un commento alla «Lettera ai romani», Bollati Boringhieri, Torino 2000, p. 30). Ad essere revocata/dis-attivata non è, dunque, affatto la contingenza del vivere, né, nella fattispecie, l’una o l’altra delle dimensioni portanti della vocazione teilhardiana, ma propriamente la loro vicendevole chiusura/impermeabilità/giustapposizione: «In virtù del suo essere “[ri-]chiamata” […] la vocazione messianica non ha, tuttavia, alcun contenuto specifico: essa non è che una ripresa delle stesse condizioni fattizie o giuridiche nelle quali o come quali si è chiamati […] descrive[ndo] questa immobile dialettica […] può aderire a qualunque condizione; ma, per la stessa ragione, essa la revoca e mette radicalmente in questione nell’atto stesso in cui vi aderisce […]. La vocazione messianica è la revocazione di ogni vocazione […] come una urgenza che la lavora e la scava dall’interno, la nullifica nel gesto stesso in cui si mantiene in essa, dimora in essa» (Ibid., p. 28).

[3] Oltre ai due testi indicati, rispettivamente tradotti e pubblicati per i tipi dell’editore Queriniana nel 2003 e nel 1995, sono da annoverare almeno altre sue due opere fondamentali: Il cuore della materia; La mia fede: scritti teologici, sempre per Queriniana, ed entrambe uscite nel 1993.

Non c’è missione evangelizzatrice senza capacità di consolare, ne è anzi la forza propulsiva e inventiva. Gesù non tradisce: «Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine»

Teologia. La consolazione, promessa presente

Si intitola Chi ci separerà? Senso di abbandono e consolazione (San Paolo, pagine 160 euro 15,00), il nuovo volume di Giovanni Cesare Pagazzi, teologo e segretario del Dicastero per la Cultura e l’Educazione, di cui anticipiamo alcuni passaggi del capitolo finale. Per la Bibbia, il senso di abbandono è esperienza originaria e complessa. Tocca Dio e gli umani, peccatori e innocenti. La risposta è la consolazione. Ma quale?

August Jerndorff, “Gesù consolatore”, 1892, pala d’altare della chiesa di Nykøbing Mors, in Danimarca

«Io, io sono il vostro consolatore» (Is 51,12). Nel libro di Isaia la forza consolatrice di Dio si fonda sulla sua capacità di creare, indicativa di un’inimmaginabile e insperata inventiva di soluzioni. Alla medesima conclusione giunse l’afflitto Giobbe, dopo che YHWH gli mostrò l’intera Creazione (Gb 38-41): «Comprendo che tu puoi tutto / e nessun progetto per te è impossibile» (Gb 42,2), nemmeno quello di consolare un uomo disfatto da perdite e lutti. In effetti, Giobbe fu consolato (Gb 42,1016). Tuttavia, benché sazio di giorni, il saggio morì (Gb 42,17); perdette ancora (stavolta definitivamente) le ricchezze, i figli e le figlie; così come i figli e le figlie persero lui, per sempre. E se, vista la sua inimmaginabile e insperata inventiva creatrice, Dio tenesse in serbo un’altra impensabile, inattesa consolazione? Proprio chi, leggendo Isaia nella sinagoga di Nazaret, si manifestò come il vero consolatore dei cuori rotti, custodiva un imprevedibile conforto. Nei pressi di una città chiamata Nain, Cristo s’imbatte in un corteo funebre: viene portato alla tomba l’unico figlio di una donna già da tempo vedova. Una scena da strappare il cuore, romperlo, farlo ammalare. La morte sigilla l’abbandono di questo ragazzo senza più padre, di questa donna privata di marito e figlio. Per le Sacre Scritture l’orfano e la vedova sono l’emblema degli abbandonati. Gesù non scansa la donna, ma la «vede» e ne sente «una grande compassione». L’affetto del Signore non risuona solo a motivo della sua bontà, ma perché in lui pure vibra la corda dell’abbandono, a causa dell’andirivieni del Padre, provato sulla sua stessa pelle. È in empatia con questa abbandonata; riecheggia il suo sentimento, poiché anche in lui è diffuso il medesimo suono. Rivolgendosi a lei, dice: «non piangere» (Lc 7,13). Com’è possibile chiedere una cosa simile? È quasi una violenza. Oppure esprime la sicurezza di chi sa che può. Il Signore si approssima alla bara e la tocca: una vicinanza tattile, perfino proibita dalla legge d’Israele. Ordina al morto di svegliarsi; il morto obbedisce. Giustamente conquistati dalla sequenza impressionante e dall’efficacia delle azioni di Cristo, rischiamo di sorvolare l’ultimo suo gesto che, in realtà, è la corona e il vanto della pagina evangelica: «Egli lo restituì a sua madre» (Lc 7,14). Tutto mira a questa restituzione, quasi che Cristo si senta in debito con la donna. […] L’attenzione di Gesù all’orfano e alla vedova riecheggia nella franchezza dell’apostolo Giacomo: «Religione pura e senza macchia davanti a Dio Padre e questa: visitare gli orfani e le vedove nelle sofferenze e non lasciarsi contaminare da questo mondo» (Gc 1,27). Ciò lascia intendere che esiste anche una religione impura e morbosa la quale, anziché guarire, contamina e fa ammalare. Stando all’apostolo, una religione salutare non nega l’esperienza dell’abbandono; non lo sorvola né maschera, ma lo riconosce, ammettendo l’esistenza di uomini e donne sconfortati, nonostante la fede in “Dio Padre”. Perciò, una religione “salutare” non crede in un Dio saturante, garanzia di pienezza e continuità, priva di separazioni e lontananze. Insomma, la religione sana crede che il Regno è “nelle vicinanze”, nell’andirivieni. Non per nulla lo stesso Anno Liturgico, lungo tutta la vita, addestra i battezzati all’andirivieni di Dio: l’attesa del Signore durante l’Avvento, la sua venuta nel Natale, il suo distacco nell’Ascensione, la sua misteriosa compagnia grazie al dono dello Spirito a Pentecoste, per sentirne nuovamente la mancanza nell’Avvento successivo. Altra caratteristica della “religione pura” è ammettere che i credenti hanno il potere di consolare. Le opere di misericordia (corporali e spirituali) e gli stessi sacramenti altro non sono che espressioni della consolazione degli afflitti. Al momento non ci è promessa la scomparsa di orfani, vedove e afflitti, ma già da ora ci è dato il potere, e il conseguente dovere di consolarli. Non è possibile restituire loro chi e quanto hanno perduto, ma fasciare il cuore sì; almeno durante il tempo che li separa dal giorno in cui l’unico che può restituire: “asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno” (Ap 21,4). Giacomo riassume così la pratica della religione pura: credere nel Padre, e quindi vivere come il suo Figlio Gesù; perciò, consolare gli afflitti come fosse l’unica vocazione e missione. […] La consolazione salva e la salvezza consola, guarendo il cuore. Ciò non significa che la consolazione si arresti all’intimità vitale del cuore. Anzi, il cuore consolato diviene il punto d’appoggio dello slancio missionario, come ricevesse una “sferzata di energia”. […] Secondo il denso testo paolino la consolazione non pone termine alla tribolazione, anzi vibra esattamente nell’«abbondanza delle sofferenze», come qualcosa che «dà forza» (2Cor 1,6). Connesso all’infusione o al risveglio di energia e potenza è il termine greco utilizzato da Paolo per indicare la consolazione: paraklesis. Nel Nuovo Testamento, la parola significa “supplica”, “invocazione”, ma soprattutto “esortazione” e “consolazione”. Purtroppo, in italiano, “esortare”, “esortazione” suonano ormai come “rammentare a qualcuno un dovere”, “richiamargli un compito”. In realtà, il termine greco indica piuttosto un incitamento, un incoraggiamento. […] Perciò, con impeto che viene chissà da dove, Paolo parla di forza e vittoria anche nella tribolazione, poiché niente e nessuno può recidere il legame con Cristo, con Dio. Egli non tradisce, anche quando abbandona: «Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Ma in tutte queste cose siamo più che vincitori, grazie a colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore» (Rm 8,35-39). Dio chiede ai battezzati di aiutarlo a persuadere il cuore di ogni uomo e ogni donna, che lui non tradisce. «Ecco, io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo»; così parla il Risorto, proprio mentre se ne sta andando, lasciando soli i suoi amici (Mt 28,20). Chi dice “Ecco” attira l’attenzione su una cosa. Intende indicare un che di evidente e apprezzabile, eppure non scorto; forse per distrazione, o superficialità. Dicendo ai suoi “Ecco”, dove il Risorto attira l’attenzione? Cosa indica come lampante eppure non considerato? La sua presenza, la sua compagnia. Agli occhi del Risorto, non ci accorgiamo della indubitabile fortuna, del felice destino della sua presenza reale, viva, efficace, vibrante di incomprensibile premura. Calamitati dal passato della Chiesa, o stregati dal suo futuro, non sentiamo l’operosa vicinanza del Vivente nel chiaroscuro dei nostri giorni. «Io sono con voi tutti i giorni». Sì. In quelli solari, in quelli piovosi e perfino in quelli col cielo bianco che nasconde il sole e non regala la pioggia. Nei sabati pieni di attesa, nelle domeniche del compimento, nei lunedì e martedì faticosi, nei venerdì dai misteri dolorosi, nei mercoledì e giovedì che ci trovano in mezzo al guado. Nei giorni vittoriosi, dove l’anima si espande per santità, e in quelli dove è rattrappita per i peccati. Nei giorni in cui la sua presenza si tocca e nei giorni in cui lui è “nelle vicinanze”, ma non si vede e ci lascia soli. «Ecco, io sono con voi tutti i giorni». Non ce ne accorgiamo?

avvenire.it

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In breve
Postfazione di Antonio Spadaro. «Con te voglio parlare»: un grande teologo si rivolge a Dio e con lui stabilisce un colloquio. Sono parole di fede accesa: non parole che denominano e distinguono, che descrivono e definiscono, che fissano e ordinano, come al solito. Le parole qui non sono un righello che squadra, ma un luogo di evocazione e di risonanza del mistero di Dio. «Siamo proprio davanti a una piccola teologia poetica che sa stare in ginocchio» (dalla Postfazione di Antonio Spadaro).

