Niente sfida. Musk: Zuckerberg rifiuta il combattimento da antichi Romani

Rispondendo a un tweet del ministro Sangiuliano, Musk lo ringrazia e mette la parola fine all’ipotesi di sfida in un sito archeologico italiano
Elon Musk e Mark Zuckerberg

Elon Musk e Mark Zuckerberg – Fotogramma

avvenire.it

Non ci sarà nessun combattimento fra Elon Musk e Mark Zuckerberg. O almeno non nello stile e nell’ambientazione dell’antica Roma. Né a Roma, né a Pompei né altrove in Italia. A mettere fine alla questione è un tweet del numero uno di Twitter, Tesla e Space X, che riferisce il diniego del fondatore di Facebook e numero uno di Meta.

“Voglio ringraziare il ministro Sangiuliano – scrive Musk il rispondendo a un post del ministro della Cultura – per la gentilezza e la disponibilità nel voler organizzare un evento di intrattenimento, culturale e di beneficenza in Italia. Volevamo promuovere la storia dell’Antica Roma con il supporto di esperti e allo stesso tempo raccogliere soldi per i veterani americani e gli ospedali pediatrici in Italia. Zuckerberg ha rifiutato l’offerta perché non è interessato a questo approccio. Vuole solo combattere se è la Ufc organizzare l’incontro. Io comunque sono sempre pronto a combattere”.

La Ultimate Fighting Championship (Ufc) è un’organizzazione di arti marziali miste statunitense, con sede a Las Vegas.

Pupi Avati su Dante, suo valore è poesia non politica

 © ANSA

– Il suo Dante ha fatto commuovere 1.000 studenti di Civitanova appena ieri in una delle decine di proiezioni scolastiche con cui il film di Pupi Avati prolunga la sua vita oltre la proiezione in sala.

Il regista, che si è documentato per mesi diventando ancora più di prima un grande appassionato del Sommo Poeta, interpellato sulle dichiarazioni del ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano giudica l’uscita, “sia detto senza alcuna polemica, un po’ pretestuosa.

Nel senso che il valore di Dante, il motivo per il quale è sopravvissuto fino ad oggi e oltre oggi è la sua dismisura poetica, immensa, misteriosa, non certo la sua posizione politica”. Avati riflette e aggiunge: “è anacronistica, visto che parliamo di 700 anni fa e di un contesto completamente diverso. Non la sua posizione politica nè la sua omniscienza lo ha reso immortale, considerato il tempo medioevale, e neppure l’uso del volgare, ma semmai il volgare applicato ad una opera poetica cosi vasta”. Nel film, con Sergio Castellitto-Boccaccio e Alessandro Sperduti-Dante, “mi sono ben tenuto alla larga dall’attribuirgli una posizione politica. Alcuni dantisti lo hanno analizzato per le sue scelte, ma Dante ‘si mise in proprio’, disgustato da tutto e il periodo peggiore della sua vita al quale attribuisce le sue disgrazie furono i due mesi in cui fu priore ‘scendendo’ in politica”. “Se penso a Dante – aggiunge Avati – e all’ideologia non mi verrebbe mai in mente la destra ma diciamo ad onore del vero che la visione delle cose del mondo di Dante è totalmente inapplicabile all’ oggi, con un mondo davvero diverso”. (ANSA).

Disabilità: quello che resta da fare

di: Samuele Pigoni
settimananews.it

Come vengono rappresentate le persone con disabilità nel mondo dei media? -  AccessiWay

Oggi siamo lontani dalla segregazione e dalla violenza che portarono alla chiusura dei manicomi e alla rivoluzione di Franco Basaglia, ma il percorso per promuovere i diritti, il benessere e la piena dignità delle persone con disabilità è una rivoluzione non ancora terminata.

Il 3 dicembre si è celebrata in tutto il mondo la Giornata dedicata alle persone con disabilità, per promuoverne i diritti, il benessere e la piena dignità. È una data della quale tendenzialmente si accorgono e celebrano solamente le persone con disabilità, i familiari, gli addetti ai lavori, gli e le attivisti/e.

Eppure sono passati ormai 60 anni dai primi movimenti per i diritti delle persone con disabilità, dai primi disabilitiesstudies che hanno chiarito come le disabilità non siano più un ambito relegabile alla dimensione medica della cura e della protezione, essendo prima di tutto una questione di ordine sociale e di cittadinanza.

Va ricordato che con la Legge 3 marzo 2009, n.18 il parlamento italiano autorizzava la ratifica della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità sottoscritta dall’Italia il 30 marzo 2007 e che la Convenzione, approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 13 dicembre 2006, rappresenta un risultato definitivo raggiunto dalla comunità internazionale in quanto strumento internazionale vincolante per gli Stati.

La Convenzione si inserisce nel più ampio contesto della tutela e della promozione dei diritti umani e conferma una volta per tutte in favore delle persone con disabilità i princìpi fondamentali di pari opportunità, di non discriminazione, di esigenza di pieni diritti di cittadinanza sulla base dei princìpi di autodeterminazione e uguaglianza con tutti. A tal fine la Convenzione modifica alla radice la definizione di disabilità promuovendone una diversa concettualizzazione che si fa mobile, sociale e relazionale.

Mobile perché si definisce come “un concetto in evoluzione” (preambolo), non definita a partire da un qualche ancoraggio bio-medico ma sottoposta al variare dello sguardo storico che la anima (il disabile è stato nelle epoche “mostruoso”, “deforme”, “subnormale”, “handicappato”); sociale, laddove dichiara che «per persone con disabilità si intendono coloro che presentano durature menomazioni fisiche, mentali, intellettive o sensoriali che in interazione con barriere di diversa natura possono ostacolare la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su base di uguaglianza con tutti» (art. 1 comma 2); relazionale, in quanto territorio di relazioni di potere tra lo sguardo abile della maggioranza disciplinante e il corpo disabile, disabilitato e discriminato (quando non segregato) da barriere materiali e immateriali.

E su questo la Convenzione è chiara, per “discriminazione fondata sulla disabilità” – infatti – si intende: «qualsivoglia distinzione, esclusione o restrizione sulla base della disabilità che abbia lo scopo o l’effetto di pregiudicare o annullare il riconoscimento, il godimento e l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale, civile o in qualsiasi altro campo» (art. 2).

È discriminante tutto ciò che preclude il set di opportunità concrete che permettono di desiderare e vedere realizzata una vita nel mondo di tutti, a prescindere dalle caratteristiche individuali.

La Convenzione dispone che ogni Stato presenti un rapporto dettagliato sulle misure prese per adempiere ai propri obblighi e sui progressi conseguiti al riguardo. La legge italiana di ratifica della Convenzione ha istituito l’Osservatorio Nazionale sulla condizione delle persone con disabilità che ha, tra gli altri, il compito di promuovere l’attuazione della Convenzione ed elaborare il rapporto dettagliato sulle misure adottate di cui all’art. 35 della stessa Convenzione, in raccordo con il Comitato interministeriale dei diritti umani (Cidu).

