Cinema. Tutti i film “stranieri” che possono ambire all’Oscar. Ma Garrone ha già vinto

Nella notte di domenica 10 marzo sapremo se l’Academy di Los Angeles premierà “Io capitano”. Tra i favoriti c’è “La zona d’interesse” del britannico Glazer ma anche da “Perfect days” di Wenders
Una scena di "Io capitano" di Matteo Garrone

Una scena di “Io capitano” di Matteo Garrone – Ansa

avvenire.it

«Essere approdati alla cinquina dei migliori film internazionali dell’anno – tra l’altro tutti diretti da autori europei – è già una grande vittoria». Continua a ripeterlo Matteo Garrone, che prosegue oltreoceano il suo lungo e avventuroso viaggio iniziato in Senegal e approdato prima a Venezia, poi in tutta Europa, in Africa, dove tutto è cominciato, e ora negli Usa. Cinemovel, una speciale forma di distribuzione, lo porterà in aprile nei villaggi vicini a Dakar e nelle città di Thiès, Mboro, Kolda, Sédhiou e Ziguinchor, con l’dea di organizzare anche proiezioni per le scuole. Ma il film è già stato distribuito in Marocco, Tunisia, Benin, Burkina Faso, Camerun, Repubblica Democratica del Congo, Gibuti, Gabon, Costa d’avorio, Madagascar, Guinea, Mali e Togo.

Coprodotto da Rai Cinema, vincitore del Leone d’argento per la miglior regia alla 80ª edizione della Mostra del Cinema di Venezia, Io capitano era uscito nelle nostre sale con 01 Distribution il 7 settembre raggiungendo un incasso di quasi 5 milioni di euro. È vero, quello raggiunto da Io Capitano, interpretato da Seydou Sarr e Moustapha Fall, è un traguardo straordinario, e domenica notte in Italia, durante la cerimonia presentata ancora una volta da Jimmy Kimmel al Dolby Theatre di Los Angeles, saremo tutti con il fiato sospeso nella speranza di vedere l’Oscar nelle mani del regista, che già nel 2008 aveva tentato la scalata ai prestigiosi premi hollywoodiana con Gomorra, senza però ottenere una nomination. Per l’Italia è la 30ª candidatura in quella che una volta era la categoria chiamata “miglior film straniero”. L’ultima volta che l’Italia è salita sul palco degli Oscar è stato con La grande bellezza di Paolo Sorrentino. Prima ancora con La vita è bella di Roberto Benigni, Mediterraneo di Gabriele Salvatores, Nuovo cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore, per risalire fino a Vittorio De Sica, Elio Petri, Federico Fellini.

Staremo a vedere. Anche perché la concorrenza è molto agguerrita. Il favorito è infatti La zona d’interesse dell’inglese Jonathan Glazer (ma il film è parlato in tedesco, polacco e yiddish), che affronta da un punto di vista inedito il tema dell’Olocausto e dei carnefici di Auschwitz, mettendo a fuoco la banalità del male attraverso la vita quotidiana di una famiglia la cui casa confina con il campo di concentramento. Tema a dir poco scottante in questi mesi in cui ogni film e ogni dichiarazione rilasciata dagli artisti finisce per diventare un atto politico da sostenere o condannare, senza mezze misure. Definito dal regista messicano Alfonso Cuaron «il miglior film del XXI secolo» e fortemente sostenuto dallo stesso Steven Spielberg, La zona d’interesse, premiato al Festival di Cannes con il Grand Prix della Giuria e uscito in Italia il 22 febbraio con I Wonder Pictures, ha raccolto ben cinque nomination, piazzandosi anche nelle categorie miglior film, regia, sceneggiatura non originale, sonoro.