Descrizione
«Con te voglio parlare»: un grande teologo si rivolge a Dio e stabilisce un colloquio con lui. Sicché ne nasce un testo vibrante poesia e di alta spiritualità. Queste dense pagine attestano innanzitutto una continua ricerca di Dio. Tale ricerca, che è risposta all’appello di Dio stesso, viene affrontata con grande onestà, con totale impegno esistenziale. E in tal modo vi confluiscono scienza teologica e conoscenza dell’uomo, dalla sua sofferenza, dei suoi limiti, della sua grandezza.
Inoltre questa «piccola teologia poetica che sa stare in ginocchio» (A. Spadaro), pubblicata per la prima volta nel 1938 – negli anni in cui Rahner elaborava la sua prospettiva filosofica –, permette di gettare uno sguardo «nella profondità delle tendenze motrici dello spirito rahneriano e nella vigorosa capacità d’azione del suo pensiero teologico» (K. Lehmann).
Questo colloquio rahneriano con Dio è ora corredato da una Postfazione, dotta e ispirata, a firma di Antonio Spadaro, direttore de La Civiltà Cattolica.

Elementi per una teologia delle religioni. Sguardi e passi oltre i confini

«In queste pagine esamino l’autocomprensione che la chiesa cristiana ha assunto in quanto appartenente al mondo delle religioni. Ne deriva una grande quantità di elementi costitutivi di una teologia cristiana delle religioni».
È passato più di mezzo secolo da quando, al concilio Vaticano II, con la dichiarazione Nostra aetate, la chiesa cattolica ha presentato in modo coerente e totalmente nuovo la sua visione del mondo delle religioni. Da un lato, essa stessa fa parte di quel mondo. Dall’altro, essa possiede una propria vocazione e collocazione: in quel mondo deve accettarsi e presentarsi come una realtà fondata sul (e dal) Dio uni-trino.
Ciò che il concilio ha proclamato non ha assolutamente perso attualità. Anzi, oggi i cristiani incontrano dappertutto persone che appartengono alle religioni più diverse. Ed è ancor più necessario di ieri capirle, rispettarle, vivere con loro nella pace. Nel medesimo tempo i cristiani si sentono spronati a comprendere più in profondità il proprio percorso di fede come chiesa, per poterlo poi rappresentare in modo più convincente anche di fronte agli altri, in chiave di testimonianza.
Proprio dall’autocomprensione della chiesa cristiana come appartenente al mondo delle religioni derivano gli elementi costitutivi di una teologia cristiana delle religioni.

Werner Löser
Elementi per una teologia delle religioni
Sguardi e passi oltre i confini
Collana: Giornale di teologia 433
ISBN: 978-88-399-3433-8
Formato: 12,3 x 19,3 cm
Pagine: 256
Titolo originale: Bausteine für eine Theologie der Religionen. Blicke und Schritte über die Grenzen
© 2021

Il Vangelo III Domenica Avvento. Quella nuova creazione che passa nelle storie di chi vive ai margini

III Domenica Avvento – Anno A In quel tempo, Giovanni, che era in carcere, avendo sentito parlare delle opere del Cristo, per mezzo dei suoi discepoli mandò a dirgli…
San Giovanni in prigione

San Giovanni in prigione – G.di Paolo

III Domenica Avvento – Anno A In quel tempo, Giovanni, che era in carcere, avendo sentito parlare delle opere del Cristo, per mezzo dei suoi discepoli mandò a dirgli: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?». Gesù rispose loro: «Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: I ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo. E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!».

Sei tu o dobbiamo aspettare un altro?

Giovanni Battista, il più grande tra i nati di donna, non ha più le idee chiare. Lui, “più che un profeta”, dubita e chiede aiuto. Non so voi, ma io credo e dubito al tempo stesso; e Dio gode che io mi ponga e gli ponga delle domande. Non so voi, ma io credo e non credo, in duello, come il padre disperato del racconto di Marco, che ha un figlio che lo spirito butta nel fuoco e nell’acqua per ucciderlo, e confessa a Gesù: “io credo, ma tu aiutami perché non credo” ( Mc 9,23). E Gesù risponde in modo meraviglioso: non offre definizioni, pensieri, idee, teologia, neppure risponde con un “sì” o un “no”, prendere o lasciare. Racconta delle storie. C’era una volta un cieco… e nel paese vicino viveva uno zoppo dalla nascita. Racconta sei storie che hanno comunicato vita, così come era accaduto nei sei giorni della creazione, quando la vita fioriva in tutte le sue forme. Sei storie di nuova creazione.

Gesù parte dagli ultimi della fila, non comincia da pratiche religiose, ma dalle lacrime: ciechi, storpi, sordi, lebbrosi, morti, poveri…; da dove la vita è più minacciata. E fa per loro un vestito di carezze. Non guarisce gente per rinforzare le fila dei discepoli, per farne degli adepti, per tirarli alla fede come pesci presi all’amo della salute ritrovato, ma per restituirli a umanità piena e guarita, perché siano uomini liberi e totali. E non debbano più piangere.

La Bibbia è fatta soprattutto di narrazioni, Le storie dicono che senso diamo al mondo, cioè “che storia ci stiamo raccontando?” Tutte le grandi narrazioni dicono questo: come si affronta la morte, raccontano di come si fa a non morire, a ripartire. Sono iniziazione alla vita. Ai discepoli inviati da Giovanni Gesù chiede di entrare in una nuova narrazione del mondo. Entrano e vedono nascere la terra nuova e il nuovo cielo. E chiede loro di continuare il racconto: raccontate ciò che vedete e udite.

Poi il racconto si fa domanda: Cosa siete andati a vedere nel deserto? Un bravo oratore? Un trascinatore di folle? Un leader carismatico? Forse una canna sbattuta dal vento? Un opportunista che piega la schiena pur di restare al suo posto? Che cosa siete andati a vedere? Un uomo avvolto in morbide vesti?

Preoccupato dell’abito firmato? Del macchinone da far vedere? Che cosa siete andati a vedere? Perché Dio non si dimostra, si mostra. Nel deserto hanno visto un corpo marchiato, scolpito, inciso dalla Parola. Giovanni ha offerto un anticipo di corpo, un capitale di incarnazione e la profezia è diventata carne e sangue.

Noi tutti ci nutriamo di storie, e questa è la narrazione di cui la terra ha più bisogno per nutrirsi: storie di credenti credibili.

(Letture: Isaia 35,1-6a.8a.10; Salmo 145; Lettera di Giacomo 5,7-10; Matteo 11,2-11)

Avvento / La profezia che domanda ascolto…


Provare a interrogare la qualità del nostro ascolto, secondo una bella pagina di Bonhoeffer, in un tempo di Avvento in cui siamo invitati a scrutare l’azione dello Spirito
vinonuovo.it

In questo tempo di Avvento, in cui risuonano parole di antichi profeti, mentre il tempo che attraversiamo è segnato dalla sete e dalla ricerca di parole e gesti che indichino un presente vivibile e un futuro di speranza, siamo spesso invitati alla vigilanza e, di conseguenza, all’ascolto. Sempre la profezia domanda ascolto ma, spesso, non lo trova. Eppure non si chiude l’invito all’ascolto, che torna con insistenza nella Parola: «Ascoltatemi, voi che siete in cerca di giustizia, voi che cercate il Signore» (Is 51,1). Così l’invito è a scrutare, a porgere orecchio, per cogliere l’azione di Dio nella storia: «Udranno in quel giorno i sordi le parole di un libro; liberati dall’oscurità e dalle tenebre, gli occhi dei ciechi vedranno» (Is 29, 18). Difficile, molto difficile l’arte dell’osservare, del cogliere e del rac-cogliere.

Varrà la pena, forse, chiederci allora come è la qualità del nostro ascolto e anche, con lealtà, interrogarci se per caso abbiamo sete di profezia senza però aver il coraggio, il desiderio, la forza di metterci in ascolto della storia che abitiamo e delle relazioni che viviamo. La profezia si innesta là, nella vita quotidiana, e per accoglierla serve un orecchio attento.

