Sinodo: il contributo della teologia e del diritto

Sinodalità e teologia - Pontificia Università Gregoriana

di: Piero Coda – settimananews.it

La Relazione di sintesi della prima Sessione della XVI Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi contempla tra le proposte quella di «promuovere, in sede opportuna, il lavoro teologico di approfondimento terminologico e concettuale della nozione e della pratica della sinodalità prima della seconda Sessione dell’Assemblea, giovandosi del ricco patrimonio di studi successivi al Concilio Vaticano II e, in particolare, dei documenti della CTI su La sinodalità nella vita e nella missione della Chiesa (2018) e Il sensus fidei nella vita della Chiesa (2014)» (I, 1, p).

La Relazione formula peraltro anche la seguente proposta: «Si valutino i frutti della Prima Sessione della XVI Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi» (III, 20, j).

L’esigenza di un apporto più organico e articolato della teologia e del diritto canonico è stata in effetti ampiamente registrata ed espressa a conclusione dell’Assemblea, invitando a un impegno più preciso e determinato sia nella fase di istruzione dei temi sia nella fase di elaborazione del discernimento e della presa di decisione.

Tutto ciò invita a un ulteriore impegno nella previsione della metodologia da implementare per promuovere un adeguato contributo della competenza teologica e canonistica allo sviluppo del processo sinodale.

Tre, a mio parere, possono essere le direttrici di marcia per raggiungere questo obbiettivo nel percorso tra la prima e la seconda Sessione dell’Assemblea del Sinodo:

tenendo conto della necessità che sia «approfondito e chiarito il modo con cui gli esperti di diverse discipline, in particolare teologi e canonisti, possono dare il loro apporto ai lavori dell’assemblea sinodale e ai processi di una Chiesa sinodale» (III, 20, g), mettere a fuoco il metodo di lavoro dell’intelligenza teologica e canonistica precisandone il rapporto ermeneutico e critico di circolarità, alla luce della Parola di Dio e della Tradizione, con il sensus fidei e l’esperienza del Popolo di Dio, col magistero vivo, con i segni dei tempi, nella prospettiva del “cambiamento d’epoca” che stiamo vivendo – trattasi di una imprescindibile messa a fuoco epistemologica dello statuto e del metodo della teologia e del diritto canonico che, in sintonia col Vaticano II, si traduce nell’invito a compiere un passo in avanti per molti versi inedito, sintonizzandosi in profondità sulla novità propiziata dal processo sinodale;
attivare questa rinnovata coscienza epistemologica grazie a una dinamica effettivamente sinodale nella messa in opera della competenza teologica e canonistica attraverso l’ascolto reciproco, il dialogo, il discernimento comunitario che coinvolga i teologi e i canonisti che partecipano al processo – trattasi di una imprescindibile condizione di esercizio dell’intelligenza teologica e canonistica che si produca in forma sinodale al fine di poter con pertinenza offrire il contributo richiesto allo sviluppo e all’esito efficace del processo sinodale che coinvolge l’intero Popolo di Dio;
rivedere, anche tenendo conto di ciò, la configurazione e la pratica del metodo della «conversazione nello Spirito» affinché preveda un’opportuna e incisiva coniugazione tra la dimensione spirituale-esistenziale e la dimensione intellettuale-pratica, in conformità alla vocazione d’intelligenza della fede, che è propria della teologia, e all’impegno della determinazione normativa della prassi ecclesiale, che è propria del diritto canonico – trattasi di rispondere con ciò, da un lato, all’invito rivolto in generale a «chiarire in che modo la conversazione nello Spirito possa integrare gli apporti del pensiero teologico e delle scienze umane e sociali» (I, 2, h), e, dall’altro, all’invito rivolto in particolare a «gli esperti nei diversi campi del sapere a maturare una sapienza spirituale che consenta alla loro competenza specialistica di divenire un vero servizio ecclesiale. La sinodalità in questo ambito si esprime come disponibilità a pensare insieme a servizio della missione, nella diversità delle impostazioni, ma nell’armonia degli intenti» (III, 15, i).
Per avviare una riflessione in merito e giungere a risultati apprezzabili e fruibili nel processo sinodale, risulta essenziale un’adeguata riconfigurazione, sulla base del cammino sin qui svolto, di un gruppo di lavoro snello e sinergico con questo obiettivo che sia espressione qualificata delle diverse competenze in gioco.
settimananews.it

Spiritualità. Eucaristia. Quel dono di vita che in tante liturgie non giunge al cuore

