Teologia / Calendario e speranza. Ogni giorno apre per noi una nuova possibilità: per vivere, credere, imparare, amare


Fonte: famigliacristiana.it
Lessi tantissimo tempo fa – non mi ricordo dove – un bel testo “sapienziale” sul calendario e sul tempo che passa. Mi sono rimaste nell’anima poche immagini di questo testo, tra cui la seguente: il calendario è uno specchio della tua vita, tu ne strappi una pagina e lui prende un giorno della tua vita…

Ero giovanissimo, un ragazzino, quando lessi queste righe, ma ricordo che quella presa di coscienza del tempo che passa mi scosse profondamente. Vivendo ormai da più di due decenni lontano dalla mia famiglia di origine e vedendo mediamente i parenti una volta l’anno (e anche meno), ho iniziato a vedere a ogni visita – e sempre più – il passaggio del tempo sulla pelle, negli occhi, nelle “cose”. Ok… vi starete chiedendo: «Sto leggendo il primo numero dell’anno, mi vuoi deprimere?». Tranquillo, sto solo creando l’atmosfera! Vorrei condividere un pensiero personale (e positivo, spero) sul tempo, quel tempo che passa inesorabilmente sia che siamo presenti o assenti. La buona notizia è che il tempo che passa non è una fatalità.

E, per rendere l’idea, vorrei condividere con voi tre prospettive degne di noi cristiani, a inizio anno. La prima prospettiva: la cosa di cui vale la pena prendere coscienza non è la fatalità del tempo che passa, ma la possibilità che abbiamo in ogni nuovo istante di essere dono, di essere presenti agli altri e a Dio. La seconda cosa, più importante della prima: pensavo come la sapienza della Chiesa ha calcato l’anno liturgico sul ciclo di un anno per ricordarci che questo tempo presente è «eternità velata» (per citare lo scrittore inglese C.S. Lewis) o, ancor più, è “l’Eterno rivelato”, è Dio che ci fa compagnia, che cammina con noi nel nostro quotidiano. La terza prospettiva tira le somme delle altre due: dato che il tempo è ancora presente e disponibile, dato che il Signore è presente in questo tempo, c’è ancora e sempre un barlume di speranza.

A volte è difficile vederla. A volte è addirittura difficile sopportarla o annunciarla. Ma ogni giorno del nostro calendario “strappa” per noi una nuova possibilità: per vivere, per credere, per imparare, per amare, per permettere all’Amato di sanarci e di santificarci. Buon anno nuovo!

Le domande che nutrono la fede: «La Chiesa a volte le teme ma sono un esercizio spirituale, soprattutto quando non conosci la risposta»

Le domande… le domande… sono loro il cruccio di padre Maurizio. Nella Chiesa è raro avere la possibilità di porre domande. Ecco perché da giovane prete, quando nel 2008 arrivò a Roma, ebbe l’intuizione dei “Cinque passi”. Un percorso di formazione che da quattordici anni richiama più di 500 giovani a incontro, oltre alle migliaia collegate in streaming da tutta Italia. Ogni anno si tengono cinque serate, ciascuna su un singolo tema, senza un filo conduttore unico. La prima mezz’ora è una catechesi. Dopo, chiunque e in qualsiasi momento, può porre domande in maniera anonima, scrivendole su un foglietto.

Quel cretino di un cristiano. Cinque passi al mistero

«Gli argomenti dei cinque incontri li scegliamo all’inizio dell’anno insieme alle persone che frequentano l’Oratorio di San Filippo Neri», spiega padre Maurizio. «Ognuno è libero di proporre, se ne parla e poi se serve si vota. Talvolta i temi che presento vengono bocciati, vedremo quest’anno… ora stiamo scegliendo i prossimi», commenta sorridendo. Tra gli argomenti possibili si spazia dal tema del corpo ai novissimi (cioè le “cose ultime” che stanno al termine della vita: la morte, il giudizio, l’aldilà), dalla gratitudine alla vecchiaia.