«Il primo servizio che si deve agli altri nella comunione, consiste nel prestar loro ascolto»: così scriveva Dietrich Bonhoeffer in Vita comune (1937), quando la Gestapo aveva chiuso la fraternità di Finkenwalde. Prestare ascolto è ufficio primo del cristiano, dunque: per ascoltare Dio, gli altri e se stessi, secondo la classica triplice direttrice. «Chi non sa più ascoltare il fratello, primo a poi non sarà più nemmeno capace di ascoltare Dio, e anche al cospetto di Dio non farà che parlare. Qui comincia la morte della vita spirituale»: mentre le nostre giornate sono prese molto spesso dal parlare, dal dire, dallo scrivere, e mentre l’ascolto spesso si riduce ad ascoltare distrattamente vocali mandati al cellulare, una sosta silenziosa sulla consapevolezza dell’ascolto potrebbe essere un buon esercizio di Avvento, interrogandoci davvero sulla differenza tra sentire e ascoltare. Anche nella preghiera.

«C’è anche un modo di ascoltare distrattamente, nella convinzione di sapere già ciò che l’altro vuol dire. È un modo di ascoltare impaziente, disattento, che disprezza il fratello e aspetta solo il momento di prendere la parola per liberarsi di lui»: descrive bene qui, Bonhoeffer, l’atteggiamento di troppi cristiani, che già sanno, che già hanno le risposte, non raramente a domande che nessuno ha posto; troppi cristiani che sentono già pensando a dove sta l’errore, a dove è lo sbaglio da correggere. Troppi cristiani che hanno da insegnare il contenuto, nella paura che si perda le verità, senza auscultare i battiti esistenziali della persona che hanno davanti. Non così Gesù di Nazareth, che si invita a casa di Zaccheo prima della sua conversione, e che non chiede nulla al disonesto esattore delle tasse.

In Avvento la Parola ci invita alla vigilanza e all’ascolto: con una vera metanoia esistenziale potremmo essere capaci ancora di scorgere i segni dei tempi e i segni delle nostre vite, soprattutto oggi, quando le parole abbondano, dove la comunicazione è pervasiva. Dire poco, maturare il silenzio, radicarsi nell’ascolto come tensione verso l’umanità e Dio.

Teologia / È possibile ancora oggi parlare del Dio che ci ha parlato per primo? È ancora possibile dire Dio oggi, in un mondo a cui è diventato estraneo o indifferente?


di: Francesco Cosentino – Settimana News
«È possibile ancora oggi parlare del Dio che ci ha parlato per primo? È ancora possibile dire Dio oggi, in un mondo a cui è diventato estraneo o indifferente? La Parola di Dio pienamente manifestata in Gesù è ancora rilevante per le donne e gli uomini di oggi e per la loro esistenza? Ripercorrere i passi della teologia della rivelazione e del suo progressivo cammino fino agli sviluppi del concilio Vaticano II è un’impresa che, da una parte, aiuta a «fare il punto» sul passaggio dall’apologetica moderna alla teologia del Novecento e sul suo imprescindibile apporto nel recupero della categoria di storia e della cristologia; dall’altra parte, si interroga sulle possibilità, non solo linguistico-comunicative, di mettere in atto oggi una teologia della rivelazione, nel contesto di un mondo postmoderno e plurale». Le edizioni San Paolo hanno pubblicato il saggio di teologia della rivelazione di Francesco Cosentino, teologo e docente di Teologia Fondamentale presso la Pontificia Università Gregoriana: Dio ai confini. La Rivelazione di Dio nel tempo dell’irrilevanza cristiana. Anticipiamo di seguito l’Introduzione del volume.
In un colloquio sul futuro del mondo e della Chiesa, avvenuto a Roma nel 1982, a Karl Rahner fu chiesto quali fossero secondo lui i problemi teologici più urgenti; il teologo tedesco rispose senza esitazione che, alla fin fine, erano quelli di sempre: «I problemi teologici più antichi, che sono, in fondo, anche i più attuali: Com’è possibile un’autentica esperienza di Dio? Come posso conoscere veramente che Dio si è rivelato, in Gesù Cristo, in modo assoluto e definitivo?».

L’eco di quelle domande ritorna anche oggi: ha ancora senso parlare di Dio nel nostro tempo? La questione appare tutt’altro che scontata, mentre ereditiamo la compagine storica del Novecento che, attraversata da catastrofi e da epocali cambiamenti, ha «liquidato» la domanda su Dio o, tutt’al più, l’ha relegata ai contorni della vita e di una religiosità privata. Dio è ormai ai confini della vita, ai margini della storia.

Si tratta di una sfida che chiede alla riflessione teologica di uscire dall’angolo, prendendo coscienza del fatto che «il cristianesimo è ormai in una posizione minoritaria: mentre ha la pretesa di rappresentare ancora tutti, in verità tende a farsi una setta, di cui nessuno capisce più il linguaggio e la gestualità» (Elmar Salmann).

Teologia della rivelazione
Spontaneamente si tende a pensare che un simile esercizio teologico abbia a che fare con elaborate e astratte interrogazioni intellettuali, mentre invece il parlare di Dio non è mai dissociato dal suo dirsi/darsi nell’esperienza come realtà che abbraccia la totalità dell’esistenza umana e luogo che le conferisce senso e interpretazione. Tanto più che, specialmente nel nostro contesto, si può affermare che a essere venuta meno non è una qualche dimostrazione sull’esistenza di Dio quanto piuttosto la sensibilità interiore per la relazione con ciò che ci supera: «Nella questione su Dio non è mai la prova che manca. Si tratta di gusto. Ha perduto, almeno in apparenza, il gusto di Dio: ecco la diagnosi più triste e allarmante sulla nostra epoca» (Henri De Lubac).

La teologia della rivelazione è sempre strettamente legata a quell’esperienza che denominiamo fede, in un esercizio che tenta di offrire uno sguardo differente sulla vita e sulla storia, a partire da quella eccedente sorpresa del Dio rivelatosi in Gesù Cristo: Dio si manifesta come Dio solo nel suo donarsi e affidarsi al tempo e all’uomo, nel suo dimorare presso le case degli uomini in quanto Egli stesso Dio pienamente e profondamente umano.

In tal senso, ogni riflessione teologica è una teologia fondamentale pratica, che lega esperienza di Dio ed esperienza dell’uomo, e che Rahner ha saputo incarnare con queste parole: «In fondo noi vogliamo soltanto riflettere su questa semplice domanda: «Che cos’è un cristiano e perché oggi possiamo vivere questo essere cristiani con onestà intellettuale?». Mentre viviamo un’ora «caratterizzata dall’oscuramento della luce celeste, dall’eclissi di Dio» (Martin Buber), è anzitutto la possibilità stessa del parlare di Dio all’uomo contemporaneo che va nuovamente affrontata.

La parola «Dio», infatti, mentre ci rimanda alla trascendenza ineffabile del Mistero divino, è anche la parola scolpita nel cuore dell’umano e della sua vicenda, e dunque parola che ci supera: evento che mentre indica la strada apre interrogativi, che offre la pace solo al prezzo di un ribaltamento delle umane sicurezze e che invita al superamento di sé e all’ospitalità di un’alterità sorprendente.

Nella complessa compagine postmoderna è ancora questo il compito della teologia contemporanea: «Far sì che Dio sia nuovamente udito come Dio: frantumando la coscienza storica moderna, smascherando le presunzioni della razionalità moderna, esigendo attenzione per tutti quelli che sono stati dimenticati o emarginati dal progetto moderno» (David Tracy). Si tratta anzitutto di superare gli angusti confini di una metafisica che incasella Dio nelle categorie dogmatiste dell’essere, per approdare verso la specificità del Dio cristiano che, in quanto amore e relazione, si configura come un «eccesso trasgressivo», un dono che supera e sorprende.

Questo è ciò che rende Dio «più che necessario» e lo riscatta dall’emarginazione cui è stato da tempo condannato: non si tratta di un monolite arroccato nell’alto dei cieli e nello splendore della sua divinità, ma di un Dio-Amore che discende in mezzo a noi e della nostra sorte si prende cura. Evento cristiano per eccellenza, quello della Rivelazione di Dio in Cristo Gesù e nello Spirito Santo è l’accadimento che manifesta non soltanto «ciò che Dio fa» ma anche e soprattutto «ciò che Dio è»: Agape, Dio per noi.

Guardare al presente, affacciarsi al futuro
La centralità della Rivelazione, per la teologia, è un dato incontrovertibile: credere significa essere attratti e poi trasportati nella verità e bellezza della Rivelazione, per poter contemplare il mistero stesso del Dio Uno e Trino. E la Rivelazione, in tal senso, rappresenta la sintesi di tutto il sapere teologico e dell’atto di fede: la Parola di Dio si compie e si realizza nella Rivelazione di Dio in Gesù Cristo, cosicché essa diviene onnicomprensiva dell’evento della fede e della teologia.