In un momento in cui tanti cristiani si chiedono che senso abbia frequentare celebrazioni spesso slegate dall’umana quotidianità, un libro riesce a far vivere la messa con l’incanto del primo amore

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Papa Francesco: elevazione eucaristica

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Una questione di vita vera. Fin dalle prime battute di questo libro si resta stupiti dalla capacità dell’autore di tradurre in parole e con “credibile pienezza” il tema della centralità dell’Eucaristia per il cristiano. Lui stesso, del resto, sottolinea che il suo essere prete ha avuto una “sterzata” nel momento in cui la vita concreta si è “finalmente” incrociata con la gioiosa presenza del Risorto nella liturgia eucaristica, ricevendone la consapevolezza che in essa c’è la radice, il cuore, il senso di ogni cosa. Ma anche la certezza che se perdessimo Dio o giungessimo a negarlo la nostra vita diventerebbe un incomprensibile involucro vuoto. Un rischio dal quale, però (e anche questo lo si dice al principio), è Maria che si incarica di liberarci: bussa al nostro cuore e se scegliamo di aprire, lei torna a indicarci la strada. Perché fede è amore, Dio è amore, Eucaristia è amore, il senso della vita è amore. E dopo un prologo così scoperto e incisivo l’autore fornisce alla stessa maniera una spiegazione teologico-spirituale del perché lui vive e desidera così tanto restare ancorato all’Eucaristia, quindi al rito della Messa e, di conseguenza, a Maria. Stiamo parlando di Cos’è la Messa? (Cantagalli, pagine 87, euro 14) di Ricardo Reyes Castillo, sacerdote e parroco della diocesi di Roma oltre che dottore in Sacra liturgia.

Un libro che nei fatti è una vera e propria dichiarazione d’amore in un momento storico in cui sempre più spesso i cristiani, anche fra i più assidui alla messa, si domandano per quale ragione frequentare liturgie domenicali vissute e celebrate in modo da risultare “slegate” dall’umana quotidianità, quella che si tocca con mano, che prova dolore e vergogna, che chiede felicità, ha bisogno di speranza e sente un intimo quanto incompreso desiderio di spiritualità. E don Ricardo racconta la liturgia come un movimento vitale in cui l’umano e il divino si susseguono e si accompagnano in progressivi e tangibili passaggi di approfondimento nella concretezza e di elevazione spirituale in cui il rumore del fare si sussegue e si fonde con i cori angelici. «La liturgia – afferma – è un movimento, come tutto il cosmo è un movimento. Un dare la vita per ricevere la vita, riconoscere la morte per sperimentare la resurrezione. L’Eucarestia è il movimento del creato. Il nostro essere ha bisogno di far parte di questo movimento, di sentire quella musica di Dio, quel santo gioco dell’anima nel quale Dio si manifesta». Leggendo questo piccolo libro non si possono non ricordare i racconti di tanti mistici su quel che accade durante la messa. Pensiamo ad Anna Caterina Emmerick, a santa Faustina Kovalska, a Natuzza Evolo, ma anche al «se voi vedeste quello che vedo io!» con cui padre Pio rispondeva alla domanda sul perché le sue messe duravano così tanto. E forse quel punto interrogativo in fondo al titolo del libro sta a indicare lo stesso senso di stupore che si prova nel leggere di quelle visioni spirituali. Del resto padre Pio sottolineava: «Se la gente sapesse cosa accade sull’altare durante la messa, dovrebbero mettere i carabinieri dinanzi alle chiese per contenere le folle».