Per molti sarà lui il vincitore, anche perché il numero dei britannici che votano agli Oscar è assai cospicuo. Ed evidentemente il contingente dei membri dell’Academy in ogni singolo paese ha il suo peso nella “guerra degli Oscar”. Il tedesco Wim Wenders, già candidato tre volte in precedenza per il miglior documentario, corre invece per il Giappone con il suo Perfect Days, grande successo anche ai botteghini italiani (il film distribuito da Lucky Red è arrivato nelle nostre sale lo scorso 4 gennaio), sulla semplice e placida vita quotidiana di un uomo che pulisce le toilette pubbliche di Tokyo e vive per assaporare ogni singolo momento della sua giornata. Qualcuno sostiene che i giapponesi, seccati dal fatto che a rappresentare il Paese del Sol Levante non sia uno di loro, non lo sosterranno. D’altra parte lo stesso Wenders si era meravigliato per la candidatura, dovuta probabilmente al fatto che il protagonista del film, K ji Yakusho, è uno dei più celebri e amati attori giapponesi.

La Germania invece, che l’anno scorso ha vinto con Niente di nuovo sul fronte occidentale, spera in La sala professori di lker Çatak, presentato al Festival di Berlino e distribuito da Lucky Red, che analizza le zone d’ombra della società e delle istituzioni attraverso lo sguardo di una giovane insegnante idealista. Indagando su alcuni furti avvenuti nella scuola dove lavora, la donna scoprirà i limiti di un rigido sistema di regole che non permette di arrivare alla verità. Ha forse meno chance di vittoria invece La società della neve, di Juan Antonio Bayona, maestro del neo horror spagnolo, che nel film presentato in chiusura della Mostra del Cinema di Venezia e disponibile su Netflix rievoca il tragico e celebre disastro aereo avvenuto sulle Ande nell’ottobre del 1972, quando il volo 571 dell’aeronautica militare uruguayana si scontrò contro le montagne a 3570 metri. Della squadra di rugby che volava verso il Cile sopravvissero in 27, ma erano solo quando tornarono a casa a Natale.

Cinema. Disney festeggia i suoi 100 anni sperando in “Wish”

Arriva nelle sale il 21 dicembre il cartoon di Natale della major a un secolo dalla fondazione. A Roma la presentazione dei registi: «Celebriamo la tradizione e le nuove tecnologie»
Una scena del nuovo Disney "Wish" nella sale italiane il 21 dicembre

Una scena del nuovo Disney “Wish” nella sale italiane il 21 dicembre – .

Un nuovo cartoon per festeggiare non solo il Natale, ma anche i 100 anni dei Walt Disney Animation Studios. Un secolo di magia al quale Wish, nelle sale dal prossimo 21 dicembre, rende omaggio per onorare l’eredità del fondatore della major di Topolino, dove sono nati tanti personaggi impegnati a guardare le stelle e a sognare. E i sogni, come sanno tutti, sono desideri anche se, come impongono riflessioni più contemporanee, è bene fare attenzione a ciò che si desidera.

Diretto da Chris Buck e Fawn Veerasunthorn, Wish parte proprio dai primi grandi classici Disney per raccontare una fiaba senza tempo ambientata nel Regno di Rosas, situato in un’isola del Mediterraneo al largo della Penisola Iberica, dove la diciassettenne Asha, che vive con la madre, il nonno centenario e la capretta Valentino, sogna di diventare l’apprendista del potente Re Magnifico, un sovrano che usa la magia per custodire ed esaudire i sogni del suo reame. Aisha, che ha trascorso l’infanzia a sognare osservando il cielo trapunto di stelle insieme al padre, che non c’è più, pensa di essere la persona adatta per quel compito, ma proprio durante il primo incontro con il sovrano la ragazza scopre le vere intenzioni che spingono Magnifico a raccogliere i desideri del suo popolo.

Alcuni di essi, giudicati “pericolosi” e potenzialmente sovversivi dal re, sono infatti destinati a non essere mai esauditi, cancellati anche dal cuore di chi li ha concepiti. Il desiderio espresso da Asha sarà allora quello di convincere la sua comunità a ribellarsi alla cattiva magia di un re che manipola e abusa dei sogni altrui in cambio di sicurezza e proiezione.

