Vangelo del giorno

Dal Vangelo secondo Giovanni
Gv 20,24-29

Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dicevano gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo».
Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: «Pace a voi!». Poi disse a Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!». Gli rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!». Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!».

Pasqua: un mondo finisce, un mondo comincia: è la via del Risorto

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Tra i giorni che concludono la vicenda terrena di Gesù di Nazareth e quelli che frantumano il sepolcro, varcando nel mistero il limite umano — il limite più duro, ossia la morte — giace lo smarrimento dei discepoli: smarrimento umanissimo e doloroso di fronte alla tragedia accaduta al maestro, smarrimento umanissimo e stupito davanti a un annuncio di resurrezione. È lo smarrimento di qualcosa che finisce e insieme è lo smarrimento di qualcosa che inizia: che questo generi turbamento, incredulità, confusione, nella tensione tra tristezza e gioia, per noi uomini di questo tempo è molto comprensibile, perché stiamo attraversando uno scorcio della storia che molto condivide con quella manciata di giorni che vanno dall’ultima cena di Gesù alla parola che afferma: Cristo è risorto. Se abbiamo il coraggio dello sguardo, la forza di andare oltre le apparenze, non possiamo che sentirci solidali con i discepoli persi tra il venir meno del vecchio e il sorgere del nuovo; perché spesso anche noi viviamo uno smarrimento simile a quello di Pietro, Giovanni, Tommaso, Maria di Magdala (e anche della Madre): un mondo sta finendo o è già finito, una stagione si va esaurendo e qualcosa di nuovo e inaudito comincia a farsi strada. Modi di vivere la vita, di condurre l’esistenza, anche di intendere, incarnare e comunicare la fede sono ora inesorabilmente al tramonto. Forse questo non piacerà, certamente procurerà dolore e tristezza, alimenterà paura e perfino angoscia: sentimenti compagni a quelli avvertiti dai discepoli che ben altre aspettative, ben altre idee avevano sul Nazareno, il quale non poche volte — ricorda il vangelo — erano stati rimproverati perché non capivano che la strada del maestro era diversa da quella che loro desideravano. Essi (penso soprattutto a Pietro) avevano una loro idea di salvezza, una loro idea di Dio. Ma i giorni della Passione videro il naufragare di quelle attese, di quelle convinzioni. Qualcosa di umano e di vecchio andava morendo. Ma quella non fu l’ultima parola, perché Dio, dentro quel fallimento, nel fondo dell’abisso, nella forza di un’offerta gratuita, tracciò la via di una nuova vita, di una vita risorta. Nella storia del mondo, nella storia di ogni persona, non sono poche le morti e le risurrezioni: ma dall’alba di quel giorno questa diviene pure la legge del Regno.

Ugualmente oggi, in questo tratto del tempo che abitiamo, c’è un’epoca che muore e c’è un’epoca che nasce, di cui non capiamo bene i tratti, i caratteri, il bene e il male. O forse sappiamo cogliere solo il male, solo ciò che non corrisponde al nostro immaginario, alle nostre aspettative, alla nostra idea di tempo visitato da Dio. Ma la forza della Pasqua di Gesù è quella di una vita che prosegue, di una custodia di Dio che permane e che, in ciò, è capace di diffondere speranza. Non speranza a basso prezzo, non speranza di superficie: ma speranza profonda, vera, radicata in ciò che prima è accaduto ed è morto e che ora rinasce, in forme nuove e sorprendenti; gli evangelisti lo annotano più volte nei racconti pasquali: nessuno dei discepoli riconobbe Gesù, segno che egli aveva forme nuove, insolite per loro che pure lo avevano conosciuto molto bene e per questo dovettero fare uno sforzo di lettura, uno sforzo di comprensione, cercando qualcosa che fosse solo per ognuno di essi.

Mi colpisce che il Risorto abbia un modo unico e una parola differente per ogni discepolo: spinge Maria di Magdala e l’altra Maria ad andare al sepolcro e mentre esse tornano si fa loro incontro, nel giardino; spinge Giovanni e Pietro ad uscire dalla sala della paura e arrivare fino alla tomba, per trovarla vuota, ma per andare poi lui stesso dentro quella medesima stanza chiusa; trova due discepoli a sette miglia da Gerusalemme, lungo la via per Emmaus e si fa loro accanto; si fa toccare da Tommaso; si fa trovare su una spiaggia da alcuni discepoli, tra cui Pietro. Ci sono modi misteriosi e diversi, ma sempre generativi, attraverso cui il Risorto incontra i suoi discepoli: non un modo solo, un momento solo, una parola sola e unica per tutto, sempre, ovunque. Parole personali in tempi e luoghi personali; parole diverse in tempi e luoghi diversi. Per generare il nuovo, per ripartire, per rifondare una vita servono parole accostate a vite singole, strade uniche, annunci singolari, nei luoghi e nei momenti più fecondi per ognuno.
C’è una delicatezza tenerissima nel Risorto, che si accosta, si rivela nella ricchezza di ogni vita e può così, anche nel pronunciare ogni nome, trarre fuori dai sepolcri che ognuno deposita sul fondo di sé.

«Con l’immenso amore che provi per te stesso — mi pare di leggere in Gesù — ama tuo fratello, che è uguale a te, ma che non sei tu; riconoscerai in lui un fratello, ma quello che vi accomuna è il sangue di Dio stesso, vostro padre. Ritengo che questo sia il senso del Vangelo e la grande rivelazione del Cristo, il vero trasmutatore dei valori»: così scriveva Antonio Machado a Miguel de Unamuno, il 16 gennaio 1918, in una lettera che è un tassello ricchissimo nel rapporto tra i due grandi pensatori spagnoli. E subito Machado aggiungeva: «L’amore fraterno ci fa uscire dalla nostra solitudine e ci conduce a Dio. Quando riconosco che c’è un altro io, che non coincide con me stesso né è opera mia, mi rendo conto che Dio esiste e che devo credere in Lui come a un padre». Ci sono fratelli e sorelle con propri io, con proprie vite: in tanta ricchezza, in tanta particolarità giunge il Risorto, che fa nascere fratellanza nel rispetto di ogni identità, di ogni storia, di ogni ripartenza: Cristo è vivo, Cristo è capace di generare vita, di morire e risorgere, accostandosi, facendosi incontrare, facendosi vedere a singoli volti di uomini e donne.

Questa è la dinamica del Regno che crediamo diventi, da quel «mattino del primo giorno dopo il sabato» anche la dinamica della storia. È il primo giorno che nasce da un sabato, che nasce da un tempo che c’è stato e che però si è concluso; ora comincia il nuovo. Su questo possiamo continuare a fondare il nostro sguardo buono sull’oggi e sul domani; sperare nel futuro; avere fiducia che il mondo è già salvato; non farci travolgere dalla paura che il nuovo può suscitare, sia esso nelle grandi arcate delle epoche quanto nelle piccole vite; non temere l’alba di un tempo dove ci sarà una fede diversa, un modo diverso di viverla, ma che sarà sempre cristocentrica, perché fondata sull’annuncio che il Cristo è risorto: la legge della vita è veramente la legge della vita e non della morte.

vinonuovo.it 

11 GENNAIO 2023 Messa del Giorno MERCOLEDÌ DELLA I SETTIMANA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO DISPARI)

Colore Liturgico Verde

Antifona

Vidi il Signore su di un trono altissimo;
lo adorava una schiera di angeli
e cantavano insieme:
«Ecco colui che regna per sempre».

 

Colletta

Ispira nella tua paterna bontà, o Signore,
i pensieri e i propositi del tuo popolo in preghiera,
perché veda ciò che deve fare
e abbia la forza di compiere ciò che ha veduto.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.

Prima Lettura

Egli doveva rendersi in tutto simile ai fratelli, per diventare misericordioso.Dalla lettera agli Ebrei
Eb 2,14-18

Fratelli, poiché i figli hanno in comune il sangue e la carne, anche Cristo allo stesso modo ne è divenuto partecipe, per ridurre all’impotenza mediante la morte colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo, e liberare così quelli che, per timore della morte, erano soggetti a schiavitù per tutta la vita.
Egli infatti non si prende cura degli angeli, ma della stirpe di Abramo si prende cura. Perciò doveva rendersi in tutto simile ai fratelli, per diventare un sommo sacerdote misericordioso e degno di fede nelle cose che riguardano Dio, allo scopo di espiare i peccati del popolo. Infatti, proprio per essere stato messo alla prova e aver sofferto personalmente, egli è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova.

Parola di Dio.

Salmo Responsoriale
Dal Sal 104 (105)

R. Il Signore si è sempre ricordato della sua alleanza.Rendete grazie al Signore e invocate il suo nome,
proclamate fra i popoli le sue opere.
A lui cantate, a lui inneggiate,
meditate tutte le sue meraviglie. R.

Gloriatevi del suo santo nome:
gioisca il cuore di chi cerca il Signore.
Cercate il Signore e la sua potenza,
ricercate sempre il suo volto. R.

Voi, stirpe di Abramo, suo servo,
figli di Giacobbe, suo eletto.
È lui il Signore, nostro Dio:
su tutta la terra i suoi giudizi. R.

Si è sempre ricordato della sua alleanza,
parola data per mille generazioni,
dell’alleanza stabilita con Abramo
e del suo giuramento a Isacco. R.

Acclamazione al Vangelo

Alleluia, alleluia.

Le mie pecore ascoltano la mia voce, dice il Signore,
e io le conosco ed esse mi seguono. (Gv 10,27)

Alleluia.

Vangelo

Guarì molti che erano affetti da varie malattie.

Dal Vangelo secondo Marco
Mc 1,29-39

In quel tempo, Gesù, uscito dalla sinagoga, andò subito nella casa di Simone e Andrea, in compagnia di Giacomo e di Giovanni. La suocera di Simone era a letto con la febbre e subito gli parlarono di lei. Egli si avvicinò e la fece alzare prendendola per mano; la febbre la lasciò ed ella li serviva.
Venuta la sera, dopo il tramonto del sole, gli portavano tutti i malati e gli indemoniati. Tutta la città era riunita davanti alla porta. Guarì molti che erano affetti da varie malattie e scacciò molti demòni; ma non permetteva ai demòni di parlare, perché lo conoscevano.
Al mattino presto si alzò quando ancora era buio e, uscito, si ritirò in un luogo deserto, e là pregava. Ma Simone e quelli che erano con lui, si misero sulle sue tracce. Lo trovarono e gli dissero: «Tutti ti cercano!». Egli disse loro: «Andiamocene altrove, nei villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto!».
E andò per tutta la Galilea, predicando nelle loro sinagoghe e scacciando i demòni.

