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A Rio de Jainero il progetto della Città della Bibbia

A Rio de Jainero il progetto della Città della Bibbia

Immaginate di entrare in un parco di divertimento e di trovarci non gli addetti travestiti da Topolino o le tipiche strutture snodate delle montagne russe bensì una riproduzione gigante della Bibbia, di dimensioni 12 metri di altezza e 22 metri di larghezza, aperta a metà e con la copertina rivolta verso l’alto, come a formare un tetto a capanna. Un posto del genere sta per sorgere in Brasile, in località Miguel Pereira, nello Stato di Rio de Janeiro: un parco di attrazioni a tema religioso che si chiamerà “Cidade da Biblia” (“Città della Bibbia”) e che con i suoi 11mila metri quadrati sarà il più grande del Paese e, per quanto riguarda la cristianità, di tutto il mondo.

«I luoghi per praticare la spiritualità sono alleati del turismo e ampliano la conoscenza e la fede dei viaggiatori», recita testualmente la pagina del ministero del Turismo sul sito del governo brasiliano, indicando quindi quello che è un vero e proprio obiettivo politico: puntare forte sul turismo religioso, un segmento che secondo l’Organizzazione mondiale del Turismo vale mezzo miliardo di viaggiatori e un giro d’affari di 18 miliardi di euro, di cui circa 3 miliardi solo in Brasile, con una ventina di milioni di visitatori stimati all’anno che contribuiscono così allo sviluppo delle comunità locali, spesso emarginate e in condizioni di difficoltà economica.

“Cidade da Biblia”, i cui lavori inizieranno entro la fine dell’anno stando al cronoprogramma reso noto a inizio luglio (non rivelato invece l’investimento), sarà il più grande ma non il primo: il Paese conta circa 300 popolari mete di turismo religioso, dal famosissimo santuario del Cristo Redentore di Rio de Janeiro, che è il monumento più visitato di tutto il Sudamerica (2,4 milioni di turisti nel 2023), a decine di templi, mete di pellegrinaggio e parchi a tema sparsi per il Paese, di cui la stragrande maggioranza legati alla cristianità ma con proposte anche per i fedeli di altri culti, compresi quelli di matrice africana e esoterica.

Del resto in Brasile, secondo il censimento del 2022, ci sono più chiese e luoghi religiosi, contando anche sinagoghe, moschee e templi buddisti, che ospedali e scuole messi insieme, contando anche università e cliniche private: sono poco meno di 580 mila (286 per ogni 100 mila abitanti) contro 512 mila (252 ogni 100 mila abitanti).

Oltre alla copia gigante della Bibbia, il parco di intrattenimento di Miguel Pereira ospiterà anche una riproduzione della Tomba del giardino di Gerusalemme, con gli stessi alberi menzionati nelle Sacre Scritture ossia mandorli, acacie, ulivi e fichi. Il progetto prevede anche la replica della Via Crucis, un museo, un cinema, oltre che chiaramente negozi di souvenir, bar e ristoranti.

“Cidade da Biblia” unirà l’utile al dilettevole e pertanto organizzerà pure eventi e celebrazioni religiose, secondo quanto comunicato dal Comune che ha intenzione di scommettere sempre di più sulla formula dei parchi di attrazioni, non solo religiosi: già nel 2022, la cittadina da 25mila abitanti che sorge sulle montagne alle spalle di Rio – non lontano da Petropolis, antica dimora dell’imperatore Dom Pedro II – aveva inaugurato “Terra dos Dinos”, il più grande parco tematico del Brasile dedicato al mondo dei dinosauri, con più di 40 repliche in formato reale degli animali preistorici.

Avvenire

Cari preti, leggete!

lettura

settimananews

Gli storici delle religioni hanno utilizzato per decenni un’etichetta che unifica le tre grandi e più diffuse religioni monoteiste mediterranee (ebraismo, cristianesimo, islam): religioni del Libro. È, questa, una felice denominazione unificante, usata, tra gli altri, dagli specialisti fin dagli anni Novanta del Novecento.[1]

Se, come scrive oggi papa Francesco, «leggendo un testo letterario, siamo messi in condizione di “vedere attraverso gli occhi degli altri”»,[2] non è, proprio questo, un rilevante criterio per il dialogo interreligioso mediterraneo?

Un grande apporto per le “religioni del Libro”, e non solo
Ebraismo, cristianesimo e islam – appunto le comunità del Libro (Ahl al-Kitab) – sono i tre rami di un’unica e grande tradizione abramitica, condividendo la fede nella rivelazione di un Dio unico, trascendente e, nella sua essenza, inconoscibile attraverso le sole vie della percezione e della ragione.

Per sfuggire alle trappole di una rinascita idolatrica modernissima, che fa di Dio un ente tra gli enti, confondendolo nella storia e nella società e, dall’altro lato, quella di una trascendenza portata all’estremo senza mediazioni teofaniche, quasi un disperante nichilismo,[3] occorre riscoprire la rilevanza del libro e di ogni altra forma di comunicazione sociale interumana.[4]

La cultura ebraica ritiene centrale il Libro dell’alleanza: «Quindi prese il libro dell’alleanza e lo lesse alla presenza del popolo. Dissero: “Quanto ha detto il Signore, lo eseguiremo e vi presteremo ascolto”» (Es 24,7).

E i cristiani chiudono le loro Scritture sacre, leggendo la profezia del veggente di Patmos: «E vidi, nella mano destra di Colui che sedeva sul trono, un libro scritto sul lato interno e su quello esterno, sigillato con sette sigilli» (Ap 5,1).

Inoltre, «Corano, in arabo al-qur’ãn, significa “lettura”: una lettura ad alta voce, più vicina all’idea di proclamare o predicare che non a quella di leggere nel suo significato più corrente. Questa lettura è anche un testo, un libro, anzi il libro per eccellenza (al-kitâb)».[5]

Del resto, come affermava già la Commissione teologica internazionale, il Libro diviene il nodo per affrontare la questione principale, non solo del cristianesimo cattolico:

«La questione principale non è oggi se gli uomini possano raggiungere la salvezza anche se non appartengono alla Chiesa cattolica visibile: questa possibilità è considerata come teologicamente certa. La pluralità delle religioni, di cui i cristiani sono sempre più coscienti, una migliore conoscenza di queste religioni e il necessario dialogo con esse, senza tralasciare, in ultimo luogo, una più chiara coscienza delle frontiere spaziali e temporali della Chiesa, ci pongono la questione se si possa ancora parlare della necessità della Chiesa per la salvezza, e se questo principio sia compatibile con la volontà salvifica universale di Dio».[6]

Non solo per la formazione dei presbiteri, ma di tutti i cristiani
Ecco perché risulta rilevante l’obiettivo della recente Lettera pontificia sul ruolo della letteratura nella formazione (cf. qui su SettimanaNews), che ri-afferma opportunamente il «valore della lettura di romanzi e poesie nel cammino di maturazione personale».[7] Bisogna, insomma. re-imparare a selezionare le nostre letture con apertura, sorpresa, flessibilità, lasciandoci consigliare, ma anche, con sincerità, cercando di trovare ciò di cui abbiamo bisogno in ogni momento della nostra vita.

Quando ero vescovo residente, in occasione delle vacanze estive, suggerivo ai seminaristi un elenco di autori e di letture. I libri, si legge in altra parte della Lettera, ci aiutano a ruminare. Il papa cita giustamente il medioevale Guglielmo di Saint-Thiérry, che utilizzava questa metafora.[8]

Ma piace qui riprendere l’analoga metafora del vescovo Cesario di Arles, che continuamente sollecitava i suoi co-episcopi del V-VI secolo, preti e fedeli, spesso illetterati, a leggere e rileggere più spesso la lettura divina; oppure, se non si è in grado di leggere da noi stessi, almeno preoccuparsi di ascoltare coloro che la leggono volentieri e con frequenza.

Qui e là Cesario assimila la lettura del testo sacro e delle omelie del vescovo a una ruminazione, come una recente versione italiana dei primi suoi 80 Sermoni al popolo, che ho avuto recentemente la fortuna di leggere, ci ha ricordato:

«Conservate queste cose, ruminatele, nutritevi di esse; non si allontani dalla vostra bocca ciò che viene affidato alla memoria. La memoria dell’essere umano è simile allo stomaco di un animale. Voi sapete che, nella Legge, sono chiamati immondi quegli animali che non ruminano; quelli che ruminano, invece, sono puri, come tutti quelli che hanno l’unghia bipartita o questo rappresenta il discernimento del vero e del falso. L’unghia bipartita rappresenta il potere di discernere ciò che è giusto da ciò che è sbagliato; la ruminazione, invece, si riferisce a coloro che riflettono su ciò che hanno ascoltato e mantenuto a memoria. Ora, infatti, ciò che noi mangiamo viene inviato alla nostra memoria, come in uno stomaco. Invece, cosa fa il bestiame, quando rumina? Ciò che era stato gettato nella mangiatoia e riposto nello stomaco, esso lo richiama alla bocca e lo assapora con una piacevole masticazione. Ho detto ciò per raccomandare a voi di non essere come un animale immondo. Esso riceve il cibo nello stomaco; ma, in seguito, non rumina e se ne va via tutto il piacere. E a nulla vi serve quello che è deposto in profondità, se non ne ritorna in bocca la piacevolezza».[9]

Tutti conoscevamo già, del resto, ricavandola dall’esortazione apostolica Querida Amazonia, la passione che papa Francesco nutre per i libri di letteratura, in particolare per la lirica. Egli, nel 2020, costruì un vero e proprio affresco poetico con «le varie espressioni artistiche, e in particolare la poesia», le quali «si sono lasciate ispirare dall’acqua, dalla foresta, dalla vita che freme, così come dalla diversità culturale e dalle sfide ecologiche e sociali».[10] Il tutto già riprendendo esplicitamente una convinzione di Vinicius de Moraes[11] che ora viene riproposta: «Solo la poesia, con l’umiltà della sua voce, potrà salvare questo mondo».[12]

Del resto, soprattutto per la questione dell’ecosistema, è centrale il ruolo della cosiddetta poesia popolare e dei poeti, le cui voci erano esplicitamente dette dal pontefice contemplative e profetiche:

«I poeti popolari, che si sono innamorati della sua immensa bellezza, hanno cercato di esprimere quanto il fiume faceva loro percepire, e la vita che dona al suo passaggio, in una danza di delfini, anaconda, alberi e canoe. Ma pure deplorano i pericoli che lo minacciano».[13]

Ora Francesco, oltre a confidarci che ama «gli artisti tragici, perché tutti potremmo sentire le loro opere come nostre, come espressione dei nostri propri drammi. Piangendo per la sorte dei personaggi, piangiamo in fondo per noi stessi e i nostri vuoti, le nostre mancanze, la nostra solitudine»,[14] ci ricorda la sua esperienza personale di docente di letteratura nella scuola medio-superiore:

«Tra il 1964 e il 1965, a 28 anni, sono stato professore di Letteratura a Santa Fe presso una scuola di gesuiti. Insegnavo agli ultimi due anni del Liceo e dovevo fare in modo che i miei alunni studiassero El Cid. Ma ai ragazzi non piaceva. Chiedevano di leggere García Lorca. Allora ho deciso che avrebbero studiato El Cid a casa e, durante le lezioni, io avrei trattato gli autori che piacevano di più ai ragazzi. Ovviamente loro volevano leggere le opere letterarie contemporanee.[15] Ma, leggendo queste cose che li attiravano sul momento, prendevano gusto più in generale alla letteratura, alla poesia, e poi passavano ad altri autori».

Un buon libro da leggere, dunque, soprattutto se piace (anche se viene letto dalla voce del podcast o da una voce digitale), viene suggerito esplicitamente dal santo padre per la «noia delle vacanze, nel caldo e nella solitudine di alcuni quartieri deserti», o anche per i «momenti di stanchezza, di rabbia, di delusione, di fallimento, e quando neanche nella preghiera riusciamo a trovare ancora la quiete dell’anima».[16]

Un buon libro, anzi, è il rimedio migliore per sfuggire alle «poche idee ossessive che ci intrappolano in maniera inesorabile. Prima dell’onnipresenza dei media, dei social, dei cellulari e di altri dispositivi, questa era un’esperienza frequente, e quanti l’hanno sperimentata sanno bene di cosa sto parlando. Non si tratta di qualcosa di superato».[17]

Insomma, fare così come già Gregorio Magno suggeriva per la lettura delle sacre Scritture – sacra Scriptura cum legente crescit![18] –: «Un testo vivo e sempre fecondo – come la Bibbia (il Libro per antonomasia) – è capace di parlare di nuovo in molti modi e di produrre una sintesi originale con ogni lettore che incontra».[19]

Viene espresso da papa Francesco l’auspicio iterato, almeno per quanto concerne la formazione nei seminari, che finalmente «si superi l’ossessione per gli schermi – e per le velenose, superficiali e violente fake news – e si dedichi tempo alla letteratura, ai momenti di serena e gratuita lettura, a parlare su questi libri, nuovi o vecchi, che continuano a dirci tante cose»;[20] non si deve più tollerare, insomma, che i futuri ministri ordinati vengano «privati di un accesso privilegiato, tramite appunto la letteratura, al cuore della cultura umana e, più nello specifico, al cuore dell’essere umano».[21]

Lo scopo della lettura di libri
In questo senso, i libri – tutti, non solo quelli di teologia e filosofia – possono diventare strumenti formidabili per il dialogo tra fede e cultura. Ce lo aveva ben insegnato a Venezia Albino Luciani, poi papa Giovanni Paolo I. Quel fantasioso epistolario, che raccoglie le lettere che l’allora patriarca di Venezia aveva scritto – e la rivista Messaggero di sant’Antonio puntualmente aveva pubblicato mese dopo mese, dal 1971 al 1974 – erano da Luciani indirizzate a personaggi storici e mitici di tutti i tempi e luoghi.

La piacevolezza dello stile, la sottile ironia che pervade ogni pagina, l’abilità di trasferire vicende e persone, problemi e soluzioni da ieri a oggi e viceversa, danno corpo a un’analisi tutt’altro che superficiale di quegli anni difficili e tortuosi. I personaggi incontrati, così diversi tra loro, vanno da Penelope a Mark Twain, da Maria Teresa d’Austria a Figaro, da Pinocchio a un… orso, da Péguy a Trilussa, da Scott a Ippocrate, da Quintiliano a Marconi, da Hofer a Goldoni, da santa Teresa a Goethe, da san Bernardino a Marlowe e Chesterton, per finire al più importante di tutti, Gesù, al quale l’autore scrive trepidando.[22]

Del resto, sul piano storico, la missione ecclesiale ha saputo dispiegare tutta la sua bellezza, freschezza e novità nell’incontro con le diverse culture, in una polifonia sintonica, che non è altro che «la polifonia della Rivelazione senza ridurla o impoverirla alle proprie esigenze storiche o alle proprie strutture mentali».[23]

Il papa ha, in quest’orizzonte, gioco facile nel ricordare il riferimento dell’apostolo Paolo all’Areopago di Atene. Di fronte a filosofici neostoici e neoepicurei, egli evoca i versi dei poeti Epimenide e Arato (cf. At 17,28), mostrando come una persona (un predicatore e un missionario) che sappia ben raccogliere i semi della poesia pagana, più che un fallimento, susciti nei suoi ascoltatori, che sono raffinati e amano i riferimenti eruditi e letterari, la voglia di “sentirlo un’altra volta”, almeno circa il problema della resurrezione dei morti: tema, questo, che tanto avrebbe interessato gli stoici di età romana, in molti morti per suicidio o per assassinio indotto, come accadde a Cicerone (cf. At 17,32).

