Putin, Russia e Corea Nord amplieranno relazioni bilaterali Media, leader russo invia lettera a Kim Jong-un

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La Russia e la Corea del Nord rafforzeranno le relazioni bilaterali: lo ha riferito oggi l’agenzia di stampa statale di Pyongyang, la Kcna, citando il presidente russo Vladimir Putin.
Lo riporta il Guardian.
Secondo l’agenzia Putin ha inviato una lettera al leader nord coreano Kim Jong-un nel giorno della liberazione della Corea del Nord affermando che i due Paesi “amplieranno le relazioni bilaterali globali e costruttive attraverso sforzi comuni”.
Nella missiva il leader russo ha spiegato che legami più stretti sarebbero nell’interesse di entrambi i Paesi e contribuirebbero a rafforzare la sicurezza e la stabilità della penisola coreana e della regione asiatica nord-orientale. (ANSA). 

Intervista. Prodi:«In Ucraina la pace solo con intesa Usa-Cina»

Quando cominciano i contrasti personali, è un problema tenere tutti dentro. Divaricazioni anche a destra, è il Pd oggi il più granitico
Romano Prodi, ex capo del governo e già presidente della Commissione Europea

Romano Prodi, ex capo del governo e già presidente della Commissione Europea – Ansa

Avvenire

Professor Romano Prodi, stiamo ai calci di rigore per questa maggioranza o ancora ai supplementari?
Guardo con un certo distacco a queste fibrillazioni che durano d’altronde già da settimane – risponde l’ex premier e fondatore dell’Ulivo –. Ho sempre ritenuto che si arrivasse alla regolare fine della legislatura e ritengo ancora che sia un interesse comune. Salvo però “incidenti”, che in politica possono sempre capitare: si fanno errori che possono portare a un suicidio politico. Con me, a esempio, Bertinotti fece un errore.

Quale giudizio dà delle osservazioni del M5s di Conte, condensate nei 9 punti del documento dato a Draghi?
Non ho ancora capito se quella del M5s sia tattica o strategia. Marcare differenze rispetto alla linea del governo è un conto, procedere a una rottura vuol dire però mandare a un elettorato, già sbandato per la situazione globale che stiamo vivendo, un messaggio che disorienta ancora di più gli elettori stessi.

Anche quelli 5 stelle?
Mi pare che gli elettori del M5s non vedano più il Movimento come lo strumento del cambiamento. Senza contare che, dopo la scissione, le stelle non sono più 5, ma se ne contano almeno 10…

Vede margini per un “ripensamento” dei pentastellati?
Gli ultimi mesi sono stati caratterizzati da polemiche e contrasti personali fra i leader politici più che da analisi nel merito dei temi. Diventa difficile fare previsioni.

Per Draghi è difficile guidare un governo di larghe intese con spinte simili?
Lo dice a me? Io contavo su una maggioranza meno ampia, eppure ho avuto le mie belle difficoltà. È un’arte complicata che si impara adagio adagio. Il problema è anche che, quando cominciano le divisioni, diventa difficile continuare a tenere tutti dentro e a costruire. Le divaricazioni oggi ci sono in quasi tutti i partiti, anche dentro Lega e Forza Italia. E tutto questo porta anche a un possibile, ulteriore aumento dell’astensione nelle urne. Per paradosso il Pd, che è sempre stato un simbolo di lotte e di divisioni, è oggi quello più granitico.

Il fenomeno astensione la preoccupa?
Molto. Proprio per questo penso che ci siano grandi spazi per chi saprà dialogare con gli elettori, perché oggi non c’è dialogo fra governanti e governati. Ci rendiamo conto che si è stati capaci di fare un referendum sul sistema elettivo dei membri del Csm, non certo un tema di cui si parla a tavola? Non si può replicare il modello partecipativo dell’Ulivo, era un’epoca diversa, ma l’obiettivo deve essere lo stesso. Il Rosatellum è il peggior sistema elettorale possibile, almeno cerchiamo di riavvicinare i cittadini.

L’ha colpita Berlusconi che chiede una verifica?
Appunto. È un’altra conferma che siamo in momenti di assoluta incertezza. Dove l’improbabile diventa possibile.