Parola del Signore.

Sulle offerte

Ti sia gradita, o Signore, l’offerta del tuo popolo:
santifichi la nostra vita
e ottenga ciò che con fiducia ti chiediamo.
Per Cristo nostro Signore.

Antifona alla comunione

È in te, Signore, la sorgente della vita:
alla tua luce vediamo la luce. (Sal 35,10)

Oppure:

«Io sono venuto perché abbiano la vita
e l’abbiano in abbondanza», dice il Signore. (Gv 10,10)

Dopo la comunione

Dio onnipotente,
che ci nutri con i tuoi sacramenti,
donaci di servirti degnamente con una vita santa.
Per Cristo nostro Signore.

cai

10 GENNAIO 2023 Messa del Giorno MARTEDÌ DELLA I SETTIMANA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO DISPARI)

Colore Liturgico Verde
Antifona
Vidi il Signore su di un trono altissimo;
lo adorava una schiera di angeli
e cantavano insieme:
«Ecco colui che regna per sempre».

Colletta
Ispira nella tua paterna bontà, o Signore,
i pensieri e i propositi del tuo popolo in preghiera,
perché veda ciò che deve fare
e abbia la forza di compiere ciò che ha veduto.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.

Prima Lettura
Conveniva infatti che Dio rendesse perfetto per mezzo delle sofferenze il capo che guida alla salvezza.
Dalla lettera agli Ebrei
Eb 2,5-12

Fratelli, non certo a degli angeli Dio ha sottomesso il mondo futuro, del quale parliamo. Anzi, in un passo della Scittura qualcuno ha dichiarato:
«Che cos’è l’uomo perché di lui ti ricordi
o il figlio dell’uomo perché tu te ne curi?
Di poco l’hai fatto inferiore agli angeli,
di gloria e di onore l’hai coronato
e hai messo ogni cosa sotto i suoi piedi».
Avendo sottomesso a lui tutte le cose, nulla ha lasciato che non gli fosse sottomesso. Al momento presente però non vediamo ancora che ogni cosa sia a lui sottomessa. Tuttavia quel Gesù, che fu fatto di poco inferiore agli angeli, lo vediamo coronato di gloria e di onore a causa della morte che ha sofferto, perché per la grazia di Dio egli provasse la morte a vantaggio di tutti.
Conveniva infatti che Dio – per il quale e mediante il quale esistono tutte le cose, lui che conduce molti figli alla gloria – rendesse perfetto per mezzo delle sofferenze il capo che guida alla salvezza. Infatti, colui che santifica e coloro che sono santificati provengono tutti da una stessa origine; per questo non si vergogna di chiamarli fratelli, dicendo:
«Annuncerò il tuo nome ai miei fratelli,
in mezzo all’assemblea canterò le tue lodi».

Parola di Dio.

Salmo Responsoriale
Dal Sal 8
R. Hai posto il tuo Figlio sopra ogni cosa.
O Signore, Signore nostro,
quanto è mirabile il tuo nome su tutta la terra!
Che cosa è mai l’uomo perché di lui ti ricordi,
il figlio dell’uomo, perché te ne curi? R.

Davvero l’hai fatto poco meno di un dio,
di gloria e di onore lo hai coronato.
Gli hai dato potere sulle opere delle tue mani,
tutto hai posto sotto i suoi piedi. R.

Tutte le greggi e gli armenti
e anche le bestie della campagna,
gli uccelli del cielo e i pesci del mare,
ogni essere che percorre le vie dei mari. R.

Acclamazione al Vangelo
Alleluia, alleluia.

Accogliete la parola di Dio
non come parola di uomini,
ma, qual è veramente, come parola di Dio. (Cf. 1Ts 2,13)

Alleluia.

Vangelo
Gesù insegnava come uno che ha autorità.
Dal Vangelo secondo Marco
Mc 1,21b-28

In quel tempo, Gesù, entrato di sabato nella sinagoga, [a Cafarnao,] insegnava. Ed erano stupìti del suo insegnamento: egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità, e non come gli scribi.
Ed ecco, nella loro sinagoga vi era un uomo posseduto da uno spirito impuro e cominciò a gridare, dicendo: «Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? Io so chi tu sei: il santo di Dio!». E Gesù gli ordinò severamente: «Taci! Esci da lui!». E lo spirito impuro, straziandolo e gridando forte, uscì da lui.
Tutti furono presi da timore, tanto che si chiedevano a vicenda: «Che è mai questo? Un insegnamento nuovo, dato con autorità. Comanda persino agli spiriti impuri e gli obbediscono!».
La sua fama si diffuse subito dovunque, in tutta la regione della Galilea.

Parola di Dio.

Sulle offerte
Ti sia gradita, o Signore, l’offerta del tuo popolo:
santifichi la nostra vita
e ottenga ciò che con fiducia ti chiediamo.
Per Cristo nostro Signore.

Antifona alla comunione
È in te, Signore, la sorgente della vita,
alla tua luce vediamo la luce. (Sal 35,10)

Oppure:

«Io sono venuto perché abbiano la vita,
e l’abbiano in abbondanza», dice il Signore. (Gv 10,10)

Dopo la comunione
Dio onnipotente,
che ci nutri con i tuoi sacramenti,
donaci di servirti degnamente con una vita santa.
Per Cristo nostro Signore.

Liturgia Messa del Giorno IV DOMENICA DI AVVENTO – ANNO A

DOMENICA 18 Dicembre 2022

Messa del Giorno

IV DOMENICA DI AVVENTO – ANNO A

XXXIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO - 2018 - La Domenica

Colore liturgico Viola

Antifona

Stillate, cieli, dall’alto,
le nubi facciano piovere il Giusto;
si apra la terra e germogli il Salvatore. (Cf. Is 45,8)

Non si dice il Gloria.

Colletta

Infondi nel nostro spirito la tua grazia, o Padre:
tu, che all’annuncio dell’angelo
ci hai rivelato l’incarnazione di Cristo tuo Figlio,
per la sua passione e la sua croce
guidaci alla gloria della risurrezione.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.

Oppure:

O Dio, Padre buono,
che hai rivelato la gratuità e la potenza del tuo amore
nel silenzioso farsi carne del Verbo nel grembo di Maria,
donaci di accoglierlo con fede
nell’ascolto obbediente della tua parola.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.

Prima Lettura

Ecco, la vergine concepirà e partorirà un figlio.Dal libro del profeta Isaìa
Is 7,10-14

In quei giorni, il Signore parlò ancora ad Àcaz: «Chiedi per te un segno dal Signore, tuo Dio, dal profondo degli inferi oppure dall’alto».
Ma Àcaz rispose: «Non lo chiederò, non voglio tentare il Signore».
Allora Isaìa disse: «Ascoltate, casa di Davide! Non vi basta stancare gli uomini, perché ora vogliate stancare anche il mio Dio? Pertanto il Signore stesso vi darà un segno. Ecco: la vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Emmanuele».

Parola di Dio.

Salmo Responsoriale
Dal Sal 23 (24)

R. Ecco, viene il Signore, re della gloria.Del Signore è la terra e quanto contiene:
il mondo, con i suoi abitanti.
È lui che l’ha fondato sui mari
e sui fiumi l’ha stabilito. R.

Chi potrà salire il monte del Signore?
Chi potrà stare nel suo luogo santo?
Chi ha mani innocenti e cuore puro,
chi non si rivolge agli idoli. R.

Egli otterrà benedizione dal Signore,
giustizia da Dio sua salvezza.
Ecco la generazione che lo cerca,
che cerca il tuo volto, Dio di Giacobbe. R.

Seconda Lettura

Gesù Cristo, dal seme di Davide, Figlio di Dio.Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani
Rm 1,1-7

Paolo, servo di Cristo Gesù, apostolo per chiamata, scelto per annunciare il vangelo di Dio – che egli aveva promesso per mezzo dei suoi profeti nelle sacre Scritture e che riguarda il Figlio suo, nato dal seme di Davide secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza, secondo lo Spirito di santità, in virtù della risurrezione dei morti, Gesù Cristo nostro Signore; per mezzo di lui abbiamo ricevuto la grazia di essere apostoli, per suscitare l’obbedienza della fede in tutte le genti, a gloria del suo nome, e tra queste siete anche voi, chiamati da Gesù Cristo –, a tutti quelli che sono a Roma, amati da Dio e santi per chiamata, grazia a voi e pace da Dio, Padre nostro, e dal Signore Gesù Cristo!

Parola di Dio.

Acclamazione al Vangelo

Alleluia, alleluia.

Ecco la vergine concepirà e darà alla luce un figlio:
a lui sarà dato il nome di Emmanuele: “Dio con noi”. (Mt 1,23)

Alleluia.

Vangelo

Gesù nascerà da Maria, sposa di Giuseppe, della stirpe di Davide.

Dal Vangelo secondo Matteo
Mt 1,18-24

Così fu generato Gesù Cristo: sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo. Giuseppe suo sposo, poiché era uomo giusto e non voleva accusarla pubblicamente, pensò di ripudiarla in segreto.
Però, mentre stava considerando queste cose, ecco, gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati».
Tutto questo è avvenuto perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: «Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio: a lui sarà dato il nome di Emmanuele», che significa “Dio con noi”.
Quando si destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa.

Parola del Signore.

Sulle offerte

Accogli, o Signore, i doni che
abbiamo deposto sull’altare
e consacrali con la potenza del tuo Spirito
che santificò il grembo della Vergine Maria.
Per Cristo nostro Signore.

Antifona alla comunione

Ecco, la Vergine concepirà e darà alla luce un figlio:
lo chiamerà Emmanuele, Dio con noi. (Cf. Is 7,14)

Oppure:

*A
Giuseppe, non temere: Maria darà alla luce un figlio
e tu lo chiamerai Gesù. Egli salverà il suo popolo. (Cf. Mt 1,20-21)

Dopo la comunione

Dio onnipotente, che ci hai dato
il pegno della redenzione eterna,
ascolta la nostra preghiera:
quanto più si avvicina il grande giorno della nostra salvezza,
tanto più cresca il nostro fervore,
per celebrare degnamente il mistero della nascita del tuo Figlio.
Egli vive e regna nei secoli dei secoli.