Ad aiutarla nell’impresa ci sarà la sua capretta, un manipolo di amici, la regina Amaya e una vera e propria stella, potente energia luminosa che le indicherà la strada. « Disney ha sempre celebrato i sogni, i desideri, la speranza, ma al tempo stesso è stato un innovatore che non ha mai smesso di guardare avanti – hanno commentato ieri i registi, arrivati a Roma per presentare il film –. Per questo Wish celebra la tradizione, rende omaggio alla capacità di narrazione di Disney e abbraccia nuove tecnologie».

A prestare le proprie voci ad Asha, Magnifico e Valentino sono la cantautrice Gaia, Michele Riondino e Amadeus. « Il mio sogno – dice Gaia – è quello di riuscire a vivere nella fede dell’intangibile e di creare intorno a me una realtà che assomigli a ciò che ho nel cuore», mentre Riondino aggiunge: «Credo nei sogni che aiutano a vivere, purché non si resti in attesa che qualcosa accada, ma si trasformino i desideri in azione per raggiungere l’utopia».

E Amadeus: « Bisogna essere disposti a lottare per vedere esauditi i propri desideri. E bisogna sognare in grande, mettendo da parte qualunque pragmatismo». Sulla necessità di manifestare ciò che abbiamo nel cuore, Gaia aggiunge: «La musica può essere terapeutica e quando cantiamo il nostro sogno l’universo intero ci ascolta. Questo film per me è stato come una preghiera».

La “catechesi dell’umanità”: il cinema secondo Papa Francesco

Il Papa durante una proiezione cinematografica

Al quinto Congresso di Filosofia e Cinema dell’Università Cattolica di Valencia, in Spagna, monsignor Dario Viganò, presidente della Fondazione Memorie Audiovisive del Cattolicesimo e vicecancelliere della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, ha illustrato i diversi riferimenti all’universo della celluloide nei discorsi, nei documenti e nel magistero del Papa: con Bergoglio il linguaggio cinematografico è diventato un valore aggiunto nel dialogo con il mondo
Vatican News

Gli insegnamenti di Papa Francesco consentono di vedere nel cinema una “catechesi dell’umanità”: è quanto ha detto monsignor Dario Edoardo Viganò, presidente della Fondazione Memorie Audiovisive del Cattolicesimo (Mac) e vicecancelliere della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, prendendo parte al quinto Congresso di filosofia e cinema organizzato dall’Università Cattolica di Valencia, in Spagna, che si è svolto dal 25 al 27 ottobre. Nel suo intervento, Viganò ha evidenziato che i numerosi riferimenti sul cinema nei discorsi e nelle omelie di Francesco rappresentano l’ultima tappa di un percorso lungo e spesso contraddittorio che ha portato l’atteggiamento della Chiesa a superare, non senza difficoltà, la diffidenza nei confronti della “settima arte”, da sempre fonte di preoccupazione educativa e di giudizio morale nel quadro di una più generale condanna della modernità.

Il linguaggio e i codici espressivi nella cinematografia
Proprio quella sua “catechesi dell’umanità” ha portato il cinema a superare lo status di “oggetto” – e come tale degno di attenzione, ma anche di costante censura – e di acquisire quello di “soggetto”, dotato quindi di un proprio linguaggio e di codici espressivi particolari, coinvolto nei “processi pedagogici e catechetici proposti dall’istituzione ecclesiastica”, ha spiegato il presidente della Fondazione Mac, che ha citato pure il richiamo di Papa Francesco, nel messaggio al Centro Televisivo Vaticano nel 30.mo anniversario della sua istituzione, a non tirarsi indietro davanti alle nuove sfide imposte dalla modernità, a mantenere salda “la prospettiva in questa specie di ‘autostrada globale della comunicazione’” e “ad aprire il campo dell’apostolato anche a quegli strumenti che possono offrire uno sguardo nuovo sulla realtà e ‘provocare la coscienza’ dei credenti”.