Incontro padre Maurizio Botta, 47 anni, piemontese di Biella, nella comunità dell’Oratorio di San Filippo Neri a Santa Maria in Vallicella – Chiesa Nuova, in pieno centro a Roma. Mi accoglie nella sua stanza, stracolma di libri. «Questo per me è fondamentale: lo studio, l’approfondimento. Una volta i preti erano uomini di cultura, oggi questo aspetto mi sembra si stia perdendo. Ma come fai a dialogare con la gente se non sei una persona ricca di interessi, di passioni?».

MISSIONARIO DEL DIALOGO

Proprio grazie alla preparazione e alla riflessione che precede ogni incontro padre Maurizio prova a confrontarsi con ogni tipo di domanda. «All’inizio mi preoccupava il fatto di espormi ai quesiti senza conoscerli prima. Poi, ho deciso di fidarmi di quello che Gesù dice nel Vangelo: lo Spirito Santo vi suggerirà cosa dire.

Il vero problema della Chiesa mi sembra che continui a essere la mancanza di fede. Io non ho paura delle domande, non perché sappia tutte le risposte, ma perché mi fido e cerco il confronto con dolcezza. Una domanda è sempre buona, mentre secondo me nella Chiesa abbiamo un problema con le domande, non c’è uno spazio in cui porle. Sono temute, eluse, fanno paura».

Riprende: «Per me è un esercizio spirituale, sono consapevole che espormi a una domanda può voler dire anche entrare in contatto con le ferite delle persone, con chi è arrabbiato con Dio o con la Chiesa. Molte volte, soprattutto all’inizio, mi sono sentito in difficoltà, mi tremava la voce, ma ora non temo di dire che su quell’argomento non ho una risposta, che ci devo riflettere: ecco perché sono tranquillo. In pratica in questo modo ti abitui a non vincere nella risposta. Io non voglio vincere, voglio confrontarmi».

Il dialogo aperto e disarmato è anche quello che cerca costantemente con i ragazzi e le ragazze delle scuole medie e superiori in cui insegna e con cui cerca di relazionarsi con un approccio «missionario esplorativo», spiega, «facendomi accompagnare alla scoperta del loro mondo, e un atteggiamento né giovanilistico, né giudicante, ma capace di mettersi sullo stesso piano, alla pari, con sincero interesse».

Come quando, ricorda, chiese a una ragazza del liceo di chi fosse il volto ritratto sulla maglietta che indossava; da quella domanda – questa volta posta da padre Maurizio – nacque un dialogo profondo su una canzone della cantautrice Billie Eilish.

La scuola è «una palestra, un’esperienza che ti stana» perché spesso c’è distanza tra la fede e i giovani «che però hanno una visione della religione meno ideologica rispetto al passato, a volte sono indifferenti, ma anche l’opposizione è superficiale, non è radicata ideologicamente come nel passato, c’è un terreno potenzialmente fertile, disponibilità».

Anche tra i banchi padre Maurizio si confronta ogni giorno con tematiche e domande di ogni tipo, che affronta nonostante si tenga lontano da mondi in cui i giovani sono immersi, come quello della tv e dei social media. «In questo sono molto pasoliniano. Pier Paolo Pasolini disse cose profetiche contro la tv: vent’anni di regime fascista non hanno cambiato il popolo come pochi anni di tv».

CERCASI ADULTI APPASSIONATI
Non si considera un sacerdote anti-tecnologico, ma solo contrario alla superficialità e alla dispersività di alcuni mezzi. «Non so se vale per tutti, ma a me aiuta stare lontano dai social», confida padre Botta. «Quando dico che non ho lo smartphone la gente mi guarda come se fossi il ragazzo di campagna o con la tenerezza con cui guardi un gattino – racconta prendendosi in giro – ma io ho fatto esperienza di dialoghi bellissimi a scuola, pur avendo 30 anni più dei miei studenti ed essendo un disadattato tecnologico. Vedo che si crea vera condivisione, vero interesse reciproco, in un dialogo alla pari. Invece sui social noto morbosità, assenza di realismo. Poi, il fatto che siano strutturati per creare dipendenza mi impedisce di fidarmi del mezzo in sé».