Certo, «riproporre la questione di Dio e del suo significato per l’oggi può sembrare un’operazione quasi museale, attardata sullo sfondo di un passato religioso» (Carmelo Dotolo) che ormai non c’è più. Tuttavia, se ritornare alla teologia della rivelazione potrebbe suggerire l’idea di una sorta di viaggio all’indietro al solo scopo di rivisitare le pagine di una riflessione del passato, in realtà, riconsiderare i contenuti e i linguaggi che hanno approfondito il cuore del Mistero cristiano si presenta ai nostri occhi come un compito tanto proficuo quanto urgente; non si tratta di contemplare una ricchezza «che fu» quanto, piuttosto, di affacciarsi sull’orizzonte presente e futuro del cristianesimo interrogandosi se la domanda su Dio sia ancora determinante e decisiva tanto da potersi collocare tra le grandi domande dell’esistenza e, al contempo, affrontando alcune altre domande: è possibile ancora oggi parlare del Dio che ci ha parlato per primo? È ancora possibile dire Dio oggi, in un mondo a cui è diventato estraneo o indifferente? La Parola di Dio pienamente manifestata in Gesù è ancora rilevante per le donne e gli uomini di oggi e per la loro esistenza?

Ripercorrere i passi della teologia della rivelazione e del suo progressivo cammino fino agli sviluppi del concilio Vaticano II è un’impresa che, da una parte, aiuta a «fare il punto» sul passaggio dall’apologetica moderna alla teologia del Novecento e sul suo imprescindibile apporto nel recupero della categoria di storia e della cristologia; dall’altra parte, si interroga sulle possibilità, non solo linguistico-comunicative, di mettere in atto oggi una teologia della rivelazione, nel contesto di un mondo postmoderno e plurale.

Si tratta di un contesto sociale e culturale da più parti definito postcristiano e, al contempo, post-ateo, in cui la crisi della fede e la discussione sul futuro possibile del cristianesimo rappresentano un pungolo per la riflessione teologica e non possono non esserlo anche per la vita della comunità credente. Tale questione è stata posta da Paul Tillich già qualche decennio fa e va oggi affrontata nuovamente in tutta la sua radicalità: «Ciò che mi preoccupa più profondamente in questi ultimi anni è la questione: il messaggio cristiano (specialmente la predicazione cristiana) è ancora rilevante per le persone del nostro tempo? E se non lo è, qual è la causa? E ciò si riflette sul messaggio del cristianesimo stesso?».

Occorre tuttavia situare l’interrogativo in un orizzonte teologico il più possibile chiaro: in riferimento al Dio di Gesù Cristo, che cioè si rivela in Gesù Cristo e in Lui ci consegna «la buona notizia», parlare di rilevanza non significa rivendicare una potenza religiosa della fede cristiana negli spazi del mondo, quanto piuttosto la capacità del cristianesimo di liberare e sprigionare nell’esistenza dei nostri contemporanei la vita che il Vangelo trasmette. Si comprende fin d’ora, cioè, che l’orizzonte in cui muoversi non è quello rispondente allo schema dell’apologetica classica, prettamente preoccupata di trasmettere la verità della fede e l’insieme delle sue dottrine, ma quello della teologia del Novecento e del Concilio Vaticano II, che intende la rivelazione di Dio come la sua stessa autocomunicazione d’amore e, perciò, l’incontro e il dialogo che Egli stabilisce con gli uomini e con la storia.

Con la vita degli uomini e delle donne
La questione non si limita a una riflessione teorica, ma investe l’orizzonte esistenziale. Lo aveva ben intuito Karl Rahner, che in una Conferenza tenuta il 22 luglio del 1982 alla Facoltà teologica di Würzburg, parlò di «una teologia con cui poter vivere», cioè si chiese se esista una teologia non stabilita su idee astratte riguardanti Dio ma su quel Dio che si è rivelato per rendere umanamente possibile e vivibile la vita umana. Rahner non nega l’importanza di una teologia accademica e scientifica, differenziata in molte discipline e settori e avente uno sterminato campo di indagine; tuttavia, una teologia che è consapevole di avere un carattere sovrascientifico, per il giovane teologo coinciderà con la concentrazione sulle questioni fondamentali, per approdare a una teologia che lo sostenga nella vita di persona umana e di credente:

«Nella sua teologia, perché sia degna d’essere vissuta, egli deve aver riflettuto con tutto l’impegno della sua esistenza e ovviamente anche con la sua razionalità su che cosa è propriamente la rivelazione; su quale rapporto intercorra fra la storia delle religioni e la storia di una rivelazione particolare e regionale; se e come sia ancor oggi possibile parlare seriamente di Dio in un mondo secolarizzato e positivamente scettico e come si possa far capire che cosa intendiamo dire con questo termine; su come fare per scoprire in sé, nell’uomo della vita quotidiana, un qualcosa come l’esperienza di Dio […]. Se si possa seriamente affermare che un uomo, per essere pienamente uomo e cristiano, debba aver qualcosa a che fare con una Chiesa e con la sua burocrazia e praticare appunto religiosamente i riti che sono in uso nella Chiesa cattolica romana».

Chiedersi se il cristianesimo sia o possa essere rilevante per l’uomo d’oggi significa interrogarsi dunque sulla sua capacità non di trasmettere una verità intellettuale, astratta e separata dalla vita, ma di comunicare la vita che Dio ci ha rivelato e donato in Gesù Cristo, e che abita in noi e nella storia per mezzo dello Spirito. Si tratta di comprendere fino in fondo, con tutte le implicazioni esistenziali del caso, che la notizia inaudita del cristianesimo è questa: la vita è possibile, nonostante tutto. Infatti:

«E proprio questa cosa inaudita da sentire che dice il Vangelo: esiste una Vita che non è delimitata dal nulla. Il Vangelo è l’annuncio che è possibile vivere veramente, dunque un annuncio buono da intendere, se è vero che ogni essere umano deve affrontare almeno una volta al giorno, la sola vera domanda: che senso ha la mia vita? Chi gli dirà quale vita vale la pena di essere vissuta?» (Dominique Collin).

Se il Dio della rivelazione cristiana possa ancora avere a che fare con la vita degli uomini e delle donne di oggi è un interrogativo che diventa sempre più scottante. A nulla serve, peraltro, tentare di affrontarlo da un punto di vista prettamente «pastorale», scivolando di fatto nel pericolo di una dicotomia tra teologia e agire ecclesiale. La domanda è invece teologica, dal momento che essa intende scavare e approfondire non solo e non tanto una crisi di pensiero ma gli ostacoli culturali, esistenziali e spirituali che impediscono al vivere odierno di aprirsi alla relazione con Dio.

L’impronta di Dio Trinità nella creazione

di: Piero Coda

Papa Francesco e il patriarca Bartolomeo invitano a una conversione ecologica. Così dicendo, ci indicano con vigore e lucidità che, senza più indugio, occorre oggi cambiare direzione nel cammino dell’umanità, pena il collasso dell’ecosistema sociale e ambientale, per promuovere un uso corretto della tecnica e uno stile fraterno e solidale di vita nell’ethos e nella prassi con cui abitiamo e gestiamo la casa comune.

Ma non si fermano qui: perché la radice di questa conversione si trova nel cuore dell’uomo e il cuore dell’uomo diventa nuovo quand’è raggiunto e trasformato dall’amore di Dio. Ancora una volta, e con inedita urgenza, l’invito è ad aprirsi alla promessa di Dio fatta attraverso il profeta Ezechiele che si è fatta evento di grazia nella pienezza dei tempi, una volta per sempre (ἐφάπαξ), in Cristo Gesù: «Vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno Spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio Spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo le mie leggi e vi farò osservare e mettere in pratica le mie norme» (Ez 36,26-27).

È il soffio dello Spirito nuovo che viene da Dio e riempie l’universo che l’umanità e la creazione tutta attendono e invocano, anche senza saperlo, «con gemiti inesprimibili»: perché – scrive l’apostolo Paolo nella lettera ai Romani – «l’ardente aspettativa della creazione è protesa verso la rivelazione dei figli di Dio», per essere essa pure «liberata dalla schiavitù della corruzione ed entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio» (Rm 8,19.21).

Contemplazione
Solo «l’incontro con il Dio vivente e personale: Padre, Figlio e Spirito Santo» – scrive il patriarca Bartolomeo – «può sostenere il mondo»[1], «la verità la si contempla, non la si capisce a livello intellettuale; Dio lo si vede, non lo si esamina a livello teorico. La bellezza è percepita, non si congettura astrattamente»[2]. Papa Francesco gli fa eco nella Laudato si’: «La grande ricchezza della spiritualità cristiana, generata da venti secoli di esperienze personali e comunitarie, costituisce un magnifico contributo da offrire allo sforzo di rinnovare l’umanità. (…) Infatti, non sarà possibile impegnarsi in cose grandi soltanto con delle dottrine, senza una mistica che ci animi» (n. 216).