Fonte CEI

Catechesi bibliche per i giovani

Sono riprese le catechesi bibliche mensili per i giovani 19-30 anni, giunte ormai alla quinta edizione.
Un venerdì al mese, nell’arco di un’ora, in un clima di ascolto, si attraversano le narrazioni bibliche traendone spunti e provocazioni per la vita personale. Il vertice di ogni serata sono gli ultimi dieci minuti di adorazione silenziosa, dove davanti al Signore si lascia risuonare la Sua Parola.
Un gruppo di giovani anima coi canti la serata e, a seguire, prepara un momento di fraternità con qualcosa da bere e da mangiare, per chi volesse concludere in chiacchiera, vivendo l’amicizia che nasce dall’appartenenza ad un unico popolo.

Gli incontri si svolgono nella chiesa di Sant’Anselmo (conosciuta anche come Buco del Signore), in via Martiri di Cervarolo 49 a Reggio Emilia alle 20.45

Le catechesi bibliche mensili sono pensate per gustare e pregare la Parola di Dio, e per dare la possibilità di costruire un cammino annuale e continuativo, in particolare per quei giovani (sia gruppi che singoli) che non hanno possibilità di vivere occasioni di questo tipo nelle loro comunità.

Servizio diocesano per la pastorale giovanile

diocesi.re.it

 

La parola in cammino… Commento XIV domenica del tempo ordinario Is 66,10-14c, Sal 65 (66); Gal 6,14-18; Lc 10,1-12.17-20

In attesa della venuta del Signore - Parrocchia di S.Anna

Nel Vangelo di oggi assistiamo all’invio di 72 messaggeri di pace e annunciatori del Regno. Dopo alcune importanti istruzioni i 72 partono e viene descritto il ritorno di questi discepoli pieni di gioia per i successi ottenuti.

Certamente sono tanti i particolari su cui ci si potrebbe fermare per approfondire e riflettere, ma vorrei invece porre attenzione sul primo elemento di questo racconto, che forse rimane il più trascurato, ovvero sul numero «72». In realtà è un numero strano, ci si aspetterebbe di più una cifra tonda, come 70, che richiami, come multiplo di sette, la totalità di questo invio. Che questo numero 72 faccia problema risulta anche da diversi autorevoli manoscritti che, appunto, correggono la cifra in 70.

Ovviamente sono possibili diverse spiegazioni per questa discrepanza tra gli antichi manoscritti, ma tra queste ce n’è una intra-biblica che può suggerirci un’ulteriore riflessione. La scelta di 72 persone a delle orecchie allenate al racconto biblico fa subito venire in mente un’altra scena dove un altro Maestro — Mosè nella tradizione ebraica viene chiamato Moshè rabbenu (Mosè nostro maestro) — convoca 70 anziani perché lo aiutino a portare avanti la sua missione verso la terra promessa.

In realtà, però, il numero delle persone sulle quali discenderà lo Spirito di Dio sarà 72, con un ulteriore particolare: mentre i 70 che ricevono lo Spirito in presenza di Mosè intorno alla tenda del convegno «profetizzarono, ma non lo fecero più in seguito» (Nm 11,25), gli altri due che erano rimasti nelle loro tende non solo ricevettero il medesimo Spirito e incominciarono a profetizzare, ma non si dice che smisero di farlo in seguito. Anzi, alla protesta di Giosuè, che vede in tutto questo una trasgressione all’ordine del maestro, Mosè risponde: «Fossero tutti profeti nel popolo del Signore e volesse il Signore porre su di loro il suo spirito!» (Nm 11,29).

Ecco allora che l’invio da parte di Gesù di 72 discepoli, se si tiene conto di quanto fosse familiare il testo di Numeri nel contesto ebraico in cui tutto questo avviene, può avere un ulteriore significato proprio a partire dall’episodio appena narrato. C’è sicuramente un’«ufficialità» che va comunque rispettata, ma che non può essere esclusiva, poiché lo Spirito di Dio non può avere limiti organizzativi o istituzionali e può posarsi su chiunque al di là di regole, norme e ordinamenti. 

L’invio di 72 discepoli pone allora, da parte del Signore, una condizione essenziale per la buona riuscita della missione stessa: al di là del mandato e dell’invio è lo Spirito che suscita e guida coloro che a sua volta lo accolgono e si lasciano guidare, poiché tutti possono essere profeti nel popolo di Dio. E di fatto tutti i cristiani in virtù dello spirito ricevuto nel loro battesimo sono costituiti come popolo regale, profetico e sacerdotale, a tutti è dato il medesimo Spirito, il quale è libero di agire al di là di ogni norma e istituzione. Norma o istituzione che non viene, però, abolita o disattesa, poiché anch’essa di per sé necessaria, ma resa non esclusiva o escludente, proprio nel rispetto della libertà dello Spirito, della sua costante e continua creatività e libertà. 

A riprova di tutto questo è la frase finale con cui si chiude questo episodio. I discepoli ritornano gioiosi perché la loro missione è stata straordinaria: «I settantadue tornarono pieni di gioia, dicendo: “Signore, anche i demòni si sottomettono a noi nel tuo nome”», e questo grazie proprio al potere che il Signore ha dato loro: «Ecco, io vi ho dato il potere di camminare sopra serpenti e scorpioni e sopra tutta la potenza del nemico: nulla potrà danneggiarvi».

Ma non tanto la buona riuscita della missione, insegna Gesù, quanto un altro deve essere il motivo della gioia: «Non rallegratevi però perché i demòni si sottomettono a voi; rallegratevi piuttosto perché i vostri nomi sono scritti nei cieli». «I nomi scritti nei cieli»: e a chi è dato salire nei cieli per poter leggere quei nomi? Possiamo, come Mosè, inscrivere nell’ordine dei chiamati 70 nomi (che sono già una totalità), ma non possiamo chiudere la porta, escludere quegli altri 2 nomi che solo lo Spirito conosce; non ne abbiamo, semplicemente, l’autorità: «Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese» (Ap 2,29; 3,6; 3,13; 3,22).

 

di Ester Abbatista in Il Regno

Festival Biblico. Credo, un podcast alla scoperta della geografia delle fedi in Italia

Nell’ambito della kermesse dedicata alla Parola di Dio nasce una serie audio in cinque episodi che indaga sul posto che la fede occupa tra i trenta-quarantenni della Penisola
Credo, un podcast alla scoperta della geografia delle fedi in Italia
Avvenire

Che posto occupa oggi la dimensione religiosa nella vita dei trentenni e dei quarantenni italiani? Non è facile formulare una risposta univoca, perché in un mondo complesso caratterizzato da relazioni sempre più frammentate anche la vita spirituale è dispersa lungo miriadi di rivoli dal corso irregolare e discontinuo. Ecco perché forse l’unico modo per affrontare l’argomento è quello di mettersi in ascolto delle storie di vita e delle esperienze di chi cerca per sé una risposta. Ed è proprio in questo orizzonte che si pone “Credo. geografia delle fedi”, un podcast prodotto da Piano P nell’ambito del Festival Biblico.

A guidare l’ascoltatore nella scoperta del ruolo che la dimensione sacra occupa nella vita familiare, affettiva e lavorativa dei trenta-quarantenni italiani è la voce della giornalista Laura Cappon. Questa “geografia delle fedi” in Italia viene narrata in cinque episodi, tutti disponibili sulle maggiori piattaforme di distribuzione dei podcast, oltre che sul sito del Festival biblico.

Se il primo episodio è dedicato ai “cattolici in mezzo al guado”, il secondo dà voce agli ortodossi e alla loro “Chiesa come appartenenza”. Il percorso poi accompagna l’ascoltatore tra i valdesi con il loro “sguardo sul mondo”. Il quarto episodio è dedicato agli ebrei “con un piede impigliato nella Storia” e, infine, nell’ultimo episodio spazio all’islam, che ormai non è più solo “in Italia” ma anche “italiano”.

“Il Festival Biblico è un festival culturale che da 18 anni si interroga sul ruolo che la Bibbia può avere oggi nell’aiutarci a leggere e comprendere le questioni che fanno parte del nostro vivere quotidiano – spiegano gli organizzatori –. Nel 2021, nell’ambito degli incontri dal vivo che si svolgono nelle città e nelle province che ad oggi aderiscono al progetto, ossia Vicenza, Verona, Padova, Rovigo, Vittorio Veneto e Treviso, il Festival ha dato vita a un ciclo di incontri dal titolo Geografia delle fedi con l’obiettivo di conoscere le fedi nel mondo con un approccio che lega le Sacre Scritture, la storia, l’antropologia, il contesto e i suoi dati, le testimonianze”.

Se gli incontri dal vivo puntano i riflettori sul resto del mondo, il podcast apre una finestra sulla situazione in Italia, indagando la “questione seria” della fede grazie ai racconti di giovani o giovani-adulti credenti, che cercano di dare un senso alla propria identità religiosa. Si scopre così che le sfide più difficili non riguardano solo chi, magari arrivato dall’estero, vive un’appartenenze religiosa minoritaria, ma anche chi cerca di comprendere quale sia il modo migliore per vivere nell’oggi la più “tradizionale” delle fedi in Italia, quella della Chiesa cattolica.

Sacra Scrittura e psicoanalisi. Recalcati e la Bibbia: una lettura capace di generare

Dalla Creazione a Noè, l’Antico Testamento come strumento «per comprendere meglio la psicoanalisi». Un lavoro vasto e fondativo, forse arbitrario ma stimolante. Assenti però i profeti e le donne
Massimo Recalcati

Massimo Recalcati – Boato

Avvenire

Il lavoro di Massimo Recalcati sui testi biblici è molto importante. È tra le innovazioni culturali più significative del panorama culturale contemporaneo, non solo italiano e non solo negli studi di psicoanalisi. La Bibbia ha sempre ispirato l’arte, la letteratura, la poesia e la filosofia; nella modernità ha influenzato anche le scienze umane e sociali. Anche Freud, ebreo, anche Lacan, il maestro di Recalcati, hanno attinto dal mondo biblico. Nell’opera di Freud un posto centrale lo occupano i suoi studi su “Mosè e il monoteismo”, anche se, lo sappiamo, Freud e la sua scuola hanno fatto ricorso soprattutto alla mitologia greca.