Naturalmente Reyes Castillo non è il frate di Pietrelcina e non scrive da mistico, ma offre una lettura teologica della liturgia che ben fa comprendere cosa significa aprire il cuore al mistero, soprattutto ai più giovani, ai quali il libro si rivolge nella grafica e nell’umiltà di modi, risultando capace di aprire a livelli di lettura molteplici ed efficaci. È davvero difficile trovare un testo in cui queste cose si dicano con tanta semplicità e nessun timore di venire presi per ingenui. Ed è comunque evidente che qui non si tratta di ingenuità e nemmeno di candore. Si coglie, piuttosto, la semplicità di un presbitero che, da smarrito che era, ha ritrovato la strada del primo amore, per dirla con l’ammonimento di Apocalisse alla Chiesa di Efeso. Il sentirsi figli avvolti nel manto di Maria, rigenerati nella sua dinamica relazionale. Don Ricardo lo racconta in margine: a 45 anni si è trovato a vivere un sacerdozio “in carriera”, molto diverso da quello a cui pensava in principio. Entrato in crisi, ha scelto di vivere alcuni mesi in una comunità di recupero con «giovani che combattevano diversi tipi di dipendenza… Non è stato facile. Ho lottato con i miei schemi e le mie paure». Finché un giorno «era il 24 dicembre, fui incaricato di pulire le stanze e i bagni dei ragazzi» e nel pulire, completamente solo, «mi sentii nel posto giusto. Felice. In quel momento è cominciato a crollare il muro. Iniziai a ritrovare le sensazioni del mio essere innamorato di Dio, ricercatore del suo amore. E riscoprii una cosa fondamentale: la serenità nel donarsi». La liturgia eucaristica è un dono e per viverla davvero bisogna imparare a lasciarsi amare. Don Ricardo lo spiega così: «In questo libro parlo di ciò che ho toccato, dell’amore che sgorga dall’Eucaristia e che ho assaporato in modo unico in quei mesi… L’Eucaristia è riposo, forza, perdono, luce, speranza, attesa, movimento, sorpresa, amore che dà senso e colore a ogni cosa. Per questo ho voluto scrivere in modo semplice la meraviglia che vivo ogni volta…». Col desiderio che tutti si immergano nella medesima pienezza di vita.

avvenire.it

 

In Santo Stefano a Reggio Emilia: Madonna del Carmelo, tra le devozioni più antiche e più amate. Il 16 luglio, la Chiesa festeggia la Madonna del Carmelo. Un’antica devozione che risale ai profeti della Bibbia

ll culto mariano del Carmelo, caso unico tra i culti dei santi, affonda le sue radici nove secoli prima della nascita di Maria. Il primo profeta d’Israele, Elia, dimorando sul Monte Carmelo, ebbe la visione della venuta della Beata Vergine. La vide alzarsi in una piccola nube, portando una provvidenziale pioggia e salvando Israele da una devastante siccità. E’ uno dei culti più antichi della Roma cristiana, così come l’Ordine carmelitano che si ricollega a quanto descritto nella Bibbia, quando si racconta che Elia ebbe la profezia del Mistero della Vergine e Madre e della nascita del Figlio di Dio. Già nel I secolo, gli eremiti che si ritirarono sul monte costruirono una cappellina a Lei dedicata. “I carmelitani hanno la tradizione di essere legati alla Madonna ma anche a Elia, cioè alla capacità, come quella del profeta, di ascoltare Dio”:

“Gli fu detto: ‘Esci e fermati sul monte alla presenza del Signore’. Ecco, il Signore passò. Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento ci fu un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto ci fu un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco ci fu il mormorio di un vento leggero.”

L’iconografia popolare

Secondo l’iconografia popolare, la Madonna del Carmelo non tiene in braccio Gesù, ma distende le braccia in avanti offrendo lo scapolare. L’immagine fa riferimento all’apparizione del 16 luglio 1251: la Madonna si mostrò a san Simone Stock, consegnò uno scapolare e gli rivelò i privilegi connessi a tale culto. “Non è un portafortuna o un talismano”  ma un segno di salvezza. Significa essere rivestiti della sua grazia, cioè dei suoi doni. Se noi diciamo oggi ‘voglio lo scapolare’, penso di voler ricevere questo segno di salvezza che mi rimanda alle virtù di Maria; mi aiuta a impegnarmi a vivere come lei”.

Le Confraternite intitolate alla Madonna del Carmine

Nel tempo, le Confraternite intitolate alla Madonna del Carmine e il favore di alcuni papi, che La arricchirono di privilegi spirituali, ne aumentarono la devozione popolare.
Nel 1623, un decreto della Congregazione dell’Indice consacrava la “Tradizione del Sabato”, ossia l’aiuto che la Beata Vergine del Carmelo dà in questo giorno ai suoi devoti morti in grazia di Dio per il raggiungimento immediato della pienezza dell’amore divino.

Come ogni anno ci riuniamo il 16 luglio, per testimoniare la nostra devozione alla Beata Vergine del Monte Carmelo ed avere da Lei luce e conforto per la nostra vita. Ognuno di noi ha un patrimonio di esperienze di gioia e di dolore, di accoglienza e di rifiuto, di successo e di sconfitta. Ognuno di noi prende coscienza di come la precarietà del presente e l’incertezza del futuro ci rendano fragili. Molte volte, basta una parola sbagliata, nel momento sbagliato, per distruggere un rapporto d’amicizia e di collaborazione, e una parola giusta, nei tempi e nei modi corretti, per salvare una vita. La grande forza che abbiamo per resistere a queste nostre fragilità umane è la promessa di Gesù di non lasciarci mai soli e di restare con noi tutti i giorni della nostra vita, sino alla fine del mondo.