Inoltre, insiste il papa, occorre incoraggiare alla lettura anche in prospettiva scientifica, dal momento che «l’abitudine a leggere» produce «molti effetti positivi nella vita della persona: la aiuta ad acquisire un vocabolario più ampio e, di conseguenza, a sviluppare vari aspetti della sua intelligenza. Stimola anche l’immaginazione e la creatività».[24]

Ragioni specifiche per le quali è da promuovere l’attenzione alla letteratura [25]
Quasi abbandonando la notazione universale dell’inizio, il papa indugia molto, nella sua Lettera, sulla formazione dei futuri preti, per i quali si attende dalla CEI l’edizione della Ratio formationis.[26]

Egli riprende volentieri una fortunata annotazione di Karl Rahner su un possibile «parallelo tra il sacerdote e il poeta».[27] In primo luogo, si tratta di favorire «un Gesù Cristo fatto carne, fatto umano, fatto storia. Dobbiamo stare tutti attenti a non perdere mai di vista la “carne” di Gesù Cristo»,[28] in cui si riversa pienamente la sua divinità. Però, sul piano metodologico, occorre immergersi «nel testo vivo che ci sta davanti, più che fissarsi sulle idee e i commenti critici».[29]

In tal modo, oltre a compiere un vero e proprio atto di discernimento in senso ignaziano,[30] ci si mette in grado di «“toccare” il cuore dell’essere umano contemporaneo»;[31] soprattutto, si riacquista uno sguardo che fa scemare l’«incapacità di tanti di emozionarsi davanti a Dio».[32]

Quasi come un telescopio, la lettura evita di farci cadere

«in un efficientismo che banalizza il discernimento, impoverisce la sensibilità e riduce la complessità. È perciò necessario e urgente controbilanciare questa inevitabile accelerazione e semplificazione del nostro vivere quotidiano imparando a prendere le distanze da ciò che è immediato, a rallentare, a contemplare e ad ascoltare».[33]

In particolare, fa superare certe tentazioni ultramoderne di efficientismo a oltranza, educando a «esplorare la verità delle persone e delle situazioni come mistero, come cariche di un eccesso di senso, che può essere solo parzialmente manifestata in categorie, schemi esplicativi, in dinamiche lineari di causa-effetto, mezzo-fine».[34]

In altri termini, viene più volte evidenziato

«il ruolo che la letteratura può svolgere nell’educare il cuore e la mente del pastore o del futuro pastore in direzione di un esercizio libero e umile della propria razionalità, di un riconoscimento fecondo del pluralismo dei linguaggi umani, di un ampliamento della propria sensibilità umana e, infine, di una grande apertura spirituale per ascoltare la Voce attraverso tante voci».[35]

Il beato Francesco Spoto e la letteratura
È almeno a partire da Blaise Pascal e dalla letteratura ascetica moderna che s’insisteva, nel bagaglio formativo del clero, sulla rilevante funzione di libri e letteratura nella sacra oratoria.[36]

Nella formazione dei futuri membri del Boccone del povero, di cui faccio parte, era prassi ordinaria il riferimento letterario. In particolare, il missionario e martire padre Francesco Spoto – della cui causa di beatificazione sono il postulatore e di cui vado evidenziando il finissimo intento letterario[37] – non concludeva una predica o un testo senza riferimenti alla letteratura di ieri e di oggi

Nelle prediche e conferenze del religioso “bocconista” padre Spoto, insomma, anche il tema teologico – per esempio quello della morte e del morire – si arricchiva spesso di riferimenti letterari e di brevi storie: da Policarpo, da Agostino, da Pier Damiani, e poi: Toth Tihamèr, card. Ferrari, card. Valentini, Barthmann, L. Olgiati, P. Claudel, Lebreton. Non solo Claudel si trova in tanti appunti di padre Spoto per meditazioni ed esercizi spirituali.

Era, anzi, ogni suo intervento a voce, soprattutto nei ritiri o esercizi, una catena di ricorrenti citazioni dalla Bibbia, dai Padri della Chiesa, dalla letteratura europea e americana, dalla filosofia e teologia.

Esercitarsi spiritualmente comporta, infatti, il concentrarsi brevemente e intensamente sui grandi problemi della vita eterna (meditare novissima tua, morte-giudizio-Inferno/Paradiso), nei supremi interessi dell’anima, posta a contatto, quasi a tu per tu, con Dio, Creatore e Padrone assoluto della creatura umana, anche quando essa si sentisse abbandonata in uno sperduto territorio dell’ex Congo belga.

Egli cita, perciò,

«la letteratura cristiana», ricordando «il proconsole che nello stadio di Smirne condannò a morte l’anziano vescovo Policarpo… Sappiamo… che Policarpo fu ricercato dall’irenarca Erode il quale, evidentemente, utilizzava i poteri connessi al suo ruolo per infierire sull’attempato vescovo… Questo zelante funzionario, tuttavia, contravveniva a quanto prescritto da Traiano, con il suo intraprendere una ricerca d’ufficio di cristiani equiparati ai briganti. Gli atti descrivono la folla dei pagani e dei giudei che, riuniti nello stadio, sollecitò la morte dei martiri approntando il rogo per Policarpo»[38].

Per rendere la drammaticità della realtà della persecuzione subìta a Biringi, padre Spoto non omette mai di riferirsi alla letteratura, in particolare cita il terrore descritto «da Pasternak nel Dottor Zivago. Si teme anche di colui che s’incontra. Si passano giornate di ansia e di nervosismo».[39]

Conclusione
Nelle mani e sulle labbra di padre Francesco Spoto, la letteratura svolgeva, insomma, come il ruolo di quinto evangelio: un Vangelo che viene costruito dalle nuove generazioni di cristiani, così come, frattanto, lo stesso Mario Pomilio, in persona, andava insegnando a cavallo del Vaticano II, ad esempio nelle aule della Facoltà di teologia di Napoli, quale titolare di Letteratura religiosa contemporanea.

Non è un caso che Veritatis gaudium – la Costituzione apostolica di papa Francesco circa le università e le facoltà ecclesiastiche (29.01.2018) – stabilisca, tra le materie complementari opzionali della Facoltà di filosofia ecclesiastica, anche gli «Elementi di letteratura e delle arti».[40]

Questo famoso testo papale non faceva altro che ribadire, anche nella Ratio studiorum, la raccomandazione esplicita dell’allora Congregazione per l’educazione cattolica:

«Si tengano presenti – in relazione ai livelli scolari degli alunni – gli aspetti culturale ed estetico, in connessione con le altre discipline e con altri veicoli e forme di espressione e di comunicazione – quali la storia, la filosofia, la letteratura, la drammaturgia, le arti figurative, la musica,…–, sì da raccordare ad esse quella “scuola parallela”, e spesso contrapposta, che sono i mass media».[41]

Insomma, leggere. Tanto e bene, per sé e per gli altri, per l’oggi e per l’avvenire perché, prendendo a prestito le parole dello scrittore Lorenzo Marone, «la lettura e la scrittura sono i poteri più potenti di cui disponiamo, ci ampliano la mente, ci fanno crescere, ci migliorano, a volte ci illuminano e ci fanno prendere nuove strade, ci permettono di cambiare idea, ci danno il coraggio di fare ciò che desideriamo».

* P. Vincenzo Bertolone, SdP, è vescovo emerito di Catanzaro-Squillace

[1] Gino Ragozzino, Il fatto religioso. Introduzione allo studio della religione, Messaggero, Padova 1990.

[2] Papa Francesco, Lettera sul ruolo della letteratura nella formazione, 17.7.2024, n. 34 [d’ora in poi: Lettera]. In attesa dell’edizione ufficiale, ci si riferirà al sito della Santa Sede:

https://www.vatican.va/content/francesco/it/letters/2024/documents/20240717-lettera-ruolo-letteratura-formazione.html [5.8.2024].

[3] Questa è la nota tesi di Henry Corbin (1903-1978), Il paradosso del monoteismo, Introduzione di Claudio Bonvecchio; traduzione di Roberto Revello, Mimesis, Udine 2011.

[4] Anche il CIC, nei cann. 822-832 precisa che «ciò che viene stabilito nei canoni di questo titolo sui libri, si deve applicare a qualunque scritto destinato alla pubblica divulgazione, se non consti altro» (can. 824,2).

[5] Il Corano, a cura di Alberto Ventura, traduzione di Ida Zilio-Grandi Commenti di Alberto Ventura, Mohyddin Yahia, Ida Zilio-Grandi e Mohammad Ali Amir-Moezzi, Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano 2010, p. XI.

[6] Commissione teologica internazionale, Il Cristianesimo e le religioni (1997), n. 63:

https://www.vatican.va/roman_curia/congregations/cfaith/cti_documents/rc_cti_1997_cristianesimo-religioni_it.html [6.8.2024].

[7] Lettera, n. 1. Si osserverà, dall’apparato delle citazioni della Lettera (la cui metodologia a volte scrive in maiuscoletto, altre volte in minuscolo corsivo i nomi e cognomi degli Autori citati), che, oltre a Eusebio di Cesarea per l’età patristica orientale, nonché a un brano degli Esercizi spirituali del Fondatore della Compagnia di Gesù, non senza riferimenti alla Gaudium et spes, alla Evangelii nuntiandi, ad altri testi di papa Paolo VI e di Benedetto XVI, papa Francesco non omette di citare vari autori della teologia (K. Rhaner, R. Latourelle) e della letteratura (M. Proust, C.S. Lewis, J.L. Borges, T.S. Eliot, M. De Certeau, P. Celan). Per esemplificare circa la lettura come ruminazione, sono citati inoltre, dal papa, Guillaume de Saint-Thierry e il gesuita del XVII secolo Jean-Joseph Surin. Si noti, infine, che ben sei sono le citazioni di p. A. Spadaro, la cui autorevole posizione evidentemente ha pesato sulla redazione finale della Lettera. Tra i suoi scritti, ricorderei almeno i più recenti molto ben documentati: Antonio Spadaro, La mappa di Bergoglio: la letteratura nella formazione di papa Francesco, “La civiltà cattolica” 174 (2023), n. 4145, pp. 417-433; Id., L’altro fuoco: l’esperienza della letteratura, 2, Jaka Book, Milano 2009; Id, Abitare nella possibilità: l’esperienza della letteratura, Jaka Book, Milano 2008.

[8] Lettera, n. 33.

[9] Cesario di Arles, Sermoni al popolo, Introduzione, versione italiana e note di Pasquale Giustiniani e Luigi Longobardo Sermone 69,4-5, Città Nuova, Roma 2024, p. 539.

[10] Esortazione apostolica post-sinodale Querida Amazonia del santo padre Francesco al popolo di Dio e a tutte le persone di buona volontà (2.2.2020), Tipografia vaticana 2020, n. 35.

[11] Vinicius de Moraes, Para vivir un gran amor, Buenos Aires 2013, p. 166.

[12] Querida Amazonia, n. 46, ed. cit., p. 36.

[13] Ivi, n. 46, ed. cit., p. 35.

[14] Lettera, n. 7.

[15] Lettera, n. 7.

[16] Lettera, n. 2.

[17] Lettera, n. 2.

[18] Gregorio Magno, La regola pastorale, I, 3, a cura di M.T. Lovato, Città Nuova, Roma 2004, pp. 45-46. Per l’aggiunta-precisazione, cf. Carlo Maria Martini, Attingere alla sorgente dell’amore. Parola e vita, in Autori vari, Vi affido alla Parola. Le “consegne” di un pastore, Àncora, Milano 2003, pp. 65-87.

[19] Lettera, n. 3.

[20] Lettera, n. 4.

[21] Lettera, n. 4.

[22] Albino Luciani, Illustrissimi. Lettere ai Grandi del passato, Postfazione di Giovanni Maria Vian, Edizioni Messaggero, Padova 1996.

[23] Lettera, n. 10.

[24] Lettera, n. 16.

[25] Lettera, n. 44 (è il paragrafo conclusivo, che quasi “sigilla” la Lettera).

[26] Mons. Stefano Manetti, vescovo di Fiesole e presidente della Commissione episcopale per il clero e la vita consacrata, riassunse il contenuto della Ratio formationis sacerdotalis – esaminata e approvata dalla 78ª Assemblea Generale Straordinaria della Cei nel novembre 2023 e in attesa della confirmatio da parte del Dicastero per il Clero. La Ratio è il frutto di un’ampia consultazione, a partire dai formatori, dai seminari e dai vescovi.

[27] Lettera, n. 25.

[28] Lettera, n. 14.

[29] Lettera, n. 20.

[30] Lettera, n. 29.

[31] Lettera, n. 21.

[32] Lettera, n. 22.

[33] Lettera, n. 31.

[34] Lettera, n. 32.

[35] Lettera, n. 41.

[36] Tra i tanti studi storico-culturali, cf. almeno G. Caltagirone (et al.), Ragioni retoriche di discorsi letterari: retorica e letteratura tra narrativa, poetica, oratoria sacra e politica, a cura di Giuseppina Ledda, Bulzoni, Roma 1990.

[37] Mi fa piacere ricordare che, entro l’anno − anno giubilare spotiano, indetto dal p. Superiore Generale della mia Congregazione −, sarà pubblicato: Vincenzo Bertolone, La valigetta di padre Spoto, La Valle del tempo, Napoli (imminente), nel quale insisto sulla corda letteraria del martire, ucciso a Biringi (ex Congo Belga). Sorella morte raggiunse, infatti, il missionario padre Francesco Spoto, Superiore Generale dei Missionari Servi dei poveri, il 27 dicembre 1964. I suoi martoriati resti furono seppelliti nei pressi della capanna, dove egli si era rifugiato dopo l’attacco notturno e le violente bastonate infertegli dai due guerriglieri Simba. Le sue ossa saranno poi raccolte e portate a Biringi (ex Congo belga) e, dopo circa vent’anni dalla morte, saranno trasportate, finalmente, a Palermo, insieme con qualche altra cosa che era appartenuta proprio a lui.

[38] Giancarlo Rinaldi, Roma e i cristiani. Materiali e metodi per una rilettura, Vivarium Novum, Frascati 2023, 322-323.

[39] Francesco Spoto, L’Epistolario completo (20 agosto 1950-11 novembre 1964) e il Diario, a cura di V. Bertolone, Grafiche Simone, Catanzaro 2018, 223.

[40] Papa Francesco, Costituzione Apostolica «Veritatis gaudium» circa le Università e le Facoltà ecclesiastiche (29.01.2018), art 66,1 c:

https://press.vatican.va/content/salastampa/it/bollettino/pubblico/2018/01/29/0083/00155.html#italia [6.8.2024].

[41] Orientamenti per la formazione dei futuri sacerdoti circa gli strumenti della comunicazione sociale (19.3.1986), n. 16:

https://www.vatican.va/roman_curia/pontifical_councils/pccs/documents/rc_pc_pccs_doc_19031986_guide-for-future-priests_it.html [6.8.2024].

Bibbia. Ezechiele, un testo impegnativo e una miniera

Ezechiele. introduzione e commento, a cura di Ombretta Pettigiani (Nuova Versione della Bibbia dai Testi Antichi 12), San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2024, pp. 448, € 35,00.