Riprende: «Il fatto di non averli mi aiuta a vivere il silenzio, da cui nasce la vera comunicazione, mi apre, non mi chiude. La capacità di comunicare non risiede negli strumenti. I giovani desiderano solo adulti appassionati, che sappiano indicarti una meta. Come quando guardi l’Everest. Io cerco di far vedere che è bello, che deve essere stupendo andarci. Ma poi provarci è un’avventura, un percorso. Il mio compito come prete non è abbassare l’Everest ma indicare la sua bellezza e risvegliare la voglia di raggiungerlo».

CHI È PADRE MAURIZIO BOTTA – L’IDENTIKIT
Età: 47 anni

Vocazione: Sacerdotale

Congregazione: Oratorio di San Filippo Neri

Fede: Alimentata dal dubbio

IL CAMMINO DEI CINQUE PASSI

L’esperienza dei Cinque Passi al Mistero si svolge ogni anno nella Chiesa di Santa Maria in Vallicella a Roma (Chiesa Nuova). Da quattordici anni richiama più di 500 giovani a incontro. Ogni anno si tengono cinque serate, ciascuna su un singolo tema, senza un filo conduttore unico. È possibile seguire gli incontri in streaming sul canale YouTube Oratorium.

>> L’ULTIMO LIBRO SULLE DOMANDE DELLA FEDE


Padre Maurizio Botta è un autore prolifico: ha scritto diversi libri fra cui – da ultimo – Quel cretino di un cristiano. Cinque Passi al Mistero, pubblicato da San Paolo lo scorso gennaio. Il testo, con la prefazione di Costanza Miriano, raccoglie le domande e le risposte degli incontri dell’edizione 2019-2020 del percorso dei Cinque passi. Fra i temi affrontati: il legame tra scienza e fede, la libertà e i suoi confini.

(Foto in testata: Stefano Dal Pozzolo/Contrasto)

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Ricominciare dalla preghiera dei fedeli

Nel clima di dibattito attorno alla nuova traduzione del Messale pubblichiamo un contributo comparso come editoriale sul sito della Rete delìi Viandanti (www.viandanti.org) il 29 novembre scorso. (fonte Adista)

lo ha scritto Roberto Boggiani, Medico, operatore in una comunità di accoglienza a Parma.

La preghiera dei fedeli fu ripristinata dal Concilio Ecumenico Vaticano II con la Costituzione Sacrosanctum Concilium (n. 53), riguardante la riforma liturgica. Sembrava essere il primo strumento messo in mano ai laici per dar loro voce in seno alla celebrazione eucaristica, in ossequio al riscoperto carattere sacerdotale di tutto il popolo di Dio.

Di spontaneo è sortito ben poco

Si tratta di una sequenza di invocazioni, di richieste di aiuto, di ispirazione, di grazie, posta giusto al termine della Liturgia della Parola e appena prima della Liturgia Eucaristica.

Essendo, almeno in linea di principio, a disposizione dei fedeli poteva assumere il carattere della spontaneità come, per fare un paragone un po’ ardito, l’omelia è a discrezione del singolo celebrante o comunque del presbitero o del diacono demandato. Come per l’omelia, ancor più per le preghiere dei fedeli è naturale che esistano delle linee guida.

Le intenzioni di preghiera seguono uno schema fisso, cui possono essere aggiunte altre a discrezione, spazio di solito poco utilizzato, se non in circostanze particolari. Lo scopo è di pregare per le necessità della Chiesa e del mondo e la successione di solito è la seguente: la Chiesa universale nella varietà dei ruoli e dei carismi, i governanti che presiedono alle sorti degli abitanti della terra, le categorie di persone in circostanze particolarmente critiche, l’assemblea eucaristica particolare e la comunità locale.