Se, ora, volessimo sintetizzare il messaggio della Parola di Dio sulla pietà popolare potremmo dire che il profeta Isaia e lo stesso Gesù ci chiedono di unire alla nostra pietà popolare la testimonianza della fede. Il profeta Isaia scrive: “smettete di presentare offerte inutili; l’incenso per me è un abominio; anche se moltiplicaste le preghiere, io non le ascolterei…Cessate di fare il male, imparate a fare il bene, cercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova”. E Gesù dice ai suoi ascoltatori: “Chi avrà tenuto per sé la propria vita, la perderà; e chi avrà perduto la propria vita per causa mia, la troverà. Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato”.

La pietà popolare è ricca di canti, preghiere, devozioni ai santi Patroni e alla Madonna, venerata sotto diversi titoli, tra cui quello della Beta Vergine del Monte Carmelo. Però, questa ricchezza potrebbe diventare povertà. Sembra un paradosso che una vita ricca di religiosità possa diventare povera! Il paradosso si chiarisce se spieghiamo che cosa intendiamo per ricchezza e povertà dal punti vista religioso. La ricchezza è fatta di devozione esteriore, di pratiche religiose, di voti e promesse. La povertà è costituita da mancanza di fede interiore, di motivazioni spirituali, di valori evangelici. La fede interiore è soprattutto quella di San Francesco d’Assisi, Santa Teresa d’Avila, Madre Teresa di Calcutta, che pregavano dicendo: Deus meus et omnia, Dio mio e tutto. La fede interiore, dunque, è quella che ci porta a Dio, che ci aiuta a pregarlo, amarlo, lodarlo, ringraziarlo nei modi, nei luoghi, nei tempi giusti. Ma come si arriva a Dio nel modo giusto, se Lui è l’Inaccessibile, l’Onnipotente, l’Altissimo, il Misterioso? Ce lo indica S. Agostino, che ha scritto: ambula per hominem et pervenies ad Deum: percorri la via dell’uomo e arrivi a Dio. In buona sostanza, per S. Agostino, la via per arrivare a Dio nel modo giusto è l’uomo. Anche San Giovanni Paolo II, nell’enciclica Redemptor Hominis, ha scritto che “l’uomo è la via fondamentale della Chiesa”. Nessuno di noi, perciò, deve pretendere di aver la corsia preferenziale per arrivare a Dio senza passare per l’uomo. San Giovanni chiama bugiardo chi dice di amare Dio e odia o trascura il proprio fratello (1Gv, 4, 20). La cartina di tornasole del nostro vero amore di Dio è l’amore del prossimo, ossia la virtù della carità. Per praticare la virtù della carità non bisogna essere intelligenti, ricchi, super eruditi. I gesti di amore sono i più semplici della nostra vita. Addirittura, talvolta, basta un semplice sguardo, una stretta di mano, un saluto di incoraggiamento, un complimento sincero per rendere felice una persona. Gesù promette la sua ricompensa a chi ha dato da bere “anche un solo bicchiere d’acqua fresca a uno dei discepoli”.

Ora, la festa della Madonna del Monte Carmelo, nel proporci la venerazione del profeta Elia, ci offre un esempio concreto di come la pratica della carità avvicini a Dio nel modo giusto. Elia è in cammino verso il Monte Carmelo per sfuggire alla persecuzione della regina Gezabele, che lo aveva minacciato di morte. Giunge a Sarepta, una città della Fenicia, in casa di una vedova, di cui non sappiamo il nome, definita da quello che le manca, il marito, che vive con il figlio orfano. Elia è accolto dalla vedova e, alla sua domanda di dargli da bere e da mangiare, lei gli offre tutto ciò che ha, anche se, trovandosi in tempo di carestia, sa che non le resterà più nulla per sé. Elia, come ricompensa, le promette che la farina e l’olio non mancheranno mai dalla sua casa.

La vicenda del profeta Elia ci aiuta a capire come comportarci nei momenti di scoraggiamento, di fallimento, di solitudine. Egli visse lo scoraggiamento e il fallimento in modo drammatico, tanto che di fronte al peso della persecuzione chiese al Signore di lasciarlo morire. Ma il Signore gli offrì un pane miracoloso che gli diede la forza per continuare il cammino. Con la forza datagli da questo pane misterioso Elia camminò per 40 giorni e 40 notti e giunse fino al monte Oreb, dove il Signore gli parlò attraverso un vento leggero e gli diede il coraggio di portare a termine la sua missione.