La Legge della parola (Einaudi. Pagine XIV – 386. Euro 21,00), che in parte raccoglie, sintetizzati, lavori precedenti (quelli su Caino e Giobbe li ho recensiti nel 2021 su queste colonne), è un’opera molto ambiziosa, un esercizio arduo.

Il tema centrale del libro è il ruolo della Legge e della Parola nella Bibbia e nella psicoanalisi. Il sottotitolo del libro è suggestivo ma in parte fuorviante. Le radici bibliche della psicoanalisi farebbe infatti pensare a un lavoro di messa alla luce di radici di una disciplina che erano già lì, nascoste e al buio, sottoterra, come suggerisce la metafora vegetale. Ma il libro parla d’altro, e ce lo dice lo stesso autore: “Si tratta di leggere le Scritture per comprendere meglio la psicoanalisi… annodare i fili di due discorsi (quello della Torah e quello della psicoanalisi) considerati eterogenei e radicalmente alternativi” (p. vii). Quindi il suo non è un lavoro sulle radici ma un intrecciamento di due fili – e, poi, gli studi di Freud e Lacan ci dicono che i due discorsi non erano, dall’inizio, così “eterogenei e alternativi”. In realtà, Recalcati fa davvero un lavoro di fondazione della sua psicoanalisi a partire dai miti biblici, ma il suo è un lavoro sulle radici della sua propria versione della psicoanalisi, che ormai è diventato negli anni qualcosa di più di una applicazione e sviluppo della teoria di Lacan.

Recalcati, forse, è arrivato alla Bibbia, alla parola biblica, partendo dallo studio del linguaggio nella teoria di Lacan, dove occupa un posto centrale, probabilmente il primo posto. La centralità del linguaggio porta Lacan a dire che “ciò che distingue in modo particolare il Dio degli ebrei è … che è un Dio che parla.” (p. 4). Nel primo capitolo della Genesi, infatti, Dio crea dicendo, parlando, pronunciando parole: “E Dio disse …”. La parola creatrice opera quello che Recalcati chiama Il primo taglio: Dio creando si ritira dalla creazione, si separa da esso, “taglia” la creazione da Se stesso. Hoelderlin aveva espresso, poeticamente, questo taglio con uno dei suoi versi più belli: “Dio ha creato l’uomo come il mare crea i continenti: ritirandosi”. Quindi il mondo resterebbe “senza Dio” (p. 13), perché “l’atto della Creazione è l’atto di un taglio che allontana e separa la creatura dal suo Creatore… Il Dio biblico compie un passo indietro rispetto a se stesso separandosi da ciò che ha generato” (p. 12).

Una chiave di lettura che piace molto a Recalcati (e a Lacan), che ha costruito la sua teoria della paternità-figliolanza attorno al tema della necessaria separazione, la sola che garantisce il non-incesto. Quando però arriva a scrivere che “Dio non può determinare il corso della storia perché la storia è fatta dagli uomini e non da Dio. È, a rigore, la morte definitiva di ogni teodicea” (pp. 14-15), facciamo più fatica a seguirlo. Il rapporto tra Dio e la creazione non termina nel capitolo due della Genesi; continua con l’Adam, Caino, Noè e poi Abramo. L’idea biblica centrale di Alleanza dice il contrario: Elohim sceglie un popolo per portare la storia umana verso un compimento, per trasformarla. Il Dio biblico non è assente nella storia, ma opera tramite gli uomini e le donne che sono dentro un rapporto di alleanza. Per non parlare dei profeti, nei quali Dio manda parole agli uomini per cambiare il mondo, per non parlare dell’apocalittica e di Dio come ‘giudice del mondo’ (Dan 7), di Cristo e del Paraclito.

Recalcati continua con un secondo taglio, che rintraccia ancora nei primi capitoli della Genesi, un taglio che “interviene a separare la creatura dal miraggio della sua totalizzazione” (p. 16). Qui in gioco c’è un’altra categoria chiave nel sistema di Recalcati-Lacan: la gestione del desiderio. Nel capitolo due della Genesi, l’Adam (l’umano, il terrestre) diventa Adamo, il maschio, e dopo di lui arriva la donna, Eva, da una costola di Adamo. Qui Recalcati scrive alcune delle pagine più belle del libro: “Il mito della costola perduta è il mito d’origine del desiderio umano: ricercare nell’altro la parte più fondamentale di me stesso” (p. 20).

Anche Lacan aveva discusso il mito di Adamo e la sua costola, e “questa parte perduta che causa il nostro desiderio è chiamata da Lacan l’oggetto piccolo (a)” (p. 20). Una Eva plasmata con una parte del corpo di Adamo piace molto a Recalcati, e ci costruisce un discorso affascinante: “La perdita di una parte del proprio essere – la costola – introduce una mancanza nel soggetto che attiva il suo desiderio verso l’altro il quale, essendo attraversato dalla stessa mancanza, non può che, a sua volta, dirigersi verso l’altro ma senza che ci sia alcuna possibilità per entrambi di colmare in modo definitivo la mancanza che ciascuno porta con sé” (p. 21). Da qui la sua tesi principale sul rapporto sessuale: “L’impossibilità di vivere la relazione con l’altro come una semplice unificazione, un rispecchiamento tra eguali, una simmetria senza differenza” (p. 21).

L’esperienza della mancanza è allora costitutiva dell’eros e della relazione uomo-donna. Il desiderio dell’altro è inappagabile, perché la costola non torna più ad Adamo, è una mancanza incolmabile. Mentre per Platone: “l’eros è la ricerca dell’intero”, per Recalcati-Lacan il desiderio dell’altro è inappagabile, resta una ferita, una indigenza: “Il desiderio umano ricerca la propria parte perduta nell’Altro senza però poterla mai trovare. Eva, come indice dell’alterità dell’Altro, pur sorgendo dalla costola di Adamo, non potrà mai essere recuperata nel suo essere eteros dal desiderio di Adamo”. Per Platone l’eros è il ritorno all’uno e all’intero, per Recalcati “è proprio questa differenza a definire l’essere dell’umano in quanto tale ordinando il suo desiderio attorno a un punto di assenza, a una mancanza d’essere fondamentale” (p. 22-23).

Un discorso affascinante e convincente. Il problema riguarda il rapporto tra questa teoria psicoanalitica e il testo biblico. È difficile fondare questa idea di Recalcati sul mito di Adamo ed Eva, come è difficile tenere assieme “i due tagli”, che si riferiscono a due tradizioni diverse presenti nel testo della Genesi. I versi 1.1-2.3 (quelli del “primo taglio”) appartengono alla cosiddetta tradizione sacerdotale, più recente e nata dopo l’esilio babilonese, mentre i versi 2.4-3.24 (quelli del “secondo taglio”) furono scritti da un autore/autori con altri simboli, con un’altra antropologia, con un’altra idea del rapporto uomo-donna.

Il messaggio del capitolo secondo della Genesi riguarda, essenzialmente, la reciprocità e l’uguaglianza sostanziale tra Adamo ed Eva. La “creazione” di Eva nasce dal seguente “desiderio” di Dio: “Non è bene che l’uomo sia solo: voglio fargli un aiuto che gli corrisponda” (2,18). L’espressione ebraica che noi traduciamo “qualcuno che gli corrisponda” o “che gli sia pari” è ezer kenegdò che significa letteralmente: “qualcuno con cui incrociare gli occhi alla stessa altezza”. All’uomo non bastava lo sguardo verso il basso (animali) né quello verso l’alto (Dio): c’era bisogno di uno sguardo orizzontale tra pari. La gioia di Adamo dopo il risveglio sta nell’aver trovato qualcuno che gli è finalmente pari perché “questa volta è osso dalle mie ossa, carne dalla mia carne” (2,23).

Ciò che sta a cuore sottolineare al testo è proprio la parità e l’uguaglianza, ed è veramente difficile ritrovare nella costola il segno della mancanza e del desiderio inappagabile, perché tutto dice il contrario: con Eva, Adamo ha finalmente appagato quel desiderio di uguaglianza che prima restava inappagato. Questa reciprocità non è solo la nota dominante del Cantico dei cantici (p. 307), è anche la nota della Genesi, sia nel primo capitolo (“maschio e femmina lo creò”: Gn 1,27), sia nel mito di Adamo ed Eva.

Non voglio dire che la visione di Recalcati sia meno interessante di quella dell’autore biblico, di quella di Platone o di Freud; dico soltanto che è problematico fondarla sul testo biblico. Resta invece possibile offrire una lettura nuova di quegli antichi miti, un’operazione legittima e, in questo caso, generativa (suscita molte idee). Spesso gli autori originali e creativi, come Recalcati, che approdano al testo biblico (o a un altro testo classico) con una teoria già formata, difficilmente riescono a resistere alla tentazione di usare il testo biblico come “appiccapanni” (come usava dire Luigi Einaudi) del proprio bel vestito. Un’altra tentazione simile la incontriamo quando Recalcati discute il significato della parola ebraica hevel in Qoelet: lui la traduce “soffio” per eliminare la “dimensione moralista” della parola latina “vanità”, dimenticando che vanitas non ha nulla di moralistico: proviene dal sanscrito vahana, cioè vento e soffio (p. 261).

Molto suggestiva è anche la lettura del cosiddetto “peccato originale” o trasgressione di Adamo ed Eva (e poi quella di Caino), nel capitolo tre della Genesi. Riprendendo una tesi di san Paolo, Recalcati scrive che “il paradosso è che è proprio la nascita della Legge – l’interdizione di Dio – a determinare la nascita del desiderio umano di trasgredire la Legge” (p. 23). Quindi “la Legge separa la vita umana dalla sua immediatezza animale” (p. 25), dominata dall’istinto.

La Legge, ponendo la proibizione di mangiare da tutti gli alberi tranne uno, opera una sorta di “terzo taglio” (anche se Recalcati non lo chiama così), quello dal tutto; infatti, “la possibilità generativa del desiderio dipende dal riconoscimento dell’impossibilità di essere o di fare Uno. L’umano non è padrone del suo fondamento, non può costituirsi come un ‘tutto’” (p. viii). Perché – e questo è una delle intuizioni più belle del libro – “la vera perversione del desiderio umano non è la spinta a trasgredire la Legge, ma quella che si regge sull’anelito dell’uomo ad assimilarsi a Dio, sulla spinta alla deificazione dell’umano, al porre la propria legge al di là della Legge” (p. 26). Infatti, la creazione di un limite non nega “la possibilità del godimento ma la delimita”, interdice soltanto l’accesso a “un godimento totale, assoluto, senza mancanza, non per privare la vita del godimento ma per consentirle l’accesso a un godimento ‘non tutto’” (pp. 28-29). Perché il godimento umano non può godere di tutto, o, con una bella espressione ripresa da Beauchamp: “può godere di tutto, tranne tutto” (p. 29).