Come possa essere successo che, in oltre cinquant’anni, di spontaneo sia sortito ben poco e che le varie assemblee particolari preghino solitamente seguendo delle formulazioni preconfezionate diffuse mediaticamente, seppur da più fonti, lascia allibiti ma è nella realtà dei fatti.

Le preghiere dei “foglietti”: aride acrobazie linguistiche

Una generazione come la mia non riesce tanto a digerire le formulazioni auliche, prolisse, con sintassi spesso articolata, a contenuti sempre molto elevati, che ci propinano i foglietti distribuiti fra i banchi, i quali hanno sì lo scopo di favorire una migliore partecipazione personale, soprattutto alle letture, e di poterne fare memoria lungo la giornata o magari lungo la settimana, ma nessuno ripeterà le preghiere dei fedeli ivi riportate.

Sentirsi esclusi dall’esternazione orante personale è forse per la maggioranza una rassegnazione: è sempre stato così. Alla faccia dei segni dei tempi che vedono l’Eucaristia, fonte e culmine della vita cristiana, sempre meno frequentata e, fuori, una società sempre più secolarizzata.

La posta in gioco è la vita di fede dei fedeli stessi. Se essi vedono così contratta la loro possibilità di espressione dentro l’Eucaristia, come potranno prorompere nell’annuncio alla gente di fuori, in mezzo a chi non conosce, non accetta, non può godere della bella notizia che i cristiani non annunziano più, che si tengono gelosamente per loro, che non ha più attrattiva, specialmente per le giovani generazioni?

Liberare la preghiera dei fedeli

Esprimendo se stessi nella preghiera, arricchirebbero pure la visuale del pastore sui fedeli affidati alle sue cure. Ciò fungerebbe di verifica di quanto da essi raccolto dall’ascolto della Parola di Dio, dentro e al di là dalla sua personale predicazione, e della risonanza da essa provocata.

Si pensa che il pastore conosca già le sue anime nella confessione. Nulla di più vero. O forse no? Ma le anime poi si conoscono spiritualmente fra di loro? Ho l’impressione che le espressioni di fede, con tutto il corteo verbale e gestuale che comportano, restino troppo confinate allo spazio intimo pastore/fedele. Mi pare che all’interno della comunità, e nella celebrazione eucaristica in particolare, non si riesca ad apprezzare quello spirito di apertura reciproca che dovrebbe sommamente rappresentarla. Le relazioni tra i fedeli sempre riguardano più il da farsi che l’essere autentici testimoni.

Non sarà certo la preghiera universale restituita ai fedeli a riempire di nuovo le chiese per la messa, ritengo, però, che la restituzione al popolo della preghiera dei fedeli sarebbe già una notevole conquista.

Condividere anche la Parola

Nell’ottica di una rivitalizzazione della celebrazione eucaristica, bisogna pensare anche ad ulteriori spazi partecipativi, senza possibilmente stravolgere l’attuale assetto.

Ultimamente un accorato intervento di Enzo Bianchi su Jesus del marzo scorso si domandava: “Quanti presiedono l’eucaristia dovrebbero porsi una domanda: l’assemblea che sta loro di fronte, di quale azione liturgica ha bisogno per potervi partecipare? Come quest’assemblea può riconoscere in ciò che celebra la Pasqua del Signore e la sua presenza viva di Kýrios, di Signore su di essa? Le domande sono molte, a partire da quella che ripeto spesso: quando la chiesa permetterà a dei fedeli, uomini e donne, preparati, scelti e riconosciuti nel carisma di spezzare la Parola, di intervenire con ordine nell’omelia presieduta dal presbitero?”. Personalmente lo vedo un traguardo lontano, stando così chiuse e sedimentate le cose.