Non tutti noi portiamo lo scapolare. Anche se non portiamo lo scapolare, però, chiediamo alla Vergine del Monte Carmelo la benedizione perché, sull’esempio del profeta Elia, purifichi il nostro culto del Dio vivente da tante preghiere superstiziose. Tante volte, anche involontariamente, scambiamo i santuari mariani per una banca dove ritirare le grazie con il bancomat delle novene e delle processioni. Chiediamole il rafforzamento della nostra fede nel Dio misericordioso, per seguirlo ed amarlo anche al di sopra dei vincoli familiari. Chiediamole il dono della preghiera dei santi: “Dio mio e tutto”. La fanciulla Maria di Nazareth ha creduto alla parola dell’Arcangelo e, rinunciando ai suoi progetti personali, ha affidato il suo futuro alla Parola di Dio: “si compia in me secondo la tua parola” (Lc 1, 28). Sul suo esempio, fidiamoci della Parola di Dio, anche quando non la comprendiamo, la troviamo particolarmente dura ed esigente. Custodiamola nel nostro cuore, come faceva la Madre di Gesù, nella rinnovata convinzione che “non di solo pane vive l’uomo ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio” (Mt 4, 4). Anche se, come i discepoli, fatichiamo notte e giorno senza prendere niente, sulla parola di Gesù, gettiamo la rete (cfr. Lc 5, 5) e camminiamo secondo lo Spirito. Il nostro futuro, per fortuna, non è nelle nostre mani ma nelle mani di Dio. Mani che creano dal nulla, guariscono dal male, accompagnano nel buio, conducono alla meta fissata per ognuno di noi sin dall’eternità.

Fonte: vaticannews e chiesadioristano

 

Teilhard de Chardin: tra teologia, mistica e scienze

Pierre Teilhard de Chardin | DISF.org

di: Marco Casadei – settimanews

Se Walter Benjamin, immaginandolo nostro contemporaneo, avesse potuto leggere la Laudato si’, con particolare attenzione al paragrafo 83, non faticherebbe a proclamare dischiuso il tempo della leggibilità anche per le opere di P. Teilhard de Chardin[1]. Dopo l’innegabile ostracismo ecclesiastico, patito a motivo di posizioni filosofico-teologiche giudicate all’epoca non omologhe all’ortodossia magisteriale, sembra finalmente potersi inaugurare, per il paleontologo gesuita, una nuova stagione.

Preceduta, infatti, da ormai qualche decennio di disarmo tra l’arrocco dottrinalistico della dogmatica e le pregiudiziali positivistiche delle scienze, l’enciclica summenzionata − così come, più implicitamente ma con abbondanza, si può riscontrare in Evangelii gaudium e in Fratelli tutti − annovera, tra i tanti, anche il merito di riferirsi in modo esplicito e altamente autorevole al mirabile portato teilhardiano.

A dire il vero, una più discreta disseminazione delle sue tracce è già accaduto di rinvenirne lungo la direttrice dei pronunciamenti papali post-conciliari, senz’altro in alcune riflessioni di Paolo VI e di Benedetto XVI. Perfino nelle pieghe dei grandi documenti conciliari, Gaudium et spes in primis, non mancano rinvii a qualche inedito del gesuita francese, certamente per virtù dei suoi primi grandi estimatori, il domenicano M.-D. Chenu e il confratello H. de Lubac, che non solo gli fu fedele amico e interprete tra i più acuti del suo pensiero, ma anche strenuo difensore all’interno della stessa Compagnia.

Una «ri-trattazione» opportuna
Il Convegno nazionale «Muovere verso» − Teilhard de Chardin: tra teologia, mistica e scienze, promosso dall’Istituto superiore di scienze religiose «A. Marvelli» di Rimini e San Marino-Montefeltro, grazie alla collaborazione della Facoltà teologica dell’Emilia-Romagna (patrocinante l’evento assieme al Comune di Rimini) e col prezioso sostegno di alcune associazioni culturali, tra cui gli omonimi Centro Studi e Associazione – meritori nel diffonderne l’opera –, desidera accogliere il provocatorio invito lanciato da Francesco. Grazie alla sua neppur troppo velata «riabilitazione» teologica, è sembrato così quantomai opportuno avviare una vera e propria «ri-trattazione» dell’intero percorso intellettuale teilhardiano, pubblicato per la maggior parte postumo e ancora poco frequentato, soprattutto presso gli ambiti formativi ecclesiali/ecclesiastici.