La chiave della conversione ecologica, la cui grazia e responsabilità sono custodite nel Vangelo e che la Chiesa è chiamata a irradiare, camminando lungo i sentieri della vita fianco a fianco con tutti coloro che, in modi diversi, sono animati dallo Spirito di Dio, è la contemplazione di Dio Trinità nella creazione per mezzo di Cristo Gesù, la cui pienezza (πλήρωμα), nella luce (δόξα) e nella potenza (δύναμις) dello Spirito Santo, «si compie tutta in tutte le cose» (Ef 1,23). Questa l’anima, dilatata a misura del cuore di Dio (cf. 1Gv 3,20), che è chiamata a dare salute, armonia e bellezza al corpo dell’umanità e del cosmo nella vertiginosa estensione e profondità in cui oggi si è dilatato.

Lo intuiva, nella prima metà del secolo scorso, Henri Bergson nel suo Les deux sources de la morale et de la religion. Già solo tenendo conto del grado di sviluppo raggiunto dalla tecnica al suo tempo – e che oggi s’è spinto a confini allora impensabili – il filosofo scriveva: «La natura, dotandoci di una intelligenza essenzialmente creatrice, aveva preparato per noi un certo ingrandimento» e le «macchine», frutto dell’ingegno umano, «sono venute a dare al nostro organismo un’estensione così vasta e una potenza così formidabile, così sproporzionate alla sua dimensione» che, «in questo corpo smisuramente ingrandito, l’anima resta ciò che era, ormai troppo piccola per riempirlo, troppo debole per guidarlo»[3].

Conversione dello sguardo
Dunque, dilatare e fortificare l’anima, sino ad essere nella koinonía dello Spirito Santo (2Cor 13,13) «un cuor solo e un’anima sola» (cf. At 4,32): dilatarla sulla misura del corpo dilatato, ma troppo spesso anche dilacerato e ferito, della famiglia umana universale e del cosmo intero. Questo ciò che ci è chiesto oggi come discepoli di Gesù.

Ma che cosa significa? e come può realizzarsi?

Ciò si fa praticabile – ecco l’insegnamento, alla scuola dell’unico Maestro, in ascolto della Parola di Dio e della Tradizione cristiana, che ci offrono papa Francesco e il patriarca Bartolomeo – quando l’anima apre i suoi occhi a incontrare lo sguardo d’amore di Dio e da esso si fa trasfigurare: lo sguardo con cui il Padre contempla in Cristo Gesù, crocifisso e risorto, nel dramma della storia vissuto nella luce della promessa, il farsi dei «cieli nuovi» e della «terra nuova», ove Dio sarà «tutto in tutti» (1Cor 15,28).

Quello che abbiamo lasciato per strada, tante volte, come discepoli di Gesù, e che papa Francesco e il patriarca Bartolomeo c’invitano a riaccendere, è innanzi tutto questa grazia: il fatto che possiamo guardare in modo nuovo, contemplativo e performativo, agli altri e al mondo, perché prima, e sempre di nuovo, ci lasciamo sorprendere dallo sguardo d’amore senza misura con cui Dio stesso ci guarda: «Tu, Signore, ami tutte le cose che esistono… Come potrebbe sussistere una cosa, se tu non l’avessi voluta?… Tu, Signore amante della vita» (Sap 11,25-27).

La questione decidente del nostro tempo è una questione di sguardo. La conversione ecologica può nascere e nutrirsi solo da una conversione dello sguardo e da un’educazione mistagogica dello sguardo. Lo sviluppo del pensiero razionale, delle scienze, della tecnica lungo i secoli della modernità – senza che quasi ce n’accorgessimo –, con tutti i preziosi guadagni che ha portato con sé, ha però rischiato di distogliere progressivamente il nostro sguardo dall’orizzonte della Luce in cui esso s’accende penetrando con stupore e gratitudine nella verità delle cose e giudicando con rettitudine per farci agire secondo la misura della giustizia e dell’amore. È questo lo sguardo che ha origine da un altro sguardo: quello del Creatore e Signore di tutto, quello di Dio Trinità.

«Tu mi conosci»
L’uomo, infatti, conosce perché è conosciuto. Riecheggiando il Salmo 139, la liturgia latina canta: «Prima che io nascessi, mio Dio, tu mi conosci».

Quella dell’uomo, è la conoscenza di chi si conosce creatura: la conoscenza, cioè, di colui che scopre, destandosi al miracolo della vita, d’essere creato «a immagine e somiglianza di Dio», l’Altissimo, il tre volte Santo (cf. Gen 14,22 e Is 6,3). Per questo, da sempre, l’uomo e la donna attraverso le meraviglie del creato conoscono – anche se quaggiù nel chiaroscuro di ciò che non è ultimo ma penultimo soltanto –, la Luce senza tramonto del mistero di Dio che inonda, avvolge, sostiene e promuove il creato nel suo cammino verso la patria (cf. Rm 1,19-20).

L’uomo contempla nel creato l’impronta del Creatore quando si scopre egli stesso conosciuto e voluto con amore dal Creatore quale sua creatura, nel più profondo del suo essere e in tutte le espressioni del suo esistere. Anche se questa conoscenza gli resta velata, è fragile, può essere offuscata e persino obliata. Sin quando è venuto lui, il Cristo, il Figlio di Dio che, facendosi carne (cf. Gv 1,14), s’è fatto in tutto, fuorché nel peccato, figlio dell’uomo. È Lui che per sempre ha dissolto la tenebra in Luce: «Nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare» (Mt 11,27).

Gesù è l’attestazione sfolgorante di questo: Egli è Figlio perché è conosciuto (generato) da Dio che è Padre. Il suo essere è tutto e solo racchiuso ed espresso nel suo essere conosciuto dal Padre come il Figlio (ὁμοούσιος τῷ Πατρὶ, confessa il primo Concilio ecumenico di Nicea: della stessa sostanza del Padre). È così che egli a sua volta conosce il Padre e comunica questa conoscenza agli uomini partecipando loro lo Spirito che dal Padre ha ricevuto: «Che voi siete figli ne è prova il fatto che lo Spirito grida nei vostri cuori: Abbà, Padre» (Gal 4,7). Come insegna sant’Ireneo di Lione, «la conoscenza del Padre è il Figlio, e la conoscenza del Figlio di Dio si attua per mezzo dello Spirito Santo»[4].

Conoscere la creazione in Dio
L’evento dell’incarnazione, che si compie nella pasqua in cui il Figlio dona la sua vita per riprenderla nuova (cf. Gv 10,17), consegnando «senza misura» (Gv 3,34) lo Spirito (cf. Gv 19,30) ai fratelli, rivela e porta a compimento la verità, la bontà e la bellezza della creazione: «Tutto è stato fatto per mezzo di Lui, e senza di Lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste» (Gv 1,10); «Tutte le cose sono state create per mezzo di Lui e in vista di Lui, egli è prima di tutte le cose e tutte sussistono in Lui» (Col 1,16-17).

Resi partecipi per grazia della divina figliolanza di Cristo, e illuminati dalla luce (δόξα) effusa dallo Spirito Santo, noi riceviamo lo sguardo di Cristo stesso, il suo pensiero (νοῦς) (cf. 1Cor 2,16): così che possiamo non soltanto conoscere Dio attraverso le sue creature, come in un riflesso terso in cui si specchia il Sole, ma veniamo introdotti a conoscere le creature nell’interiorità della vita della santissima Trinità – come accolti in una voragine d’amore – con lo sguardo di Dio stesso. Scrive san Giovanni della Croce, il mistico dottore:

«L’anima allora vede come tutte le creature celesti e terrestri hanno la propria vita e la propria durata in Dio […]. Anche se è vero che l’anima in tale stato vede come queste cose, in quanto create, sono distinte da Dio e le scorge in Lui con tutta la loro forza, radice e vigore, tuttavia è così profonda la conoscenza che ha di Dio, come di colui il quale contiene eminentemente nel suo essere tutte queste cose, che le conosce meglio nell’essere divino che in sé stesse. Questo è il grande diletto di tale risveglio: conoscere le creature per mezzo di Dio e non Dio per mezzo delle creature»[5].

È così descritta, certo, una singolare grazia mistica, di cui non sono poche le meravigliose testimonianze nella grande tradizione cristiana di contemplazione e santità, in Oriente come in Occidente. Ma la conversione dello sguardo – il «risveglio», lo chiama san Giovanni della Croce – operata dalla fede che ci fa essere e vivere in-Cristo nell’amore della santissima Trinità, dischiude per tutti l’accesso a questo sguardo nuovo sulla creazione. Così che è Cristo in noi a guardarla, contemplandola e camminando in essa e con essa.

Ma come guarda e contempla la creazione Cristo, Cristo in noi? Come dono di Dio; come tessuta in una rete di relazioni in cui le creature sono rese partecipi della vita di Dio Trinità; come attivamente coinvolta nelle doglie di un immenso parto, che è la pasqua di Cristo dilatata a misura dell’umanità e del cosmo.

Una parola soltanto su ciascuno di questi raggi di Luce nuova e intensa che sono proiettati, nello Spirito Santo, dallo sguardo di Cristo crocifisso e risorto sulla creazione: ciascuno di essi dischiude un orizzonte sapienziale di straordinaria portata anche per l’interpretazione cosmologica, scientifica, tecnologica della realtà.