Il desiderio di godere di tutto è quello che Freud chiamava desiderio incestuoso, che se assecondato condurrebbe alla distruzione delle società. La Legge dice che ci sono desideri che non vanno soddisfatti, che esiste la categoria dell’impossibile. Solo Dio non conosce l’impossibile, e allora ogni tentativo di negare l’impossibile significa voler “diventare come Dio” (il logos del serpente). Non riconoscere il limite dell’impossibile, e quindi entrare nel registro relazionale incestuoso, significa cedere al godimento mortale, assecondare la pulsione di morte: “è solo preservando l’esperienza dell’impossibile – ‘non mangiatene’ – che diviene possibile l’accesso ad un godimento non mortale ma vitale” (p. 32). La Legge dice che “non è possibile sapere tutto, godere di tutto, avere tutto” (p. 33), e che “farsi simile a Dio è la follia più grande”. Trasgredire la Legge nella Genesi non è la ricerca di un godimento nevrotico, ma significa negare la propria finitudine, il limite, “cancellare l’impossibile dall’esperienza umana” (p. 38) – qui si aprirebbe un discorso sul transumanesimo, ma non lo facciamo

La parte del libro che ho più apprezzato è comunque la lettura che Recalcati fa della storia di Noè, soprattutto dell’ultima parte, quando Noè, terminato il suo compito di salvezza, pianta una vigna, beve il suo vino, si ubriaca, e si denuda nella sua tenda (Gn 9,21). Recalcati sottolinea che il vino di Noè “è anche oggetto di godimento”. L’elemento cruciale è la paternità di Noè. Noè “è anche uomo e, come tale, un essere pulsionale”. Da qui la domanda decisiva: “Un padre, un uomo ‘giusto’, ‘irreprensibile’, non ha forse il diritto a godere?… Non ha forse il padre diritto di coltivare un proprio godimento?” (p. 106).

Già Freud vedeva il padre come soggetto della funzione normativa e come icona della Legge ma anche soggetto di godimento. Per Lacan, poi, “il godimento del padre non è affatto in contrasto con la sua funzione normativa, ma è, al contrario, proprio ciò che rende credibile, che rende il padre stesso davvero degno di testimonianza” (p. 106). E quindi “è necessaria una versione paterna del godimento (père-version) affinché il volto della Legge sia reso umano e associato a quello del desiderio”. E poi aggiunge un elemento decisivo: “Se invece il padre si limitasse a rappresentare solo la dimensione normativa della Legge, la forza della trasmissione del desiderio da una generazione ad un’altra si rivelerebbe insufficiente. Questo significa che ogni padre rappresenta la Legge senza però mai coincidere con la Legge”.

La coincidenza Padre-Legge dipende decisamente dal fatto che al padre non si permette di avere un godimento. Cam è il solo che tra i figli di Noè che non accetta il godimento e il limite del Padre: entrò nella tenda, “vide la nudità di suo padre e raccontò la cosa ai due fratelli che stavano fuori” (Gn 9,22). Cam si scandalizza di un padre ubriaco e fragile, e Noè lo maledice (9,25). Recalcati commenta: “Il carattere umano e non divino del padre può suscitare scherno e disprezzo solamente in quei figli che vorrebbero preservare la sua immagine pura e idealizzata rigettando la sua esistenza reale” (p. 109).

La trasmissione della Legge e dell’eredità dai padri ai figli funziona solo quando i figli accettano che il padre possa restare immagine della Legge pur mostrando la sua umanità fragile e imperfetta; quando invece l’etica del padre coincide con la Legge che annuncia, nessuna trasmissione di eredità funziona perché nessun figlio può essere all’altezza di un padre-Legge: “coloro che rifiutano di assumere il non-essere Dio del padre, il suo non essere un padre ideale, ostacolano la trasmissione dell’eredità paterna nelle generazioni” (p. 110). All’origine di eredità collettive di comunità e movimenti spirituali che non sono riusciti a passare dal padre ai figli, ci sono dei ‘Cam’ che hanno idealizzato il padre, non hanno accettato il suo limite e la sua umanità intera, e così hanno impedito che la sua eredità diventasse patrimonio (munus/dono dei padri) nelle generazioni successive.

Il limite della paternità che Recalcati vede in Noè in realtà è comune a tutti i padri dell’Antico Testamento, dai patriarchi a Davide e Salomone, che sono stati capaci di trasmettere la Legge e la Promessa non ‘nonostante’ la loro imperfezione ma ‘grazie’ ad essa. E qui si apre un ultimo discorso.

Nella prima pagina del suo libro, Recalcati pone una nota editoriale dove dice che questa ricerca sulle ‘radici della psicoanalisi’ continuerà con i Vangeli. Mi auguro solo che prima di lasciare l’Antico Testamento Recalcati continui a lavorarvi, perché il suo lavoro fondativo resta parziale e incompleto. Sono due i grandi assenti: i profeti e le donne.

La Legge senza i profeti non è la Legge biblica: “La Legge e i profeti”, amava dire Gesù per indicare l’eredità d’Israele. La Legge senza profezia è troppo poco, e dà una visione incompleta della stessa legge e dell’antropologia e dell’umanesimo biblico. L’assenza dei profeti si nota troppo. Manca Ezechiele e la sua diversa versione del ‘peccato originale’, (Ez 25), manca Osea, un profeta essenziale per capire una dimensione essenziale del rapporto uomo-donna. In Osea Recalcati avrebbe poi trovato un’altra versione della lotta di Giacobbe con l’angelo (di cui si occupa nel capitolo 5), risalente a una tradizione (forse) più antica di quella della Genesi, dove a vincere il combattimento non è Giacobbe ma l’angelo di Dio, e Giacobbe, fragile e sconfitto, piange e implora.

I profeti hanno un’altra idea della Legge, e la cambiano. Il secondo Isaia, profeta dell’esilio, violando la legge di Mosè che vietava agli eunuchi l’accesso nel tempio, aveva osato scrivere questi versi splendidi: “Così dice il Signore: riguardo gli eunuchi … io concederò loro nella mia casa e dentro le mie mura un monumento e un nome, migliore di quelli dei figli e delle figlie. Gli stranieri … li colmerò di gioia nella mia casa di preghiera” (Is 56,4-7). Eliseo, poi, moltiplica l’orcio d’olio della donna schiava, e le dice: “Va’, vendi l’olio e paga il tuo debito” (2 Re 4,7). Per la Legge gli schiavi dovevano aspettare sette anni per tornare liberi; per i profeti, invece, gli schiavi devono essere liberati qui ed ora. La Legge di Mosè sui debitori, diversa e più umana, non sarebbe nata senza la profezia. La profezia non è mai soddisfatta della Legge, perché nessuna legge può essere all’altezza della terra promessa. La legge del Regno dei cieli è la legge di Mosè e dei profeti, insieme.

Mancano poi le donne, spesso donne nascoste tra le righe, che sono co-essenziali per capire l’umanesimo e l’antropologia della Bibbia. Manca il rapporto stupendo tra Rut e Noemi, Abigail e la sua diversa intelligenza relazionale, la pietas di Rispa che vegliò per mesi i corpi dei suoi figli impiccati, le regine Gezabele e Atalia e il loro rapporto perverso con il potere, non c’è la ‘strega di Endor’, che con il suo vitello grasso offerto ad un Saul depresso e disperato diventa il ‘padre misericordioso’ dell’Antico Testamento. Mancano Ester e Giuditta, manca Tamar, la sorella principessa violentata, la figlia di Jefte sacrificata dal padre per una assurda fedeltà ad un voto, la concubina violentata dai beniaminiti che divenne una lettera di carne.

È vero che Recalcati dedica un bel capitolo (VIII) al Cantico e quindi a quella relazione uomo-donna, ma è troppo poco per una fondazione psicoanalitica della relazione sessuale nella Bibbia. La Bibbia è piena di donne, che, se prese tutte assieme ci rivelano una dimensione co-essenziale dell’umanesimo e dell’antropologia biblica. Senza queste molte donne diverse e stupende, la donna nella Bibbia è troppo piccola: non bastano Eva e la ragazza bruna del Cantico. In ogni buon libro manca qualcosa, che è buono anche perché incompleto. Ai recensori evidenziare la parte mancante, è il loro lavoro, altrimenti sarebbero tristi compilatori di schede bibliografiche o una inutile schiera di ruffiani.

IL mistero trinitario ricorda che la fede, come l’amore, non è fissità, ma ricerca continua. E persino ‘gioco’

Santissima Trinità

Nell’avvicinarci al mistero inesauribile della Trinità, che ricordiamo in questa domenica, dovremmo entrare nella tensione che la Parola mette a fuoco, quella cioè tra ricerca e rivelazione. È nella ricerca costante del volto di Dio che si dimostra la vitalità e il radicamento di una fede: infatti, se ogni rapporto umano cambia nel corso del tempo, per molteplici fattori, lo stesso non può non accadere alla fede, se è ancorata alla vita e alla sua forza. Per questo, il Vangelo sottolinea che il discepolo non può all’inizio possedere tutto, perché la capacità di chi è nella sequela è sempre perfettibile, migliorabile, sostanzialmente umana (e fallibile). La «verità tutta intera» è solamente dono dello Spirito, che dona, concede, svela al tempo opportuno, in un cammino di progressiva adesione. Chi si crede arrivato, chi crede di aver esaurito il mistero di Dio (una contraddizione in termini), non è nella dinamica evangelica.
Fu questo lo stesso percorso dei Dodici, con esiti differenti, dalla loro chiamata alla Passione, dalla Resurrezione alla missione fino alla consumazione dei loro giorni. Forse che non sarà lo stesso per noi?