Numerosi e di non poco interesse appaiono gli elementi provenienti dal suo genio di scienziato gesuita – non l’unico celebre esempio della storia, per la verità. Dove l’un aspetto (versante scientifico) sembra misteriosamente radicarsi, in unità con l’altro (versante credente) e «senza confusione né separazione» (Concilio di Calcedonia), nel «golfo della molteplicità potenziale» (I. Calvino) che è l’in-comune dell’immaginazione umana.

Vocazione nella/della vocazione[2], quella di Teilhard, che sa di sagace «ana-cronismo» o d’«inattualità» profetica, certamente per il tempo in cui si è svolta la sua biografia; e dai cui tratti, apparentemente antitetici, vengono sviluppandosi convergenze inter-/trans-disciplinari quantomai appellanti e coniugazioni spirituali, ad oggi ancora sorprendentemente inesplorate.

«Muovere verso» non si presta, dunque, solo ad essere titolo sufficientemente efficace per il convegno a lui dedicato, ma racconta icasticamente il convergere incessante di tre componenti, scientifica, teologica e mistica, tanto nella sua formazione, quanto nell’esercizio del suo comprendere la realtà. In un’unica trama, ordita dall’istanza mistica – definita «scienza delle scienze» dal noto e stimato paleontologo –, l’approccio rigorosamente scientifico viene a feconda alleanza con il versante più robustamente filosofico-teologico, per un rapporto genuinamente riuscito e tra le più attuali eredità teilhardiane, in una visione cosmo-teandrica genialmente sintetizzata nelle due grandi opere L’ambiente divino e Il fenomeno umano[3].

«Ortodosso che la pensa come gli eterodossi»
Autodefinitosi «ortodosso che la pensa come gli eterodossi» – si pensi, una per tutte, all’interpretazione assai scabrosa offerta in merito alla concezione teologica del cosiddetto «peccato delle origini» – Teilhard concepisce l’intero della sua acribia intellettuale come una «educazione del vedere», sentendo, sì, tutto il peso del suo essere «nel mezzo», ma vivendolo nondimeno come singolare connotazione vocazionale ad essere ponte fra gli uni e gli altri, muovendosi verso la verità tutta intera, mai tuttavia senza l’altro.

Grazie all’autorevolezza e allo spessore degli esperti chiamati ad intervenire, si cercherà ultimamente di offrire una complessiva, quanto sperabilmente adeguata ricognizione dell’impianto speculativo proprio a p. Teilhard de Chardin, senza trascurare significativi affondi di carattere epistemologico, antropologico (con un focus sulla «ecologia integrale») e teologico, soprattutto sul versante del dialogo interreligioso, di cui fu un autentico pioniere.

[1] L’apertura del paragrafo ha il sapore e le fattezze di una mirabile sintesi della visione teilhardiana della realtà: «Il traguardo del cammino dell’universo è nella pienezza di Dio, che è stata già raggiunta da Cristo risorto, fulcro della maturazione universale».

[2] Si potrebbe a buon diritto applicare a Teilhard de Chardin la riflessione agambeniana in merito alla tensione generativa e, in quanto tale, costitutiva del mistero (miracoloso) significato dalla vocazione messianica, nella prospettiva della teologia paolina. In forza di essa, infatti, «la nullificazione messianica operata dall’hōs mē [“come non” – cf. 1Cor 7,29-31] inerisce perfettamente alla klēsis [chiamata/vocazione], non sopravviene a essa in un secondo tempo […] né aggiunge a essa qualcosa. La vocazione messianica è, in questo senso, un movimento immanente – o, se si vuole, una zona di assoluta indiscernibilità tra immanenza e trascendenza, tra questo mondo e quello» (G. Agamben, Il tempo che resta. Un commento alla «Lettera ai romani», Bollati Boringhieri, Torino 2000, p. 30). Ad essere revocata/dis-attivata non è, dunque, affatto la contingenza del vivere, né, nella fattispecie, l’una o l’altra delle dimensioni portanti della vocazione teilhardiana, ma propriamente la loro vicendevole chiusura/impermeabilità/giustapposizione: «In virtù del suo essere “[ri-]chiamata” […] la vocazione messianica non ha, tuttavia, alcun contenuto specifico: essa non è che una ripresa delle stesse condizioni fattizie o giuridiche nelle quali o come quali si è chiamati […] descrive[ndo] questa immobile dialettica […] può aderire a qualunque condizione; ma, per la stessa ragione, essa la revoca e mette radicalmente in questione nell’atto stesso in cui vi aderisce […]. La vocazione messianica è la revocazione di ogni vocazione […] come una urgenza che la lavora e la scava dall’interno, la nullifica nel gesto stesso in cui si mantiene in essa, dimora in essa» (Ibid., p. 28).