Siamo lontani dalla segregazione e dalla violenza che portarono alla chiusura dei manicomi e alla rivoluzione di Franco Basaglia, ma il percorso di de-istituzionalizzazione fisica e immaginale, il riconoscimento alla persona con disabilità del diritto a una vita indipendente e progettata sulla base dell’uguaglianza con tutti, è una rivoluzione non terminata.

Un percorso che oggi è attuale e necessario e che investe i temi della casa in cui vivere, del lavoro cui aspirare, dell’affettività e della sessualità, del rapporto con la famiglia e dei dispositivi attuativi a disposizione dei sistemi socio-sanitari.

Siamo di fronte a un cambio di passo decisivo nella rappresentazione culturale delle disabilità (e per converso: delle abilità), nel riassetto dei servizi e dispositivi giuridici preposti alla tutela dei diritti di cittadinanza delle persone con disabilità, nei dispositivi pratici, educativi, relazionali con i quali costruire le capacità dei contesti (lavoro, scuola, quartiere) di eliminare le enormi barriere materiali e soprattutto immateriali residue. Barriere che abbiamo conficcate nello sguardo, molto spesso, anche in quello animato dalle migliori intenzioni.

Pubblicato sul sito della rivista Confronti. L’autore è direttore della Fondazione Time2, si occupa di management, progettazione sociale e filosofia.

Ponte Stretto: Salvini, commissario Valean apre ad aiuto Ue

 © ANSA

– La Commissione Europea sarebbe “onorata” di aiutare concretamente l’Italia nell’avvio del Ponte sullo Stretto, a patto siano formalizzati un solido piano finanziario e un progetto definitivo.

Lo ha confermato la Commissaria ai Trasporti Adina Valean al Vicepremier e Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Matteo Salvini.

Lo affermano fonti vicini allo stesso Salvini (ANSA).

Nuovi audio. Berlusconi torna sulla guerra: «Zelensky, non vi dico quello che penso…»

Nuove dichiarazioni, dopo quelle pubblicate ieri, in cui il Cavaliere ricostruisce la sua versione del conflitto. Per tentare di ricucire a Villa Grande sono arrivati Matteo Salvini e Carlo Nordio
Silvio Berlusconi e Vladimir Putin

Silvio Berlusconi e Vladimir Putin – Ansa

Nuovi audio pubblicati dall’agenzia LaPresse inguaiano il Cavaliere e, con lui, tutta la coalizione di centrodestra che si appresta a far nascere il nuovo governo. Sono sempre ricavati dall’incontro di martedì di Silvio Berlusconi con i parlamentari di Forza Italia alla Camera («Vi prego, però, il massimo riserbo», era stata la richiesta inascoltata) e danno la sua versione del conflitto tra russi e ucraini. E, in particolare, lasciano immaginare un giudizio tutt’altro che lusinghiero sul presidente ucraino Volodymir Zelensky: «Io non vedo come possano mettersi a un tavolo di mediazione Putin e Zelensky. Perché non c’è nessun modo possibile. Zelensky, secondo me… lasciamo perdere, non posso dirlo…”».

Ricalca, invece, affermazioni già fatte in tempi recenti da Bruno Vespa a Porta a Porta quando ricostruisce la genesi del conflitto: «Nel 2014 a Minsk, in Bielorussia, si firma un accordo tra l’Ucraina e le due neo-costituite repubbliche del Donbass per un accordo di pace senza che nessuno attaccasse l’altro», inizia il Cavaliere. «L’Ucraina butta al diavolo questo trattato un anno dopo e comincia ad attaccare le frontiere delle due repubbliche. Le due repubbliche subiscono vittime tra i militari che arrivano, mi si dice, a 5,6,7mila morti. Arriva Zelensky, triplica gli attacchi alle due repubbliche».

Berlusconi continua, sostenendo che a questo punto i separatisti erano andati da Putin e lui (seppur «contrario a qualsiasi iniziativa») dopo aver subito «una pressione forte da tutta la Russia» prende la decisione di «inventare un’operazione speciale», ossia arrivare a Kiev «in una settimana» e deporre Zelensky e i suoi ministri, sostituendoli con«un governo già scelto dalla minoranza ucraina di persone per bene e di buon senso». Un’operazione frenata dall’«imprevista e imprevedibile» ondata «di resistenza da parte degli ucraini, che hanno cominciato dal terzo giorno a ricevere soldi e armi dall’Occidente».

L’ex premier ha poi proseguito rimarcando, a suo dire l’assenza di leader «in Europa e negli Stati Uniti d’America» e aggiungendo: «Posso farvi sorridere? L’unico vero leader sono io…». Infine l’ultima dichiarazione registrata: «La guerra condotta in Ucraina è la strage dei soldati e dei cittadini ucraini. Se lui diceva ‘Non attacco più’, finiva tutto (…). Quindi se non c’è un intervento forte, questa guerra non finisce», ha concluso.

Queste nuove parole si aggiungono a quelle già pubblicate ieri, sempre da LaPresse, sui suoi rapporti con Putin, fatti di «lettere dolcissime» e regali reciproci. Proprio per questo oggi ha tentato di metterci una pezza Matteo Salvini (ormai sempre più calato nei panni del mediatore), andando a pranzo da Berlusconi a Villa Grande. Lo stesso capo del Carroccio, riferiscono fonti interne, in un colloquio con i responsabili economici del suo partito ha espresso «stupore» per le parole del leader di Forza Italia su Putin, ma ha anche rassicurato i suoi sul buon esito della partita governativa. L’ipotesi di Salvini è quella di «arrivare al giuramento già domenica, al massimo lunedì».

Nessuna dichiarazione ufficiale invece da Giorgia Meloni, anche se dal suo partito filtra tutta la sorpresa (eufemismo) per il nuovo e improvviso strappo del Cavaliere, aumentata dal fatto che è arrivata un giorno il ramoscello d’ulivo portato in via della Scrofa dall’ex premier azzurro. Il deputato di Fdi, Fabio Rampelli, si è limitato a dichiarare: «Non mi sembra che le posizioni di Berlusconi in politica estera siano le stesse di Giorgia Meloni».

Ma oltre alla politica estera, rimane il braccio di ferro sui ministri nella coalizione. Ieri il Cavaliere con i cronisti aveva dato per fatto un accordo su Elisabetta Casellati al ministero della Giustizia, presto smentito dal partito di Meloni. Anche su questo punto si tenta di mettere una pezza e stamattina Berlusconi ha incontrato, sempre a Villa Grande, Carlo Nordio, il favorito di Fdi come Guardasigilli. Un «incontro cordiale» secondo l’ex pubblico ministero, che ha rassicurato il Cav. («penso che le mie idee, espresse nei tanti volumi che ho scritto, siano condivise anche dal leader azzurro»).

da Avvenire

 

Elezioni. Giovani, il fantasma dell’astensione: «Questa politica non ci rappresenta»

Il 20% è sicuro di non andare alle urne, ma l’insoddisfazione per l’offerta elettorale sfiora il 50%. Gli esperti: pochi i ragazzi impegnati, per ora prevale l’incertezza
Giovani, il fantasma dell'astensione: «Questa politica non ci rappresenta»
Avvenire