Come dono
Innanzi tutto, quello di Cristo è lo sguardo che contempla la creazione come dono di Dio. Descrivendo il significato e il fine dell’attività umana nell’universo, il Concilio Vaticano II insegna nella Costituzione pastorale Gaudium et spes:

«Tutte le attività umane, che son messe in pericolo quotidianamente dalla superbia e dall’amore disordinato di se stessi, devono venir purificate e rese perfette per mezzo della croce e della risurrezione di Cristo. Redento da Cristo e diventato nuova creatura nello Spirito Santo, l’uomo, infatti, può e deve amare anche le cose che Dio ha creato. Da Dio le riceve: le vede come uscire dalle sue mani e le rispetta. Di esse ringrazia il divino benefattore e, usando e godendo delle creature in spirito di povertà e di libertà, viene introdotto nel vero possesso del mondo, come qualcuno che non ha niente e che possiede tutto: “Tutto, infatti, è vostro: ma voi siete di Cristo e il Cristo è di Dio” (1Cor3,22)» (n. 37).

La logica divina sottesa alla creazione è la logica stupefacente del dono. E tale è decifrata, accolta e incentivata dall’uomo quando è illuminata e gestita secondo la sua originaria intenzionalità: tutto è creato in dono per ciascuno e per tutti e ciascuno è creato in dono per ciascun altro e per tutti. «In ogni conoscenza e in ogni atto d’amore – scrive Papa Benedetto XVI nella Caritas in veritate – l’anima dell’uomo sperimenta un “di più” che assomiglia molto a un dono ricevuto, a un’altezza a cui ci sentiamo elevati» (n. 77).

Di qui un atteggiamento non di possesso ma di povertà e sobrietà, non di idolatria ma di libertà e condivisione. Le creature – insegna la dottrina sociale della Chiesa – hanno per sé una destinazione universale: non sono per pochi privilegiati, ma per tutti, nessuno escluso. È questa la «regola d’oro» del comportamento sociale, economico, politico, il suo «primo principio» (cf. Laudato si’, 93; Laborem exercens, 19). Le cose create non sono semplici strumenti da usare (uti): ma, contemplate come dono nel loro scaturire, al presente, dalle mani di Dio, vanno accolte e godute (frui) nello spirito dossologico della lode, del ringraziamento, della comunione.

Le relazioni, impronta trinitaria
Ma ecco un ulteriore, strabiliante orizzonte di contemplazione: nello sguardo di Cristo, il creato non è più guardato dal di fuori ma dal di dentro, riconoscendo le innumerevoli relazioni che legano tra loro in armonia tutte le creature (cf. Laudato si’, 220).

La tradizione della teologia e della spiritualità cristiana ha costantemente e meravigliosamente illuminato l’impronta di questa dinamica trinitaria e trinitizzante che è presente in ogni creatura e nella relazione che le diverse creature vivono l’una rispetto all’altra. Così la descrive – in pochi tratti di folgorante intensità mistica – Chiara Lubich:

«Nella Creazione tutto è Trinità: Trinità le cose in sé, perché l’Essere loro è Amore, è Padre; la Legge in loro è Luce, è Figlio, Verbo; la Vita in loro è Amore, è Spirito Santo. Il Tutto partecipato al Nulla.

E sono Trinità fra loro, ché l’una è dell’altra Figlio e Padre, e tutte concorrono, amandosi, all’Uno, donde sono uscite.

E ciò attraverso l’uomo che s’india nella Santa Comunione»[6].

Sì, tutto confluisce ed è portato in Dio in virtù dell’Eucaristia. L’Eucaristia – intuiva Maurice Blondel – è il «vincolo sostanziale» dell’universo: il farsi «tutto in tutti» di Cristo grazie al suo corpo donato e al suo sangue versato, che a tutti e in tutto si comunica mediante il frutto della terra e del lavoro dell’uomo. Secondo le parole di Gesù: «Come il Padre, che è il Vivente, ha mandato me e io vivo per (διά: in virtù del) Padre, così anche colui che mangia ma anch’egli vivrà per (διά: in virtù di) me» (Gv 6,57). L’Eucaristia «è di per sé un atto di amore cosmico» (Laudato si’, 236).

Grazie ad essa si realizza la vocazione della persona umana che – scrive Papa Francesco – «tanto più cresce, matura e si santifica quanto più entra in relazione, quando esce da sé stessa per vivere in comunione con Dio, con gli altri e con tutte le creature. Così assume nella propria esistenza il dinamismo trinitario che Dio ha impresso in lei fin dalla sua creazione» (Laudato si’, 240).

Allora – come canta Francesco d’Assisi dopo l’esperienza d’immedesimazione con Cristo Crocifisso vissuta a La Verna, che gli fa contemplare il mondo con gli occhi d’amore di Dio – si riconoscono e trattano da fratelli e sorelle non solo le persone umane, ma le creature tutte: il sole, la luna, le stelle, il vento, l’acqua, il fuoco, la madre terra… Francesco entra in dialogo con tutte le creature e – come narra Tommaso da Celano – predica persino agli uccelli e ai fiori, invitandoli «a lodare e amare Iddio, come esseri dotati di ragione»[7].

«Lo scopo finale delle altre creature non siamo noi. Tutte avanzano, insieme a noi e attraverso di noi, verso la meta comune, che è Dio, in una pienezza trascendente dove Cristo risorto abbraccia e illumina tutto» (Laudato si’, 83).

Le doglie del parto
Resta sullo sfondo un interrogativo trafiggente, drammatico, tanto spesso tragico e a un primo sguardo insormontabile: e la sofferenza, la miseria, la sconfitta, il fallimento, la morte?

Se Cristo non è risorto vana è la nostra fede (cf. 1Cor 15,17). Ma la sapienza (σοϕία) e la potenza (δύναμις) di Dio, che sfolgorano nella risurrezione, scaturiscono da Cristo crocifisso (cf. 1Cor 1,22-24). Non è, questa, una verità solo spirituale e religiosa: ma onto-logica e dunque – al suo proprio livello e con le sue specifiche modalità d’espressione – è una verità antropologica, etica, cosmologica. La conversione ecologica dello sguardo è chiamata a inoltrarsi, in profondità, con fede e ardimento, nell’orizzonte inedito dischiuso dalla Pasqua di morte e risurrezione di Gesù anche nel discernimento e nella gestione di ciò che ostacola e si oppone al cammino della vita e dell’amore.

Non è Gesù stesso, guardando alla legge trinitaria della vita che è amore inscritta nella natura, a illuminare la dinamica trasformante e divinizzante di ciò che avviene nella sua Pasqua riferendosi al chicco di grano che, cadendo in terra, porta molto frutto (Gv 12,24)? e alla donna che, «quando partorisce, è nel dolore, perché è venuta la sua ora; ma, quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più della sofferenza, per la gioia che è venuto al mondo un uomo» (Gv 16,21)?

Indirizzando lo sguardo, attraverso Cristo crocifisso e risorto, con discrezione, timor di Dio, umiltà e tenerezza, in questo misterioso ma reale orizzonte di senso, si può intuire qualcosa della dinamica pasquale dell’amore di Dio che si fa strada nel travagliato processo che coinvolge la storia umana e l’intero cosmo, così come lo descrive Paolo nella lettera ai Romani:

«Sappiamo che tutta la creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi. Non solo, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo. Nella speranza infatti siamo stati salvati» (Rm 8, 22-24a).

La sofferenza, la prova, la tragedia, la morte sono già riscattante in Cristo crocifisso e risorto e possono diventare, attraverso la nostra com-passione, espressione e strumento di un amore più grande: fatto di misericordia, di solidarietà, di giustizia, di speranza, di vita nuova, secondo la parola dell’apostolo Paolo: «Sono lieto nelle sofferenze che sopporto per voi e do’ compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa» (Col 1,24).

C’è un rapporto stretto, non più separabile, tra il grido dei poveri e il grido della terra (cf. Laudato si’, 49). Il Verbo (Λόγος) di Dio s’è fatto Egli stesso grido, questo grido, ogni grido, sul legno della croce: «un grido che dice allo stesso tempo il trionfo dell’amore di Dio e la verità e profondità della sua incarnazione»[8].

Conversione ecologica
La conversione ecologica è innanzi tutto conversione dello sguardo: questo il messaggio che in stupenda e affascinante sinfonia c’indirizzano Papa Francesco e il Patriarca Bartolomeo.

Assumendo il dono, la responsabilità e la creatività di questo sguardo di sapienza e misericordia in-Cristo si possono e debbono intraprendere con spirito e realismo percorsi costruttivi di dialogo con l’interpretazione filosofica, scientifica e tecnica della creazione: a proposito delle grandi questioni etiche che interpellano oggi la coscienza umana intorno al mistero della vita, così come a proposito delle tecniche adeguate per una promozione sostenibile e fraterna dello sviluppo sociale e ambientale.

Non si tratta di una semplice un’utopia, né soltanto di un imperativo etico. La fede in Cristo attesta che questo sguardo è espressione di un evento ontologico che è accaduto «una volta per sempre» e che di continuo riaccade: quando dal cuore, tacita o espressa, sboccia in noi, per impulso tenero e forte dello Spirito Santo, la disponibilità di Maria all’annuncio sorprendente dell’angelo: «γένοιτό μοι κατὰ τὸ ῥῆμά σου» (Lc 1,38).