[3] Oltre ai due testi indicati, rispettivamente tradotti e pubblicati per i tipi dell’editore Queriniana nel 2003 e nel 1995, sono da annoverare almeno altre sue due opere fondamentali: Il cuore della materia; La mia fede: scritti teologici, sempre per Queriniana, ed entrambe uscite nel 1993.

Non c’è missione evangelizzatrice senza capacità di consolare, ne è anzi la forza propulsiva e inventiva. Gesù non tradisce: «Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine»

Teologia. La consolazione, promessa presente

Si intitola Chi ci separerà? Senso di abbandono e consolazione (San Paolo, pagine 160 euro 15,00), il nuovo volume di Giovanni Cesare Pagazzi, teologo e segretario del Dicastero per la Cultura e l’Educazione, di cui anticipiamo alcuni passaggi del capitolo finale. Per la Bibbia, il senso di abbandono è esperienza originaria e complessa. Tocca Dio e gli umani, peccatori e innocenti. La risposta è la consolazione. Ma quale?

August Jerndorff, “Gesù consolatore”, 1892, pala d’altare della chiesa di Nykøbing Mors, in Danimarca

«Io, io sono il vostro consolatore» (Is 51,12). Nel libro di Isaia la forza consolatrice di Dio si fonda sulla sua capacità di creare, indicativa di un’inimmaginabile e insperata inventiva di soluzioni. Alla medesima conclusione giunse l’afflitto Giobbe, dopo che YHWH gli mostrò l’intera Creazione (Gb 38-41): «Comprendo che tu puoi tutto / e nessun progetto per te è impossibile» (Gb 42,2), nemmeno quello di consolare un uomo disfatto da perdite e lutti. In effetti, Giobbe fu consolato (Gb 42,1016). Tuttavia, benché sazio di giorni, il saggio morì (Gb 42,17); perdette ancora (stavolta definitivamente) le ricchezze, i figli e le figlie; così come i figli e le figlie persero lui, per sempre. E se, vista la sua inimmaginabile e insperata inventiva creatrice, Dio tenesse in serbo un’altra impensabile, inattesa consolazione? Proprio chi, leggendo Isaia nella sinagoga di Nazaret, si manifestò come il vero consolatore dei cuori rotti, custodiva un imprevedibile conforto. Nei pressi di una città chiamata Nain, Cristo s’imbatte in un corteo funebre: viene portato alla tomba l’unico figlio di una donna già da tempo vedova. Una scena da strappare il cuore, romperlo, farlo ammalare. La morte sigilla l’abbandono di questo ragazzo senza più padre, di questa donna privata di marito e figlio. Per le Sacre Scritture l’orfano e la vedova sono l’emblema degli abbandonati. Gesù non scansa la donna, ma la «vede» e ne sente «una grande compassione». L’affetto del Signore non risuona solo a motivo della sua bontà, ma perché in lui pure vibra la corda dell’abbandono, a causa dell’andirivieni del Padre, provato sulla sua stessa pelle. È in empatia con questa abbandonata; riecheggia il suo sentimento, poiché anche in lui è diffuso il medesimo suono. Rivolgendosi a lei, dice: «non piangere» (Lc 7,13). Com’è possibile chiedere una cosa simile? È quasi una violenza. Oppure esprime la sicurezza di chi sa che può. Il Signore si approssima alla bara e la tocca: una vicinanza tattile, perfino proibita dalla legge d’Israele. Ordina al morto di svegliarsi; il morto obbedisce. Giustamente conquistati dalla sequenza impressionante e dall’efficacia delle azioni di Cristo, rischiamo di sorvolare l’ultimo suo gesto che, in realtà, è la corona e il vanto della pagina evangelica: «Egli lo restituì a sua madre» (Lc 7,14). Tutto mira a questa restituzione, quasi che Cristo si senta in debito con la donna. […] L’attenzione di Gesù all’orfano e alla vedova riecheggia nella franchezza dell’apostolo Giacomo: «Religione pura e senza macchia davanti a Dio Padre e questa: visitare gli orfani e le vedove nelle sofferenze e non lasciarsi contaminare da questo mondo» (Gc 1,27). Ciò lascia intendere che esiste anche una religione impura e morbosa la quale, anziché guarire, contamina e fa ammalare. Stando all’apostolo, una religione salutare non nega l’esperienza dell’abbandono; non lo sorvola né maschera, ma lo riconosce, ammettendo l’esistenza di uomini e donne sconfortati, nonostante la fede in “Dio Padre”. Perciò, una religione “salutare” non crede in un Dio saturante, garanzia di pienezza e continuità, priva