La grande paura è la diserzione di massa. Se il primo partito il prossimo 25 settembre sarà l’astensione, come dicono oggi tutti gli istituti di ricerca, è la generazione Z, i nati dopo il 1997, a preoccupare. Perché le urne vuote per chi ha appena compiuto 18 anni sarebbero un segnale chiaro di disaffezione verso il Paese, un messaggio lanciato alla classe dirigente tutta: non ci rappresentate. Nonostante l’invasione di massa dell’ultim’ora dei leader politici negli spazi virtuali frequentati dai giovanissimi, la tentazione di tirarsi fuori è alta. È proprio la mancanza di credibilità e di autenticità del teatrino messo su in questo mese di campagna elettorale, a essere finita all’indice. Attenzione: questo non vuol dire che non esista una minoranza di giovani e adolescenti impegnati, che ci crede. A loro, in particolare, si rivolgeranno le sirene delle formazioni politiche nelle prossime, decisive quattro settimane. Però la semina di idee, messaggi e proposte sarà tutt’altro che facile e bisognerà evitare l’effetto boomerang. D’altra parte, è da tempo che i più giovani manifestano segnali di lontananza dalle istituzioni: secondo gli ultimi rapporti dell’Istituto Toniolo (Università Cattolica) due under 30 su tre pensano che la situazione in Italia sia peggiore rispetto al resto d’Europa. «La quota di giovani distaccata dalla politica può essere stimata vicino al 20% – afferma il ‘Rapporto Giovani’ dell’Istituto Toniolo – ed è legata al disagio socioculturale e alla scarsa fiducia nelle istituzioni». La rilevazione di Swg di inizio agosto quantificava in un 42% le persone astenute o non sicure di andare a votare. Mettendo in fila le motivazioni di questa scarsa propensione a recarsi alle urne, spiccava al secondo posto il fatto che «votare non serve a nulla», pensiero assai condiviso dalla generazione Z. Proprio il target 18-34 anni raggiunge il 48% tra le categorie con minor ‘disponibilità’ ad andare ai seggi, esattamente all’opposto di over 54 e pensionati.

Strade, panchine e social
Su una panchina di un paese della provincia di Milano, Federico e Yuri stanno ascoltando un brano di musica trap. Si parla di vacanze, delle ultime serate, si accenna a quel che si farà dopo la Maturità appena presa. Il voto del 25 settembre non è tra gli appuntamenti contemplati. Si fanno al massimo battute su Salvini, Meloni, Letta. Nulla di serio, però. Il politico è valutato alla stregua di un influencer, più o meno (molto spesso, meno) efficace. «Quanto è credibile un politico che si crea adesso un profilo sui social, per catturare la mia attenzione?» si chiede ad esempio Francesco, che nell’ultima settimana ha visto scendere nell’arena virtuale candidati di cui non conosceva neppure il nome.

Circola un video su Tik Tok, tra i più giovani, girato meno di un mese fa. Si vedono i volti in carrellata di 25-30enni, intercettati per strada in una periferia di Roma. Quel che colpisce è il grado di rassegnazione. Davanti alla telecamera si alternano studenti e lavoratori. «Il problema principale è l’Italia» dice il primo, che fa intendere una sfiducia totale nel futuro del Paese. «Votare? Semplicemente non mi interessa ». «Tutti dicono la stessa cosa, poi non fanno nulla. Quindi non voto e faccio prima ».

A queste latitudini, la campagna elettorale è come se fosse non pervenuta. Non interessa, semplicemente, anche se ci sarebbe ancora tempo per informarsi, farsi un’idea, discutere. E poi decidere. Si oscilla tra la voglia dispersa da qualche parte di provare a contare ancora e chi ha già deciso: i seggi non mi avranno. «Scelgono loro… io no» dice un altro, finché non si presenta un ragazzo dall’aspetto impegnato. «Sceglierò il meno peggio, non votare non è la soluzione» spiega. Insomma, c’è chi tenterà di restare sul pezzo, seguendo la giostra impazzita del voto, e chi ha già disattivato le antenne. «Auguro a tutti di cambiare Paese» spiega un altro intervistato, che poi accenna a una spiegazione. «I partiti nutrono un sacco di false speranze ». Il dibattito sui social non manca e più di uno fa notare che «è inutile che ci fanno votare, se poi ogni volta mettono un governo tecnico… »

Il grande disincanto
Come leggere questa grande disillusione? Come giustificare l’avvio anticipato dell’autunno dello scontento (giovanile)? « Ce stanno a fa’ morire di fame » sintetizza l’ultima voce. Secondo Lorenzo Pregliasco, esperto di comunicazione politica e cofondatore di Quorum/YouTrend, «la politica fa molta fatica a connettersi coi giovani, non da oggi. Con l’affluenza attesa a livelli più bassi della precedente tornata, è praticamente certo che l’astensione sarà il primo partito: un conto è calcolare in valore assoluto il 30% sugli aventi diritto, un altro è farlo, sia pur con lo stesso 30%, sul totale dei voti validi, che è più basso». Secondo l’esperto, il nodochiave da sciogliere è quello che gli addetti ai lavori chiamano «l’ecosistema informativo fluido. I nostri giovani non hanno, per la maggioranza, convinzioni forti e vivono dentro un palinsesto in cui tutto finisce per intrecciarsi: la foto su Instagrame il meme su Salvini, il post di Chiara Ferragni e le cinque cose da sapere su Fratelli d’Italia…».

Poi c’è l’elemento familiare, che pesa in modo diverso rispetto al passato, perché c’è chi guarda alla politica attraverso le lenti dei giovani: a volte sono madri e padri a seguire i figli influencer. «Per la generazione Z, la partecipazione politica è legata a singole issue, a singoli temi, un po’ come avviene come nei consumi culturali. Siamo alla politica on demand, con un 10% di elettori, anche tra i più giovani, che deciderà cosa fare all’ultimo momento» osserva Pregliasco. Voto last minute e grande volatilità, con giravolte possibili sulle scelte dei partiti, saranno dunque l’altro aspetto determinante. «Sul voto di settembre c’è grande indecisione da parte dei ragazzi» ha dichiarato nei giorni scorsi Michele Sorice, professore di sociologia alla Luiss. «I giovani costituiscono circa un terzo di coloro che sono incerti su chi votare. D’altra parte la campagna elettorale non è ancora entrata nei temi a loro cari, come il lavoro, il caro energia, l’università, l’Erasmus. Ho comunque la sensazione e il timore che l’astensione giovanile sarà maggiore di quella degli adulti. Sono molto pochi i ragazzi interessati alla politica fatta dai partiti, eppure sono tanti coloro che fanno volontariato e svolgono attività di impegno civico. La politica non riesce più parlare ai giovani e infatti solo l’1% di loro è iscritto a un partito ».

Quanto alle indicazioni di voto, la popolarità di leader come Giorgia Meloni e Matteo Salvini è un aspetto da considerare, così come la capacità di veicolare messaggi sui diritti civili da parte del Pd, mentre anche il Movimento Cinque stelle, dopo una fase di appannamento, sembra aver ripreso un certo appeal. Ma al momento sono solo brand da avvicinare con un misto di curiosità e diffidenza, simboli di un mondo che i giovanissimi continuano a sentire come lontano.