Allora, con Maria, tutto in Cristo crocifisso e risorto si trasfigura: come la Chiesa d’Oriente canta nell’inno Akathistos, rivolgendosi a Maria, χώρα τοῦ Θεοῦ τοῦ ἀχοράτου: «Tu porti Colui che il tutto sostiene. Ave, o stella che il Sole precorri; Ave, o grembo del Dio che s’incarna. Ave, per Te si rinnova il creato».

Pubblichiamo, per gentile concessione dell’autore, la relazione presentata alla quinta edizione dello «Halki Summit», a Istanbul (8-12 giugno 2022), incentrata sulla sfida ecologica nel magistero di Papa Francesco e del Patriarca Ecumenico Bartolomeo (cf. qui su SettimanaNews).

[1] Patriarca Ecumenico Bartolomeo I, Incontro al mistero, Qiqajon, Magnano 2013, pp. 74 e 87.

[2] Id., Grazia cosmica, umile preghiera. La visione ecologica del patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo I, a cura di J. Chryssavgis, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 2007, p. 189.

[3] H. Bergson, Les deux sources de la morale et de la religion (1932), tr. it., Edizioni di Comunità, Milano 1947.

[4] Cf. Ireneo di Lione, Dimostrazione della predicazione apostolica, 4-10.

[5] Giovanni della Croce, Fiamma viva d’amore B, str. 4, 5, in Id., Opere, Roma 1979, p. 823-824.

[6] Testo inedito (1949).

[7] Tommaso da Celano, Vita prima di San Francesco, XXIX, 81: 660.

[8] Marie-Eugène de l’Enfant Jésus, Je veux voir Dieu, Ed. du Carmel, Venasque 1998, p. 1016.
Settimana News

Per una teologia che odora di strada

Un estratto del discorso di Papa Francesco ai membri della direzione della rivista teologica “La Scuola Cattolica” (17 giugno 2022)

«…L’esercizio vivace dell’intelligenza credente è servizio prezioso alla fede viva della Chiesa. La comunità, in effetti, ha bisogno del lavoro di coloro che tentano d’interpretare la fede, di tradurla e ritradurla, di renderla comprensibile, di esporla con parole nuove: un lavoro che occorre rifare sempre, ad ogni generazione (…), la fatica di ridefinire il contenuto della fede in ogni epoca, nel dinamismo della tradizione. Ed è per questo che il linguaggio teologico dev’essere sempre vivo, dinamico, non può fare a meno di evolversi e deve preoccuparsi di farsi comprendere.

A volte le prediche o le catechesi che ascoltiamo sono fatte in buona parte di moralismi, non abbastanza “teologiche”, cioè poco capaci di parlarci di Dio e di rispondere alle domande di senso che accompagnano la vita della gente, e che spesso non si ha il coraggio di formulare apertamente. Uno dei maggiori malesseri del nostro tempo è infatti la perdita di senso, e la teologia, oggi più che mai, ha la grande responsabilità di stimolare e orientare la ricerca, di illuminare il cammino.

Domandiamoci sempre in che modo sia possibile comunicare le verità di fede oggi, tenendo conto dei mutamenti linguistici, sociali, culturali, utilizzando con competenza i mezzi di comunicazione, senza mai annacquare, indebolire o “virtualizzare” il contenuto da trasmettere. Quando parliamo o scriviamo, teniamo sempre presente il legame tra fede e vita, stiamo attenti a non scivolare nell’autoreferenzialità.

In particolare voi, formatori e docenti, nel vostro servizio alla verità, siete chiamati a custodire e comunicare la gioia della fede nel Signore Gesù, e anche una sana inquietudine, quel fremito del cuore di fronte al mistero di Dio. E sapremo accompagnare altri nella ricerca quanto più viviamo noi questa gioia e questa inquietudine. Cioè quanto più siamo “discepoli”.

Un bravo formatore esprime il proprio servizio in un atteggiamento che possiamo chiamare “diaconia della verità”, perché in gioco c’è l’esistenza concreta delle persone, che spesso vivono senza sicure certezze, senza orientamenti condivisi, sotto il martellante condizionamento di informazioni, notizie e messaggi molte volte contraddittori, che modificano la percezione della realtà, orientando all’individualismo e all’indifferentismo.

… In questo cammino non può sottrarsi al dialogo con il mondo, con le culture e le religioni. Il dialogo è una forma di accoglienza e (…) in effetti, insegnare e studiare teologia significa vivere su una frontiera, quella in cui il Vangelo incontra le necessità reali della gente. Anche i buoni teologi, come i buoni pastori, odorano di popolo e di strada e, con la loro riflessione, versano olio e vino sulle ferite di molti.

Né la Chiesa né il mondo hanno bisogno di una teologia “da tavolino”, ma di una riflessione capace di accompagnare i processi culturali e sociali, in particolare le transizioni difficili, facendosi carico anche dei conflitti. Dobbiamo guardarci da una teologia che si esaurisce nella disputa accademica o che guarda l’umanità da un castello di vetro (cfr Lettera al Gran Cancelliere della Pontificia Universidad Católica Argentina, 3 marzo 2015)…

Abbiamo bisogno di una teologia viva, che dà “sapore” oltre che “sapere”, che sia alla base di un dialogo ecclesiale serio, di un discernimento sinodale, da organizzare e praticare nelle comunità locali, per un rilancio della fede nelle trasformazioni culturali di oggi… Una teologia capace di dialogo con il mondo, con la cultura, attenta ai problemi del tempo e fedele alla missione evangelizzatrice della Chiesa…

Ricordiamoci sempre che è lo Spirito Santo che ci introduce nel Mistero e dà impulso alla missione della Chiesa. Per questo “l’abito” del teologo è quello dell’uomo spirituale, umile di cuore, aperto alle infinite novità dello Spirito e vicino alle ferite dell’umanità povera, scartata e sofferente. Senza umiltà lo Spirito scappa via, senza umiltà non c’è compassione, e una teologia priva di compassione e di misericordia si riduce a un discorso sterile su Dio, magari bello, ma vuoto, senz’anima, incapace di servire la sua volontà di incarnarsi, di farsi presente, di parlare al cuore. Perché la pienezza della verità – alla quale lo Spirito conduce – non è tale se non è incarnata…».

vinonuovo.it

Teologia / Fidanzati, matrimonio, catecumenato: alcune note sul recente documento vaticano

vinonuovo.it – A metà giugno scorso è uscito, a nome del Dicastero per i laici, la famiglia e la vita, un documento dal titolo: Itinerari catecumenali per la vita matrimoniale. Orientamenti pastorali per le chiese particolari. Come al solito un documento corposo, che dichiara due obiettivi espliciti.
Il primo è quello di «esporre alcuni principi generali e una proposta pastorale concreta e complessiva, che ogni Chiesa locale è invitata a prendere in considerazione nell’elaborazione di un proprio itinerario catecumenale per la vita matrimoniale» (n. 2). Quindi linee guida generali, che ogni chiesa locale considererà come «un vestito che va cucito su misura per le persone che lo indosseranno (papa Francesco, nella prefazione), per ristrutturare la pastorale di accesso al sacramento del matrimonio.

La crisi della famiglia e del matrimonio è sotto gli occhi di tutti. Il documento vuole tentare di essere «un antidoto che impedisca il moltiplicarsi di celebrazioni matrimoniali nulle o inconsistenti» (prefazione). Perciò, così come all’epoca del concilio di Trento l’istituzione dei seminari cercò di ridare spessore e qualità alla vita sacerdotale, ora si tenta di fare lo stesso con gli sposi. È questo è già un elemento positivo, perché finalmente si recepisce e si cerca di colmare una discrepanza tra differenti vocazioni, che lo stesso Papa evidenzia: «La Chiesa è madre, e una madre non fa preferenze fra i figli. Non li tratta con disparità, dedica a tutti le stesse cure, le stesse attenzioni, lo stesso tempo. Dedicare tempo è segno di amore: se non dedichiamo tempo a una persona è segno che non le vogliamo bene. Questo mi viene in mente tante volte quando penso che la Chiesa dedica molto tempo, alcuni anni, alla preparazione dei candidati al sacerdozio o alla vita religiosa, ma dedica poco tempo, solo alcune settimane, a coloro che si preparano al matrimonio. Come i sacerdoti e i consacrati, anche i coniugi sono figli della madre Chiesa, e una così grande differenza di trattamento non è giusta» (prefazione). Dunque, oltre alla cura che la Chiesa, nei suoi vari organismi e gradi, riserva alla formazione al sacerdozio, così è necessario che medesima cura e simile attenzione, almeno nelle intenzioni, sia riservata ai fidanzati, dimostrando davvero che non esistono ‘preferenze’ tra vocazioni.