Hanno fatto discutere le sue frasi sul campo largo che, secondo alcuni, lei avrebbe dato per “sepolto”. Qual è la giusta interpretazione?
Si tratta di un gioco che la destra ama fare da sempre, ma restano delle interpretazioni interessate che puntano a seminare fra me ed Enrico Letta una zizzania che non esiste. Io ho detto semplicemente che gli ultimi avvenimenti hanno rimescolato tutto e che occorre ridisegnare cornice e contenuti delle alleanze. Il campo “senza confini” di cui ho parlato non è altro che il campo largo di Letta alla luce dei nuovi fatti.

Ma si sente ancora una “riserva della Repubblica”?
Ma neanche per sogno. Io ho finito l’impegno politico nel 2008 e dopo non ho mai fatto passi avanti per avviarne uno nuovo. Ho sempre dato, sì, la mia disponibilità a servire il Paese se necessario, mai è stata accolta. Quindi, un impegno non lo valuto e non lo ritengo possibile.

Nei momenti di svolta torna spesso d’attualità il taglio del costo del lavoro.
Le ricordo però che il primo forte taglio l’ho fatto io. Prima, avevamo un peso delle tasse sui salari superiore alla media europea, ora invece siamo già al livello medio. Dato il livello miserevole delle retribuzioni di oggi, ogni taglio è benvenuto. Si tenga presente però che l’esigenza non è uguale per tutti e che bisogna occuparsi anche di chi non ha un contratto regolare.

Per farlo servono però tanti soldi. Serve uno scostamento del bilancio, in deficit?
Io ho sempre dato grande attenzione al debito pubblico, oggi esso è ancora alto e non possiamo dimenticare che questo ci mette sempre a rischio nei mercati, ancor più se salgono molto i tassi d’interesse. Eviterei, quindi, uno scostamento.

Veniamo all’Ucraina. Come vede la situazione dopo quasi 5 mesi di guerra?
Estremamente rischiosa. La guerra sta durando tanto, troppo. E ora, sul fronte energetico, Putin sta giocando come il gatto col topo con i Paesi europei, con un’interruzione del gas addebitata a motivi tecnici, ma che arriva proprio quando si tenta di aumentare gli stoccaggi.

E il governo si sta muovendo bene su questo fronte?
Vedo molto ottimismo da parte del governo, spero che sia motivato. Riterrei comunque utile preparare un piano, non obbligatorio, di consigli ai cittadini su come risparmiare energia: una forma di “persuasione amicale”.

C’è attesa per l’annunciata telefonata fra i presidenti di Usa e Cina, Biden e Xi Jinping.

È difficile che si arrivi a quella pace giustamente invocata da papa Francesco se non c’è un accordo fra questi due grandi Paesi. Si può far poco senza di loro. Per ora non vedo però passi avanti.

Ci sarebbe l’Europa, no?
È stata una bella immagine vedere Draghi, Scholz e Macron sul treno per Kiev, però in generale la voce dell’Europa è ancora troppo flebile. C’è stato il necessario e giusto fronte comune nello schierarsi militarmente a sostegno dell’Ucraina, ma la stessa unione non c’è sulle sanzioni, sulla politica energetica. E quando non si è uniti sulle politiche complementari, diventa difficile ritagliarsi quel ruolo di pacificatore che per la Ue dovrebbe essere proprio.

È diventata più importante la Turchia di Erdogan…
Chi ha comprato gli aerei da combattimento dagli Usa e i missili per abbatterli dalla Russia, può fare benissimo da pacificatore. Ma solo se le due potenze Usa e Cina daranno un via libera che preveda uno o più Paesi, oppure istituzioni, come mediatori.

Ma come si può arrivare a una pace?
Ci sarebbe bisogno di una conferenza internazionale promossa e presieduta dall’Onu, un qualcosa tipo Yalta, ma non vedo ancora un cammino e una spinta verso di essa. Oggi sembra un pio desiderio, del tutto irrealizzabile. Su questo dovrebbe spingere l’Ue. Anche per dare risposte alla vera sofferenza dell’Africa, dove in 16 stati si stanno esaurendo le scorte di cereali, senza che scatti quella mobilitazione mondiale che ci vorrebbe.