MATTEO E CARLO i due ego-leader costretti alle nozze

Una storia di stima, ma anche di stilettate. Fino alla coabitazione da molti prevista

Per anni si sono cercati e respinti, si sono ‘annusati’ e poi aggiornati a tempi migliori. Per molti, però, il loro destino era segnato: Renzi e Calenda dovevano finire assieme. Loro a lungo hanno rifiutato l’idea, cullandosi nei rispettivi ego che, refrattari come sono alle rigide regole di un partito ‘vecchio stampo’ come il Pd (che all’inizio li ha accettati prima di chiudere il rapporto a suon di male parole e stoviglie rotte), li ha portati a creare delle strutture partitiche personali, forse l’unico contenitore capace di veicolare idee che faticano evidentemente a trovare condivisione nel Paese. Così simili (per alcuni anche nel loro narcisismo e nella ricerca della ribalta mediatica, e per questo ha spiazzato ieri l’annuncio fatto senza telecamere, forse per far sbiadire il ricordo della conferenza stampa di Calenda con Letta) e così predestinati a una carriera da leader, era inevitabile che le loro strade si incrociassero, anche perché pescano nel medesimo elettorato, quello moderato e liberale che reclama modi decisi, idee innovative e riforme rimaste troppo a lungo nel cassetto. Matteo Renzi ha spesso rivendicato il merito di avere, se non scoperto, quanto meno lanciato nell’agone politico il volitivo e perentorio ‘rivaleamico’ Carlo Calenda, dapprima, con una mossa delle sue che spiazzò i diplomatici di professione («Visto che vi lamentate, vi mando uno più rissoso di me e bravissimo sui dossier: Calenda», disse loro) come rappresentante dell’Italia alla Ue e poi come ministro dello Sviluppo. Nacque in quei giorni «un certo rapporto umano», come lo definì l’allora premier. Quell’incarico procurò a Calenda simpatie anche sul fronte progressista, proprio per il suo carattere irruente, come quando si permise di definire «gentaglia», rifiutando d’incontrarli, i rappresentanti brasiliani della Embraco che volevano licenziare senza troppi impicci i dipendenti italiani. Tempi lontani, a giudicare da parole e toni usati dopo il brutale strappo di domenica scorsa, quando l’ex pupillo di Luca di Montezemolo ha annunciato il dietrofront rispetto al patto da lui stesso siglato col Pd 5 giorni prima.

Fra i due leader c’è sempre stata una stima reciproca di fondo, pur non essendo mancati i momenti, anche aspri, di confronto/ scontro, alternati ad abbracci e carezze. Come quando lo scorso febbraio, nei giorni dopo la rielezione del presidente Mattarella al Quirinale, Calenda disse: «Gli ho voluto bene a Renzi, è nato facendo il rottamatore, è finito che è diventato una versione modernizzata di Mastella», salvo poi urlare dal palco del congresso di Azione, appena 15 giorni dopo: «Renzi è stato il miglior presidente del Consiglio dopo De Gasperi!», frase che – a dire il vero – ha ripetuto spesso in questi anni. Sui social, regno incontrastato di ‘Callende’, com’è chiamato in una versione ironica, impazzano i video delle loro schermaglie. Ieri ne è subito stato rilanciato, anche dall’account di Forza Italia, uno del novembre 2021: «Non mi alleo con Renzi, l’ho detto 6 milioni di volte», diceva a La7 il segretario di Azione. A chi glielo chiedeva, Calenda ha sempre spiegato che era una la ragione che frenava la ‘grande intesa’: «In Occidente non esiste un caso di un parlamentare che prenda soldi da uno Stato straniero, per di più totalitario (l’Arabia Saudita, ndr).

A Renzi gliel’ho detto che deve finirla».

Ora, alla luce delle scadenze elettorali, anche questa remora è stata superata, si vedrà se più per convinzione o per interesse. «La realtà è che con Calenda abbiamo sempre discusso con affetto – disse Renzi nel lontano 2018 per spiegare il rapporto -, solo che lui adesso ha scoperto Twitter». Mezzo di cui, in effetti, l’ex ministro è diventato un mattatore, spesso senza peli sulla lingua nel ribattere a chi lo attacca. E ancora, in un’altra occasione: «Carlo non è cattivo, quando è tranquillo è un piacere parlarci, solo che a volte si lancia in previsioni da mago Otelma…». Insieme, hanno come obiettivo minimo quello di arrivare all’8%. Al di sotto, sarebbe un flop per quello che è stato già definito anche il ‘Terzo pollo’, a sottolineare l’attitudine polemica dei due. Quel che è certo, se l’intesa fra loro reggerà, è che ne vedremo delle belle. E già nessuno ‘sta sereno’.

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Ha spiazzato l’annuncio lontano dalle telecamere per due politici sempre sulla ribalta mediatica Un rapporto nato a Palazzo Chigi e che non lascia ‘sereno’ nessuno. Obiettivo minimo: l’8%

 

Campagna elettorale e democrazia UN’ECOLOGIA DELLA PAROLA

Eppure le parole non valgono più nulla. È questo il paradosso nel quale ci troviamo e che la campagna elettorale appena iniziata rende ancor più evidente. Promesse, commenti, opinioni, accuse. Si dice una cosa e il suo contrario. Tanto nessuno si ricorderà domani quello che è stato detto ieri.

Tutti parlano, gridano, esagerano per richiamare l’attenzione. Parole in libertà che non impegnano nessuno. La parola data non tiene più insieme le persone: quando viene meno la convenienza, un impegno preso può essere cambiato. Le cose che si dicono non implicano il rispetto della verità. Negli anni i cattivi maestri hanno insegnato che è vero solo ciò che raggiunge l’effetto. A prescindere da ogni referenza con il reale. Che cosa sono le fake news se non la traduzione digitale dell’uso cinico e strumentale delle parole? Se si lancia sui social una notizia falsa, caricandola di emotività e provocazione, il suo impatto comunicativo sarà comunque superiore alla rettifica che seguirà. Perché non provarci? Saper dialogare per arrivare a intendersi è un’arte sempre più rara. E così si moltiplicano i litigi che alimentano l’estenuante conflittualità tra chi si dovrebbe occupare del bene comune. Fino ad alimentare le tante guerre che insanguinano il mondo.

Viviamo in mezzo a un vero e proprio inquinamento comunicativo. Così, non sapendo più a chi credere, c’è chi cede alla tentazione di rintanarsi in nicchie chiuse dove si ascoltano solo quelli che la pensano allo stesso modo. Altri si fanno ammaliare da slogan che semplificano troppo. O addirittura da parole cariche di odio e di violenza. Nel flusso ininterrotto delle parole che, prive ormai di significato, passano senza lasciare traccia è la stessa idea di sfera pubblica il primo bene comune che viene perduto. Lo si vede in questi primi giorni di campagna elettorale: Calenda che si rimangia il patto elettorale sottoscritto due giorni prima. Azione e Italia Viva che si devono alleare, ma non si fidano l’uno dell’altro. Il Pd che negozia sottobanco con i 5S. Conte che parla come se non fosse stato parte del governo Draghi. Berlusconi che, aggiornando il suo vecchio slogan, promette «un milione di alberi». Salvini che se la prende con i migranti. Meloni che si dice pronta a risollevare l’Italia, senza però dire come. I tre che con toni diversi parlano di flat tax (al 23, al 15, incrementale), ma non spiegano quali servizi taglieranno per finanziarla. La sensazione è che i programmi siano elenchi di promesse che nessuno realizzerà mai. E dove le alleanze tra i partiti siano facciate che nascondono gelosie, rivalità, antagonismi. Destinate a disfarsi davanti alle prime curve della legislatura: come la coalizione di centrodestra, che mentre si dichiara unita a Roma, affila i coltelli per la candidatura di Palermo.