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Con questo commento di Ombretta Pettigiani al libro di Ezechiele si avvia al completamento la fortunata collana Nuova Versione della Bibbia dai Testi Antichi (NVBTA) della editrice San Paolo. La collana prevede un’introduzione generale (qui pp. 9-37, da cui attingiamo per stendere le nostre note), il commento (qui pp. 38-436) e alcune pagine circa la presenza del libro biblico nella liturgia (qui pp. 437-444, redatto da Nicola Mancini). Alle pp. 33-35 è riportata una sintetica bibliografia.

Il commento si dispiega su tre registri. Nella parte superiore, nella pagina pari di sinistra, si trova l’originale ebraico, mentre in quella a destra dispari, la traduzione in italiano approntata personalmente dall’autrice. Nel registro mediano sono collocate le note strettamente filologiche, mentre il commento biblico-teologico è collocato nel registro inferiore che copre entrambe le pagine.

Ezechiele
La persona, le parole e l’attività del profeta-sacerdote Ezechiele («Dio rende forte» o «Dio indurisce»), che visse in prima persona il dramma dell’esilio babilonese del popolo ebraico (dal 598 a.C. in poi), sono all’origine del libro a lui attribuito.

Egli ricevette la sua vocazione nel 593 a.C. Ezechiele è pure il personaggio del libro che porta il suo nome e che si colloca, stando al racconto, nel VI secolo, nel contesto dell’esilio babilonese.

Con Ezechiele si intende anche l’insieme di autori e redattori a cui il libro nel suo complesso dev’essere attribuito (che sono quindi vissuti in un lasso di tempo ben più ampio) e, infine, con Ezechiele si intende il libro, il prodotto letterario che sta nelle nostre mani.

Secondo la Pettigiani la redazione finale del testo non può essere collocata prima della tarda età persiana, a causa dei numerosi contatti che il libro mantiene con altre correnti letterarie (Deuteronomista, sacerdotale e il Codice di Santità di Lv 17–26). La redazione fu probabilmente opera di coloro che ritornarono dall’esilio di Babilonia, come appare da una certa insistenza a favore del particolare gruppo dei rimpatriati.

L’autrice, esegeta, suora francescana missionaria di Gesù Bambino, addottorata al PIB di Roma e docente di AT presso l’Istituto Teologico di Assisi, ricorda che il libro del profeta Ezechiele, così come gli altri libri profetici, «sono essenzialmente letteratura, frutto del lavoro di collezioni di unità originariamente indipendenti che vengono assemblate, ma anche aggiornate e ampliate, così da essere adatte a un nuovo uditorio con i suoi nuovi interrogativi» (p. 29).

Struttura del testo
La struttura del testo tiene presenti le datazioni presenti in esso, ma resta sempre problematica.

Lo schema proposto da Pettigiani è il seguente:

Prima parte: dalla chiamata del profeta alla caduta di Gerusalemme (Ez 1–33)

Ez 1–3; 4–5; 6–7: visione programmatica, gesti simbolici, oracoli di giudizio e annuncio della fine;

Ez 8–11; 12,1-20; 12,21–23,49: nuova visione della gloria (che abbandona Gerusalemme), gesti simbolici e oracoli riferiti a Giuda (di tonalità prevalentemente negativa);

Ez 24–33: dall’annuncio della caduta di Gerusalemme al suo compimento con al centro gli oracoli contro le nazioni.

Seconda parte: dalla caduta di Gerusalemme al ristabilimento del popolo e del paese (Ez 34–48):

Ez 34–37; 38–39: oracoli sulla restaurazione del popolo e del paese; sconfitta di tutti i nemici e testo riassuntivo di carattere positivo (39,21-29);

Ez 40–48: visione della restaurazione del tempio, del re, del paese, della città e ritorno della gloria nella sua casa.

Una struttura più dettagliata la si può ritrovare nell’indice del volume (pp. 445-446).

La struttura proposta dall’autrice per visualizzare la progressione del libro vede una prima parte scritta (per lo più) immaginando la futura presa di Gerusalemme da parte di Nebukadnezzar, collocando, quindi, ciò che il testo narra tra la chiamata del profeta, già in esilio (593 a.C.) e la seconda deportazione (586 a.C.).

Dopo il c. 33, invece, poiché Gerusalemme è stata conquistata, si dà per scontata la seconda deportazione e il profeta cambia profondamente tono, passando dall’annuncio di sventura alla promessa di salvezza.

La struttura proposta dall’autrice permette di apprezzare il testo di Ezechiele come buona notizia, nonostante l’evidente durezza di molti oracoli. È un vangelo che proclama la fedeltà di Dio al suo popolo proprio quando esso meno lo meriterebbe.

Ezechiele è posto fra i Profeti Maggiori e collocato sempre dopo il libro di Geremia.

Elementi specifici
Gli elementi originali del libro di Ezechiele sono molti: la quantità delle visioni, l’insolita collocazione del profeta in terra d’esilio, i contatti con il mondo babilonese che spesso traspaiono, l’interesse spiccato per il tempio e per questioni di purificazione…

Gli studiosi sono stati colpiti soprattutto da due particolarità del libro.

La prima consiste in un uso pressoché totale della prima persona nella stesura del testo. La voce narrante che espone ciò che vede e che sente e che equivale a ciò che deve dire da parte del Signore è quella dell’«io» del profeta (cf. subito 1,1). Questo «io» è protagonista ma, allo stesso tempo, quasi sparisce all’interno delle pericopi. La parola del Signore raggiunge il profeta («mi fu rivolta la parola di YHWH), oppure il Signore agisce nei suoi confronti in qualche modo («la mano di YHWH fu su di me»).

Di fatto, Ezechiele risulta completamente identificato con la prospettiva divina, al punto che la sua voce diventa un suono prestato a YHWH. Solo in Ez 1,2-3 qualcun altro parla a Ezechiele in terza persona: è l’attestazione di una comunità credente che ritiene opportuno certificare la missione del profeta.

La seconda particolarità del libro consiste nella presenza di un sistema di datazioni che lo attraversa.

Sono tredici indicazioni temporali, in genere complete di giorno, mese e anno. L’autrice le riporta in una tabella alle pp. 16-17: si va dal 31 luglio 593 al 26 aprile 571. Si discute sulla loro funzione (strutturante?), sulla loro precisa identificazione (cioè a quale giorno corrispondano nel nostro calendario attuale), sia sulla stranezza della loro disposizione dal punto di vista della cronologia (non sono poste in ordine), sia sul rapporto tra le date e il materiale che, nel testo, segue immediatamente (i brani successivi a una data devono essere pensati tutti come pronunciati dopo quel momento?).

Anticamente, le date erano ritenute un elemento unificante e segno della stesura integrale del libro da parte di un unico autore. Oggi non è più così, anzi si ritiene che esse costituiscono più un elemento problematico piuttosto che chiarificatore rispetto all’origine del libro.

Secondo l’autrice, è evidente che le date riferite agli oracoli contro le nazioni hanno un andamento autonomo e non seguono la cronologia generale. Ciò è probabilmente dovuto al prevalere di criteri di contiguità tematica piuttosto che cronologica.

Lingua e stile
Il libro è scritto per lo più in prosa, con uno stile alto e un lessico spesso difficile. È un esempio di ebraico di transizione. Ci sono molti aramaismi e prestiti dall’accadico. Si tratta di un ebraico difficile, stancante anche a motivo della ripetizione di molte formule («figlio dell’uomo», «casa di Israele»). Compaiono spesso la formula della parola-evento, la formula del messaggero, quella dell’oracolo, sempre con il doppio nome divino «Signore YHWH».

Tipica del libro è la formula della conoscenza di YHWH («sapranno/saprete che io sono YHWH»), la quale indica che lo scopo dell’azione divina è quello di avere una più profonda conoscenza di lui. Molte volte è applicata anche alle nazioni straniere.

I generi letterari impiegati sono di molte tipologie. I generi noti sono spesso usati in modo originale.

Ezechiele ricorre spesso al genere racconto di visione. Molte volte la quantità di testo narrata è vasta (cf. Ez 40–48). Strabiliante è spesso la complessità delle visioni, al punto che, spesso, non è chiaro che cosa venga effettivamente visto (cf. la visione iniziale della gloria, quella del c. 10 e la minuta descrizione dell’architettura del tempio nella parte conclusiva del libro).

Appaiono numerosi oracoli di sventura, secondo generi diversi: parabole o enigmi (Ez 15 e 17), lunghissimi testi di lite bilaterale (o rîb, come in Ez 16 e 20), oracoli contro i falsi profeti e le false profetesse, lamenti funebri (Ez 19), racconti riassuntivi della storia di Israele punteggiata fin dall’inizio dal peccato (Ez 23), oracoli contro le nazioni straniere…

Sono numerosi anche i racconti di azioni simboliche, spesso difficili da comprendere. Ezechiele deve mimare l’assedio di Gerusalemme, deve portare su di sé il peccato dei due regni (Ez 4–5), comportarsi come un emigrante e mangiare pane in modo particolare (12,1-20).

Il c. 21 contiene una serie di gesti particolari (parlare in una direzione specifica, piangere, tracciare due strade). In occasione della morte della moglie, non deve fare lutto (24,15-27); all’interno degli oracoli di salvezza deve accostare due legni come segno di riunificazione di tutto il popolo (37,15-28).

Non mancano generi vicini all’ambito sacerdotale e legale: ad es. la cosiddetta «Torà di Ezechiele» (cf. Ez 43,12), ovvero quella sezione in cui si stabiliscono le nuove norme per il funzionamento del futuro tempio (Ez 43–46 in particolare). Ci sono testi in cui si mostrano le responsabilità di ognuno nella trasgressione della legge e, soprattutto, il desiderio di YHWH che tutti si convertano al bene (Ez 18; 33,12-20).

Ci sono testi che si avvicinano al genere escatologico-apocalittico (Ez 38–39) e non mancano pericopi molto belle che fanno uso di motivi di origine mitologica (Ez 28 sul re di Tiro ed Ez 32 sul Faraone).

Compaiono, infine, gli annunci di salvezza, che utilizzano generi diversi: dalla narrazione per metafora di ciò che farà il nuovo pastore (Ez 34), a testi di promessa di una vita nuova in Israele (Ez 36,1-14 e 15-38), ma anche la visione delle ossa (Ez 37,1-14) o il racconto dell’azione simbolica dei due legni uniti (Ez 37,15-28).

Linee teologiche fondamentali
Il libro di Ezechiele non è molto conosciuto e amato dai lettori cristiani, a causa delle sue particolarità che sono state citate sopra (difficoltà di comprensione di gesti e visioni, lunghezza dei capitoli che li rendono non adatti all’uso liturgico, particolare insistenza sul culto e sul tempio, insistenza sulla dimensione del peccato di Israele e sul relativo castigo da parte di YHWH…). Anche il popolo ebraico si trova in difficoltà di fronte a questo scritto.

Nel 1989, P. Joyce parlò di «teocentrismo di Ezechiele», per descrivere come il Signore compaia in primo piano e agisca spesso in vista del suo essere conosciuto/riconosciuto in Israele e dagli altri popoli. YHWH agisce a motivo del suo nome, in ragione della sua identità, ma anche ha compassione del proprio nome o ne è geloso. Ezechiele ne mette in luce la sua santità e, nel testo, viene usato molto spesso il termine «santo» per indicare ciò che gli appartiene.

Dio campeggia nel libro di Ezechiele, ma non è solo e agisce in relazione a Israele e talvolta anche con gli altri popoli.

I profeti sottolineano spesso gli aspetti problematici del rapporto di alleanza che lega YHWH con Israele, in vista di un possibile ritorno alla pace e alla giustizia (cf. il genere letterario della lite bilaterale).

L’autrice sottolinea in modo particolare tre aspetti della teologia di Ezechiele.

YHWH non è lontano da Israele
Il libro si apre con una straordinaria apparizione di Dio al profeta in terra d’esilio, in Babilonia. Dio non appare nel suo tempio ma nella terra dei nemici. Il lettore è chiamato ad abbandonare ciò che sarebbe garantito e a lasciarsi condurre in terreni meno stabili ma fecondi.

Israele ed Ezechiele sono in esilio e il Signore si muove per raggiungere il popolo nel suo dolore e nella sua sconfitta. Israele ha bisogno di una parola che lo rimetta in cammino ed è lì che il Signore si fa presente.

Nel libro sembrano apparire due linee divergenti: YHWH appare in esilio (Ez 1–3) e, nello stesso tempo, si allontana dal suo tempio a motivo dei peccati di Israele (Ez 8–11).

YHWH si avvicina o si allontana? Entrambe le cose possono essere detta con verità, ma tenendo presenti le differenti motivazioni che soggiacciono all’azione divina, le persone a cui si relaziona (esiliati o rimasti in patria) e la conclusione del percorso complessivo.

YHWH è stato costretto ad allontanarsi dal suo tempio (Ez 8,6) ma non ha mai voluto andare lontano da Gerusalemme (e comunque va vicino agli esiliati, cf. 11,16). Il tutto si conclude con il trionfale rientro del Signore nella sua casa, nel tempio e in mezzo al paese (Ez 43,1-12). L’ultima parola del libro è «YHWH è là» (Ez 48,35).

YHWH è dunque il Dio che sceglie di stare in mezzo al suo popolo, ovunque esso si trovi. Anche il profeta è connotato da subito come colui che «sta in mezzo ai deportati» (Ez 1,1). L’unica realtà che, provvisoriamente, tiene lontano il Signore è il male sfacciato e non riconosciuto, l’esplicito e reiterato rifiuto di lui e della sua Parola. Ma anche a questo YHWH porrà lentamente rimedio facendosi aiutare dalla voce del suo profeta.

YHWH non è un dio sconfitto
Un popolo pesantemente sconfitto a livello militare e costretto a una doppia deportazione associa a sé, secondo la teologia del tempo, anche la sconfitta e la debolezza del dio protettore di quel popolo. Se Israele ha perso, anche YHWH ha perso e, se i babilonesi hanno vinto, anche le loro divinità – in particolare Marduk – hanno vinto.

Il Dio di Israele è quindi un dio debole, un dio sconfitto? Nel NT la vittoria del Dio cristiano si manifesta (almeno provvisoriamente) attraverso la sconfitta secondo la logica del mondo (cf. la rilettura del mistero della croce in 1Cor 1,18-25).

Sottolineare che YHWH lascia il suo tempio prima della sua distruzione è, in realtà, fondamentale. Si intende fugare ogni dubbio in tal senso. YHWH non è affatto un dio sconfitto perché non sono stati i babilonesi a mandarlo via dal suo tempio o a distruggere la sua casa. Egli aveva già scelto liberamente di allontanarsene per ben altri motivi.

Il risvolto di tale assunzione è drammatica: il vero nemico non sono i babilonesi, ma sono gli israeliti che, infatti, riescono nell’impresa in cui Nebkadnezzar fallisce. Dunque, YHWH non è costretto da Babilonia ad andarsene, ma proprio da coloro che egli ama. Per questo sarà nei loro confronti che dovrà manifestare tutta la sua forza.

Nel libro viene mostrato chiaramente che YHWH ha il potere di dirigere il corso della storia e degli eventi, anche rispetto a nazioni o governanti che sembrerebbero imbattibili (cf. i bei testi contro il re di Tiro e contro il faraone nei cc. 28; 29; 32).

Nessuno deve illudersi di possedere una posizione che non potrà mai essergli tolta.