In sintesi resta pessimista, professore?
Osservo che c’è nel mondo un crescente desiderio di pace. Una pace indispensabile prima che si manifestino due ulteriori effetti della guerra: che il mondo si divida in due – Paesi capitalistici contro tutti gli altri – e che il riarmo tedesco, senza una simultanea partenza di una difesa comune europea, alteri gli equilibri nella Ue facendo prevalere anche sugli altri fronti il peso della Germania rispetto all’equilibrio fra i diversi Paesi. Non ho alcun dubbio sulla maturità della democrazia tedesca, ma quando si creano troppe disparità diventa più difficile fare una comune politica europea.

Ucraina. L’estate calda dei pacifisti italiani Da Roma a Kiev, l’impegno continua

Sono quattro gli appuntamenti da segnare in rosso in agenda per chi è impegnato in una soluzione del conflitto senza armi: 18 giugno a Roma, 24 giugno e 14 luglio a Odessa, 11 luglio a Kiev

La manifestazione del Giovani per la Pace, organizzata l'8 aprile scorso, dalla Comunità di Sant'Egidio, «Non possiamo restare in silenzio»

La manifestazione del Giovani per la Pace, organizzata l’8 aprile scorso, dalla Comunità di Sant’Egidio, «Non possiamo restare in silenzio» – Siciliani

Avvenire

I 108 giorni di guerra che hanno sconvolto l’Ucraina e messo in crisi l’economia mondiale non hanno ancora messo all’angolo il movimento per la pace. Né in Italia, né in Europa. Quattro gli appuntamenti in rosso sull’agenda pacifista: 18 giugno a Roma, 24 giugno e 14 luglio a Odessa, 11 luglio a Kiev. Un’azione tenace e ostinata, anche se in buona parte ignorata dai grandi mezzi di informazione.

Dopo tre mesi e più di mobilitazione e grandi manifestazioni, il popolo pacifista è ancora attivo sui territori, con una serie di numerosi incontri e iniziative capillari. Un’attività dal basso, che fa da supporto a importanti appuntamenti nazionali. Dopo l’incontro a Bruxelles delle organizzazioni per la pace, organizzato il primo giugno dalla rete di Solidar – gruppo di Ong europee che si occupa di cooperazione, aiuto umanitario, servizi sociali e formazione e collabora con i sindacati –, il 18 giugno si replica a Roma su scala nazionale. Ospitati nella sede dell’Agesci, si incontreranno le oltre 60 associazioni di Rete italiana Pace e Disarmo, più altre dodici organizzazioni, per discutere su come “Costruire un’Europa di pace”. L’incontro sarà dalle 14 alle 18 in largo dello Scautismo 1, anche in streaming: «Non è più sufficiente dichiararsi per la pace, ma serve discutere su come agire».

Subito dopo partirà la prima di due nuove carovane della Pace #StopTheWarNow con destinazione Odessa, dal 24 al 27 giugno, poi seguita da quella dal 14 luglio al 18 luglio. L’iniziativa, aperta il 1° aprile dalla prima carovana della pace, trasportò con 70 automezzi, a Leopoli, 30 tonnellate di aiuti, riportando in Italia 300 profughi. Due le richieste delle carovane di giugno e luglio, 25 mezzi e un centinaio di persone ciascuna: «Riapertura del porto di Odessa per l’esportazione di grano, perché nessuno ha il diritto di far morire nessun altro di fame», e poi «aiuti umanitari e fine dell’assedio e dei bombardamenti su Mykolaiv».

Per l’11 luglio poi, è prevista la mobilitazione che vuole portare 5mila persone a Kiev, promossa da Project Mean, Movimento europeo di azione non violenta. «Siamo convinti – dicono i promotori – che l’azione armata può fermare o sconfiggere l’aggressione, ma non cambiare il contesto che l’ha resa possibile, mentre una massiccia presenza internazionale nonviolenta può creare le condizioni per un futuro che escluda la guerra nella risoluzione dei conflitti».