La conferma di tale ‘movimento’ della fede – e della vita – è in quello che possiamo intuire della Trinità, dove il circolo d’amore fra le tre persone divine è il contrario della stasi e della fissità, poiché l’amore donato-ricevuto è sempre movimento, in un’eterna danza di dono e accoglienza, di uscita e entrata e, infine, di rivelazione verso l’umanità.
Per questo, ogni qual volta pretendiamo di circoscrivere Dio, di attribuirgli con certezza confini e limiti, dovremmo sentire un campanello d’allarme: il Dio rivelato da Gesù di Nazareth non può essere limitato. Egli è sempre oltre, è sempre ulteriore, e ci spinge ad andare sempre oltre.

Ugualmente, dovremmo avvertire preoccupazione, quando la nostra vita di fede si ripropone sempre identica nel tempo, negli stati di vita, nella differenti situazioni che viviamo: è segno che il nostro cammino non è più un cammino, ma una sosta. È segno che la nostra conversione – mai terminata – è stata accantonata. Una sana inquietudine che ci stimola al bene, alla ricerca, all’umiltà è un dono della grazia.
Di fronte alla Trinità, ci farà bene chiederci che amore abbiamo e, soprattutto, che fede abbiamo: è in umile movimento o è ferma, fissa, troppo sicura di sé? L’acqua, se è stagnante, non è buona da bere; la bicicletta, per andare, deve muoversi…
È bellissimo il verbo ‘giocare’ che la prima lettura attribuisce alla Sapienza di Dio: «giocavo davanti a lui in ogni istante, / giocavo sul globo terrestre»: è un Dio che gioca, il nostro, muovendosi, verso di noi e fra le sue tre persone… Un Dio che sa giocare, è quello rivelato dalla Scrittura.

L’amore, lo sappiamo, richiede la pazienza del cammino, come la fede: «Attendere con profonda umiltà e pazienza l’ora del parto d’una nuova chiarezza», così scriveva Rainer Maria Rilke nelle Lettere a un giovane poeta.
È anche, in sintesi estrema, una buona descrizione della sequela cristiana. Che è anche un ‘bellissimo gioco’.

Il libro della Sapienza

di: Roberto Mela in Settimana News

commentario

Il libro della Sapienza, oggetto del commentario del docente di Esegesi dell’AT presso la Facoltà Teologica Pugliese (Bari), è un libro affascinante e particolare, presentando in molte sue pagine un taglio “filosofico” unico nella Bibbia.

Questioni storico-letterarie

Nella parte prima del suo volume (“Sezione introduttiva”, pp. 9-54) Pinto analizza le principali questioni storico-letterarie riguardanti il libro della Sapienza.

Esso appare come una composizione unitaria scritta direttamente in greco, ma opera di un autore che ha un retroterra di pensiero giudaico. Presenta un linguaggio composito, più o meno artificioso, come tutto il greco alessandrino.

L’autore conosce la retorica classica e ne impiega molte figure; metafora, litote, anafora, paronomasia, isocolia, antitesi, accumulazione, asindeto omoteleuto, sorite ecc. Ben 240 volte usa l’iperbato, cioè l’inversione di alcuni elementi rispetto all’ordine normale della frase. Numerose sono le parole che compaiono una volta sola, hapax legomena assoluti. Non essendo uno scritto originariamente scritto in ebraico, Girolamo non l’ha tradotto in latino e perciò nella Vulgata abbiamo il testo della Vetus Latina. Sapienza è un libro deuterocanonico e non compare nel canone ebraico.

Quanto all’autore, il libro è attribuito a Salomone, ma il contesto culturale è completamente diverso dal X sec. a.C.

C’è chi ha pensato ad autori diversi in tempi diversi (C. Larcher), chi pensa a un autore noto come Ben Sira, oppure Eupòlemo, o anche il filosofo giudeo alessandrino Aristobulo o, addirittura, Filone stesso.

Il libro riflette la cultura e l’ambiente storico di chiaro contesto culturale ellenistico, frutto dell’opera di un giudeo legato fermamente alle sue tradizioni, versato nelle Scritture, esperto di greco e cultura greca. Esprime la fede tipicamente giudaica nel Dio unico e onnipotente, Signore sovrano dell’universo.

Sono presenti anche altri elementi: l’aberrazione del politeismo, degli idoli e dell’immoralità dei pagani; l’orgoglio di appartenere al “popolo santo”, la nazione eletta, di cui ammira il passato e i suoi eroi; la certezza della sua missione nel mondo.

Secondo G. Scarpat, la cultura dell’autore è giudaica e i suoi libri di riferimento sono la Legge, i Salmi e i libri sapienziali.

L’autore vive ad Alessandria, importante centro economico e culturale per i giudei della diaspora. In essa fu composta la traduzione dei LXX, a testimonianza delle condizioni in cui avvenne la composizione di un’opera cosmopolita come Sapienza.

L’autore si rivolge probabilmente ai futuri leader della comunità affinché siano culturalmente preparati per affrontare l’impatto con il mondo che li circonda al tempo dell’imperatore Augusto.

Circa la datazione, si propende per il 30 a.C. In Sap 6,3 si menziona la kratēsis (“dominio, sovranità”), cioè la presa di Alessandria da parte dei romani nel 30 a.C. Il periodo potrebbe estendersi fino al 40 d.C., tempo della venerazione delle immagini da parte di Caligola.

In Sap 14,22 si menziona la pax romana stabilita da Augusto e rinnovata da Tiberio e da Caligola e che diventa una nuova divinità per i romani, con un culto ufficializzato il 30 gennaio del 9 a.C. Dice il testo: «Inoltre non fu loro sufficiente errare nella conoscenza di Dio, ma vivendo nella grande guerra dell’ignoranza, a mali tanto grandi danno il nome di pace».

Sap 14,23-25 riporta varie depravazioni come conseguenze della pax romana. Nel 24-23 a.C. fu imposta la laografia, cioè la tassa pro capite imposta dai romani in Egitto a tutti coloro che non erano considerati cittadini greci. Insieme agli egiziani, gli ebrei videro peggiorare le loro condizioni economiche, una sperequazione sociale.

Il libro della Sapienza sembra includere vari generi letterari. È presente il genere midrashico, se compreso in senso largo come riflessione omiletica o meditazione sulla Bibbia che cerca di interpretare e attualizzare un testo del passato in riferimento alle circostanze attuali sviluppandone il senso iniziale.

Per alcuni studiosi il libro della Sapienza appartiene al genere protrettico, in quanto sarebbe un’opera di propaganda, un’esortazione in favore non tanto della filosofia, quanto a conseguire la sapienza che Dio offre, e nella quale si compiono i piani relativi ai popoli e agli individui.

Alcuni capitoli sembrano appartenere al genere della sygkrisis cioè del paragone, per sottolineare quale dei due soggetti paragonati a lungo sia il migliore, mettendo in luce i pregi dell’uno e i difetti dell’altro. L’autore di Sapienza conosce il genere ma lo filtra attraverso la sua formazione giudaica. In Sap 11–19, secondo P. Beauchamp, le figure non sono due ma tre: ebrei, egiziani e cosmo. Quest’ultimo darebbe un fondamento non solo retorico, ma logico e sistematico alla comparazione. Per A. Niccacci, Sapienza è un’istruzione (come Pr 1–9).

M. Gilbert e P. Bizzeti propendono per il genere dimostrativo o epidittico. Il libro della Sapienza sarebbe un elogio o un encomio della sapienza, che elabora in modo originale l’impianto greco-latino dell’encomio. Questo prevedeva: 1) un esordio in cui si anticipa l’argomento dell’elogio confutando le ipotesi contrarie; 2) l’elogio vero e proprio della virtù (o del personaggio); 3) l’esemplificazione (o amplificazione) mediante il ricorso alla comparazione fra uomini illustri del passato e il personaggio elogiato. J. Vílchez Líndez afferma che Sap appartiene al genere epidittico nelle sue linee fondamentali, ma esso solo è modello a se stesso.

Pinto appoggia la posizione di V. Morla Asensio, che invita alla cautela e parla di Sapienza come un elogio sui generis, con caratteristiche proprie. Non si può dedurre un denominatore comune di genere per tutto il libro; in Sap si mescolano elementi sapienziali e apocalittici, la diatriba e la sincrasi, elementi esortativi e lo stile proprio dell’esegesi midrashica, in particolare nell’esposizione dell’esodo.

Struttura

Circa la struttura del libro, a partire dall’interesse particolare per alcuni capitoli, dopo la divisione in due parti o in quattro, si giunse al rinvenimento di una struttura tripartita, con diversità di vedute circa l’inizio della seconda parte.

Pinto ricorda che la complessità di Sapienza costituisce un motivo di originalità e l’unità di stile, lingua e trama teologica conferisce compattezza ai capitoli e valorizza Sapienza come libro da accogliere come opera nella sua globalità, senza spezzettamenti in segmenti indipendenti e autonomi.

L’approccio retorico ha contribuito molto a sostenere l’unità del libro. P. Beauchamp, M. Gilbert e in parte anche P. Bizzeti vedono l’impianto retorico classico come paradigma principale a partire dal quale leggere e interpretare il libro. M. Gilbert, maestro di generazioni di biblisti al PIB di Roma, presenta questa struttura generale: Esordio (1,1–6,25); Elogio della sapienza (7,1–8,21); Preghiera per ottenere la sapienza (9,1-21); Amplificazione (10,1–19,22).

Sintetizziamo la struttura seguita da Pinto nel suo commentario.

  1. Exordium: amate la sapienza! (1,1–6,21). All’Esortazione iniziale (1,1-15) seguono Le trame degli empi (1,16–2,24), I paradossi della vita (3,1–4,20), Giudizio escatologico (5,1-23), Esortazione ai governanti (6,1-21).
  2. Salomone contempla e chiede la Sapienza (6,22–9,18). Sap 7,1–8,21 presenta una struttura chiastica concentrica: Salomone si presenta come un comune mortale; la Sapienza ha un valore inestimabile, dona la scienza, ha una natura ricca, è compagna di vita e dona somma ricchezza, esalta e dona prestigio. Dopo la descrizione dei primi passi compiuti con essa (8,17-21), Salomone invoca da Dio la Sapienza (9,1-6), perché la invii dai cieli santi (9,7-12) dal momento che il corpo appesantisce l’anima (9,13-18).
  3. La Sapienza nella storia (10,1–19,21). La parte è così strutturata: Inno storico alla Sapienza: da Adamo a Mosè (10,1–11,4); Assioma generale e il primo dittico: acqua del Nilo – acqua dalla roccia (11,5-14); Prima digressione: la filantropia divina (11,15–12,27); Seconda digressione: contro l’idolatria (13,1–15,19); Secondo, terzo, quarto dittico (16,1-29; rane – quaglie; tafani e cavallette – serpente di bronzo; pioggia e grandine – manna); Quinto dittico: tenebre – luce (17,1–18,4); Sesto dittico: morte dei primogeniti – salvezza di Israele (18,5-25); Settimo dittico: annegamento – passaggio del mar Rosso (19,1-9); Conclusione: giudizio e premio (19,10-21); Magnificat finale (19,22).