Bergoglio e la produzione neorealista
Circa il rapporto di Francesco con il cinema, Viganò ha fatto notare che “la produzione neorealista, alla quale il Papa ricorda di essersi avvicinato grazie ai genitori, può essere indicata come uno dei fondamenti della cultura cinematografica che Bergoglio ha coltivato e arricchito nel tempo, e di cui troviamo chiare testimonianze nel suo insegnamento”. Nell’incontro con i giovani cresimandi di Milano, nel 2017, ad esempio, “il Papa ha citato ‘I bambini ci guardiano’ di Vittorio De Sica per sottolineare ‘che quei film italiani del dopoguerra e poco dopo, furono, in generale, una vera catechesi dell’umanità’”. E non era la prima volta che il Pontefice faceva riferimento alla pellicola, che, ha osservato il vicecancelliere della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, evidentemente considera un’alta testimonianza della necessità di creare relazioni basate su uno sguardo bidirezionale, che unisca in un’unica trama chi guarda e ciò che è guardato.

La sfida culturale del cinema
“Il linguaggio cinematografico è entrato subito con forza nel pontificato di Francesco – ha poi evidenziato monsignor Viganò – ed è diventato, si potrebbe dire, un valore aggiunto per quella rivoluzione comunicativa finalizzata a un rinnovato dialogo con il mondo”. Si può dire, ha soggiunto, che la “catechesi dell’umanità” nel cinema è “una sfida culturale globale che Papa Francesco ha dimostrato di aver pienamente compreso e che in un certo senso ha anticipato, attraverso uno sguardo critico e un confronto costante con l’universo in continua espansione dei mass media. Lo dimostra il fatto, ha concluso monsignor Viganò, che il Pontefice ha voluto rilanciare lo strumento cinematografico nel suo magistero attraverso i continui riferimenti che si sono fatti strada nei suoi discorsi, nelle omelie e nei documenti ufficiali.