Penso piuttosto al dopo-comunione quale momento opportuno, vorrei dire, di Condivisione della Parola (ma ben più forte è lo “spezzare la Parola” di Enzo Bianchi!), ben spaziato temporalmente dal Ministero della Parola (l’omelia presbiterale). Si potrebbe dare seguito al silenzio (spesso troppo breve) di preghiera intima individuale che segue la comunione con più voci che comunicano ai fratelli il proprio messaggio di entusiasmo personale, di incoraggiamento, di vita, in un particolare momento in cui forte è l’ardore di fede, l’anelito di speranza, il vigore di carità che la comunione suscita.

Muti in chiesa, loquaci sul sagrato

Ciò potrebbe creare una bella aspettativa nell’assemblea, che altrimenti opta per una conclusione rapida e il passaggio alle esternazioni sul sagrato. Quel che di empatico e informale, di faceto e – perché no – di profano, che fa seguito ad una scena sostanzialmente muta durante la celebrazione. Che resta ordinariamente muta nel seguito.

Al più si indugia in apprezzamenti generici della performance omiletica del celebrante, dove fra la mitizzazione e la squalifica solitamente non esiste nulla. Forse si sovrapporrebbero dei preziosi richiami a quel che l’uno o l’altro ha espresso, spunti anche di meditazione che poi emergerà nella condivisione successiva, con un’auspicabile progressione sia qualitativa che quantitativa della partecipazione.

Due pratiche (la spontanea preghiera dei fedeli e la condivisione della Parola) che, credo, sarebbero di aiuto per essere lievito che fa fermentare tutta la pasta, per renderci capaci di dare sapore a questa società spiritualmente scipita.

Natale. Viva è la fatica dell’attesa

Il libro di Qohelet non è un romanzo né un trattato di teologia. È più simile a un diario spirituale ed etico. I suoi diversi capitoli registrano e narrano pensieri, emozioni ed esperienze di un viaggiatore sotto il sole. Il suo sconfinato interesse e la sua forza dipendono dalla sapienza, dalla libertà teologica e dal coraggio morale del suo autore, che continua a parlarci da almeno ventitré secoli. Solo i libri grandissimi ci riescono. Così, viaggiando la vita con Qohelet, incontriamo “pagine di diario” dove siamo totalmente immersi nel fumo dellavanitas, altre dove la gioia del “cantico dei tempi” ci rapisce e conquista, per tornare subito dopo a meditare mestamente sulla morte e sulla caducità della vita. Come noi, che oggi contempliamo un bambino nascere e domani accompagniamo un amico nella sua ultima agonia. Diversi i sentimenti, diverse le lacrime, la stessa vita che scorre. Il ritmo dei tempi è anche il ritmo delle pagine di Qohelet.

«Ho anche notato che sotto il sole al posto del diritto c’è l’iniquità e al posto della giustizia c’è l’iniquità» (Qohelet 3,16). Di fronte allo spettacolo di ingiustizia della terra, dove nei tribunali che dovrebbero garantire l’equità si annida la malvagità, Qohelet ci dice che «il giusto e il malvagio Dio li giudicherà, perché c’è un tempo per ogni cosa e per ogni azione» (3,17). E così aggiunge il “tempo” di Dio ai nostri tempi troppo squilibrati e storti. Sente il dolore per un mondo ingiusto, per l’infinito numero di vittime-Abele che abitano la terra. Ma l’attesa del giudizio universale alla fine dei tempi non è la risposta di Qohelet all’iniquità, perché il mondo “sopra il sole” è, per lui, troppo lontano e inaccessibile per poter offrire una risposta convincente alle ingiustizie del mondo “sotto il sole”. Il giudizio di Dio si deve svolgere qui, sulla terra. Se il tempo della giustizia di Elohim esiste davvero, deve inserirsi dentro il nostro tempo mortale. Perché se non è dentro i nostri tempi, sarà solo fuori tempo e quindi non utile per migliorare la condizione e la giustizia della nostra vita. I tempi non-umani non interessano Qohelet, perché se non sono umani possono essere solo disumani o anti-umani.