YHWH non è vinto dal peccato d’Israele
Dio è giusto e salvatore. Il libro di Ezechiele trova il punto di svolta nel c. 33 con la dichiarazione che la città è stata conquistata dai nemici. Se ne parla brevemente, mentre ci si dilunga sulla preparazione dell’evento: Israele deve capire che va incontro a un destino terribile, che equivale alla sua stessa fine (cf. ad es. Ez 4–7) e ciò dipende dai suoi peccati.

I testi sul peccato di Israele sono molti e si dà per scontato che Israele non si convertirà (almeno nella sua componente maggioritaria) e che, quindi, l’unica cosa veramente saggia da fare è prepararsi a sostenere la fine (Ez 7), comprendendone le ragioni. Questi oracoli sono datati tra la prima e la seconda deportazione che avverrà.

La conversione attesa coincide dunque con la consapevolezza del male commesso e con l’accettazione della morte che ne consegue, riconoscendo che il Signore agisce secondo giustizia (cf. ad es. 14,23), L’assunzione del male (cf. il senso di vergogna in 7,18.29; 16,52.63; 36,31-32; 39,26; 40,10-11) permetterà di aprirsi alla speranza.

Il lettore deve comprendere due fatti: che la distruzione dev’essere intesa in un’ottica di giustizia e non può essere considerata iniqua; che YHWH interverrà comunque in favore di Israele con un’azione di salvezza e non lo abbandonerà per sempre nelle mani dei suoi nemici.

Questo secondo aspetto compare già negli oracoli di sventura (cf. 11,14-21; 16,53-63; 17,22-24; 20,9-12.14-17.22.33-44), ma diventa un elemento dominante a partire dal c. 34. La salvezza di YHWH non nega il peccato, ma dichiara che il suo amore è più forte di qualunque ribellione. Per questo è in grado di progettare un mondo nuovo in cui ogni relazione viene ristabilita secondo giustizia.

La visione finale del tempio immagina, così, una ricostruzione generale che va a toccare anche le istituzioni. Al centro, c’è il tempio (in cui YHWH ritorna) con il suo personale: i sacerdoti zadociti (discendenti di Zadoq, sacerdote al tempo di Davide e di Salomone) svolgono le mansioni principali, mentre i leviti hanno un rango inferiore.

Il re non è più nominato in quanto tale, ma diventa un principe, con un ruolo eminentemente cultuale (deve provvedere alle offerte). Tutto il popolo si deve riorganizzare, anche dal punto di vista spaziale, ricollocandosi nel territorio che aveva perduto in base alla suddivisione in tribù.

Il futuro somiglia molto a ciò che è antico: come all’origine Israele non aveva un re ed era organizzato per tribù, così sarà alla fine, quando il Signore tornerà a essere il vero sovrano d’Israele.

L’essere umano davanti a Dio
Ezechiele sottolinea principalmente la perversità di Israele, lasciando emergere una visione dell’uomo alquanto negativa. Questa affermazione va contestualizzata tenendo presente che una delle finalità del libro è convincere il popolo della giustizia del castigo (che ha già subito o che subirà).

Nello stesso tempo, YHWH non smette di andare alla ricerca del suo popolo e non rifiuta si stringere un nuovo patto con lui (cf. ad es. 16,60-62; 34,25; 37,26).

Ez 1,26 riporta un’affermazione importante sia per la sua rilevanza teologica sia per la sua posizione in apertura del libro. Si legge che, sul trono che Ezechiele può scorgere al di sopra del firmamento, si trova «qualcosa dalla forma simile a un uomo». Dall’insieme del testo risulta che si tratta di YHWH stesso.

Questa veloce affermazione recupera Gen 1,26 ma rende il messaggio ancora più pregnante: Ezechiele sostiene, senza mezzi termini, che Dio assomiglia all’uomo (e viceversa, ovviamente). Ne consegue che, per quanto terribili possano essere le azioni umane, questa sostanziale somiglianza non potrà essere cancellata. Per questo, YHWH è disposto a lavorare per donare al suo popolo il suo stesso spirito e un cuore finalmente di carne (11,19; 36,26-27; 37,14; 39,29), senza smettere di chiedere anche la sua collaborazione.

Il commento scientifico di Ombretta Pettigiani, abbordabile da tanti lettori ma godibile a pieno se si possiede un’adeguata preparazione esegetico-linguistica, è particolarmente benemerito in quanto dilucida il testo e il pensiero di un grande profeta, non molto conosciuto e apprezzato, al quale è ascritto un testo impegnativo da decifrare ma ricco di elementi letterari e teologici che hanno avuto e continuano ad avere una grande rilevanza nella letteratura e nella tradizione cristiane. Un profeta completamente dedito al suo Dio e al suo popolo, tanto da diventare profezia vivente nella sua stessa persona.

Viene in tal modo attestata una tappa preziosa della storia di salvezza del Dio-con-noi che, dalla creazione, giunge a pienezza in Gesù Cristo, per distendersi fino al pieno compimento nella parusia del Figlio dell’Uomo.

Bibbia. Il libro dell’Esodo

Esodo, Introduzione, traduzione e commento a cura di Germano Galvagno, Note filologiche a cura di Leonardo Lepore, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2024, pp. 448, € 35,00, qui online con il 5% di sconto

Mentre i volumi della collana Nuova Versione della Bibbia dai Testi Antichi riguardanti i libri del NT sono stati tutti editati, mancano solo pochi commenti a quelli dell’AT. Il volume di Germano Galvagno e Leonardo Lepore colma un’attesa molto viva nel pubblico. Il Libro dell’Esodo costituisce infatti un testo basilare per la fede di Israele e delle Chiese cristiane.

Dopo la Presentazione (pp. 3-4), seguono delle Annotazioni di carattere tecnico (pp. 5-8), l’Introduzione (pp. 9-40), il commento vero e proprio (pp. 41-430) e un capitolo riguardante l’uso del libro dell’Esodo nell’odierna liturgia, curato da Nicola Mancini (pp. 431-438).

Il commento si presenta disposto su tre registri. In quello superiore viene riportato nelle pagine pari a sinistra il testo ebraico, su quelle dispari a destra la traduzione personale di Germano Galvagno. Nel registro mediano trovano collocazione le note filologiche curate da Leonardo Lepore. Nel registro inferiore viene postato il commento esegetico-teologico composto da Galvagno.

La traduzione è condotta sul testo ebraico, ma tenendo conto anche delle versioni antiche greche, latine e siriache.

Gli autori affermano che alcune traduzioni antiche possono attestare forme testuali più antiche o migliori. Il Pentateuco Samaritano tende ad armonizzare il testo di Esodo integrando passi del Deuteronomio e presenta alcune istante ideologiche proprie (cf. l’aggiunta di citazioni del Dt poste in coda al Decalogo di Es 20,1-17).

La traduzione greca dei Settanta presenta limature teologiche comprensibili (elimina la visione diretta di Dio in Es 24,10-11) e presenta un testo molto diverso in Es 33-40, in cui la LXX omette diversi passi. Probabilmente le istruzioni dei cc. 25-31 si limitavano a pochi aspetti o non esistevano del tutto e furono aggiunte per dare statura teologica a quanto espresso ai cc. 35-40.

Destinatari, autore e datazione
Oggi raccoglie vasto consenso l’ipotesi che il Pentateuco sia per gran parte opera della Scuola Sacerdotale (= P), che nel periodo dell’esilio raccolse, rielaborò, compose e trasmise le grandi tradizioni preesistenti riguardanti i patriarchi e la storia dell’esodo. La composizione finale delle tradizioni pre-P, P e post-P avvenne lungo i secoli, fin dentro l’epoca persiana.

La strutturazione decisiva delle antiche tradizioni dell’esodo e del Sinai da parte del racconto sacerdotale venne seguita, in epoca post-esilica, da ulteriori e numerose e (più o meno) consistenti implementazioni redazionali (indicate dalla sigla post-P) avvenute in momenti diversi, ad opera di mani diverse e senza una particolare ideologia comune.

In epoca persiana, e non solo, anche Esodo conobbe integrazioni mirate di istanze ideologiche, di pannelli narrativi (ad es. 1,22-2,22), di materiale legislativo (23,24-33) o di mirate armonizzazioni con altri libri del Pentateuco, in particolare allorquando Deuteronomio venne posto a conclusione del Pentateuco. Risalirebbero a questo frangente l’inserzione del Decalogo in 20,1-17, o alcuni passi dai tratti tipici di quella letteratura, tra i quali 19,3b-8; 32,9-14; 34,11-13.15-16).

Esodo, analogamente al Pentateuco, è un testo costitutivo dell’identità del popolo di Dio. Le diverse epoche implicate nella sua formazione (da quelle più remote all’epoca esilica, all’epoca persiana e, in parte, a quella ellenistica) hanno espresso istanze votate a delineare i termini di riferimento della memoria e della vita di Israele. Tutto il popolo, in diverse fasi della sua storia, è stato destinatario di quanto si andò custodendo, elaborando e reinterpretando delle vicende e delle norme di cui Israele aveva beneficiato da parte di Dio.

Il libro crebbe nel tempo e in base a istanze successive, piuttosto che essere redatto in un momento specifico. Se rimane nell’incertezza l’epoca remota di origine delle tradizioni più antiche, si può ritenere che «la composizione di Esodo (e della Torà) abbia avuto nell’epoca persiana il momento della sua strutturazione fondamentale e della sua più consistente implementazione» (p. 33; cf. anche pagine precedenti).

«Attraverso episodi originali, passi connettivi tra i materiali più antichi e puntualizzazioni interne a questi – afferma Galvagno –, la narrazione sacerdotale è la prima ad articolare una grande storia che va dalla creazione dell’universo alle origini del clan patriarcale (connettendo e gerarchizzando le figure di Abramo, Isacco e Giacobbe), alla liberazione dalla schiavitù d’Egitto, al cammino verso il Sinai, all’alleanza, all’edificazione della dimora divina, all’avvio del culto e al proseguimento del cammino verso la terra promessa» (p. 30).

In Esodo la teologia sacerdotale è responsabile di passi strutturanti come quello di 6,2-8, di brevi brani connettivi, di materiale genealogico come quello racchiuso in 6,13-27, di integrazioni e riletture all’interno del ciclo delle piaghe, di materiale prescrittivo a proposito della Pasqua (12,1-20), di una versione alternativa e infine preminente del miracolo del mare, della elaborazione dell’episodio della manna, della rilettura della tappa del Sinai non come momento di stipulazione dell’alleanza (già avvenuta, in questa prospettiva teologica, in Gen 17) ma come momento dell’edificazione del santuario mobile.

Data la disparità del materiale, nella sua analisi esegetico-teologica, Galvagno è attento all’esame diacronico dei testi, in quanto, secondo lui, è importante riferirli a epoche precise della loro composizione.

Struttura del libro dell’Esodo
I due autori hanno individuato una struttura innovativa del testo di Esodo, molto interessante in quanto collegata strettamente allo sviluppo del contenuto teologico fondamentale del testo. Non affastella racconti e legislazione, ma segue un filo teologico decisivo. Essa segue di fatto la rivelazione progressiva della sovranità di YHWH al suo popolo, anche attraverso la figura di Mosè, e la pattuizione dell’alleanza che precede la costruzione della dimora divina.

Es 1,1-15,21 presenta Il sovrano vincente. Dopo gli antefatti della vicenda (1,1–2,22), l’inizio di essa è segnato dalla vocazione di Mosè (2,23–4,17). Seguono i primi passi di Mosè in terra d’Egitto (4,18–6,27), i segni e i prodigi divini sull’Egitto (6,28–11,10), la Pasqua e la decima piaga (12,1–13,16) e, infine, l’uscita dall’Egitto (13,17–15,21).

Es 15,2-18,27 è rapportato a Un sovrano solerte verso il suo popolo. A Mara le acqua sono risanate (15,22-27); si narra della manna e del sabato (16,1-36); a Massa e Meriba l’acqua esce dalla roccia (17,1-7); seguono i racconti riguardanti la sconfitta di Amaleq (17,8,16) e l’incontro con Ietro (18,1-27).

Es 19,1-24,11 ha come tema centrale L’alleanza. Dopo l’inizio della sezione sinaitica (19,1-25), seguono il Decalogo (20,1-17) e gli ultimi elementi introduttivi (20,18-21). Es 20,22–23,19 riporta il Codice dell’alleanza, mentre 20,20-33 illustra le prospettive circa l’ingresso nella terra e 24,1-11 descrive la pattuizione dell’alleanza.

Es 24,12-31,18 tematizza La dimora del sovrano: le indicazioni divine. Una nuova teofania per Mosè segna l’inizio solenne alla sezione (24,12-18). In 25,1–27,21 sono contenute le prescrizioni per la dimora e i suoi arredi. 28,1–29,46 illustra le prescrizioni per i paramenti e per la consacrazione dei sacerdoti e dell’altare. 30,1-38 elenca le prescrizioni per ulteriori dimensioni e complementi cultuali. La sezione si conclude con 31,1-18 che riporta le prescrizioni circa i lavoratori e la conclusione.

Es 32,1-34,35 si raccoglie attorno alla figura di Un sovrano misericordioso. Si descrive il peccato del popolo (32,1-6), l’ira divina e l’intercessione di Mosè (32,7-14), la discesa di Mosè e la sua reazione (32,15-35), le prospettive immediate della relazione tra il Signore, Mosè e Israele (33,1-23). Seguono il racconto del rinnovo dell’alleanza (34,1-28) e quello riguardante la discesa di Mosè e il bagliore del suo volto (34,29-35).

Es 35,1-40,38 descrive La dimora del sovrano: la realizzazione. Il riposo sabbatico è presentato come richiesta previa (35,1-3). Seguono la descrizione della raccolta dei materiali e della cooptazione degli artigiani (35,4-36,7), la realizzazione della dimora e dei suoi arredi (36,8-38,31), la realizzazione dei paramenti dei sacerdoti (39,1-32), la consegna a Mosè di quanto realizzato (39,33-43), l’allestimento della dimora con le indicazioni divine e la loro esecuzione (40,1-33). Conclude la sezione e il libro intero la memoria viva della presenza divina in mezzo al suo popolo (40,34-38).

Caratteristiche del materiale narrativo
Gli autori del commentario non ricercano nel testo una documentazione per l’effettivo svolgimento dei fatti, ma una focalizzazione sui contenuti teologici: la fede in YHWH e l’identità di Israele. Questi furono i motivi decisivi per cui le pagine dell’Esodo furono elaborate, rielaborate e trasmesse. Se non è possibile richiedere affidabilità storiografica a queste pagine, occorre inoltre riconoscere che questa letteratura presenta caratteristiche e originalità proprie. Sono racconti popolari, di carattere episodico, senza una trama effettiva complessiva che abbracci l’intero libro. Sono episodi più o meno brevi, conclusi in sé stessi.

Presentano, inoltre, una stilizzazione dei personaggi, che per lo più non cambiano opinione (cf. la figura del faraone, sempre anonima e connotata negativamente). Il “cattivo” è colui che riceve maggiori attenzioni nel racconto.

Altri tratti tipici della narrazione sono l’assenza di formalità nei rapporti istituzionali, l’ironia e una certa approssimazione riguardo alla coerenza e alla plausibilità dei dettagli narrativi.