di separazioni e lontananze. Insomma, la religione sana crede che il Regno è “nelle vicinanze”, nell’andirivieni. Non per nulla lo stesso Anno Liturgico, lungo tutta la vita, addestra i battezzati all’andirivieni di Dio: l’attesa del Signore durante l’Avvento, la sua venuta nel Natale, il suo distacco nell’Ascensione, la sua misteriosa compagnia grazie al dono dello Spirito a Pentecoste, per sentirne nuovamente la mancanza nell’Avvento successivo. Altra caratteristica della “religione pura” è ammettere che i credenti hanno il potere di consolare. Le opere di misericordia (corporali e spirituali) e gli stessi sacramenti altro non sono che espressioni della consolazione degli afflitti. Al momento non ci è promessa la scomparsa di orfani, vedove e afflitti, ma già da ora ci è dato il potere, e il conseguente dovere di consolarli. Non è possibile restituire loro chi e quanto hanno perduto, ma fasciare il cuore sì; almeno durante il tempo che li separa dal giorno in cui l’unico che può restituire: “asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno” (Ap 21,4). Giacomo riassume così la pratica della religione pura: credere nel Padre, e quindi vivere come il suo Figlio Gesù; perciò, consolare gli afflitti come fosse l’unica vocazione e missione. […] La consolazione salva e la salvezza consola, guarendo il cuore. Ciò non significa che la consolazione si arresti all’intimità vitale del cuore. Anzi, il cuore consolato diviene il punto d’appoggio dello slancio missionario, come ricevesse una “sferzata di energia”. […] Secondo il denso testo paolino la consolazione non pone termine alla tribolazione, anzi vibra esattamente nell’«abbondanza delle sofferenze», come qualcosa che «dà forza» (2Cor 1,6). Connesso all’infusione o al risveglio di energia e potenza è il termine greco utilizzato da Paolo per indicare la consolazione: paraklesis. Nel Nuovo Testamento, la parola significa “supplica”, “invocazione”, ma soprattutto “esortazione” e “consolazione”. Purtroppo, in italiano, “esortare”, “esortazione” suonano ormai come “rammentare a qualcuno un dovere”, “richiamargli un compito”. In realtà, il termine greco indica piuttosto un incitamento, un incoraggiamento. […] Perciò, con impeto che viene chissà da dove, Paolo parla di forza e vittoria anche nella tribolazione, poiché niente e nessuno può recidere il legame con Cristo, con Dio. Egli non tradisce, anche quando abbandona: «Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Ma in tutte queste cose siamo più che vincitori, grazie a colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore» (Rm 8,35-39). Dio chiede ai battezzati di aiutarlo a persuadere il cuore di ogni uomo e ogni donna, che lui non tradisce. «Ecco, io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo»; così parla il Risorto, proprio mentre se ne sta andando, lasciando soli i suoi amici (Mt 28,20). Chi dice “Ecco” attira l’attenzione su una cosa. Intende indicare un che di evidente e apprezzabile, eppure non scorto; forse per distrazione, o superficialità. Dicendo ai suoi “Ecco”, dove il Risorto attira l’attenzione? Cosa indica come lampante eppure non considerato? La sua presenza, la sua compagnia. Agli occhi del Risorto, non ci accorgiamo della indubitabile fortuna, del felice destino della sua presenza reale, viva, efficace, vibrante di incomprensibile premura. Calamitati dal passato della Chiesa, o stregati dal suo futuro, non sentiamo l’operosa vicinanza del Vivente nel chiaroscuro dei nostri giorni. «Io sono con voi tutti i giorni». Sì. In quelli solari, in quelli piovosi e perfino in quelli col cielo bianco che nasconde il sole e non regala la pioggia. Nei sabati pieni di attesa, nelle domeniche del compimento, nei lunedì e martedì faticosi, nei venerdì dai misteri dolorosi, nei mercoledì e giovedì che ci trovano in mezzo al guado. Nei giorni vittoriosi, dove l’anima si espande per santità, e in quelli dove è rattrappita per i peccati. Nei giorni in cui la sua presenza si tocca e nei giorni in cui lui è “nelle vicinanze”, ma non si vede e ci lascia soli. «Ecco, io sono con voi tutti i giorni». Non ce ne accorgiamo?

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