Nasce da qui la sfiducia diffusa nei confronti della politica parolaia, che parla sempre, ma combina poco. Le conseguenze possono essere molto pericolose per la democrazia. Perché laddove si smette di credere al valore vincolante delle parole, di assumersi la responsabilità di quello che viene detto, di condividere un senso che permette di dare una direzioni comune a quello che facciamo, è il potere di fatto che alla fine si impone. Senza giustificazione e legittimazione. Dissolta ogni critica nella confusione del flusso infinito delle opinioni equivalenti, è il potere di fatto, nella sua brutalità, ad affermarsi. Non si trova forse qui la ragione delle tante disuguaglianze, violenze, ingiustizie che sembrano delineare situazioni immodificabili e che perciò sembra addirittura impossibile mettere in discussione? È una malattia che si infiltra un po’ in tutte le democrazie contemporanee.

A partire dagli Stati Uniti d’America, che non sono mai stati così fragili. Ma che in Italia, a causa della debolezza delle nostre istituzioni, è particolarmente grave.

Logos (parola) viene dal verbo greco legein – che significa raccogliere, rilegare. In italiano questa radice etimologica la ritroviamo in legare, rilegare, ma anche in religione. E infatti attraverso la parola che è possibile ricostruire un senso, stabilire e mantenere delle relazioni, decidere di percorrere una strada insieme agli altrimenti, ricomporre una divergenza. Senza la parola diviene impossibile allearsi, promettere e persino intendersi. Il problema è che la parola, per non essere vuota e così annichilire la realtà, esige disciplina. L’idea che la parola sia puro strumento distrugge le relazioni, il senso, il mondo. È invece la parola che ci fa esistere come persone e che ci costituisce come società.

Per questa ragione è indispensabile pretendere da coloro che si candidano a gestire la cosa pubblica il rispetto dell’intimo legame che esiste tra le parole che si dicono, quello che si conosce e quello che si fa. Ma anche noi come elettori abbiamo delle responsabilità. Prima di tutto educandoci a non esporci a tutto, a qualunque cosa. Prima di accendere la tv o entrare nei social, verifichiamo le fonti. E impariamo ad alternare la confusione e il rumore con il silenzio e la riflessione. E poi ricordandoci che è quando siamo isolati che siamo perduti. Il discernimento è sempre il portato di una comunità di pratiche, di una vita associativa, di una esperienza partecipativa. La realtà può essere interpretata insieme. Solo con gli altri possiamo mettere alla prova le parole che usiamo e che sono usate da chi, troppo spesso, ci vuole abbindolare.

Per salvare la democrazia, occorre una nuova ecologia della parola.

Mauro Magatti

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Meloni / Altro che abiura del fascismo in tre lingue. Giorgia Meloni ha preso tardivamente le distanze (nel 2022) dagli aspetti più aberranti del fascismo mussoliniano come leggi razziali e dittatura

ALLIEVO DI DE FELICE, È AUTORE DI NUMEROSI VOLUMI SUL VENTENNIO

Lo storico Canali: presa di distanza tardiva e «strategica»

Altro che abiura del fascismo in tre lingue. Giorgia Meloni ha preso tardivamente le distanze (nel 2022) dagli aspetti più aberranti del fascismo mussoliniano come leggi razziali e dittatura. E, vista la sua biografia, se dovesse diventare premier sarebbe paradossale un giuramento di fedeltà a una Costituzione antifascista scritta dai leader della Resistenza e dagli oppositori del regime. Non crede alla scelta della leader di Fdi Mauro Canali, 80 anni, storico, allievo di Renzo De Felice e consulente di Rai Storia. A lungo docente a Camerino, Canali ha dedicato gran parte della sua ricerca storiografica all’Italia del Ventennio. «Quello di Meloni mi pare un tentativo tardivo e opportunistico di prendere le distanze dal fascismo e dalla sua stessa storia personale che la portò ad aderire giovanissima all’Msi, poi ad An e quindi a Fratelli d’Italia di cui è la leader. Mi pare un trucco per presentare in Italia e in Europa credenziali di legittimità a governare sapendo che restano le ombre sulla sua adesione a certe ideologie che fino ai discorsi più recenti non ha mai condannato esplicitamente». Canali, autore del recente volume Gli uomini della marcia su Roma, spiega questo ritardo in modo molto chiaro. «Nel suo elettorato ci sono gruppi che si rifanno esplicitamente alla dottrina fascista e che le hanno dichiarato sostegno. Ma evidentemente oggi Meloni non può presentarsi all’elettorato italiano e all’Ue come erede di movimenti nostalgici. Questo paese, qualora vincesse la destra, per la prima volta nella storia repubblicana sarebbe governato da un personaggio che ha sostenuto la legittimità di certe ideologie condannandone solo gli aspetti più aberranti. È una manovra già vista in passato con Giorgio Almirante». Il leader del Msi fu repubblichino e caporedattore della rivista La difesa della razza. Giorgia Meloni lo ha definito grande politico e patriota. «Ma la nostra Costituzione si basa sull’antifascismo – ribatte lo storico – e Almirante non era certo un padre costituente. Invece lo sono stati i teorici e i dirigenti più importanti della Resistenza, che hanno abbattuto con l’intervento decisivo degli alleati il regime, ponendo al centro del dettato costituzionale l’antifascismo».

A ogni elezione si riflette sulla anomalia italiana dove manca una destra maggioritaria che abbia rinnegato il fascismo. Sulla questione l’allievo di De Felice, considerato lo storico più autorevole sul regime, taglia corto: «Questo paese è fondamentalmente di destra. La prima dittatura moderna di destra è stato il fascismo italiano. I movimenti di sinistra in Italia sono sempre stati minoritari anche nei momenti di maggiore espansione del Pci, che ha assorbito le principali istanze socialdemocratiche. Non fatico a pensare che Meloni esprima istanze esistenti nelle viscere del paese, ce le portiamo dentro dal ’900. E quindi non riesco a collocare Fratelli d’Italia all’interno di un panorama antifascista come quello espresso dalla Carta costituzionale che peraltro vorrebbero cambiare in senso presidenzialista».

Resta la questione dell’adesione alla Ue, che la leader intendeva rassicurare con il suo discorso. Canali indica un’amicizia ingombrante che va nella direzione opposta, ovvero il leader sovranista ungherese Viktor Orbán, membro del gruppo di Visegrad, fautore della democrazia illiberale e teorico della purezza della ‘razza europea’ da difendere dagli immigrati. «In Italia ci sono partiti antieuropeisti e nazionalisti. In questa fase elettorale tacciono su Bruxelles, ma il legame di Meloni con il presidente ungherese è significativo. È un antidemocratico che ha riscritto la costituzione ungherese riducendo l’opposizione a un simulacro. Se Meloni diventasse premier, l’Italia rischia di diventare la prima nazione fondatrice a virare su posizioni sovraniste ». Dunque il fascismo non è mai morto? «Quello storico di Mussolini è morto con lui. Oggi si presenta in altre forme. Davanti alla paura dei grandi cambiamenti e alla crisi della democrazia propone il nazionalismo, un potere forte e il rifiuto della modernità».