Oltre alla consapevolezza della loro origine popolare, occorre ricordare il significato e la portata delle locuzioni divine. Essi per lo più riflettono semplicemente l’esigenza da parte del narratore di conferire la maggiore autorevolezza possibile a determinati contenuti e a determinate prospettive. Sono ricondotte a YHWH le leggi, le indicazioni per l’edificazione del santuario, l’esodo in quanto tale, la sua prospettiva ultima (cf. 3,8.17; 6,8; 23,20-31; 34,11) e una serie di indicazioni nelle successive tappe del cammino. Azioni e contenuti nel libro sono, in tal modo, posti in evidenza dalla statura teologica della loro origine. Mosè risulta un portavoce e un esecutore, senza mai assumere significative iniziative proprie (a eccezione dell’intercessione in occasione del peccato di Israele, cf. cc. 32–34).

Caratteristiche del materiale legislativo
Pur distanti dal nostro contesto culturale, sociale e religioso, i materiali legislativi «trasmettono l’indicazione da parte divina di una forma adeguata di umanità, di società e di pratica religiosa, chiamata a essere declinata nella quotidianità del popolo di Dio» (p. 13). La normativa biblica non distingue, perlopiù, tra indicazioni morali di ampio respiro, leggi specifiche o prescrizioni cultuali.

Alcune rappresentano una sezione a sé stante (25,1–31,17), concernenti la dimora e le sue varie componenti e complementi cultuali.

Nella prima parte della sezione sinaitica (20,1-17.22–23,19) si fissano le condizioni del patto tra YHWH e il suo popolo. Vi si trovano frammischiate indicazioni differenti: indicazioni morali generali prive di alcuna sanzione, leggi puntuali su circostanze ordinarie della vita, con sanzione in caso di trasgressione e prescrizioni tipicamente religiose.

Colpisce la prevalente assenza di qualsiasi forma di organizzazione formale o tematica del materiale, un qualche ordine logico riconoscibile. Tutto ciò riflette una concezione del diritto differente dai nostri parametri. «Non si trattava di normare la vita della società israelita – commenta Galvagno –, ma di archiviare (senza minute preoccupazioni di organizzazione logica) casi comuni di essa per fornire, a future valutazioni di giudici, parametri di riferimento» (pp. 14-15).

Varie normative erano considerate emanazione della stessa divinità, dunque riflesso della sua autorità.

Inoltre, non si concepivano particolari distinzioni tra i diversi ambiti della vita di Israele, dal momento che tutti erano direttamente implicati nella relazione vitale con YHWH. Dunque, «in quanto emanazione della volontà divina, le richieste morali, le disposizioni giuridiche e le normative concernenti il culto venivano inevitabilmente a intrecciarsi come condizioni richieste a Israele per il sussistere dell’alleanza con il Dio che lo aveva liberato» (p. 15).

Le leggi raccolte nell’Esodo sono un tratto emblematico dell’autocoscienza israelita: Israele può essere annoverato al rango di nazione fra le nazioni perché provvisto di sue proprie leggi, ricevute dal suo stesso Dio.

L’assenza di indicazioni concernenti le procedure per il controllo dell’effettiva osservanza delle prescrizioni nel quotidiano del popolo, il tono esortativo di molte indicazioni e il riferimento diretto a YHWH come sanzionatore delle trasgressioni, inducono a prescindere dalle categorie giuridiche a cui siamo avvezzi, per comprendere in modo adeguato le leggi bibliche.

Le leggi bibliche – afferma Galvagno –, «mentre conservavano la memoria di casi specifici ed esemplari, erano destinate, in prima istanza, a formare una mentalità, a offrire criteri di umanità, di relazioni sociali e di prassi cultuale: obiettivo primo non era sanzionare o costringere, ma convincere. Tale consapevolezza ridimensiona in parte il nostro eventuale stupore (o il senso di estraneità) rispetto alle leggi bibliche e consente di coglierne appieno, dentro una logica di alleanza, la portata (e la correlata collocazione della loro promulgazione al Sinai)» (p. 15).

Linee teologiche fondamentali
Nell’introduzione al commentario, Galvagno raccoglie le principali linee teologiche del libro dell’Esodo attorno alla figura di YHWH quale Dio di Israele e a Israele quale popolo di Dio.

Le caratteristiche del Dio di Israele
Nel libro dell’Esodo YHWH si mostra come un Dio che si rivela gradualmente sia agli occhi degli egiziani sia a quelli dello stesso popolo. Il roveto ardente (3,1-15), la vocazione di Mosè (cf. 6,2-8) e il Sinai (a partire dal c. 19) sono momenti eloquenti, aperti a manifestazioni ulteriori.

Il Dio dell’Esodo è un Dio fautore della libertà di Israele (cf. solo 3,17; 6.6-7; 18,8-10; 20,2), l’antagonista di chiunque possa minacciare la vita del popolo e l’esercizio della sua religiosità, inducendolo all’idolatria. Sarebbe un ricadere nella schiavitù.

YHWH è un Dio «onnipotente». Lo dimostra nella «sezione delle piaghe» (7,1-11,10) e in altri passi dove si mostra potente operatore di prodigi. Il racconto evidenzia la potenza dell’agire divino (la potenza del suo braccio o della sua mano) in grado di intervenire su tutto il creato, compreso il cuore del Faraone. Con ciò si mostra l’onnipotenza di Dio, un vocabolo che Galvagno ricorda essere un vocabolo non propriamente biblico.

Nel libro si manifesta la presenza di YHWH come «gloria». La potenza di Dio culmina nel miracolo del mare (c. 14). La tappa della disfatta degli egiziani e della nascita di Israele come popolo manifesta la gloria di YHWH stesso (cf. 14,4.17-18). Da questo momento in poi la gloria di YHWH sarà la categoria che esprime la presenza visibile di Dio a fianco di Israele (cf. 16,7.10; 24,16-17; 29,43; 40,34-35). Della gloria di YHWH si può parlare solo a partire dall’esperienza di Israele.

Nell’Esodo si manifesta la cura divina per il suo popolo. Egli è attento alle esigenze del popolo in cammino, in modo particolare nei momenti dell’inospitalità del deserto o della minaccia dei nemici potenzialmente letali (15,22-17,16). YHWH ha cura di Israele anche nei momenti ordinari della storia e Israele sperimenta l’affidabilità del suo sovrano divino.

Il Dio dell’Esodo esprime la trascendenza divina, presentando YHWH come tremendum divino, inavvicinabile. Il timore di Dio non deve però scivolare nella paura di lui. C’è familiarità che non va banalizzata, e timore che non deve diventare paura ma esprimere la percezione adeguata della trascendenza divina. Israele deve imparare a «stare al suo posto».

Il Dio dell’Esodo è un Dio legislatore. Molto materiale normativo è ricondotto all’autorità divina e fa di YHWH il legislatore di Israele (cf. 12,1-27.43-51; 13,1-16; 20,1-17.23-26; 21,1–23,26; 34,12,26). YHWH detta legge non per soggiogare il suo popolo a una nuova schiavitù, ma per offrirgli le coordinate per la salvaguardia della libertà acquisita e la misura di umanità del proprio stare al mondo (sia in termini di principi generali che di dettagliate normative su casi specifici). In Israele le leggi non vengono a configurarsi come temporanea espressione politico-culturale, ma come sapienza pratica proveniente da Dio stesso, in grado di fare la differenza rispetto alle altre nazioni (cf. Dt 4,7-8).

In Esodo c’è l’esigenza di un’alleanza impegnativa. YHWH si pone nei confronti di Israele quale alterità interessata a una significativa quanto esigente relazione di alleanza (cf. c. 24, di carattere composito). Il riferimento a lui deve essere unico, la venerazione deve essere vera e non come rivolto a un idolo. YHWH non rimane indifferente alle trasgressioni del popolo.

«L’ira divina conseguente al peccato del popolo (cfr. 32,10-12) – scrive Galvagno – non può essere ridotta a rappresentazione eccessivamente antropomorfica della divinità, né derubricata a spauracchio per fasi primitive della fede: nel linguaggio divino, il registro dell’ira divina sta a indicare che YHWH non è indifferente all’atteggiamento del popolo, che ci tiene a una risposta adeguata della controparte umana alla sua iniziativa» (p. 24).

L’ira non è mai l’esito definitivo dell’atteggiamento divino, in quanto ben più sproporzionata rispetto ad essa appare la sua misericordia (cf. 34,6-7). È la misericordia che YHWH è disposto a riservare a Israele (cf 20,5-6). Israele può farvi affidamento e riaprire così il proprio camino.

Il Dio dell’Esodo è un dio di «esodo», è un Dio in cammino con il suo popolo. La presenza di YHWH è rappresentata dal suo stesso popolo. La dimora di YHWH è connotata con una dovizia di particolari (cf. cc. 25–31; 35–40). La preziosità dei materiali esprime il rilievo del santuario (in prospettiva, del tempio) e il suo carattere mobile testimonia che YHWH non è interessato a legarsi a un luogo specifico (a uno spazio sacro), quanto ad accompagnare il suo popolo.

Le dimensioni dell’identità e della vita del popolo di Dio
Il popolo di Israele dev’essere vigilante rispetto ad ogni oppressione. Occorre vigilare rispetto al riproporsi di nuovi, opprimenti faraoni.

La salvezza come fondamento dell’alleanza. Dio ha liberato il suo popolo e gli prospetta una meta promettente. Questi sono i modi con i quali YHWH presenta a Israele la possibilità di entrare in una relazione unica con lui, in una familiarità inaudita, e, nella logica dell’alleanza, legano per sempre l’identità di Israele a quella del suo Dio (cf. 6,6-8). Israele perviene alla fede in YHWH per aver visto i prodigi compiuti da lui in Egitto ma anche per la salvezza dalla morte sperimentata presso il mare. Salvandolo dalla morte, YHWH ha insegnato a Israele a riconoscere nella storia non solo motivi di angoscia, ma i segni della sua presenza. Il pervenire alla fede in YHWH (e nei suoi rappresentanti) risulta concomitante alla libertà acquisita, all’avvio di un cammino insperato, atteso e promettente.

Israele viene educato progressivamente all’esigenza di mediazioni affidabili (in primis a quella mosaica). L’accesso diretto a Dio da parte del popolo non è possibile (cf. 19,12-13.21-24; 20,18-21; 24,2b; 34,3). Ogni mediazione è esposta al rischio del rifiuto o del fraintendimento, sia da parte del popolo, ma anche da parte di Mosè. Questi però si allinea in modo obbediente alle indicazioni divine (cf. 7,6.10.20; 8,12-13;21-22; 17,6; 40,16). Egli si presenta in tal modo come un mediatore affidabile e offre a Israele il criterio per il successo delle sue imprese.

Il ritmo delle feste. La dignità ricevuta di popolo libero offre a Israele i motivi adeguati per celebrare il suo Dio nel ritmo delle sue feste, in modo particolare in quella della Pasqua (cf. 12,1-27.43-49; 13,3-10; 23,10-19; 34,18-26). Di fronte ai doni ricevuti (l’esodo, i raccolti annuali ecc.), Israele matura un debito di riconoscenza verso YHWH e viene chiamato a esprimerla nei ritmi del culto e delle feste: sono i modi per riconoscere che la vita di Israele è stata resa possibile ed è resa possibile dalla presenza (eccezionale e ordinaria) di YHWH al suo fianco.

Fra Israele e YHWH si instaura una reciprocità preziosa. Il Dio che lo ha eletto come suo popolo e gli ha riconosciuto caratteristiche inaudite (cf. 19,4-6) si attende da Israele una risposta che testimoni l’effettivo riconoscimento del dono.

«I comandamenti, le prescrizioni, le norme che Dio presenta a Israele nel quadro dell’alleanza (20,1–23,33) – commenta Galvagno – non rappresentano né imposizioni arbitrarie né forme di indebito paternalismo, ma attesa di reciprocità da parte di un Dio che, per il popolo, si è messo in azione» (p. 27). Osservando le ingiunzioni divine, Israele esprime sia la consapevolezza che in tutto ciò che viene da Dio sta la possibilità di una vita autentica, sia la risposta permanente all’evento salvifico che lo ha fatto nascere (cf. 19,8; 20,19; 24,3.7). «Con questa obbedienza Israele aderisce alla misura di fede e di umanità che il suo unico Dio gli propone in modo così articolato» (ivi).

La fede come sfida permanente. La fede maturata con il miracolo del mare non è garantita una volta per tutte. Le difficoltà del deserto provocano mormorazioni, rimpianti dell’Egitto e sfiducia nell’affidabilità dei rappresentanti di YHWH stesso (cf. 15,24; 16,2-3; 17,2-3).

L’episodio del vitello d’oro (cf. 32) testimonia la difficoltà di reggere l’invisibilità di YHWH (o anche solo del suo rappresentante) e di non sostituire YHWH con un illusorio idolo autoprodotto o, più precisamente, di non ridurre YHWH a idolo (cf. 34,4-5.8).

Neppure un evento fondamentale come quello dell’esodo impedisce l’affiorare del peccato del popolo, la difficoltà a vivere in maniere lineare la relazione con il Dio liberatore. La fede è per Israele una sfida permanente. «Il libro dell’Esodo non idealizza l’epoca iniziale della storia del popolo, ma ne testimonia, fin dall’inizio, l’indole peccatrice» – scrive Galvagno (p. 28).

Gli israeliti si scoprono bisognosi di misericordia. Solo l’intercessione di Mosè (cf. 32,11-14.30-32; 33,12-23; 34,9) consente a Israele di non finire annientato dall’ira divina. Solo la misericordia di YHWH, adeguatamente sollecitata, consente a Israele (non solo sul Sinai) di rimanere in vita, a dispetto di quanto la sua condotta meriterebbe.

La risposta generosa degli israeliti alle richieste divine circa i materiali necessari per l’allestimento della dimora divina (cf. 35.21-29; 36,5.7) testimonia la loro piena adesione al progetto destinato a consentire la collocazione della presenza in mezzo al suo popolo. Gli israeliti sono custodi di una presenza inaudita. La dimora è vissuta non come un’imposizione subita, ma come opportunità di inaudita prossimità, pur con le cautele che tutto ciò richiede (cf. 33,7-10).

Nel libro dell’Esodo sono racchiusi di fatto motivi decisivi per la fede di Israele e della Chiesa. Vi sono concentrati tratti essenziali della fede biblica, della rivelazione di YHWH quale Dio di Israele e della dignità riconosciuta al suo popolo. «Il libro è rilevante, dunque, perché custodisce la memoria di eventi fondanti e implica la vita anche delle generazioni successive di Israele nella risposta al dono, ai doni ricevuti» (pp. 28-29).

Il commentario al libro dell’Esodo di Germano Galvagno e di Leonardo Lepore, pur nella presenza puntuale di indicazioni scientifiche, si presenta come compagno accessibile prezioso per molti lettori in vista di un accostamento informato e corretto a un testo biblico fondamentale per la vita cristiana.

Esodo, Introduzione, traduzione e commento a cura di Germano Galvagno, Note filologiche a cura di Leonardo Lepore, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2024, pp. 448, .

settimananews.it

Bibbia. Va all’asta uno dei libri più antichi della cristianità

È il Codice Crosby-Schøyen, scritto in copto in Egitto tra il 250 e il 350. Contiene quelle che sembrano essere le versioni integrali più antiche del libro di Giona e della Prima lettera di Pietro
Un foglio del codice Crosby–Schøyen MS 193

Un foglio del codice Crosby–Schøyen MS 193 – WikiCommons

Forse non è esattamente “il” più antico, ma è certamente uno dei più antichi libri della cristianità (e uno dei libri più antichi al mondo) quello andrà all’asta da Christie’s il prossimo 11 giugno (con un prezzo stimato tra i 2,6 e i 3,8 milioni di dollari). Si tratta del Codice Crosby-Schøyen MS 193. Scritto in copto su papiro in un monastero dell’Alto Egitto, secondo la casa d’aste intorno al 250-350 d.C. (ma la datazione, come vedremo è controversa), è un libro liturgico compilato in un monastero e contiene una raccolta di testi diversi con funzione liturgica: il trattato di Melito di Sardi sulla Pasqua, i capitoli 5,27-7,41 del secondo libro dei Maccabei, i testi integrali della Prima lettera di Pietro e del libro di Giona, un’esortazione liturgica.