Il discorso di Qohelet è allora un umanesimo: chiede a Dio di essere il Dio dei viventi non il Dio dei morti. Il Dio sotto il sole, non il Dio nell’alto dei cieli. Se non vogliamo trasformare Elohim in un dio inutile, dobbiamo chiedergli di darci risposte qui ed ora, di darle soprattutto alle vittime. Come Giobbe, l’amico più grande di Qohelet. Come noi, i suoi amici di oggi, che accresciamo il numero dei tanti amici che ha sempre avuto nei secoli (anche se, forse, solo il nostro tempo può iniziare a capirlo veramente). Qohelet, sorprendendoci ancora una volta, ci dice che una prima giustizia sotto il sole si trova nella morte: «Riguardo ai figli dell’uomo dico: gli mostri Elohim quel che sono, vedranno soltanto un branco di bestie. Perché l’esito è uno, figli d’uomo o di bestie, muoiono. In tutti è lo stesso soffio [ruah]. L’uomo non ha alcun vantaggio sulle bestie, perché tutto svapora [hebel]. Tutti vanno nello stesso luogo» (3,18-20). Moriamo tutti come muoiono tutte le bestie. Siamo fratelli e sorelle nella comune e universale mortalità. Sorella morte, fratello lupo, sorella colomba, fratello verme. In questa polvere di tutti e di tutto c’è una sapienza, quella infinita di Salomone: «Tutti [animali e uomini] sono venuti dalla polvere e tutti polvere ritornano» (3,20).
Da bambini impariamo a conoscere la morte vedendo gli animali morire. In quella età della vita riusciamo ancora a sentire negli animali lo stesso soffio che abita noi, i genitori, gli amici. Quei pianti disperati di fronte alla morte di un gatto o di un uccellino ci svelano un accesso più profondo alla vita che poi da adulti perdiamo. Solo i bambini riescono ad amare veramente gli animali e a soffrire per il loro dolore – e forse solo i vecchi che hanno la grazia di tornare bambini possono avvicinare quel primo amore. Qohelet ci aiuta a recuperare quello sguardo dell’infanzia, a riconoscere nel dolore della terra il nostro stesso dolore. Ci fa riascoltare il primo soffio della creazione.

L’orizzonte dentro il quale Qohelet colloca il suo discorso è quello dei primi capitoli della Genesi. Conosce bene il soffio-spirito che Elohim aveva iniettato nelle narici dell’Adam, il terreste, rendendolo vivente (Genesi 2,7). Risuona nei suoi versi «polvere sei e polvere ritornerai» (Genesi 3,19). Ma quella di Qohelet è una Genesi diversa. La terrestrità dell’Adam non lo fa dominatore degli animali e delle specie viventi: l’Adam di Qohelet è prima di tutto creatura come tutte le altre. Sapeva che l’uomo è stato ed è continuamente ricreato «a immagine e somiglianza di Dio», come cosa «molto bella e molto buona» (1,35). Non lo nega, non lo può negare, ma vuole dirci qualcos’altro: prima di essere diversi dal resto della creazione siamo uguali a tutti i viventi, perché, proprio come loro, siamo mortali e viviamo finché il dono del soffio vive. Solo Dio non muore. L’uomo non è Dio perché muore, e la sua ribellione originaria e perenne è il voler negare la propria mortalità – anche questo è Genesi (cap. 3). La natura non è Dio perché muore. Ogni serpente, ogni idolo, ci promette e cattura promettendoci di eliminare della morte.