Italia. Migliore film su Gesù non è mai stato girato

(Giovanni Maria Vian – Domani) La sceneggiatura di Carl Theodor Dreyer pubblicata da Iperborea. Sono tanti i film su Gesù, spesso suggestivi, alcuni memorabili, ma il più bello è rimasto sulla carta di una sceneggiatura coinvolgente e può essere soltanto immaginato.
A pensarlo e a documentarsi sin dall’inizio degli anni Trenta, poi a scriverlo fu colui che – a ragione – è da molti considerato il regista più grande della storia del cinema, il danese Carl Theodor Dreyer, scomparso settantanovenne nel 1968, quando il progetto sembrava ormai alla vigilia della realizzazione. Dunque, davvero “il film di una vita”, come recita il sottotitolo di Gesù (Iperborea), che pubblica per la prima volta la versione più ampia della sceneggiatura, tradotta in italiano a metà degli anni Sessanta. La storia del testo, curato da Marco Vanelli e con una postfazione di Goffredo Fofi, è tormentata e resta il desiderio di saperne di più. La sceneggiatura fu data a Vanelli dal gesuita Virgilio Fantuzzi, il critico cinematografico della Civiltà Cattolica.
Questi a sua volta aveva avuto il testo dal confratello Carlo Maria Martini al quale «era stato consegnato dalla Rai per un parere di coerenza biblica e di opportunità ecclesiale», parere di cui però non vi è traccia.
Ma come si arrivò a questo punto? L’approdo in Italia, suggerito da amici, dipese dal venir meno della fiducia in un impresario statunitense, Charles Blevins Davis, che Dreyer conobbe nel 1949. Il rapporto però si trascinò per sedici anni perché Davis trattava il regista «come un postulante importuno, rinnovando ogni tanto vaghe promesse». Si tradusse allora dall’inglese la sceneggiatura completa – il cui dattiloscritto con interventi autografi di Dreyer è sul sito dedicato al regista (carlthdreyer) – ma alla Rai se ne parlò soltanto nel 1967, troppo tardi. Già nel 1969 comunque, un anno dopo la morte del regista, Einaudi pubblicò un testo più breve di quello edito dall’attuale curatore, che ha comunque confrontato le due versioni.
Dialogo aspro
Luterano non praticante, Dreyer fu sempre affascinato dalla figura di Gesù: «Credeva in un Dio cosmico, presente nelle cose e in noi, un Dio da raggiungere faticosamente, duramente. Una entità con la quale stabilire un dialogo che si sa a priori contorto, aspro, contraddittorio», raccontò poco dopo la morte del regista il figlio Erik.
Questi sottolineò il «bisogno di religiosità e di spiritualità» del padre che emergeva «da tanti frammenti della sua vita, dalla sua silenziosa lezione morale, dal senso profondo di giustizia da cui era animato, dai rapporti severi che aveva con le persone, da come ama¬va serenamente – da saggio – la vita, da come voleva non andasse sciupata. Dalla concezione quasi monastica che aveva del suo lavoro, dal disprezzo per il denaro, dall’odio per i filistei». Una descrizione che spiega implicitamente le difficoltà trovate nel realizzare i suoi capolavori. Dreyer affrontò il lavoro nel modo più difficile, non scegliendo uno dei quattro vangeli canonici (come Pasolini, che decise di rappresentare il racconto secondo Matteo), ma combinandoli insieme – così avrebbe poi fatto Zeffirelli – in un tessuto attendibile che il regista danese ricostruisce con rigore storico e intuizioni artistiche sorprendenti.
Come l’evangelista Marco, autore del vangelo più breve, e come Giovanni, il testo che più riflette sulla figura di Cristo, la sceneggiatura si apre con il suo battesimo nel Giordano, ignorandone la nascita e i trent’anni vissuti a Nazareth.
Un solo cenno è riservato a uno dei vangeli dell’infanzia. Durante l’entrata trionfale a Gerusalemme – dove Gesù viene accolto come il messia, l’unto di Dio destinato a regnare, pochi giorni prima di venire arrestato e messo a morte – «tre vecchi stanno ai bordi della strada. Potrebbe¬ro essere i “tre saggi d’Oriente”. Quando Gesù li avvicina, si gettano in ginoc¬chio, chinando la testa».
Sono ovviamente i magi, che secondo Matteo, si erano prostrati e avevano adorato il bambino nato a Betlemme.
È una presenza suggestiva, che ricorda quella immaginata di uno dei magi, Baldassare, che figura tra i protagonisti nel famosissimo «racconto del Cristo» portato al cinema da Wyler sulla base del Ben-Hur di Wallace.
Un altro cenno è riservato alla popolarissima leggenda apocrifa della Veronica, la donna che durante la salita di Gesù al Golgota, impietosita, chiede a un soldato: «Guarda com’è sudato. Posso asciugargli il viso?». Il regista commenta: «Poiché la donna ha un aspetto piacevole e benevolo, il soldato acconsente». Nulla di più.
Un lavoro lungo
Lo scenario è infatti quello segnato dall’occupazione romana, paragonata a quella hitleriana dei paesi invasi prima e durante la seconda guerra mondiale, e dal movimento di resistenza degli zeloti che cercano di utilizzare ai loro fini il predicatore di Nazareth e il consenso che riscuote tra il popolo. Su questo sfondo Dreyer intreccia con cura e sapienza la narrazione dei quattro vangeli, e la ravviva evocando diverse parabole. E ci si può solo immaginare come il regista – sicuramente in bianco e nero, come tutti i suoi film dove l’alternanza tra la luce e le tenebre è resa da una fotografia abbagliante – avrebbe rappresentato quanto descrive con asciutta emozione. Come nella chiamata degli apostoli: «Pietro lo guarda sorpreso. Come poteva quest’uo¬mo sapere il suo nome? Sta per chiederlo al fra¬tello, ma Andrea scuote la testa a indicare che non può aiutarlo. In quel momento, Gesù si vol¬ta verso Pietro e tra i due nasce un legame che non si spezzerà mai».
O, ancora, in una scena dove «Pietro s’arrampica per la salita e vede Gesù nella pianura sottostante, inginocchiato e assorto in preghiera. Pietro è profondamente scosso alla vista di Gesù, e una forza interiore sembra tra¬sformare il rozzo pescatore. Una luce interiore illumina l’uomo e riflette la nuova purezza che ha trovato. Avanza ancora brevemente e si distende sull’erba aspettando Gesù». Nella sceneggiatura non vi sono tracce del lavoro preparatorio, ma questo deve essere stato lungo e accuratissimo, perché profonda è la conoscenza dei testi biblici e delle loro interpretazioni più probabili. Gesù era già in uno dei primi film di Dreyer, Pagine dal libro di Satana, del 1921, ed è alla fine del decennio, dopo La passione di Giovanna d’Arco, che il regista inizia a scrivere questa sceneggiatura, mai più abbandonata. Nella sua visione il maestro di Nazareth è un giudeo vicino ai farisei ma la sua predicazione si staglia unica nell’ebraismo del tempo, perché lo rinnova e lo allarga. Soprattutto, lo apre alla considerazione delle donne – che ritornerà nel suo ultimo film, Gertrud – e all’amore dei nemici. Le parabole s’intrecciano al racconto, spiegate meglio che in tanti commenti. Così la parabola della moneta perduta – mai raccontata in un film – che viene collocata dopo la chiamata di Levi e l’incontro di Gesù con altri esattori delle tasse.
Amico dei peccatori
Questa vicinanza ai peccatori stupisce i farisei, che Dreyer considera comunque con simpatia: «Lo scopo di questa parabola è di darci la sensa¬zione di come una piccola moneta sia divenuta il centro di attenzione per il fatto di essere stata persa e ritrovata. Come la donna si rallegrò mol-tissimo del fatto di averla ritrovata, così Gesù si rallegra enormemente per ogni peccatore che torna a lui. E come la donna trovò la moneta nel buio e nello sporco, così Gesù cerca i peccatori nello sporco e nel buio di questo mondo».
Molti sono i miracoli, che il vangelo di Giovanni chiama «segni» e che Dreyer tiene a spiegare sempre come disturbi psichici. Ma nell’episodio della trasfigurazione parlano sorprendentemente sia Mosè – come nella statua di Michelangelo, il cui nome è annotato dal regista – che Elia.
«In verità, tu sei il solo Figlio di Dio, scelto per stabilire il regno di Dio in terra» dice il primo, «e forza ti sarà data per affrontare tutto quello che verrà» aggiunge Elia. E, come la trasfigurazione, viene raccontata senza tentare spiegazioni di tipo razionale la resurrezione di Lazzaro. Consapevole di non poter rappresentare la resurrezione, al centro nel 1955 dello sconvolgente Ordet («La Parola»), Dreyer sceglie di concludere il film con la crocifissione: «Gesù muore, ma con la morte portò a termine l’opera che aveva iniziato in vita. Il suo corpo fu ucciso, ma il suo Spirito viveva. I suoi insegnamenti immortali portarono agli uomini di tutto il mondo la buona novella di amore e di carità preannunciata dagli antichi profeti ebrei». 