Secondo Eugenio Donadoni, specialista del dipartimento di libri e manoscritti di Christie’s, «il testo è di i”importanza monumentale come testimonianza della prima diffusione del cristianesimo nel Mediterraneo». Il Codice Crosby-Schøyen fa parte dei Papiri Bodmer, una raccolta di diversi testi scoperti negli anni ’50 del Novecento nella tomba di un monaco copto del VII secolo, e così chiamati per via del primo acquirente, il collezionista svizzero Martin Bodmer. Si tratta di scritti cristiani, estratti della Bibbia e letteratura pagana. Nello specifico il Codice Crosby-Schøyen consta di 104 pagine, o 52 fogli, ma le analisi più affidabili suggeriscono che il libro, quando era intero, avesse 68 fogli e 136 pagine. La gran parte dei fogli mancanti sono perduti, ma ci sono resti frammentari in altre collezioni (come la collezione Chester Beatty a Dublino e la Fondation Martin Bodmer a Cologny). Si ritiene che sia l’opera di un solo copista.
Anche sulla data c’è dibattito: il periodo 250-350 d.C., desunto per via paleografica, è considerato un intervallo ragionevole, ma presenta qualche difficoltà. Il secondo termine è assicurato dall’analisi radiocarbonica. Ma se è stato effettivamente redatto in Alto Egitto, e nello specifico in un monastero pacomiano, questo restringerebbe in modo forte la finestra temporale, perché questi cenobi si formarono solo nel secondo quarto del IV secolo. Ciò significherebbe che la data del codice sarebbe in realtà più vicina al 325-350. In sintesi, l’analisi radiocarbonica ci fornisce un termine ante quem (ultima possibile data di produzione), e la teoria sulla produzione monastica ci dà un termine post quem (prima possibile data di produzione). In questo senso, per quanto riguarda la lettera di Pietro potrebbe essere preceduto in antichità dal Papiro 72 (Bodmer 7 e 8, perché diviso tra Biblioteca Vaticana e Fondation Bodmer), che contiene le versioni integrali di entrambe le espistole petrino.

È invece certo che si tratti di un esemplare precoce e ben conservato del formato codice, ossia di un libro come lo conosciamo noi, mentre in antico i volumi (da cui il nome) erano dei rotoli. Quando alla metà degli anni 50 il codice è arrivato all’Università Mississippi (che l’ha rivenduto nel 1981) era ancora in uno stato relativamente intatto, un codice a un solo fascicolo, con i fogli di papiro piegata e fissata attraverso la piega centrale: nelle foto poteva essere sfogliato e maneggiato come un libro moderno. In questo senso il codice Corsby-Schøyen è un manufatto molto interessante dal punto di vista della storia del libro, perché offre preziose informazioni sulla costruzione dei libri antichi e sulla codicologia. Il codice in seguito è stato smontato e le singole foglie sono state inserite tra lastre di vetro, ed è così che appare ora in vendita da Christie’s.

avvenire.it

Libro. La lettura della Bibbia rende presente il Signore Gesù

di: Roberto Mela in settimananews.it
  • Frédéric MannsSinfonia della Parola. Leggere, capire e meditare la Bibbia (La Bibbia e le parole), Edizioni Terra Santa, Milano 2023, pp. 288, ISBN 9791254712122 (qui).

Frédéric Manns è stato un grande esperto adorante della parola di Dio, spiegandola a livello accademico nello Studium Biblicum Franciscanum di Gerusalemme e in molti altri contesti: conferenze, ritiri, articoli divulgativi… Molti di questi sono comparsi anche sull’Osservatore Romano.

Lo studioso si caratterizzava per la sua profonda conoscenza dello sfondo ebraico del Nuovo Testamento e della tradizione rabbinica in genere. Il suo volume intende aiutare a gustare la parola di Dio nella lectio divina: cosa dice il testo in sé, cosa dice a me, come rispondo al mio Dio, come agire per metterla in pratica? Attenzione, intelligenza, giudizio, decisione. Quattro tappe per far diventare la parola di Dio vita della propria vita.

L’intelligenza delle Scritture

Nell’introduzione dedicata all’intelligenza delle Scritture (pp. 13-24) Manns ricorda che la lettura della Bibbia rende presente il Signore Gesù e il suo Spirito la rende attuale e viva per la Chiesa.

La Commissione Biblica ha illustrato vari metodi e approcci al testo biblico, ma quello storico-critico resta fondamentale. Nessuna interpretazione può essere totalmente individuale, ma la Parola va letta nello Spirito che l’ha composta e in comunione con la Tradizione ecclesiale. L’interpretazione cristiana dipende in larga parte dalla Sinagoga, ma la sua peculiarità è l’interpretazione cristologica.

Gesù è il compimento delle Scritture ed esse vanno lette alla luce di Gesù, della sua parola e della sua vita, a partire dalla sua morte e risurrezione. «La Bibbia è la traccia di una storia che Dio cerca di santificare lungo i secoli. Senza la scienza del cuore, essa rimane un libro ermetico, impenetrabile […] Il cristianesimo non è una religione del Libro e la parola di Dio non sussiste al di fuori di una comunità credente. La parola di Dio non vive se non è incarnata e condivisa, giacché essa è introduzione al sacramento» (pp. 15-16).

Le parole della Bibbia compongono una sinfonia, di cui è necessario gustare la varietà dei significati. È quindi necessario conoscere e unire l’interpretazione ebraica a quella cristiana. Il popolo che ha dato Gesù al mondo e il cristianesimo che cerca di vivere il suo messaggio hanno suscitato un vasto dibattito interpretativo, come dimostra il Dialogo con Trifone ebreo di Giustino e il trattato I princìpi di Origene. Un dibattito che va approfondito. Entrambe le tradizioni danno testimonianza a Dio.

La parola di Dio ha una ricchezza inesauribile ed è risorsa essa stessa a esprimere il suo significato mediante dei simboli, perché essa supera i limiti del linguaggio razionale. In essa infatti è contenuto un mistero nascosto da secoli in Dio (cf. Col 1,26). Il simbolismo è a servizio dell’attualizzazione, ma presuppone sempre una base storica e si costruisce sempre a partire da essa.

Per comprendere il Nuovo Testamento è necessario conoscere l’Antico. È vivendo la tradizione totale del Cristo in questa ricapitolazione che si entra in un processo di spiritualizzazione. «La Scrittura ha una triplice dimensione e contiene un dinamismo verticale e orizzontale. Essa possiede un senso letterale, antropologico e pneumatico, in quanto conduce all’ascesa dell’uomo verso Dio. È, infine, una storia in atto, bisogna dunque leggerla storicamente. In conclusione, il lettore che interroga la Scrittura è interrogato, a sua volta, dalla Parola» (p. 17).

Lo studio della Parola e il suo annuncio non si contraddicono, perché è già la Bibbia ad avviare la reinterpretazione e l’attualizzazione dell’esperienza della salvezza. Sul Sinai Dio ha rivelato la sua Parola, recepita come Torah da Mosè. Dio si è fatto conoscere come l’Unico e parlando agisce, perché la sua parola ha una potenza che compie quello che dice. Nell’economia della salvezza la parola dà un senso a tutta la storia, tanto da essere personificata. La parola rivela l’azione di Dio nel mondo.

I profeti approfondirono il messaggio dell’Esodo e vi videro un modello della futura liberazione. I salmisti vi scoprirono il dramma della vita interiore che si rinnova in ciascuno. Dopo l’esilio, Esra inculcò l’obbedienza alla Torah, nel quadro dell’alleanza, per la sopravvivenza del popolo. Insegnò l’obbedienza del Sabato, che distingueva Israele dagli altri popoli. Gli scribi precisarono con minuzia ciò che era permesso e proibito di fare in quel giorno.

Nel giudaismo esistevano varie tradizioni interpretative. A differenza dei farisei, i sadducei non accettavano la Torah orale; gli esseni seguivano il metodo del pesher; il mite Hillel – che con il rigorista Shammai costituiva i più grandi interpreti della Torah – dettò sette regole ermeneutiche, rabbi Ismaël ne formulò tredici. Gesù faceva appello all’autorità di Mosè, dei profeti o di Davide, ma era libero rispetto alle tradizioni aggiunte alla Torah concernenti il Sabato e la purezza rituale. «Ritornare all’intento originario del comandamento e sforzarsi di mettere in evidenza il perché del comandamento: questo il suo disegno – sottolinea Manns –. Il duplice comandamento dell’amore era la sintesi della Torah e dei profeti. Poggiandosi sulla Scrittura, Gesù rivelava il senso della sua missione e si sforzava di mettere in luce il cuore della volontà di Dio» (p. 19).

La comunità cristiana scruta le Scritture per dimostrare che Gesù era il Messia annunciato dai profeti e il kerygma è ricco di citazioni dell’AT. Is 53 e il Sal 22 saranno importanti per comprendere la Passione di Gesù. Gesù è considerato il compimento delle Scritture.

Paolo compie spesso un’interpretazione teologica, vedendo in molti personaggi ed eventi dell’AT dei «tipi» della nuova alleanza o della persona del Cristo (cf. Adamo, l’esodo, Sara e Agar ecc.).

L’allegoria si discosta di più dal senso storico che dalla tipologia. Questa permette di vedere in un evento o un personaggio una lezione nascosta, svela un senso «spirituale» accanto al senso letterale.

La Lettera agli Ebrei istituisce un parallelismo tra antica e nuova alleanza e Melchisedek appare come figura di Cristo. Giovanni, specialmente nel racconto della Passione, mette un accento particolare sul compimento della Scrittura. «Il compimento consiste nel portare la Scrittura al suo senso pieno e alla sua realizzazione. Non poteva realizzarsi che nella persona stessa del Verbo che è il Rivelatore» (p. 20).

Il giudaismo aveva ammesso un doppio livello di lettura, il Peshât e il Derash. La tradizione cristiana conosce a partire dal III sec. una scuola di interpretazione allegorica, il cui centro era ad Alessandria, mentre ad Antiochia si praticava un’interpretazione storica.

Ad Alessandria, Origene, il suo principale rappresentante, distinguerà tre livelli di interpretazione: l’interpretazione storica o letterale, l’interpretazione morale e l’interpretazione spirituale o allegorica, che cerca il significato profondo dietro il senso letterale.

I racconti della Bibbia dovevano avere in ogni caso un profondo significato spirituale nascosto. Il senso letterale rimaneva quello preminente e i passaggi oscuri vanno chiariti alla luce dei brani dal senso più chiaro. Inoltre, il credente deve far conto sullo Spirito Santo che ha ispirato gli autori sacri e illumina i lettori che si accostano al testo con umiltà.

Unico è il Dio che ha donato entrambi i Testamenti. Una è anche la fede. Abramo desiderava vedere il giorno del Signore, lo vide e se ne rallegrò. Nei due Testamenti c’è un unico disegno di Dio che si compie. Mosè ed Elia danno testimonianza a Gesù sul monte della Trasfigurazione. Nel NT la Parola è affidata agli apostoli, che predicano Gesù risorto secondo le Scritture. La Parola cresce continuamente. La Chiesa è generata dalla Parola.

Il percorso del testo«Il percorso che qui presentiamo è semplice – afferma Manns –: cominceremo dalla rapida evocazione dei grandi simboli biblici che permettono di comprendere meglio le Scritture; esamineremo, in un secondo momento, alcuni princìpi ermeneutici ebraici e cristiani, per poi giungere, infine, a una conclusione sulla continuità e la discontinuità di queste letture, ebraica e cristiana» (p. 22).

Alcuni simboli biblici

Nel c. 2 del volume Manns illustra vari simboli biblici della parola di Dio (pp. 25-137).

Dopo aver riflettuto sulla Parola nel suo rapporto col silenzio, egli analizza la Scrittura come il cuore di Dio. La manna è simbolo della parola di Dio, come i quattro fiumi del paradiso sono simboli della Scrittura. Essa è come l’argento, è dolce come il miele, è un pozzo d’acqua viva da scavare, una spada a doppio taglio, un medicamento, il carro di Ezechiele. La Scrittura è una luce, un tesoro, una pianta, uno specchio. L’autore studia la Scrittura, arca di Noè e arca dell’alleanza. Essa è una tromba e la Torah ha un profumo tutto suo.

Verso una teologia della parola di Dio

Il c. 3 dell’opera ha per titolo Verso una teologia della parola di Dio (pp. 138-164).

Manns elabora un percorso in vista del delineamento di una teologia della Parola.

Lo studioso esamina il brano genesiaco dove si ripete il ritornello «Dio disse», con una parola presentata come potenza creatrice performativa, che realizza ciò che dice. Dio annunzia a Giacobbe la sua parola e «la Torah del Signore è perfetta».

Peshât è il senso letterale o storico della parola e richiede critica testuale e letteraria. Il Derash indaga il significato più profondo e nascosto. «Togliti i sandali», comanda YHWH a Mosè al roveto ardente prima di rivelare il suo nome. Rapida corre la parola, un dialogo d’amore tra Dio e l’uomo.

Il Midrash è la ricerca del senso spirituale. La tradizione giudaica avverte che un testo può avere settanta significati e scava come in un pozzo. La tradizione cristiana intravede il senso spirituale della Scrittura nella ricerca tipologica e cristologica. Già l’AT rilegge e approfondisce i temi fondamentali: esodo e nuovo esodo, torre di Babele e caduta di Babilonia, giardino del paradiso e Gerusalemme futura. I profeti si servono di testi già raccolti per annunciare una religione più interiorizzata. Il Cantico dei Cantici e il Sal 40 approfondiscono il tema di Osea e di Ezechiele circa l’unione di YHWH col suo popolo. Il genere midrashico si sviluppa a partire dall’esilio.

Il NT continua l’approfondimento aggiungendovi il senso cristologico. La visione della scala di Giacobbe alludeva per i giudei a coloro che osservano la Torah rivelata al Sinai. Per i cristiani allude alla venuta storica del Verbo tra gli uomini e alla croce di Cristo. Tutto nell’AT diventa “tipo” delle realtà del NT. Il colpo di lancia del centurione al costato di Gesù compie ciò che il bastone di Mosè aveva prefigurato nel percuotere la roccia. La Scrittura è pane e diventa alimento vivificante dopo che è stata consacrata da Gesù. Gesù prese il pane della Parola e la porta a compimento sulla croce. Nella Chiesa parola e sacramento sono strettamente uniti.

I due Testamenti sono uno, e l’artefice della loro unità è Gesù Cristo. L’AT dice che cosa è il Messia, il NT dice chi è. Con la sua morte Gesù cambia l’acqua in vino, portando a compimento l’acqua amara resa dolce dal legno buttatovi dentro da Mosè su ordine di Dio. Eliseo tramuta le acque sterili di Gerico in acque vivificanti. I Padri sottolineano che questo annuncia il cambiamento che il NT compie rispetto all’AT. I due Testamenti sono le labbra della sposa che rivelano il medesimo segreto e donano lo stesso bacio.