Qohelet non solo riafferma questo messaggio profondamente e genuinamente biblico, ma vi trova anche una risposta alla sua e nostra domanda di giustizia. La giustizia inscritta nella morte di tutti gli animali diventa una giustizia universale. La vanitas del grande, del ricco, del disonesto, non sta soltanto nel loro morire come muoiono le vittime e i poveri (questo ce lo aveva detto nel capitolo 2). C’è una vanitas ancora più radicale e profonda: muoiono anche loro come muoiono i cani, gli insetti, gli uccelli. Il più potente faraone muore come il riccio e come la mosca. La diversità nel lusso delle tombe e delle piramidi è solo vanità, è effimera, non conta nulla (2,16). La morte universale è la prima giustizia universale. Di fronte a questo destino cosmico comprendiamo di nuovo perché l’unica felicità possibile e vera è quella che possiamo trovare dentro la vita finché ci abita quell’unico soffio-spirito donatoci: «E ho visto che non c’è un bene che faccia più gioioso l’Adam delle sue opere: è questo il suo profitto (3,22). Scoprire la giustizia della morte che attende tutti i viventi e tutti allo stesso modo, porta Qohelet a lodare per la seconda volta la gioia delle opere umane, la felicità del lavoro. Cresciamo e invecchiamo bene quando la compagnia del dolore e della morte ci accresce la gioia della salute e la felicità di tornare agli affari ordinari della vita.

Il canto di Qohelet è allora un canto crudo e autentico alla vita, anche quando la disprezza perché deluso dalla malvagità delle opere degli uomini sotto il sole: «Tornai poi a considerare tutte le oppressioni che si fanno sotto il sole. Ecco le lacrime degli oppressi e non c’è chi li consoli; dalla parte dei loro oppressori sta la violenza, ma non c’è per loro un consolatore. Allora ho proclamato felici i morti, ormai trapassati, più dei viventi che sono ancora in vita; ma più felice degli uni e degli altri chi ancora non esiste, e non ha visto le azioni malvagie che si fanno sotto il sole» (4.1-3). È l’assenza di consolazione degli oppressi che fa dubitare Qohelet della superiorità dell’essere al mondo rispetto al non-esserci. Non dobbiamo perdere neanche un briciolo della forza e della bellezza di questo verso di Qohelet: una vita da oppressi senza consolatori è peggiore della morte. La sua è una condanna dei troppi oppressori presenti e un appello ai consolatori assenti.

Coloro che piangono possono essere chiamati “beati” solo se sono consolati. L’inferno è il luogo delle “beatitudini a metà”: poveri senza Regno, puri che non vedono Dio, miti senza terra, afflitti sconsolati. E stando dalla parte degli oppressi resi tali dagli oppressori (l’oppressione è una costruzione tutta umana), Qohelet trova la forza di invocare un consolatore, un “paraclito”. Anche se non lo vede, né vuole inventarselo – non c’è peggiore inganno di un consolatore inventato per rispondere alla nostra domanda vera di consolatori. Forse l’avvento di consolatori non-artificiali può essere chiamato e atteso soltanto ponendo il cuore nelle discariche dove i bambini cercano gli avanzi della nostra opulenza, nelle guerre dei ragazzi-soldato, accanto alle bambine vendute per miseria disperata ai mercanti di sesso. Solo da lì lo possiamo desiderare, forse intravvedere. Qohelet non ha creduto che il riscatto di queste vittime inconsolate dovesse essere rimandato al paradiso. Ha tenuto vivo il dolore della terra per l’assenza di consolatori qui ed ora, e così ha reso non-vana l’attesa del suo avvento. Se avesse ceduto alla tentazione delle consolazioni apocalittiche e idolatriche, la Bibbia tutta avrebbe perso capacità di avvento. E invece ha continuato a porre domande, resistendo nell’assenza delle risposte. La bontà delle domande esistenziali si misura con la loro capacità di resilienza nei tempi della carestia di risposte vere e dell’opulenza di risposte false.

Senza rinnovare questa resistenza e questa attesa, anche il Natale finisce per svaporare nella vanitas dei centri commerciali e del sentimentalismo delle atmosfere artificiali create a scopo di lucro. La stella del Natale per essere nuovamente vista nel nostro cielo inquinato ha bisogno di essere attesa, mettendosi accanto alle vittime, agli oppressi delle terra e con loro guardare nella lunga notte ancora verso oriente. Il Natale più bello è quello atteso insieme a Qohelet. Buon Natale a tutti.

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