L’importante assioma di Sap 11,5 – «Ciò con cui erano stati puniti i loro nemici, per loro, nel momento in cui erano nel bisogno, fu un beneficio» – scandisce la riflessione midrashica dell’autore, e conferma il senso teologico nascosto nel profondo degli avvenimenti biblici.

Contenuti del libro

Pinto evidenzia cinque punti tematici emergenti in Sapienza.

  • Il primo è la contrapposizione tra giusti ed empi.

La sapienza – intesa sia come persona sia come virtù – porta alla vita eterna e, nonostante le beffe e le cattiverie degli uomini, il giusto non verrà deluso nelle sue aspettative e sarà esaudito. Caratteristica del sapiente è perseverare nella propria fede.

Il saggio invita chi si sforza di scorgere orizzonti più ampi per sé e per il mondo intero; per questo egli consegna la speranza della vicinanza divina esperita già su questa terra, rimanda al godimento pieno dopo la morte ed esorta ad attendere con fiducia la prossimità e l’accessibilità della sapienza, perché «essa facilmente è contemplata da chi l’ama e trovata da chiunque la ricerca» (Sap 6,12).

L’autore di Sapienza risponde alle categorie di persone che negano la trascendenza dell’uomo, perseguendo un’antropologia materialista e nichilista. Gli “empi” non sembrano indicare una categoria specifica (ad es. gli epicurei), ma sono identificabili dai lettori di ogni tempo con coloro che si precludono il rapporto con Dio e ostacolano quelli che credono nella ricompensa che viene donata a chi spera nella vita eterna. Sono coloro che sono lontani dalla strada che conduce alla sapienza.

Se gli empi sono connotati dall’arroganza, il “giusto” è da intendersi come l’immagine del popolo di Israele o, forse più genericamente, di ogni essere umano retto che soffre a motivo della cattiveria umana. La categoria dei “giusti” ha una matrice giudaica: sono il popolo di Dio (cf. i “giusti” al plurale a partire dal c. 3).

  • Un secondo tema importante è quello della vita oltre la morte per le anime dei giusti.

L’autore di Sapienza fa intravedere un orizzonte ultraterreno come nessuno dei sapienti aveva ancora fatto. Gli “empi” dei primi capitoli non credono alla vita ultraterrena e invocano su di sé con animo sprezzante la morte (Sap 2,1). La vita è un caso, il respiro delle narici un fumo, la parola una scintilla che si spegne, portando nella cenere il corpo, mentre lo spirito si dissolverà come aria inconsistente (cf. 2,2-3)

Gli empi hanno un deficit di conoscenza. Non si spingono oltre l’orizzonte terreno, non hanno di vista che le anime dei giusti sono custodite dal Signore. Dio sorveglia con saggezza e non lascia cadere invano alcuna lacrima dei giusti.

L’autore allude alla vita oltre la morte, non asserendo alcunché circa il corpo dei giusti. Questa verità sarà rivelata solo nel NT. La fede nella risurrezione compare anche in Dn 12,2-3; 2Mac 7,23; 12,43). «Dichiarare in Sap 3,4 che la speranza delle anime giuste è piena di immortalità (athanasia) significa professare la sussistenza – oltre la morte fisica – di una dimensione della vita umana, quella “psichica”: non si accenna alla sorte dei corpi, postulando, senza ulteriori specificazioni, l’incorruttibilità (aphtharsia) dell’uomo pio e devoto e cioè la sua amicizia con Dio, mentre gli empi sono annoverati fra coloro che stanno dalla parte della morte (2,24)» (p. 35).

  • Un terzo tema è quello di una sapienza che è amica dell’uomo.

Se Qohelet non attesta l’immediata accessibilità della sapienza, sottolineando la fatica legata alla sua acquisizione, Sapienza afferma la sua accessibilità e la sua prevenienza nei confronti di chi la cerca (6,16). La sorite di 6,17-19 ricorda con una catena ascendente i vari passi: desiderio dell’istruzione, amore, osservanza delle leggi, garanzia di immortalità, vicinanza a Dio. Dio non è una divinità imperscrutabile, ma si manifesta attraverso la sapienza. Tra Sophia e Theos c’è un rapporto di mutua donazione.

Il libro della Sapienza risponde a quanti sono stati frustrati nella loro ricerca del volto di Dio. L’uomo è connotato dalla piccolezza e il percorso sapienziale è di natura spirituale: «Chi avrebbe conosciuto la tua volontà, se tu non gli avessi dato la sapienza e non gli avessi inviato dall’alto il tuo santo Spirito?» (Sap 9,17).

  • Un quarto tema è quello della difesa della fede giudaica.

Ad Alessandria ai giudei è concesso di mantenere una comunità autonoma retta dalla legge dei padri. Dal momento che la grecità sembra comunque avere il sopravvento, una serie di fattori culturali e religiosi inducono l’autore di Sapienza ad affermare la necessità di restare ancorati alla legge dei padri e a ribadire l’urgente necessità che i pagani si convertano. L’autore non condivide il filo-ellenismo presente fra i giudei di Alessandria e condanna l’idolatria sotto tutte le sue sembianze in quanto inconciliabile con l’osservanza della Legge.

Il quadro generale comprende culti vari, pratiche selvagge delle religioni misteriche con sacrifici umani, conflitti interetnici, xenofobia verso i giudei, degrado dello status dei giudei successivo alla laografia.

L’autore di Sapienza vuole sottolineare la distinzione fra giudei ed egiziani, combattendo la xenofobia (cf. Sap 19,13-16). L’autore prende di mira l’élite socio-culturale di Alessandria, coloro che si formano al Ginnasio e gli intellettuali del Museo, i «giudei di cattiva qualità», per denunziare alcuni processi di integrazione che portavano alla fine alla perdita della propria identità nazionale e religiosa.

In Sap 2,12 si parla di quanti trasgrediscono la Legge e l’educazione tradizionale. Nel libro si stigmatizza inoltre l’eroicizzazione dei defunti giovani, per affermare che la vera immortalità sta nella virtù e non nei figli. Ci si scaglia inoltre contro l’esistenza e la partecipazione alle associazioni conviviali e confraternite (1,16–2,9), luogo di burla, orge, azzuffamenti, atmosfera dionisiaca.

L’autore si scaglia contro gli omicidi rituali di bambini, pratiche misteriche, cortei in trance, antropofagia sacra e omofagia. Egli combatte contro il crescente fascino esercitato dalle immagini: culto del sovrano e di un giovane defunto; l’immagine diventata un riflesso del divino.

G. Bellia parla di un sistema complessivo che permette di identificare «una tendenza verso l’irrazionalismo e il nichilismo che, con la loro cultura di morte (2,1-5; 14,23-24) contagiavano in eguale misura giudei agnostici (2,2) e pagani dissoluti (18,12-13), smarrendo gli uni la via del bene per la mancanza di fede nella parola donata dall’alto (5,7), e gli altri il retto uso della ragione (11,15) a motivo dell’inganno idolatrico (13,1)» (p. 38).

  • C’è, infine, il motivo della rilettura sapienziale dell’esodo.

Sap 10–19 si sviluppa secondo il procedimento del midrash e rinvia agli avvenimenti narrati nei libri dell’Esodo e dei Numeri. Il punto di partenza è che la sapienza ha liberato il popolo santo da una nazione di oppressori (10,15).

L’autore sviluppa la sua riflessione teologica alludendo a vari episodi esodali, abbellendoli o tralasciando particolari, o imponendo loro un senso nuovo. Lo scopo della memoria e della rielaborazione del passato è di «mostrare l’agire divino a favore del suo popolo, ricavando una lezione di fede e di speranza per il presente dei giudei alessandrini che non vivono un momento facile. Il parallelismo tra le sette catastrofi che si abbatterono sugli uomini del faraone e i sette benefici che, invece, il Signore concedeva a Israele mira precipuamente a rinsaldare la fiducia nel giudizio di Dio che ha cura del suo popolo eletto» (p. 39).

Destinatari

In un ambiente di persecuzione simile a quello presente in 1–2 Mac, il giusto perseguitato rappresenterebbe il prototipo del giudeo fedele ai costumi dei padri che, in ragione di tale fermezza morale e religiosa, viene guardato con sospetto ed è fatto bersaglio dell’atteggiamento ostile degli alessandrini e dei greci.

Per A. Niccacci e altri studiosi, l’autore si rivolgerebbe invece ai giudei apostati che hanno abbandonato la fede per accedere ai posti di prestigio nell’amministrazione e del potere in generale. Sapienza non rivelerebbe uno sfondo di persecuzione antigiudaica ma offrirebbe uno spaccato della comunità e dei suoi problemi in terra straniera.

Altri autori pensano a un libro di scuola concepito per la formazione dei futuri leader della comunità giudaica (cf. Sap 6–7), i quali, chiamati a reggere le sorti del popolo in un contesto ostile, devono essere culturalmente ben preparati. È fondamentale la formazione del carattere e delle abilità dell’educando in vista dell’assunzione di responsabilità pubbliche in seno alla società civile (cf. Sir 38,31–39,11), o in ordine al più quotidiano ambito familiare (cf. l’educazione parentale in Pr 1–9).

A Pinto non pare accettabile la considerazione di Sapienza come un testo rivolto ai re pagani affinché imparino a rispettare i giudei. Questo presupporrebbe nei destinatari la conoscenza dei testi biblici e Sapienza risulterebbe per loro un testo criptico. Secondo Pinto, l’invito ai governanti a lasciarsi guidare dalla sapienza non implica direttamente il coinvolgimento dei capi politici delle nazioni non-giudee. Esso è generico, non ha destinatari storici, svolge una funzione retorica e una sorta di pretesto letterario: l’autore di Sapienza si rivolge ai detentori del potere tout court ma intende raggiungere i suoi connazionali (ai quali esprime la condanna dei governanti). La regalità politica di Sapienza è, quindi, per Pinto, meramente fittizia, perché «l’autore sembra rivolgersi essenzialmente ai suoi fratelli d’Israele che vuole condurre alla regalità della sapienza» (M. Gilbert, cit. a p. 41).