Is 45,15-19 ricordano che «Sei un Dio misterioso, Dio di Israele, salvatore». Dio si manifesta e si nasconde allo stesso tempo. Occorre umiltà per arrivare a gustare la parola, figlia uscita dal silenzio. La Bibbia rivela un Dio che entra in alleanza con l’uomo parlando in parole umane. Per l’ebreo Heschel, il senso di questa comunione è triplice: Dio si manifesta ad Abramo come un fuoco e una presenza; il fuoco si trasforma in luce che illumina il cammino; la presenza diventa richiesta esigente quando Dio si rivela a Mosè sul Sinai. I comandamenti accettati incoronano il popolo come lo erano i re e i sacerdoti. La Torah fu data nel deserto in 70 lingue perché nessuno potesse accaparrarsela e ognuno potesse capirla nella sua lingua.

Il Midrash Esodo Rabbah narra che Dio tiene la Torah con due mani e quindi occorre il suo apporto per poter comprenderla e viverla a fondo.

Il terzo della Torah tenuto da Dio simboleggia la sua parte segreta; il terzo tenuto da Mosè evoca il senso letterale accessibile al lettore, il terzo intermedio tra le due parti rappresenta il Derash, la Torah orale trasmessa dalla tradizione.

La rivelazione del Sinai trasmette la memoria di un impegno. Essa dura un istante ma impegna per tutta la vita. «Ogni credente diventa capace di associarsi esistenzialmente in una comunanza di destino con il popolo di cui la Bibbia racconta la storia. Nella coscienza ebraica esiste un legame vitale tra l’avvenimento originale, il testo che lo riporta per iscritto, la comunità che lo riceve e la fede con la quale questa comunità vi aderisce» – scrive Manns (p. 154).

La lettura ebraica fornisce un atteggiamento sapienziale di accostamento alla Bibbia, di cui la Chiesa è erede. La lettura critica si era allontanata dalla fede. Ora si è nuovamente avvicinata, aiutata anche dal faro dell’interpretazione ebraica.

La parola di verità

Il penultimo paragrafo del capitolo medita su La parola di verità.

La verità nella Bibbia non è un concetto intellettuale, per cui ci si domanda se la Bibbia dice il vero o il falso. «La verità nella Bibbia si fonda sull’esperienza religiosa dell’incontro con Dio. Essa traduce la qualità di ciò che è stato provato e manifesta YHWH come il Dio fedele. La sua parola è verità» (p. 155). Il Sal 119 che celebra le meraviglie dalla Torah lo ripete varie volte.

«La Bibbia dice la verità quando insegna il vero volto di Dio e il senso del destino dell’uomo. Ma lo fa con il suo linguaggio orientale. Lo Spirito Santo ha accettato di passare attraverso la mediazione della cultura ebraica e degli autori sacri» (ivi). «Urge situare il testo dell’Antico Testamento nel suo contesto, nella sua cultura e nella sua epoca – continua Manns –, se si vuol trovare la verità della Bibbia» (ivi).

La Bibbia contiene inesattezze storiche e scientifiche, ma è importante ricordare che la Bibbia è una storia santa, una rilettura e una meditazione della storia di Israele. «La verità che essa propone è quella della storia dell’alleanza, e non quella della storia degli uomini. Un popolo ha visto nella propria storia l’intervento del Dio Salvatore e ne dà testimonianza; non pretende di fornire una ricostruzione storica dei fatti in base ai nostri criteri moderni» (p. 156).

«La Bibbia dice la verità: questa verità è dell’ordine della fede ed essa si inscrive nel cuore di un’avventura dei credenti che si è svolta nella storia. Tutta la Scrittura è un Vangelo, una Buona novella, una parola di Dio che trasforma il cuore. Pascal aveva compreso che vi sono tre ordini di verità, ciascuno con la propria. La verità scientifica deve ammettere l’esistenza di una verità filosofica; infine, l’ordine della carità sorpassa i primi due ordini» – conclude Manns (p. 157).

La Bibbia nella storia

La Bibbia nella storia costituisce l’ultimo paragrafo del capitolo. Esso ripercorre la storia dell’esegesi cristiana. Essa diede grande importanza al senso spirituale, specificato nel Medioevo con la teoria dei quattro sensi della Scrittura.

Col XVII secolo prevalse la lettura critica, che di fatto mise in disparte la lettura spirituale e allegorica. La Bibbia ha una dimensione storica e letteraria, che vanno conosciute. Essa possiede però anche una portata religiosa. La Chiesa ha sostenuto questo quando respingeva le letture riduttive della Bibbia, ricorda Manns.

Nelle Università del XIX secolo trionfava il razionalismo e la pretesa normativa della Bibbia faceva problema. Inoltre, essa conteneva troppi elementi irrazionali. Si pose il problema dell’assoluto della rivelazione biblica. Fu introdotta la teoria documentaria, che pareva distruggere il valore religioso della Bibbia, e fu constatata la dipendenza della Torah dai profeti e non viceversa.

La scoperta delle grandi civiltà fece vedere la Bibbia come una loro piccola ramificazione. I testi biblici furono ridotti a miti, come quelli babilonesi. Si decifrarono i geroglifici e si decifrò la scrittura cuneiforme. Si spogliò la Bibbia della sua sacra aura. Gunkel iniziò lo studio delle forme letterarie. Le scoperte archeologiche accentuarono lo spirito critico degli esegeti. Si notò la grande influenza della cultura babilonese (debitrice di quella antecedente dei sumeri).

Manns ripercorre le principali tappe della ricerca archeologica. Si scoprirono le tavolette fenicie a Biblos, quelle di Ugarit, gli archivi del re amorrita a Mari. Le scoperte di Qumran nel 1947 fecero guadagnare un millennio rispetto ai manoscritti conosciuti allora (cf. il rotolo completo di Isaia). Si scoprì che Gerico era già distrutta ai tempi di Giosuè e che, a quel tempo, probabilmente Ai era disabita.

Come leggere i testi di Giudici e di Giosuè? Gli archivi di Tell Mardick in Siria rivelarono la lingua amorrita. Manns ricorda la scoperta della stele di Dan con la menzione della casa di Davide. Importanti gli scavi a Sepphoris, a Banias, a Meghiddo, alla piscina di Siloe e a Betania oltre il Giordano. Le pietre continuano a farsi sentire, commenta Manns.

Principi ermeneutici ebraici e cristiani

Il c. 4 del volume ha per titolo Princìpi ermeneutici ebraici e cristiani (pp. 165-235).

L’autore sottolinea, innanzitutto, come occorre vivere la Scrittura per meglio comprenderla. Ricorda la traduzione dei testi in lingua greca, le interpretazioni dei sacerdoti e dei farisei. Il trattato Abot della Mishnah ricorda che occorre vivere la Parola per meglio comprenderla.

Nei secoli successivi maturerà in Israele la coscienza di essere un popolo di sacerdoti la cui missione è proclamare le meraviglie di Dio.

Hillel detta sette regole ermeneutiche, poi ampliate e messe in pratica nei Midrashim, che testimoniano come la Scrittura non sopporta un’unica interpretazione. Come il martello spacca la roccia in mille schegge, così un passo della Scrittura dà luogo a molteplici interpretazioni.

Lermeneutica ebraica

I principali orientamenti dell’interpretazione ebraica sono due. Il Midrash halaka fissa le norme giuridiche e vede nella Scrittura la fonte dell’agire umano, mentre il Midrash aggada predilige un’interpretazione di impronta omiletica e religiosa.

Un unico principio soggiace ai due orientamenti: la Scrittura dev’essere vissuta nell’oggi. «Proprio perché dev’essere vissuta occorre precisare le norme giuridiche che la legge impone (halaka) e le motivazioni teologiche che rendono la Scrittura attraente (aggada)» (p. 168).

La Bibbia rivela sé stessa a chi la vive e interpreta, a sua volta, la vita del lettore. I moderni attualizzeranno questo principio dell’interpretazione esistenziale. Anche gli esegeti giudeo-cristiani riprenderanno questo principio. La Bibbia va letta, interpretata, proclamata, inculturata e testimoniata.

Manns illustra i princìpi insegnati da rabbi Aqiba e Rabbia Ismaele. Non basta la memorizzazione: «Solo chi accetta di lasciarsi interpellare dalla presenza che abita il testo sacro può scoprirvi una voce che parla al suo cuore» (p. 169). Bisogna studiare la Torah per viverla, per «farla», si ricorda nel commento midrashico a Lv 26,5. C’è una prassi che precede lo studio, e quest’ultimo è approfondito dall’agire. L’agire è elevato a principio ermeneutico.

La Torah è vita. Occorre insieme studiare, custodire e vivere. Nella Bibbia c’è una presenza che sollecita il lettore a una verifica delle sue affermazioni nella concretezza della vita. Chi rifiuta di agire va incontro alla morte. La Torah è acqua di vita. Davanti alla Scrittura, non è possibile la pura obiettività, ma occorre l’umiltà. Dio si è promesso al suo popolo al Sinai perché esso aveva risposto: «eseguiremo e ascolteremo». Il fidanzamento diventa un simbolo dell’alleanza di Dio col suo popolo, dell’intimità e della conoscenza reciproca.

Manns riporta testi midrashici che ripetono che la conoscenza deriva dall’azione e dall’obbedienza a Dio. L’obbedienza è possibile perché a questa disponibilità Dio risponde con il liberare il cuore dall’inclinazione al male. Diventa un cuore che ascolta.

Si afferma che la parola di Dio è strumento della creazione ed è ispirata dallo Spirito Santo. L’espressione «la Scrittura di Dio disse» spesso equivale a «lo Spirito Santo disse». Lo Spirito presente nel testo ispirerà il lettore che si impegna a vivere la Parola. «Vivere il testo diventa dunque una categoria ermeneutica, in ragione dell’essenza stessa della Parola, il vaso servito alla creazione e ispirato dallo Spirito» (p. 173).

Per comprendere la Torah occorre viverla, ma occorre anche una seconda esigenza ermeneutica: la categoria “Amore”. Si potrebbe schematizzare il cerchio ermeneutico proposto dall’autore di Sifrè Dt 41: «Occorre mettere alla base dell’agire e dello studio della Torah l’Amore; questo Amore permetterà l’osservanza dei comandamenti e lo studio della Torah, e questo studio condurrà alla Vita» (cit. a pp. 173-174).

Rabbi Aqiba morirà per decapitazione animato dalla gioia perché solo allora percepisce che mentre «dà l’anima» sta vivendo il testo dello Shema recitato tutti i giorni che richiede di amare Dio «con tutta l’anima».

Lermeneutica giudeo-cristiana

Molti ebrei che credettero in Gesù proseguirono i criteri ermeneutici imparati nella Sinagoga. I primi cristiani rileggeranno la vita di Gesù alla luce delle profezie dell’Antico Testamento.

Manns riporta alcuni aspetti dell’ermeneutica dei Vangeli di Matteo e di Giovanni che hanno ripreso molte tradizioni giudaiche e impiegato tecniche midrashiche.

Matteo, probabilmente un rabbino convertito, sottolinea la necessità del vissuto per una profonda comprensione. L’agire deve precedere l’insegnamento ed è decisivo nel giudizio finale. Gesù è presentato come il nuovo Mosè, ma la Torah, e i Profeti mantengono il loro valore.

La comprensione dell’AT deve essere guidata dal principio dell’amore di Dio (cf. Mt 22,34-40). L’amore per Dio e per il prossimo riassumono la Torah e i profeti e ne sono i criteri interpretativi. Nel discorso della montagna Gesù segue il criterio dell’amore e radicalizza l’interpretazione giudaica delle Scritture. Occorre osservare tutta la Torah ma anche portarla al suo vero scopo.

«L’ermeneutica di Giovanni assegna ugualmente un ruolo privilegiato all’agire e al comandamento dell’Amore».

Secondo Manns, tutto il Vangelo di Giovanni è una rilettura cristologica della Genesi e dell’Esodo. Anche questa rilettura è guidata dall’importanza delle opere e dell’Amore (cf. Gv 5,39-42). Se, per i rabbini, la Scrittura è la vita, le parole di Gesù sono spirito e vita. Le opere sono importanti (cf. Gv 3,19-20). Gesù è il grande esegeta che dà il senso compiuto ai miracoli dell’Esodo. Gesù conosce il Padre, osserva la sua parola e le sue opere gli danno testimonianza.

La comprensione del testo è possibile solo a chi è guidato dal comandamento dell’Amore che riassume la Torah e i Profeti. «Il Vangelo di Giovanni aggiunge un altro principio ermeneutico: è lo Spirito che guida i credenti alla verità tutta intera (Gv 16,13)» (p. 179). Per conoscere Gesù, occorre seguire i suoi comandamenti (1Gv 2,3).

Su questo si basa il metodo della lettura esistenziale dei testi.

Principi di una lettura esistenziale

Manns esamina i principi di una lettura esistenziale dei testi (pp. 180-195), elencandone i vari elementi: Pregare il testo; I sensi spirituali; Servitore della Parola; L’al di là del testo; Attualità e attualizzazione della Parola; Assimilare il testo; In Spirito e verità.

Il Concilio Vaticano II ha confermato la lettura patristica dei testi: la Bibbia ha una profondità spirituale enorme e va letta nello Spirito che l’ha ispirata. La spiegazione storica e critica delle parole non è ancora l’interpretazione. La parola di Dio va arricchita col linguaggio umano e viceversa. «Gregorio Magno diceva che “le parole di Dio crescono con chi le legge” (In Ez. 1, 7)» (p. 194).

La lettura storico-critica è complementare alla lettura spirituale, a patto di sapere a quale registro di intelligenza dei testi essi appartengono.

Ulteriori principi ermeneutici ebraici e cristiani

Manns espone altri criteri ermeneutici che derivano dal fecondo dialogo tra l’interpretazione giudaica e quella cristiana che l’approfondisce incentrandola sulla figura di Gesù Cristo.

Lo Shema Israel è la chiave di lettura della Scrittura. Nei Vangeli si ha una rilettura dello Shema, in modo particolare nel Vangelo di Giovanni. Manns ricorda il metodo ebraico della collana (Haraz) che «infila» citazioni della Scrittura aventi in comune lo stesso tema. I testi erano legati tra loro come le perle di una collana.

L’autore affronta, quindi, il tema della Rivelazione come espressione della condiscendenza divina, studiandola nella traduzione ebraica e nella rilettura cristiana. Emergono i temi di Dio servitore del suo popolo, quello della discesa di Dio sulla terra e, infine, quello del Verbo abbreviato.

La condiscendenza divina

La condiscendenza di Dio che si fa servo culmina con l’incarnazione del Verbo. Dio si adegua alla debolezza dell’uomo. Dio educa il suo popolo con pazienza, mentre vive fra altri popoli e culture e compie pienamente il suo abbassamento in Gesù servo per liberare l’uomo. Il Verbo assume la condizione di schiavo, per ricreare l’uomo.

Giovanni Crisostomo è il «dottore della condiscendenza». Nelle omelie sulla Genesi, ricorda spesso che Dio si adatta agli uomini. «In Gregorio di Nazianzo compare un’idea nuova – scrive Manns –: la pedagogia divina è progressiva. A perfezionamenti successivi corrispondono eliminazioni graduali» (p. 228). Se l’Antico Testamento è caratterizzato da cambiamenti che nascono dalle eliminazioni, il Nuovo Testamento sarà l’era del perfezionamento grazie alle aggiunte.