Ma ad attirare la nostra attenzione è anche il secondo obiettivo dichiarato nel testo: «Solo riscoprendo il dono dell’essere cristiani – nuove creature, figli di Dio, amati e chiamati da Lui – è possibile un chiaro discernimento sul sacramento nuziale, in continuità con la propria identità battesimale e come realizzazione di una specifica chiamata di Dio» (n. 45). In altre parole ci si è resi conto che dietro la crisi della famiglia e del matrimonio c’è una vera e propria crisi di fede. Perciò, non si può dare per scontato che le coppie che chiedono il sacramento siano coppie che effettivamente vivono la fede in Cristo. Così accade, ed è esperienza diffusa tra gli operatori pastorali, che «coloro che si affacciano alla preparazione al matrimonio con una esperienza di fede molto approssimativa e senza partecipare attivamente alla vita ecclesiale” (n. 35), “[…] oltre a fare un primo discernimento nel fidanzamento, hanno bisogno di approfondire la propria identità battesimale” (n. 37). Per questo motivi il percorso proposto ha le forme tipiche del catecumenato, cioè del cammino di ingresso (o riscoperta) della fede.

Nel percorso proposto sono soprattutto la prima fase (pre-catecumenale) e il primo tempo (accoglienza) della fase catecumenale, ad essere pensate come «annuncio del kerygma, in modo che l’amore misericordioso di Cristo costituisca l’autentico “luogo spirituale” in cui una coppia viene accolta» (n. 38).

Bella idea, abbiamo pensato. Visto che ancora qualcuno entra in Chiesa per sposarsi, quale occasione migliore affinché ciò diventi una riscoperta della propria fede, qualora essa si sia un po’ sopita…. Ed è apprezzabile che, in questo tentativo, si ipotizzi di dover ricominciare proprio dal fondamento della fede: il kerygma, cioè l’esperienza di essere toccati dall’annuncio gioioso della morte e resurrezione di Cristo, esperienza che può cambiare profondamente la mia vita. Era questa già un’intuizione di Evangelli Gaudium, che non a caso è citata nella nota 18: «Gesù Cristo ti ama, ha dato la sua vita per salvarti, e adesso è vivo al tuo fianco ogni giorno, per illuminarti, per rafforzarti, per liberarti (EG 164-165).
In realtà, da tempo la nostra pastorale sperimenta come le forme e i modi che abbiamo di evangelizzare non siano per nulla in grado di andare in questa direzione. E da qui poi la necessità, ormai dichiarata da tutti di una nuova evangelizzazione. Ma è pure evidente come proprio su questo la Chiesa sia ancora quasi tutta al palo, e le strade concrete di questo “secondo annuncio” (come ben lo definisce E. Biemmi) siano ancora molto difficili da tracciare.

Il documento sembra essere consapevole di questa situazione tanto da dire che: «si rende necessario un serio ripensamento del modo in cui nella Chiesa si accompagna la crescita umana e spirituale delle persone» (n. 15). E, in effetti, ci prova ad aprire alcune prospettive di un “serio ripensamento”, almeno ad uno sguardo sintetico. Qui si aprirebbe un discorso anche sul tema dell’Iniziazione cristiana, che però non vogliamo prendere in considerazione al momento; già è bene aver detto che bisogne rivedere e ripensare i modi di accompagnamento della crescita.
Certamente, da ciò deriverebbe che la preparazione al matrimonio richiede una certa serietà e una maturazione, domanda tempo, cammino, verifica, condivisione. Che la dimensione umana della relazione sponsale non può essere separata da quella spirituale, perché altrimenti questa diventa una pure etichetta di “cristiano”, senza consistenza. Che chi è chiamato ad accompagnare le coppie in questi cammini deve avere una formazione solida, pluridisciplinare, relazionale e continuativa (su cui il documento anche interviene). Infine, che le comunità locali possono essere in grado di dare attuazione con creatività, elasticità e personalizzazione alle linee programmatiche. Già questo basterebbe, se realizzato davvero, a segnalare un “serio ripensamento” della pastorale media per le coppie. Perciò sarebbe già molto.
Ma temiamo che, scendendo in una lettura più analitica del documento, si mostrino alcuni aspetti che finiscono per essere veri e propri freni e impedimenti a questo stesso “serio ripensamento” dichiarato. Sembra che permangono alcune tensioni non risolte, talune spinte un poco contraddittorie.

Negli articoli successivi proveremo a mettere a fuoco, passo passo, tali nodi e tali tensioni, anche in dialogo con i lettori, perché ci sta a cuore che la riflessione sulla preparazione al matrimonio non sia solo questione di ‘addetti ai lavori’: come riconosce il papa, «Le coppie di sposi costituiscono la grande maggioranza dei fedeli, e spesso sono colonne portanti nelle parrocchie, nei gruppi di volontariato, nelle associazioni, nei movimenti»: in questo modo crediamo di rispondere anche a un appello dello stesso Francesco: «Faccio appello, perciò, alla docilità, allo zelo e alla creatività dei pastori della Chiesa e dei loro collaboratori, per rendere più efficace questa vitale e irrinunciabile opera di formazione, di annuncio e di accompagnamento delle famiglie, che lo Spirito Santo ci chiede di realizzare in questo momento» (prefazione).

Ma da quando Dio, il Dio della Bibbia, è diventato puro spirito? Due recenti volumi riaprono la discussione, con spunti tutt’altro che banali. E utili anche oggi

ono usciti quasi in contemporanea alcuni volumi che si occupano della rappresentazione corporea di Dio, e già questa mi sembra comunque una notizia; poiché la convinzione universale che la divinità consistesse in puro spirito pareva incontrovertibile, o almeno abbastanza da non ammettere revisioni o pareri contrari.

Invece sia Christoph Markschies, che ne tratta accademicamente ne «Il corpo di Dio» (Paideia), sia Francesca Stavrakopoulou che con toni più divulgativi e scanzonati affronta l’«Anatomia di Dio» (Bollati Boringhieri) – e ci sarebbe anche di Giovanni Ibba «Con le ali si coprivano i piedi», più specifico sulla sessualità nella Bibbia – avvisano che l’antropomorfismo della divinità non può essere facilmente liquidato come appannaggio di popolazioni incolte e primitive; non foss’altro in quanto nella Bibbia ebraico-cristiana – da cui tutti dipendiamo – la corporeità fisica di Dio è onnipresente e fuori discussione.

I passi del Creatore nel giardino dell’Eden, la lotta di Yahwé con Giacobbe, Mosé che sull’Oreb ne vede «la gloria» infatti non sono per nulla metafore, come invece sempre si interpreta. «Il Dio testimoniato negli scritti biblici – chiarisce Markschies – non può essere ridotto senza perdita sostanziale a essere incorporeo, assolutamente trascendente, come di solito avviene».

E difatti nel mondo cristiano dei primi secoli (ma anche nell’ebraismo) la questione venne lungamente discussa con orientamenti opposti, prima che prevalesse – da Agostino in poi – la concezione spiritualizzata del corpo di Dio, di derivazione neoplatonica; l’apologeta Tertulliano per esempio sostenne (contrastato da Origene) che la divinità doveva essere per forza corporea, ancorché non in forma umana e di una materia non terrena.

È dunque divertente, soprattutto nel volume di Stavrakopoulou, considerare le conseguenze pratiche della corporeità divina, per esempio le elucubrazioni sulla estensione gigantesca del suo fisico o addirittura su certe parti anatomiche che non ci aspetteremmo in Dio. Ma più seriamente la lettura suscita e poi mette esplicitamente a tema varie questioni di non poco conto. Ne enumeriamo soltanto tre.

  1. Anzitutto «la verità del mito» della corporeità di Dio – come la chiama Markschies – ha il merito di «impedire di trasferire semplicemente a Dio i dualismi netti di corpo (o materia) e spirito e di pensarlo come puro essere spirituale», e dunque di conseguenza di correre il rischio di svalutare sul piano religioso tutto quanto attiene alla materia. Un vantaggio che, nella corrente sensibilità per il corporeo, non mi pare secondario: almeno in chiave pastorale.
  2. Qualora non si riconoscesse la corporeità di Dio, si porrebbe poi (ancora Markschies) «un problema teologico di primaria grandezza», ovvero una evidente differenza fra le tre Persone della Trinità: una delle quali – secondo la dottrina – sarebbe presente in cielo con un corpo, sia pure divinizzato. (Già, ma cosa vuol dire questo aggettivo: che il corpo del Risorto è “diverso” da quello del Cristo storico? Per chiudere una falla, si rischia così di aprirne una ancora maggiore…).
  3. Infine si pone la questione della corporeità di Cristo stesso. Se infatti il Padre ha biblicamente un corpo, come interpretare l’incarnazione del Figlio? Oppure è quest’ultimo (dice Stavrakopoulou) il nuovo «detentore assoluto del monopolio esclusivo sulla corporeità divina» e in pratica l’incarnazione e poi l’eucaristia sono responsabili della spiritualizzazione neoplatonica del Padre?

Questioni di lana caprina, si dirà. Può essere. Intanto però nel Credo ogni domenica continuiamo a ripetere meccanicamente che il Figlio è «della stessa sostanza del Padre» e proprio su faccende come questa si sono consumate nella cristianità fratture che durano da millenni.

Nella foto: impronte “divine” nel tempio ittita di Ain Dara, in Siria

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