Capodanno in piazza ma anche al museo, teatro, cinema

Capodanno © Ansa

Sarà un altro Capodanno eccezionalmente mite quello che sta per arrivare: come l’anno scorso, sarà caldo e anomalo a causa della persistenza di un intenso ed esteso anticiclone africano.

Ecco quindi tante belle idee per aspettare l’anno nuovo tra le feste e i concerti in giro per l’Italia:

A ROMA, al Circo Massimo ci saranno Elodie, San Giovanni, Franco126 e Madame.

A GENOVA piazza De Ferrari vedrà sul palco: Annalisa, Anna Tatangelo, Baby K, Patty Pravo, Rocco Hunt, Rovazzi, The Kolors.

E poi Big Boy, Blind, Erwin, Fausto Leali, Follya, Gemelli DiVersi, GionnyScandal, Ivana Spagna, Luigi Strangis, Mamacita, Riccardo Fogli, Riki e Roby Facchinetti.

A RICCIONE la fine del 2022 sarà accompagnata dal concerto in piazza con Arisa e gli Extraliscio, mentre a MATERA ci sarà Gigi D’Alessio.

A MANTOVA Mannarino si esibirà in Piazza Sordello, Vinicio Capossela è l’ospite della notte di San Silvestro in piazza Cesare Battisti a CORATO, in provincia di Bari.