All’origine della condiscendenza divina si trova la filantropia di Dio. La direzione definitiva della condiscendenza era l’incarnazione. Questo richiedeva una lunga preparazione. Il Dio compassionevole che nell’AT aveva parlato tramite i profeti, nel NT parla attraverso il Figlio. La condiscendenza trova l’apice nel fatto che Dio in Gesù ricrea gli uomini e ogni cosa. Il Verbo riconduce tutti dalla corruzione del peccato all’immortalità. La parola di Dio è l’esodo di Dio verso l’uomo per farlo uscire dal suo mondo. «Verbum abbreviatum fecit Dominus in terra, diceva san Francesco» (cit. a p. 233).

La parola di Dio è parola di alleanza che riporta l’uomo all’amicizia con Dio e alla pace. Dio persegue fino all’ultimo il suo progetto di comunione e la Chiesa getta la parola nel campo del mondo perché diventi albero fecondo e porti libertà a tutti coloro che la accolgono.

Continuità e rottura tra ebrei e cristiani nella lettura della Bibbia

Il c. 5 del volume ha per titolo Continuità e rottura tra ebrei e cristiani nella lettura della Bibbia (pp. 235-256).

Ebrei e cristiani hanno letto e commentato la Bibbia per secoli. Per vario tempo la Chiesa preferì il testo greco della LXX ma, quando seguì il testo ebraico, formulò dei commenti che assomigliavano a quelli della tradizione ebraica. La Chiesa aveva assimilato dalla Sinagoga vari elementi che risalivano alla tradizione orale. Manns illustra i contatti tra l’ermeneutica ebraica e l’esegesi cristiana mediante due esempi, uno tratto dalla Torah scritta e l’altro dalla Torah orale.

«E vide che era una cosa buona». Il problema del secondo giorno e gli angeli

Il primo esempio riguarda l’omissione del ritornello «e vide che era una cosa buona» riferita in Genesi all’opera di Dio del secondo giorno.

Le spiegazioni vanno dalla creazione della Geenna, alla divisione come causa di confusione, al fatto che la creazione delle acque fu compiuta di fatto al terzo giorno.

Girolamo pensa che il numero pari sia impuro perché introduce una divisione e quello dispari sia puro.

Le tradizioni sapienziali e apocalittiche ebraiche del I secolo speculano sulla creazione degli spiriti il secondo giorno.

Vari commentari midrashici pongono al secondo giorno la creazione degli angeli, per conservare il monopolio divino della creazione ed evitare qualsiasi forma di dualismo. «Il Targum Jonathan Gn 1,26 riflette questa idea – annota Manns –: ‘Elohim dice agli angeli che servono alla sua presenza, i quali erano stati creati il secondo giorno della creazione del mondo: Facciamo Adamo a nostra immagine. In questa versione la presenza degli angeli si spiega con la difficoltà di dar conto del plurale: “Facciamo”. Gli angeli vengono introdotti per eliminare ogni minimo sospetto di pluralità in Dio» (pp. 241-242).

«Curiosamente anche un autore medievale, celebre per la sua conoscenza dell’ebraismo, Petrus Comestor, ribadisce questa tradizione» – annota Manns (p. 242). «Le fonti cristiane e le fonti ebraiche confermano la tradizione ebraica della creazione di uno spirito o di più angeli il secondo giorno, e ciò per mantenere il monopolio divino della creazione contro gli gnostici e i movimenti dualisti. È così che le tradizioni ebraica e cristiana hanno spiegato l’assenza del refrain “E Dio vide che era cosa buona” il secondo giorno» – conclude l’autore (p. 243).

Si discute se Origene e Girolamo siano venuti a conoscenza delle tradizioni ebraiche attraverso gli ebrei o i giudeo-cristiani. Vari ambienti ebraici coltivavano un’angelologia complessa. I farisei credevano agli angeli, gli esseni si impegnavano a tenere segreti i loro nomi, Filone attribuisce a loro un grande ruolo nella creazione e nella conservazione dell’universo. Col 2,16-18 testimonia l’esistenza di un culto degli angeli in ambienti giudaizzanti.

Nel suo discorso contro i giudei, in At 7,42 Stefano ricorda che Dio si è allontanato dal suo popolo dopo il peccato del vitello d’oro, abbandonandolo al culto dell’armata celeste, cioè gli angeli maligni identificati con gli dèi pagani. Questo testo fu la base di vari testi che accusano ebrei e cristiani di adorare gli angeli.

Per i Padri, la venuta di Cristo ha segnato la fine del regno degli angeli sulle nazioni di cui parla il libro di Daniele. Così Origene e Giovanni Crisostomo, che parla di angeli custodi dei fedeli che hanno rimpiazzato quelli delle nazioni. I Padri riconoscono la presenza degli angeli nella Chiesa, in particolare nella celebrazione dei sacramenti. Nel Vangelo di Luca gli angeli salutano l’inizio e la fine della vita di Gesù.

Nell’ebraismo ogni elemento della creazione aveva il suo angelo. Gli angeli erano protettori del cosmo ed erano messaggeri di Dio presso gli uomini. Ogni nazione aveva il suo angelo e Michele era il principe di Israele, come mostra il libro di Daniele.

È in questo contesto culturale che i padri della Chiesa rilessero i Vangeli dell’infanzia. Gli angeli delle nazioni accolgono con gioia Cristo che viene a salvare i popoli. Il loro compito di protezione è terminato con successo. Alla gioia degli angeli delle nazioni e degli elementi si unirono tutte le creature celesti. Origene si rifiuta di adorare e venerare gli angeli.

La grande Chiesa reagì negativamente al culto degli angeli, ma gli ambienti giudeo-cristiani hanno mantenuto questo culto trasmettendolo ad alcune cerchie del Medioevo. Secondo lo PseudoDionigi, gli angeli hanno il compito di guidare a Dio i popoli pagani. È la prova che la teologia di Origene non fu seguita ovunque. «Molti degli elementi dell’angelologia cristiana furono mutuati dal giudaismo che, dal periodo persiano in poi, sottolineava la necessità di intermediari tra Dio e gli uomini», scrive Manns (p. 247). L’esempio del libro della Genesi illustrato dimostra secondo lui che l’esegesi cristiana deve confrontarsi con quella ebraica, sua antenata.

Il Merito dei Padri. Monti e colline

Il secondo esempio è tratto dalla Torah orale. Riporteremo come prove ampi stralci del testo di Manns, ricco di citazioni.

«La Chiesa ha […] ereditato la Bibbia interpretata dalla tradizione orale – ricorda lo studioso –. Talvolta essa ha accolto questa tradizione orale, ma più spesso ha rinunciato a integrare questo commento orale» (p. 247).

Manns illustra questo atteggiamento con un esempio tratto da Origene. Il dialogo tra ebrei ed ebrei messianici risale alle origini della fede cristiana. Un punto di dialogo riguarda il Merito dei Padri e delle Madri di Israele che rappresentano le colonne su cui poggia la fede del popolo. Ci si chiede se questo patronato sia incondizionato.

Manns ricorda che, per scorgere la portata del dialogo, non basta la conoscenza della Bibbia, ma anche quella della tradizione interpretativa orale da parte della Sinagoga, che accompagnava il commento alla Bibbia contenuto nel Targum. Il commento orale è importante per conoscere il retroterra del NT.

La tradizione sinagogale riprende più volte l’immagine dei Patriarchi paragonati alle montagne e quella delle Madri simili alle colline. «Da dove nasce questo paragone?», si chiede Manns, che cita molti testi.

«Il testo del Midrash Es R 15,26 contiene un elemento di soluzione. Si fa menzione in questo passaggio dei Patriarchi che pregano per il popolo e fanno la pace tra Dio e loro, come è scritto in Sal 72,3: “Montagne portate e voi colline la pace al popolo”. Le montagne sono i Patriarchi, come è scritto in Mic 6,1-2: “I colli ascoltino la tua voce! Ascoltate, o monti, il processo di Yhwh”. Le due citazioni possono essere servite da base al paragone che diventerà comune in tutta la letteratura rabbinica» (p. 250).

Un testo che proviene dai rotoli del Mar Morto – 11 Q Melchisedek 2, 17 (11 Q 13) –, «interpreta Is 52,7: “Come sono belli sui monti i piedi del messaggero di lieti annunzi che annunzia la pace e che dice a Sion: ‘Regna il tuo Dio’: I monti sono i profeti e il messaggero è l’Unto dello Spirito, di cui parla Daniele 9,25”.

Indirettamente questo testo permette di datare il terminus a quo della tradizione. P. Sacchi ha evidenziato l’importanza di questo testo per seguire lo sviluppo del messianismo» – sottolinea Manns (pp. 251-252).

«Nel Nuovo Testamento – prosegue l’autore –, Lc 3,4 introduce la predicazione di Giovanni Battista con una citazione di Is 40,3-5 (che non è oggetto di commento specifico nel Targum): “Ogni burrone sia riempito, ogni monte e ogni colle sia abbassato”. Il messaggio di Giovanni Battista che segue critica coloro che sono ricorsi al merito di Abramo: “Non cominciate a dire in voi stessi: Abbiamo Abramo per padre! Perché io vi dico che Dio può far nascere figli (banim) ad Abramo anche da queste pietre (abanim)”. Più avanti, Luca 23,30 dà una diversa interpretazione dei simboli citando Am 10,8: “Allora cominceranno a dire ai monti: Cadete su di noi! e ai colli: Copriteci”. Si tratta del giudizio escatologico cui partecipa il cosmo intero» (p. 252).

Manns prosegue con gli esempi. «Gv 8,39 ricorda agli ebrei che hanno creduto in Gesù che, per essere figli di Abramo, è necessario compiere le opere di Abramo e Gv 8,56 mette in relazione Abramo e il Cristo, perché Abramo esultò nella speranza di vedere il giorno del Messia, tradizione che rinvia al libro dei Giubilei. Luca 1,37 aveva presentato Maria di Nazaret come la novella Sara e l’autore della prima lettera di Pietro 3,5-6 vedeva in Sara il modello delle sante donne che riponevano la speranza in Dio. Il Protovangelo di Giacomo, un apocrifo giudeo-cristiano, non esiterà a presentare Maria come la nuova Rebecca e la nuova Rachele» (pp. 252-253).

«I Padri della Chiesa danno interpretazioni diverse al simbolo della montagna. Origene, nella sua dodicesima Omelia su Geremia, distingue i monti luminosi dai monti tenebrosi. Tra i monti luminosi, menziona i santi angeli di Dio, i profeti, Mosè e gli apostoli di Gesù Cristo» (p. 253). In altri scritti, i monti rappresentano i profeti, le colline i giusti; la montagna è applicata a Gesù mentre altrove lo è ai profeti o al popolo di Israele. Eusebio di Cesarea applica il simbolo della montagna agli apostoli.

«Dinnanzi a questa interpretazione cristiana che rifiuta di applicare il simbolo della Montagna ai Patriarchi per riservarlo al Cristo, alcuni rabbini reagiranno», annota Manns (ivi). Vale a dire che «la polemica si è impadronita dell’interpretazione del simbolo dei monti e dei colli. L’interpretazione ebraica fu criticata dalla tradizione cristiana che, a sua volta, sarà respinta dalla Sinagoga» (pp. 253-254).

Continuità e rottura. Ladempimento

Siamo di fronte al dialogo e alla rottura fra ebrei e cristiani circa l’interpretazione della Bibbia. Manns traccia un bilancio.

I due esempi riportati sopra di dialogo/polemica «mettono in luce l’atteggiamento a volte positivo, a volte polemico della Chiesa di fronte all’esegesi ebraica – prosegue lo studioso –. Troppo spesso la polemica la domina, ma sovente la ripulsa dell’esegesi ebraica implica la conoscenza della posizione della Sinagoga. La lettura cristologica della Scrittura ridimensionerà di frequente l’esegesi ebraica. In altri termini, è il Cristo che, allo stesso tempo, unisce e divide l’esegesi ebraica e quella cristiana» (p. 254).

Secondo lo studioso la differenza tra la Bibbia cristiana e quella ebraica «si rivela a partire da una giusta comprensione della categoria di adempimento. La teologia dell’ebraismo del Vaticano II – e i documenti successivi, aggiungiamo noi – aiuta a comprendere il rapporto dialettico tra i due Testamenti. Ebraismo e cristianesimo sono segnati dalla rottura e dalla continuità. È chiaro che le promesse del popolo di Dio trovano il loro compimento nella nuova alleanza. Allo stesso tempo, la Chiesa non si sostituisce a Israele. Occorre, dunque, definire la nozione di adempimento in un senso non totalizzante.

Se il Nuovo Testamento è l’adempimento dell’Antico, ciò non significa – prosegue Manns – che quest’ultimo sia privo di senso al di fuori della sua attuazione. In caso contrario, bisognerebbe spiegare il vitalismo dell’ebraismo post-cristiano. E se tutta la Rivelazione dell’Antico Testamento la ritroviamo nel Nuovo, bisogna chiedersi perché i cristiani continuino a leggere l’Antico Testamento come parola di Dio nella liturgia. In realtà, adempimento non significa abolizione. La novità del Vangelo è una rottura che introduce un senso che non abolisce la Torah né i Profeti. “Typus partem indicat”, diceva Girolamo» (pp. 254-255).

«Il confronto di Israele con la Chiesa – conclude Manns – aiuta a percepire meglio l’originalità del cristianesimo come un’alterità che non abolisce ma, al contrario, apre un rapporto con l’altro riconoscendogli una propria legittimità. Paolo, si sa, ha rotto con l’interpretazione farisaica della Torah mosaica, ma non ha per questo rotto con il racconto biblico e la memoria di Israele» (p. 255).

Manns conclude il capitolo citando il capitello della basilica di Vézelay, il mulino mistico, un vero trattato di ermeneutica. Mosè porta al mulino un sacco di grano. Un altro personaggio, che rappresenta il NT, raccoglie la farina in un altro grande sacco aperto. «Questo capitello sintetizza il rapporto dell’Antico con il Nuovo Testamento – conclude l’autore –. Esso è il grano mutato in farina che permette all’umanità di nutrirsi, non essendo il mulino mistico altro che Cristo stesso» (p. 255).

Conclusione: leggere la Parola con la Chiesa

Avviandosi alla fine della sua fatica, Manns propone una riflessione su Maria che serbava tutte queste cose nel suo cuore. Ella è l’immagine del prototipo della lettura orante della parola, custodita e confrontata con la vita, per poi essere messa in pratica con umiltà e obbedienza della fede.

Nella conclusione, egli si sofferma a riflettere sulla fame della parola, sulla necessità di leggere la Scrittura nella Chiesa e il legame che unisce strettamente Parola e sacramento.

Una bella sintesi del libro può essere espressa con le espressioni di pp. 15-16: «La Bibbia è la traccia di una storia che Dio cerca di santificare lungo i secoli. Senza la scienza del cuore, essa rimane impenetrabile. Il cristianesimo non è una religione del Libro e la parola di Dio non sussiste al di fuori di una comunità credente. La parola di Dio non vive se non è incarnata e condivisa».

Un prezioso glossario (pp. 277-279) conclude questo ricco volume sul tema della parola di Dio accostato con l’apporto della ricchezza ermeneutica contenuta nella tradizione ebraica, di cui Manns era uno dei massimi esperti in campo cattolico. Un libro ricco, impegnativo, ma suggestivo negli accostamenti e nei “voli” interpretativi tracciati tra il campo ebraico e quello cristiano, con una rottura che non elimina una continuità.

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