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«Fatico a considerare Fdi antifascista Inoltre, Meloni ha legami con Orbán Se diventasse premier, l’Italia sarebbe la prima nazione fondatrice dell’Ue su posizioni sovraniste»

Il professor Mauro Canali

La memoria può accendere gli sguardi della politica

Che sia una questione d’occhi, il come si affronta la vita? Se penso a De Gasperi e La Pira dico di sì, perché gli occhi della fede fanno guardare al bene comune con una passione civile ben diversa. Ogni mattina si leggono, obtorto collo, le notizie sui movimenti elettorali delle varie coalizioni, ma durante il mio viaggio fra cantine e imprenditori continuo a incontrare un mondo parallelo, preoccupato sì per un futuro incerto, ma determinato nel fare e nel restituire in nome di una memoria che non si è spenta. Caterina Dei è la punta dell’iceberg della produzione di Vino Nobile di Montepulciano e i suoi vini vanno in tutto il mondo. Assaggio il 2017 “Madonna della Querce”, Nobile dedicato al padre Glauco, imprenditore del travertino mancato il 28 maggio del 2018, e Caterina mi racconta che nella medesima data – ha scoperto – è stata posta la prima pietra della Cittadella di Padre Pio a Drapia (VV), voluta da Irene Gaeta, per la quale la famiglia Dei ha offerto tutto il fabbisogno in pietra per costruire una grotta come a Lourdes. Ora, sarà azzardato il paragone, ma nella passione che Caterina mette per ottenere vini unici e caratteristici, ho visto i medesimi occhi con cui i monaci bonificarono la Borgogna e poi fecero il resto.
A Pignola, paese adiacente a Potenza, c’è una chiesa dell’Anno Mille che domina la vallata. E proprio sotto, l’imprenditore Paolo Patrone, coi suoi figli Giovanni e Nicola, ci ha messo 11 anni per ristrutturare un palazzo del ‘600 e costruire uno dei resort più belli che possiate immaginare: Dimora Giorni. Anche lui produce vino (fa il Cabernet in Basilicata) e si applica col variegato mondo del gusto. Però quando sono arrivato, la prima cosa che ha fatto è stata portarmi dal miglior gelatiere d’Italia (questo lo dico io, dopo l’assaggio): Luigi Buonansegna, che ha imparato il mestiere a Firenze andando a scuola dagli stessi gelatieri mitici della città. Ha abbandonato la carriera di avvocato ed è tornato a Pignola a issare la bandiera della qualità. Poco dietro c’è una macelleria elegante e piccola, dove Arcangelo Faraldo fa dei salumi spettacolari (chiedete la gelatina realizzata con le parti meno nobili del maiale) e lavora con la razza podolica di queste zone. Ma ancora più minuscola è la latteria di fianco alla Dimora, che vende il latte fresco e le mozzarelle. Con Paolo, che per 9 anni è stato sindaco di questo paese, ho visto in poche ore un mondo fatto di relazioni e di riscatto. Di una memoria che rende gli occhi vivi, capaci di fare quello che vorremmo anche dalla politica: un patto duraturo per il bene del Paese.

Avvenire

Verso il voto. Calenda strappa col Pd. Letta: così aiuta la destra

A pochi giorni dal patto firmato, il leader di Azione ha fatto retromarcia. Il movito: gli accordi che Letta ha stretto sia con Sinistra Italiana e Verdi sia con Luigi Di Maio e Bruno Tabacci

Calenda strappa col Pd. Letta: così aiuta la destra

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Carlo Calenda rompe l’intesa con Enrico Letta e scatena l’ira dei dem. Il fronte progressista messo pazientemente insieme dal segretario Pd per sfidare FdI, Lega e Fi ha perso un pezzo, quello di centro, che era stato il più corteggiato, il più difficile da convincere. A pochi giorni dal patto firmato, il leader di Azione ha fatto retromarcia.

“È una delle decisioni più sofferte – ha detto – ma non intendo andare avanti con questa alleanza” ha detto Calenda. A fargli cambiare idea, ha spiegato, è stata l’aggiunta dei “pezzi stonati”, cioè gli accordi che Letta ha stretto sia con Sinistra Italiana e Verdi sia con Luigi Di Maio e Bruno Tabacci.

Una giustificazione che ha fatto infuriare il Pd: “Onore è rispettare la parola data. Il resto è populismo d’élite”. Perché – ricordano i dem – quando è stato siglato quell’accordo con Azione, era inteso che ci sarebbero stati patti anche con le altre forze.

Per Calenda, però, la coalizione del Pd “è fatta per perdere. C’era l’opportunità di farne una per vincere. La scelta è stata del Pd, sono deluso”. La risposta di Letta è stata lapidaria: “Da tutto quel che ha detto, mi pare che l’unico alleato possibile per Calenda sia Calenda. Se lo accetta. Noi andiamo avanti nell’interesse dell’Italia”.

L’annuncio di Calenda è arrivato domenica in tv, a In Mezz’Ora, dopo ore di un insolito silenzio social, che ha lasciato in sospeso i potenziali alleati, reduci dagli accordi firmati il giorno precedente. Letta ha lavorato per mesi a un fronte che fosse il più largo possibile, con l’obiettivo di giocare la difficile partita del 25 settembre, di contrastare un centrodestra dato come favorito nei sondaggi e che si presenterà unito, con una legge elettorale che premia le alleanze.

Il nuovo quadro delle coalizioni

Il quadro delle coalizioni al centro e a sinistra è stato stravolto. Di nuovo e in poche ore. Calenda correrà da solo, a meno che non trovi un’intesa con Matteo Renzi, al lavoro sul Terzo Polo con le liste civiche dell’ex sindaco di ParmaFederico Pizzarotti. Il Pd andrà avanti con Verdi-Si e Impegno civico di Di Maio e Tabacci. Anche con Più Europa,che è federata con Azione ma conferma l’accordo con il Pd.

“C’è grande sorpresa per la decisione unilaterale presa da Calenda – ha detto il deputato e presidente di +Europa, Riccardo Magi – Noi continuiamo a dare una valutazione positiva al patto col Pd”. Nonostante le spinte di Sinistra italiana, sembra escluso un ritorno di fiamma fra Pd e M5s. “È stato Conte a far cadere il governo Draghi – ha detto Letta – È stata un’enorme responsabilità e per noi, questo è un fatto conclusivo”. Anche il presidente Cinque stelle sembra aver chiuso la porta: “A Enrico rivolgo un consiglio non richiesto: offri pure i collegiche si sono liberati a Di Maio, Tabacci e agli altri alleati.Questo disastro politico mi sembra lontano anni luce dal progetto riformistico realizzato durante il Conte II”. Letta su Calenda: “Che promesse può fare agli italiani se sanno che già con gli alleatiha rotto la parola data? Con questa legge elettorale gli italiani dovranno scegliere se essere governati da Meloni, dalle destre o da noi, questa scelta è netta e Calenda ha deciso di aiutare la destra, facendo quello che ha fatto”.