Il movimento per la pace da mesi dunque si mobilita per far ascoltare una voce diversa da quella delle armi. Subito dopo l’invasione russa del 24 febbraio, la Comunità di Sant’Egidio si era mobilitata tra veglie di preghiera, flash mob dei Giovani per la pace, fino alla prima manifestazione a piazza Santi Apostoli a Roma, già il 25 febbraio.

Poco dopo, il 5 marzo, piazza San Giovanni in Laterano a Roma aveva accolto decine di migliaia di persone per la manifestazione nazionale promossa dalle maggiori realtà dell’associazionismo, assieme a Cgil e Uil. E dopo la già citata carovana della pace del 1° aprile, c’era stata, il 24 aprile, l’edizione straordinaria della Marcia della Pace, decine di migliaia di persone a piedi da Perugia ad Assisi.

«Il movimento per la pace è rimasto unito – rivendica Francesco Vignarca, coordinatore delle campagne di Rete pace e disarmo – nonostante la fatica di andare controcorrente, le derisioni e le accuse inaccettabili di “putinismo”. C’è un arcobaleno di realtà che lavora sul territorio con le associazioni, i sindacati, le parrocchie». Se l’azione pacifista non è riuscita a rallentare il massiccio ricorso alle armi, «è perché non siamo noi a decidere. Ma bisogna prendere atto che le azioni messe in campo dai governi hanno solo acutizzato la situazione, reso “endemico” il conflitto, rafforzato Putin sul fronte interno e sul campo».

I pochi tentativi di ridare spazio alla diplomazia, come il Piano di pace in quattro punti del governo italiano, «hanno ricalcato quattro degli otto punti del piano che avevamo presentato fin dal 24 febbraio». Già allora i pacifisti avevano chiesto la cessazione degli scontri, la neutralità dell’Ucraina, l’attuazione degli accordi di Minsk su autonomia del Donbass e rispetto della popolazione russofona, l’avvio di trattative per la sicurezza reciproca dell’Unione europea e della Russia.

«Eravamo stati ridicolizzati, accusati di essere filorussi. Poi quegli stessi punti, presentati a maggio dal premier Mario Draghi e dal ministro degli Esteri Luigi Di Maio – ricorda Vignarca –, non erano più utopie da anime belle, ma proposte apprezzate anche dalle Nazioni Unite e dalla Francia».

Ortodossia russa: Hilarion dimesso e Crimea accorpata

destituzione

La destituzione di Hilarion Alfeev da responsabile del Dipartimento per i rapporti internazionali del patriarcato di Mosca e l’acquisizione delle diocesi della Crimea sotto la diretta responsabilità della Chiesa russa sono le decisioni maggiori del sinodo dei vescovi del 7 giugno.

Ambedue sembrano motivate dalla guerra in Ucraina. Hilarion non sarebbe stato abbastanza convinto nel sostenerla, i vescovi della Chiesa ucraina filo-russa hanno deciso il 27 maggio di tagliare i ponti con la “Chiesa madre”, isolando Cirillo e frantumando il sogno del Russky mir (mondo russo), il contenitore ideologico della spinta imperiale di Putin.

Il nuovo responsabile del dipartimento sarà il metropolita Antonio di Korsun (Sevryuk), che manterrà la direzione dell’esarcato dell’Europa occidentale e la carica di capo-ufficio del patriarcato per le istituzioni estere. Sostituirà Hilarion nei ruoli fondamentali di presidente del dipartimento, membro permanente del sinodo, membro del consiglio supremo della Chiesa. Hilarion cederà anche la carica di rettore degli studi post-laurea a vantaggio dell’arciprete Maxim Kozlov.