Per altri studiosi, Sapienza si rivolge ai leader pagani, affinché vengano consigliati sul buon governo (così L. Alonso Schökel).

Per A. Niccacci le singole parti dell’opera, composta in tempi lunghi, si rivolgono a una diversità di destinatari. Sap 1,5–5,23 ha come destinatari i giudei di una comunità divisa e oppressa, che non crede troppo alla provvidenza divina; in Sap 6,1–10,1 i destinatari sono i re della terra e l’orizzonte di riferimento diventa universale. Sap 11,2–19,22 si propone invece di esortare il popolo giudaico a trarre conforto e fierezza dal ricordo dell’esodo, ma anche di ispirare un salutare timore in coloro che continuano a trattare ingiustamente la nazione santa. Ci si rivolge qui anche ai pagani idolatri, invitati a prendere coscienza della loro angoscia religiosa e morale.

Alcuni autori – tra cui J. Vílchez Líndez – pensano a un pubblico di frontiera, con destinatari anche eventualmente non giudei. La forma retorica dell’opera sarebbe il tentativo di entrare in un campo comune, comprensibile sia ai giudei sia ai “non giudei”.

Pinto approda a una sintesi che riportiamo per esteso. «Detto in altri termini: l’autore del libro risponde ai problemi della sua comunità (derisione da parte dei pagani, defezione interna ai giudei) senza “propugnare reattivamente il puro rifiuto della società evoluta in cui, certamente, doveva vivere a suo agio” (G. Bellia). Nella complessa società di Alessandria, l’autore, da un lato, esorta e incoraggia la propria comunità a non imitare i costumi degradati dei pagani, ma “al contempo ha voluto farsi carico di un confronto leale con esponenti di altri ceti culturali, interessati alla ricerca della sapienza, per mostrare quanto era degna di rispetto la propria tradizione religiosa; intendeva così salvaguardare sia la fede dei correligionari più provati o tentati dai guasti della società alessandrina, sia i vantaggi e i privilegi di un confortevole livello sociale raggiunto” (G. Bellia)» (p. 43).

Sapienza nell’Antico e nel Nuovo Testamento

Pinto ricorda le numerose allusioni ai testi della Torah, dei Profeti e degli Scritti sapienziali presenti nel libro della Sapienza.

La Torah è ripresa in termini sapienziali. Secondo A. Bonora, il carattere di rivelazione, di normatività e di autorità proprie della Torah viene reinterpretato e fatto valere nella prospettiva sapienziale; ciò appare soprattutto in Sap 9. C’è la questione del rapporto tra rivelazione e creazione, in ambito più teologico, tra natura e grazia. In Sapienza la volontà di Dio, che nel Pentateuco è ricevuta tramite il legislatore e le leggi, si manifesta mediante la Sapienza (cf. Sap 9,17-18). La Torah mosaica, donata a Israele, per Sapienza è valida per tutti gli uomini (cf. Sap 18,4).

L’agiografo non contrappone mai Sapienza e Legge, come se fossero due realtà eterogenee legate rispettivamente alla creazione e alla rivelazione storica. Bonora ricorda che «cercare la sapienza non è solo cercare il senso del mondo, ma è cercare Dio; osservare la Tôrāh non è solo obbedire a una rivelazione, ma vivere l’esperienza umana obbedendo a Dio; tra Tôrāh e sapienza non esiste né separazione né successione o sviluppo, ma inclusione» (p. 45).

In Sapienza si trovano numerose allusioni ai profeti “maggiori”, in primis a Isaia. Il servo sofferente traspare in Sap 2–3. Si allude anche a Geremia (cf. Sap 1,7) e a Daniele tramite l’apocalittica. Un punto di contatto con i Profeti è dato dal tema della misericordia divina verso i nemici di Israele.

Ci sono i temi del castigo, dell’idolatria e della conoscenza. I castighi di Dio verso Israele sono la sua paideia, la logica correttiva che YHWH propone al suo popolo (cf. Ger 10,24; 26,28 testo greco). Il tema della misericordia si ritrova specialmente nella polemica contro l’idolatria (cf. Sap 13 – 15). Quello della conoscenza si può ritrovare in Ger 9,22-23 e Sap 15,1-6. Il rimprovero dell’idolatria è rivolto in Sapienza ai pagani, mentre in Geremia è indirizzato al popolo eletto. Sapienza si presenta più aperta alla compassione universale, rispetto agli oracoli di Geremia.

Numerosi sono i punti di contatto con gli “Scritti”. Ci si concentra sull’insegnamento e sull’esortazione, mentre prima ciò assumeva la forma della teofania e dell’oracolo. Emerge il tema della retribuzione come premio per il giusto e punizione del malvagio. Nel postesilio era emersa la riflessione sul senso da dare all’esilio babilonese e alla sofferenza del popolo eletto. L’ermeneutica di Sapienza si basa sullo sfondo della tradizione degli intellettuali di Israele. Numerose le allusioni anche ai libri “poetici”. Sono citati il Sal 36,11b (Sap 10,10b); 115,7 (Sap 9,5); 38,8 (Sap 15,5). I testi sono citati direttamente dal greco.

L’autore di Sapienza cita con libertà il patrimonio biblico e tradizionale, finalizzandolo al raggiungimento del fine religioso e “propagandistico” che lo ispira nella composizione dell’opera.

Vari autori hanno notato un contatto tra il libro della Sapienza e il NT, in specie con l’epistolario paolino. Si tratta di allusioni e non di citazioni dirette. Ci sono motivi sapienziali comuni (tra Rm 1,18–2,16 e Sap 13–15) e allusioni (tra Rm 11,33 e Sap 9,13.16-17). Vari autori riconoscono un influsso sulla cristologia paolina di 1Cor 1–4 e Col 1,15-20, da leggere forse alla luce di Sap 7,26 (ma anche di Pr 8,22).

I contatti si spiegano nella particolare esperienza paolina – tra giudaismo ed ellenismo – e nella sua sintesi teologica propria. Sembra esistere un rapporto tra sophia e mystērion: la sapienza divina rimanda, infatti, al progetto “misterioso” del Padre di mandare il Figlio come redentore, vertice e compimento della salvezza per gli uomini e per le donne.

C’è chi ha studiato in particolare il rapporto tra Romani e Sapienza in Rm 11,23-33 e 16,25-27, notando confluenze del linguaggio sapienziale in Romani ma anche una profonda differenza di senso rispetto alla tradizione sapienziale.

La sapienza in Paolo è un termine ambiguo, perché può indicare la conoscenza umana che si oppone alla rivelazione e necessita di essere chiarito alla luce dell’evento Cristo, e dalla più ampia rivelazione del mistero della salvezza.

L’interpretazione messianica del giusto di Sap 2 ha origine remote ma è da dimostrare che gli evangelisti conoscessero Sapienza e che l’abbiano utilizzata come modello di riferimento nella composizione dei loro scritti. Gli studiosi parlano di “profezia storica”, spostando l’attenzione dal dato meramente letterario a quello teologico.

In ogni caso, anche se Sapienza non è un libro profetico stricto sensu, poiché è scritto con scopi didattico-religiosi utili alla vita concreta e poiché rielabora la storia biblica del passato, è depositario di un alto grado di autorevolezza, e i suoi destinatari non sono solo quelli storici ma anche i potenziali lettori attuali.

A. Sisti sottolinea il fatto che, essendo Sapienza un libro ispirato, lo Spirito Santo che ha guidato e assistito l’autore biblico può aver fatto sì che «le sue parole non solo risultassero veritiere e aderenti alla realtà che egli intende esprimere, ma che fossero anche ordinate a preparare la rivelazione successiva dei tempi messianici» (p. 53).

Pinto non è contrario al collegamento “profetico” tra il giusto di Sapienza e Cristo, ma preferisce evitare derivazioni dirette e a senso unico: il libro della Sapienza non è una semplice anticipazione del Nuovo Testamento o una specie di “prova” della rivelazione di Gesù nell’Antico Testamento, poiché è un’opera che «sta in piedi da sola», e «il suo ingresso nel processo ermeneutico della comunità cristiana le dona maggiore ricchezza teologica, ma non la sminuisce né la svuota del proprium di senso che le appartiene» (ivi).

La parte seconda dell’opera (pp. 55-320) è dedicata alla traduzione e al commento. Alla traduzione personale di Pinto si aggiungono a piè di pagina le note filologiche, di critica textus e di dialogo scientifico con altri autori. Il commento storico-letterario-teologico è distribuito secondo brevi pericopi ma anche versetto per versetto.

Nella parte terza (pp. 321-384) lo studioso sintetizza il messaggio teologico di Sapienza concentrandosi su quattro temi: la presenza o meno della risurrezione in Sapienza; l’idolatria e il monoteismo; l’homo sapiens e la tecnica; la donna quale grande assente in Sapienza.

Pinto analizza quindi la posizione del libro di Sapienza nel canone presentandolo come uno dei testi deuterocanonici e cercando un confronto con gli altri libri sapienziali. Segue la delineazione della storia dell’interpretazione: Sapienza nel Magistero, nel Lezionario e il suo rapporto con i Novissimi. Il lessico biblico-teologico ragionato conclude questa parte.

Chiudono il volume la bibliografia (ragionata e generale, pp. 385-400) e vari indici (pp. 401-418): degli autori, delle citazioni bibliche ed extrabibliche, filologico, degli excursus.

L’opera di Sebastiano Pinto costituisce un pregevole commentario maggiore al libro della Sapienza, un testo affascinante ma impegnativo per il suo linguaggio spesso tecnico, sospeso fra i due mondi del giudaismo e dell’ellenismo, alla ricerca di un dialogo anche culturale e filosofico che metta in risalto anche nella diaspora la grande dignità e autorevolezza della tradizione sapienziale e teologica del popolo di Israele.

Sapienza. Nuova versione, introduzione e commento a cura di SEBASTIANO PINTO (I Libri Biblici – Nuovo Testamento 34), Edizioni Paoline, Milano 2022, pp. 424, € 49,00, ISBN 97888315518892.

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