Avvenire

Sogni e speranza, per la politica che verrà

di Stefano Fenaroli – vinonuovo.it

L’improvviso palesarsi all’orizzonte delle elezioni politiche – per certi versi una pratica alla quale non eravamo più abituati – non può che sollevare reazioni, considerazioni e aspettative diverse, dal classico disilluso («tanto non cambia niente») al cittadino impegnato che prende seriamente il proprio dovere civico, preparandosi e informandosi «dalla mattina a notte fonda» (sullo stile, per gli appassionati, del rag. Ugo Fantozzi). D’altra parte, soprattutto di questi tempi, non è facile sentirsi liberi di esprimere un proprio parere, specie se all’interno di una cornice chiaramente di fede, per giunta cristiana. Il riferimento ovviamente è alla non poco velata strumentalizzazione di un certo devozionalismo di matrice cristiana (almeno in superficie), che in maniera grottesca mischia politica e credenza (corrompendo entrambe), facendo così perdere a priori credibilità a qualsiasi parere “dal sapore cristiano” in ambito politico.

Queste poche battute, allora, non vogliono suggerire delle preferenze né tanto meno mettere in luce dinamiche, problematiche o aspettative che da più parti, comunque, in questi giorni potremo sentire, percepire e più o meno condividere. L’intenzione, piuttosto, è esprimere a voce alta una speranza, un desiderio, volgendo lo sguardo «alla politica che verrà».

Come ben sanno gli specialisti, il periodo storico nel quale viviamo veniva definito, almeno fino a qualche anno fa, come post-moderno, vale a dire un tempo che si è ormai distaccato e lasciato alle spalle l’epoca moderna. Il principale carattere di questo nostro tempo, e quindi della sua società, è quello che Baumann definì come «liquidità», declinata a suo modo da Benedetto XVI come «relativismo», e che per intenderci – senza voler entrare nei dettagli – potremmo definire come “mancanza di” o “difficoltà nel darsi” un’identità chiara e distinta. Non è un caso che proprio la definizione stessa di post-moderno, in effetti, definisca il nostro presente ma a partire dal passato. «Noi» siamo ciò che viene «dopo il moderno»; ma cosa siamo «noi»? È un po’ come se i medioevali fossero stati in grado di definirsi tali, paradosso che nasce proprio dal fatto che un periodo, in realtà, lo si può “de-finire” solo nel momento in cui è “finito” (come il Medio-evo, per l’appunto).

Tornando al nostro discorso originario, questa «liquidità» intesa come difficoltà a darsi un’identità è tutt’altro che vista come un ostacolo o un difetto. Al contrario, essa nasce dall’aver felicemente lasciato da parte quelle che Lyotard ha definito le «grandi narrazioni», vale a dire le grandi ideologie del Novecento (fascismo, nazionalsocialismo, comunismo ecc.). Con la caduta del muro di Berlino, anche l’ultimo di questi grandi “-ismi” è terminato, si è letta l’ultima pagina anche di questa “grande narrazione” e si è rimesso al centro ciò che più conta e che sempre dev’essere tutelato: la libertà (sia essa politica, economica, culturale ecc.). «Liquidità», quindi, è sinonimo di «libertà».

È proprio qui, tuttavia, che, alla luce degli effettivi sviluppi della storia politica italiana, sorge un dubbio e quindi una speranza. Potremmo dire così: non sarà che insieme all’«acqua sporca» delle ideologie abbiamo anche buttato «il bambino» dell’ideale? In senso stretto, l’ideo-logia è un discorso razionale e argomentato circa un’idea o un ideale. Assodato il fatto che le concretizzazioni del secolo scorso di determinate idee (o ideali) andavano e vanno tutt’oggi archiviate, sorpassate e condannate (con buona pace di certi orientamenti politici attuali), resta il fatto che un discorso serio a partire da determinati ideali è o, per lo meno, dovrebbe essere il terreno fecondo dal quale partire per “fare politica” oggi. Non è questo, d’altra parte, ciò che si intende quando si sente auspicare una politica capace di costruire alleanze e coalizioni di larghe intese, con programmi condivisi di ampio respiro?

Qualcuno saluta con entusiasmo l’abbandono, il tramonto degli antichi schieramenti di destra e di sinistra (che effettivamente sembrano essere venuti radicalmente meno). Ma si può davvero riconoscere in questo un effettivo vantaggio, se insieme alla sterile etichetta (di cui certo si può fare a meno) si è perso anche l’interesse per quei valori che, certo, saranno astratti, spesso utopici ed evanescenti, ma sapevano guidare l’azione, l’impegno e romanticamente il cuore di chi si schierava da una parte o dall’altra? Se oggi, al loro posto, non ritroviamo valori condivisi (perché pur sempre di ideali si tratterebbe) ma semplicemente l’interesse economico, il tornaconto personale, il favoritismo clientelare, cosa ne ha guadagnato effettivamente il Paese? Se tutto si gioca nel qui e ora, in soluzioni (spesso neanche tali) a breve termine, in programmi di corto cabotaggio, dove si può trovare la passione, l’entusiasmo e (perché no) la capacità di sognare che dovrebbero muovere l’impegno e il lavoro di un vero statista?

Il mondo cambia velocemente, e qualcuno dice che la dizione da noi ricordata di «post-moderno» potrebbe già essere “antiquata”. Ebbene, di cosa possiamo discutere o su cosa possiamo costruire qualcosa, se il nostro orizzonte è limitato alla situazione qui e ora, che oggi c’è e domani potrebbe essere spazzata via da una guerra improvvisa o da una pandemia mondiale? Il nostro presente concreto, sociale e politico, dovrebbe essere il palcoscenico sul quale mettere in scena sempre nuovi drammi che nascono da una regia che condivide determinati ideali; il luogo in cui trova determinazione concreta e attiva una politica che nasce dal confronto e dall’elaborazione di un programma di ampio respiro, capace di entusiasmare, risvegliare le passioni e, come si diceva, far sognare. Perché nemmeno tutti i soldi di questo mondo valgono una politica che nasce da e sa dare concretezza a un vivere sociale e civile umano, giusto, disponibile, accogliente, aperto e fraterno. Ripensandoci bene, tutta quella spettacolarizzazione del religioso che abbiamo citato in precedenza, non sarà forse il tentativo proprio di colmare, malamente e rozzamente, questo vuoto “ideologico” che abita la politica, servendosi di facili stereotipi vecchi di duemila anni, per giunta falsificati e per nulla compresi, sperando che almeno questi scaldino e attirino qualche animo più nostalgico o semplicemente (e realmente) credente?