«Cirillo e Hilarion non si sono mai davvero intesi e quest’ultimo spera di ereditare la carica del primo. Nell’attuale contesto il numero due del patriarcato poteva sembrare troppo timoroso a Cirillo» (J.-F. Colosimo). «Evidentemente (Cirillo) ha ritenuto che Hilarion fosse andato un po’ troppo per la sua strada, ma è difficile dire che cosa l’abbia disturbato in particolare. Forse non ha sostenuto abbastanza la linea di Cirillo sull’Ucraina esagerando nei suoi tentativi di dialogo, di mantenere aperte le relazioni con le altre Chiese» (S. Caprio). «Cirillo ha deposto Hilarion. Il trasferimento in Ungheria è una retrocessione da ministro degli esteri a vescovo regionale. È anche un segno di mancanza di fiducia. Cirillo sembra essere in uno stato di emergenza: sta perdendo i pezzi. La Chiesa ucraina (filo-russa) si allontana. Fatta eccezione per l’Ungheria, la maggioranza degli altri paesi sta prendendo distanza» (R. Elsner).

Efi Efthimiou (Orthodox times) ha sottolineato i segni di smarcamento di Hilarion: poco presente nella difesa della guerra, in dialogo con Crisostomo di Cipro (scomunicato da Mosca), firmatario di un appello contro tutte le guerre uscito dalla pre-assemblea ortodossa in preparazione alla conferenza del Consiglio ecumenico delle Chiese, in dialogo con il card. Erdȍ di Budapest pochi giorni prima della decisione del sinodo. La sede ungherese è tuttavia rilevante negli attuali equilibri internazionali della Russia. È stato Orban a impedire che Cirillo finisse nella lista degli oligarchi da censurare e l’episcopato locale, assieme a quelli di Visegrad, è un aperto sostenitore dell’anti-occidentalismo e anti-europeismo.

Riempito di onorificenze da parte di Putin, Hilarion avrà ora il tempo di tessere la sua tela e coltivare le sue passioni musicali e saggistiche. Nel comunicato del sinodo manca ogni parola di ringraziamento per tutti i ruoli finora rivestiti. Della sua lunga carriera si ricorda l’opera di normalizzazione nei confronti dell’Ortodossia inglese (A. Bloom) e il rafforzamento degli istituti teologici e del loro riconoscimento istituzionale. Come anche la dura polemica con gli ortodossi greci che ha, di fatto, bloccato il dialogo cattolico-ortodosso. P. Anderson sottolinea anche la sua giovanile difesa dei manifestanti lituani repressi in forma violenta dalle truppe scelte russe nel 1991.

Un nuovo scisma?
Il clima di emergenza nell’ortodossia russa è stato sottolineato dal patriarca Crisostomo di Cipro in un’intervista del 6 giugno: «Cirillo ha messo sotto pressione tutti i metropoliti. È molto autoreferenziale e i metropoliti hanno paura di avvicinarsi». Come nel passato comunista il partito era il riferimento, così ora: «Il comunismo è morto, ma la mentalità comunista rimane».

I territori acquisiti dalla Russia venivano “occupati” dai metropoliti russi.

La seconda decisione del sinodo del 7 giugno va un po’ in questa linea. Si decide infatti «di accettare le diocesi di Dzhankoy, Simferopol e Feodosiya in diretta subordinazione canonica e amministrativa al patriarcato di Mosca e di tutta la Russia e al santo sinodo della Chiesa ortodossa russa». La Crimea, finora appannaggio della Chiesa ortodossa ucraina filo-russa, viene sottratta alla direzione del metropolita Onufrio per trasferirla a Mosca.

Premessa per quanto potrà succedere ai territori del Donbass se l’occupazione russa diventasse definitiva. La scelta moscovita è in relazione alla decisione del concilio (laici e vescovi) della Chiesa di Onufrio (27 maggio) di prendere le distanze da Mosca e, conseguentemente, di modificare i propri statuti. Il sinodo moscovita fa presente che «ogni discussione sulla vita della Chiesa ortodossa ucraina deve avvenire nei limiti della normativa canonica». E aggiunge, a premonizione di un possibile nuovo scisma, «per evitare nuove divisioni nella Chiesa».
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Pace in Ucraina: una sola preghiera al Signore: “per favore, fai qualcosa!”