A CAGLIARI sul palco di Largo Carlo Felice sabato 31 dicembre salirà Blanco, PADOVA festeggerà il Capodanno con una festa in musica dove il protagonista sarà Max Gazzè, Francesco Gabbani animerà il Capodanno di PALERMO, che si terrà a piazza Politeama, TORINO celebra l’arrivo del nuovo anno con una serata in piazza Castello: si esibiranno Subsonica, Willie Peyote, gli Eugenio in Via Di Gioia, Beba, Ginevra e Cantafinoadieci.

A SALERNO appuntamento con i Negramaro nello slargo che divide Palazzo Guerra e la sede della Prefettura; Max Pezzali e Lazza saranno i protagonisti di Cap d’Any 2022-2023, il Capodanno di ALGHERO.

Domenica primo gennaio Nicola Piovani si esibisce nella sala Petrassi dell’auditorium Parco della Musica di Roma, Tosca al teatro studio Gianni Borgna dell’Auditorium Parco della Musica di Roma, l’Harlem Gospel Choir al Blue Note di Milano. Lunedì Claudio Baglioni suona al teatro Mario Apollonio di Varese. Martedì Elisa è al teatro Metropolitan di Catania con Dardust, Claudio Baglioni al teatro Sociale di Como, Enzo Avitabile e Peppe Servillo al Complesso Monumentale di San Domenico Maggiore a Napoli. Mercoledì c’è l’Orchestra Filarmonica di Kharkiv al teatro Apollo di Lecce, mentre Il Pagante è al Cocorico di Riccione e Filippo Graziani al teatro Comunale Maria Caniglia di Sulmona (AQ).
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Annie Ernaux “Nei miei libri c’è tanto cinema italiano”

Premio Nobel a Festa Roma con docu nato da filmini famigliari

(ANSA) – ROMA, 22 OTT – Il cinema italiano “è fra quelli che mi hanno più segnato e ispirato.

Penso a film come il posto di Olmi di cui parlo nel mio libro L’evento.

Un altro film molto importante per me è stato La strada di Fellini, che ho visto da giovane. Mi sono resa subito conto di quanto il cinema italiano parlasse attraverso il realismo. Mi colpiva molto di più di quello francese che trovavo spesso troppo al di sopra delle cose che raccontava e troppo parlato”. Lo dice la scrittrice francese Annie Ernaux, premio Nobel per la letteratura 2022 alla Festa del Cinema di Roma, dove ha incontrato il pubblico dopo la presentazione di Annie Ernaux: I miei anni Super-8, documentario da lei realizzato insieme al figlio David Ernaux-Briot (con lei protagonista dell’incontro) che sarà distribuito prossimamente in Italia da I Wonder Pictures.
Un viaggio nel tempo attraverso i filmini famigliari senza voce in super 8, girati dagli Ernaux tra il 1972 e il 1981, che prendono vita nel testo sul filo dei ricordi scritto dall’autrice, anche voce narrante. Il legame tra cinema italiano e letteratura della scrittrice c’è anche per uno dei suoi romanzi più celebri, Gli anni: “Una fonte d’ispirazione è stata Ballando ballando di Scola. Dopo aver visto il film mi è venuta l’idea di scrivere un libro con quel tipo di racconto, ma mi serviva la formula giusta. La scelta è stata di utilizzare quello che avevo sentito dire durante la mia infanzia”.
Arrivano anche le domande del pubblico, fra le quali una su quale libro di un altro autore avrebbe voluto scrivere: “Avrei risposto facilmente 30 anni fa, oggi è più difficile. E’ come se invecchiando sentissi che il mio percorso sarebbe potuto essere solo in una direzione, un po’ come in quel libro di Kafka (il processo, ndr) dove si apre per uno dei personaggi una porta destinata solo a lui. Tra i libri che ho ammirato di più ad esempio c’è Le cose di Georges Perec ma questo non vuol dire che avrei voluto scriverlo io”. Fra le domande invece per il figlio della scrittrice c’è quella su come lui abbia reagito alla notizia del Nobel: “E’ stata una cosa molto naturale non c’è voluto molto per abituarsi – dice sorridendo – anche perché lo considero pienamente meritato”. (ANSA).

(segnalazione web a cura di Turismo Culturale – https://viagginews.blogspot.com/