Concludendo, questa è la nostra speranza. Non una politica ideale (che in quanto tale non esisterebbe) quanto una politica dell’ideale, solo così capace di dare forma al reale. Quelli che abbiamo voluto offrire sono solo alcuni spunti, su cui tuttavia credo sia necessario riflettere, per recuperare una dimensione più alta e costruttiva della politica, quale autentico interesse per la polis. E se qualcuno si domandasse da dove partire, qualche buono spunto potrebbe ancora venirci da un’idea, da un motto non solo precedente il nostro tempo post-moderno, ma anzi proprio all’origine della Modernità: libertà, uguaglianza e fratellanza (parole che, tra l’altro, potrebbe suscitare anche un sano interessante teologico: e se Dio stesso, nel suo essere Trinità, potesse essere pensato proprio così, in sé libero, uguale e fraterno?). Certo, niente di originale. Eppure, se davvero ripartissimo da qui per fondare la nostra repubblica (visto che di «lavoro» ce n’è sempre meno…), forse molti problemi potrebbero trovare una strada per iniziare a essere risolti.

Crisi di governo, Famiglia Cristiana: “Vincerà il buon senso”?

Crisi di governo, Famiglia Cristiana:

«È preoccupante apprestarci a vivere una campagna elettorale, che durerà fino alle elezioni del 25 settembre, e una successiva fase di governo, dove un risuscitato populismo rischia di distrarre dai veri problemi dell’Italia». Sul n. 31 di Famiglia Cristiana, in edicola dal 28 luglio, nella rubrica Colloqui col padre il direttore, don Stefano Stimamiglio, risponde a due lettrici («due tra le tante lettere giunte in redazione») sulle imminenti elezioni politiche.

Per il direttore del settimanale cattolico, populismo e astensionismo sono i due veri problemi su cui riflettere. «Il populismo, infatti, è uno dei nodi fondamentali dell’attuale fase politica, non solo in Italia. Esso non rappresenta niente di nuovo – sia chiaro –: riemerge regolarmente come un mostro nei momenti faticosi della storia, cavalcando crisi politiche ed economiche, proponendo facili soluzioni a colpi di spugna e giocando sulla memoria corta dei cittadini. Riusciranno i partiti a resistere alla tentazione di caderci dentro?»

«L’altra faccia del problema, però, sono gli elettori», prosegue don Stimamiglio: «Il 25 settembre troveranno motivazioni sufficienti per andare a votare andando in controtendenza rispetto alle ultime elezioni amministrative di giugno, in cui hanno votato solo il 54% degli aventi diritto? Avranno discernimento sufficiente per esprimere un governo credibile per il nostro Paese?»

In generale, don Stimamiglio fa sua l’analisi del politologo gesuita padre Francesco Occhetta: «Conte ha aperto la crisi, Salvini l’ha cavalcata, Meloni l’ha capitalizzata e Berlusconi l’ha avvallata, svuotando per sempre le attese moderate e liberali di cui Forza Italia era portatrice. È stato sacrificato così Mario Draghi, il presidente riformatore che, nei suoi 523 giorni di governo, ha svolto il ruolo di garante del Paese grazie a tre caratteristiche determinanti: credibilità, competenza e rigore morale».
Adista 

CRISI Economia a picco, la folla caccia il presidente Sri Lanka, l’assalto ai palazzi del potere

Migliaia di manifestanti spinti dalla rabbia per la grave crisi economica, nella capitale Colombo, hanno preso d’assalto la residenza del presidente dello Sri Lanka, Gotabaya Rajapaksa (nella foto), costringendolo alla fuga e all’annuncio delle dimissioni. Lascia il premier Ranil Wickremesinghe dopo le richieste dei partiti che intendono formare un governo di unità nazionale.

Avvenire

Gelo di Conte su Draghi, il governo nel mirino. Conte accusa il premier di aver chiesto a Grillo di rimuoverlo dal M5s

Draghi, ho parlato con Conte, il governo non rischia © ANSA

Alta tensione nel governo.

Conte accusa il premier di aver chiesto a Grillo di rimuoverlo dal M5s (‘un’intromissione grave’), chiede un chiarimento politico e a sera sale al Colle per un colloquio di un’ora con Mattarella.

Draghi smentisce le pressioni sul Movimento, ma deve lasciare in anticipo il vertice Nato di Madrid. Convocato un Cdm sulle misure contro il caro bollette

FRA IL M5S E IL GOVERNO TIRA ARIA DI CRISI
La tensione ha superato i livelli di guardia dopo l’intervista del sociologo Domenico De Masi, che ha riferito una confidenza ricevuta da Beppe Grillo nei suoi tre giorni a Roma: Mario Draghi avrebbe avrebbe chiesto al garante di “rimuovere Giuseppe Conte dal M5s, perché inadeguato”. Non è mai successo, è la smentita di Palazzo Chigi arrivata all’ora di cena, quando ormai il caso era deflagrato, contestualmente alla decisione di Draghi di lasciare in anticipo il vertice Nato di Madrid per rientrare a Roma in serata e partecipare domani – è la versione ufficiale – al Consiglio dei ministri che si occuperà, tra l’altro, della questione bollette. Ma le preoccupazioni del presidente del Consiglio potrebbero riguardare proprio le tensioni con la maggioranza. E non solo quelle con i pentastellati ma anche con la Lega che si è messa di traverso sullo ius scholae e la cannabisIn questo quadro, Giuseppe Conte sale al Colle per rappresentare, a Mattarella, in un incontro durato un’ora, la “gravità” della situazione dopo il colloquio con il premier.

La giornata si è infiammata quando all’ora di pranzo l’ex premier ha accreditato le parole del prof. De Masi, che da tempo segue da vicino il percorso del Movimento ed è amico del garante. Conte si è presentato in sede, davanti alle telecamere, per assicurare che Grillo gli “aveva riferito di queste telefonate” di Draghi, chiarendo di sentirsi “sotto attacco” e denunciando “un intromissione grave”. Un aggettivo usato anche nella tesa telefonata con il premier, impegnato intanto al vertice Nato. “Abbiamo cominciato a chiarirci – ha detto Draghi -, ci risentiamo domani per vederci al più presto. Il governo non rischia”. Un appuntamento fra i due ancora non c’è, e c’è da attendersi un clima tutt’altro che disteso in Consiglio dei ministri. In teoria sembrano esserci tutti gli ingredienti per arrivare a un momento di rottura, a quell’appoggio esterno all’esecutivo chiesto da deputati e senatori grillini in pressing nella tre giorni di incontri organizzati da Grillo. Uno scenario percorribile ma solo se non saranno ascoltate le istanze del Movimento sui temi prioritari, dal superbonus al salario minimo, la predica ribadita più volte da Grillo, che in serata ha lasciato la Capitale, dopo aver cancellato l’ultima riunione con la delegazione pentastellata di governo.

È stanco”, “non sta bene”, sono le voci che hanno accompagnato le ultime ore a Roma del comico genovese, che davanti alle telecamere ha seminato battute criptiche (“Ma cos’è questa cosa di Draghi e Conte”, ha detto nel pomeriggio mentre infuriava la bufera”) e lapidarie risposte, come quella sul limite dei due mandati. Per lui è “un totem”, un “tema identitario”, ha chiarito nel pomeriggio mentre sfumava l’ipotesi di una votazione online degli iscritti, e assieme a questa la deroga a Giancarlo Cancelleri che così ha deciso di tirarsi fuori dalle candidature per le primarie per le Regionali in Sicilia.

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