Suor Svitlana Matsiuk con due bimbi profughi

Religiose in Ucraina. Suor Svitlana: “Prego per strappare a Dio il suo aiuto”

Appartiene alla Congregazione delle Missionarie Serve dello Spirito Santo, suor Svitlana Matsiuk. Durante questo tempo di guerra, ha scelto di rimanere in mezzo alla sua gente a Matkivtsi, in Ucraina. Racconta che durante la notte spesso si sveglia con sulle labbra una sola preghiera al Signore: “per favore, fai qualcosa!”

di Svitlana Dukhovych

“La guerra ha radicalmente cambiato la mia vita e continuerà a cambiarla”, racconta suor Svitlana Matsiuk della Congregazione delle Missionarie Serve dello Spirito Santo. Prima della guerra la suora aveva iniziato gli studi a Roma, a gennaio scorso è tornata in Ucraina e avrebbe dovuto riprendere gli studi a settembre. Adesso non sa se potrà farlo. Prima della guerra la sua comunità viveva a Khmelnytskyj, capoluogo dell’omonima regione, dove le religiose sono presenti dal 1995, ma adesso hanno dovuto spostarsi in un paesino, Matkivtsi, dove sono ospitate dai Frati Minori Conventuali e dove riescono ad aiutare coloro che scappano dalle zone più colpite dal conflitto.

Dio è presente nella sofferenza

La guerra ha sconvolto non solo la vita esteriore delle suore: “Sono cambiata dal punto di vista sia psicologico che spirituale – dice la missionaria -. Questa situazione ha introdotto degli interrogativi nel mio rapporto con Dio e nella mia vita di fede”. Il 24 febbraio suor Svitlana stava con le altre consorelle in un paesino vicino a Vinnytsia e a svegliarle la mattina è stato il frastuono delle esplosioni. Dopo il primo istante di perplessità – forse è un incidente… – sono giunti lo shock e le domande: “Come è possibile?” “Sta realmente accadendo?”. Il dolore atroce che ha provocato queste domande, permane ancora e diventa acuto quando suor Svitlana incontra e ascolta chi ha guardato negli occhi la morte: i soldati feriti che ha visitato nell’ospedale militare e i profughi che durante il viaggio hanno visto morire la gente. “Ascoltarli suscita tante domande su Dio e anche sulla natura del male. Prima della guerra sapevo che esisteva il male – continua suor Svitlana – , ma non toccava la nostra vita come adesso. Questa è un’altra realtà nella quale c’è anche Dio che lì soffre e viene crocifisso… E Dio mi ha risposto con una domanda: ‘Vuoi entrare con me in questa realtà?’. Io non voglio scappare da questo, creandomi dei mondi illusori, ma voglio entrarci, starci per fare il maggior bene possibile”.

Il sostegno offerto ai profughi

A Matkivtsi le Missionarie Serve dello Spirito Santo svolgono il loro servizio per i bisognosi presso il Santuario di Nostra Signora di Fatima, insieme ai Frati Minori Conventuali. Nelle prime settimane di guerra hanno organizzato un rifugio per le persone in fuga. Col tempo, il flusso degli sfollati interni è diminuito e quindi le suore hanno deciso di allestire un piccolo centro di aiuto: distribuiscono vestiti, cibo e medicine ai rifugiati e inoltre offrono il loro tempo ascoltandoli. “Per loro è importante sapere che possono venire qui e che saranno aiutati e ascoltati”, dice suor Svitlana. “E in questa situazione, dove il male è molto visibile, è molto importante sapere che esiste anche tanto bene”.

Una preghiera che è un grido d’aiuto

Il ritmo della preghiera comunitaria è cambiato: spesso gli orari vengono spostati a causa di impegni urgenti. “Però la mia preghiera personale è diventata più intensa, qualche volta mi sveglio di notte e prego. E la preghiera diventa un grido: per favore, fai qualcosa! Non è più pregare o chiedere, è strappare a Dio il suo aiuto”. Di un’ esperienza simile di preghiera parla anche la consorella suor Victoria. L’inizio della guerra l’ha trovata in Grecia, dove dal 2019 svolgeva la missione presso Jesuit Refugee Service. “Nella prima settimana piangevo, leggevo le notizie, chiamavo i miei amici e famigliari in Ucraina e pregavo giorno e notte. Ho detto a loro di scrivermi nel caso si fossero trovati in situazione critica. Una mia amica abitava in uno dei paesini nella regione di Kyiv che all’inizio della guerra erano occupati dai militari russi. Per un po’ di tempo si nascondeva con la famiglia in una cantina, e loro non sapevano se dovevano scappare o rimanere. Continuamente mi chiedeva di pregare. E io chiedevo a Dio: salvali, aiutali a scappare, rendili invisibili. Quando sono riusciti a scappare, mi sono sentita sollevata”.

La fede mi fa credere che supereremo questo dolore

In quei momenti per suor Victoria il bisogno di pregare diventava come il bisogno di respirare. Così ha deciso di tornare in Ucraina. Le sue consorelle a Khmelnytskyj erano contrarie perché ovunque nel Paese c’è il rischio di bombardamenti. “Però io provengo dalla Crimea e una volta ho già perso la mia patria. Per questo ho deciso che voglio tornare in Ucraina”. “Voglio condividere con la mia gente le paure, la sofferenza e anche la fede”, dice la suora, confidando che per lei è stata una sorpresa vedere quante preghiere e celebrazioni si fanno ogni giorno nel Santuario di Nostra Signora di Fatima a Matkivtsi. Gli sfollati che arrivano, spesso chiedono alle suore di pregare con loro o pregare per i loro cari che sono rimasti nei luoghi più colpiti. “Questi due ultimi mesi – aggiunge suor Svitlana – è stato per noi anche un intenso tempo di evangelizzazione, di testimonianza che qui Dio è presente”. “La mia esperienza di Dio nel passato – dice ancora suor Victoria – mi dà la fiducia che anche se attraverseremo grandi prove e sofferenze, e anche se il prezzo sarà molto alto, anche la ricompensa sarà alta. La mia esperienza mi dice che Dio non gioca mai con noi e se permette qualcosa del genere, vuol dire che Lui sa che riusciremo a superare tutto questo e che Lui ci porterà nelle sue braccia attraverso tutto questo”.

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Ucraina. Guerra, giorno 70: voci e misteri sul Cremlino, tra malattie e tentati golpe

L’assalto finale a Mariupol nasconde lo stallo strategico di Mosca, che nega l’annuncio dell’offensiva totale, ma subisce indiscrezioni circa una operazione a Putin e un piano per il colpo di stato
Guerra, giorno 70: voci e misteri sul Cremlino, tra malattie e tentati golpe
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Il settantesimo giorno di guerra segna la decima settimana di combattimenti a partire dal 24 febbraio. Le forze russe continuano a martellare gli snodi ferroviari nel tentativo di fermare l’arrivo dei rifornimenti militari dall’Occidente. Missili piovono su diverse zone dell’Ucraina, non risparmiando l’Ovest e le aree di confine con gli altri Paesi europei. Ma gli sforzi di Mosca non sembrano essere sufficientemente efficaci, se è vero che carichi di armi britanniche sono giunti da poco e altri arsenali consegnati nel Donbass hanno permesso contrattacchi efficaci nella regione di Kharkiv.

A Mariupol, intanto, si consuma forse l’ultimo, tragico atto dell’assedio allo stabilimento Azovstal, dove i bombardamenti avrebbero fiaccato la resistenza dell’ultimo nucleo di combattenti e permesso ai soldati russi di entrare nel dedalo dell’acciaieria per una caccia all’uomo che coinvolgerà anche i civili rimasti intrappolati. Si vedrà meglio nelle prossime ore: Mosca infatti ha proclamato una tregua da giovedì a sabato ufficialmente per evacuare i civili rimasti con “corridoi umanitari”.

Video

Ma strage potrebbe sommarsi a strage, perché l’agenzia Ap è riuscita a completare una ricostruzione attendibile dell’attacco aereo al teatro di Mariupol, il 16 marzo scorso. Il bilancio è agghiacciante: 600 delle mille persone rifugiate nell’edificio, che era contrassegnato all’esterno da una grande scritta “bambini”, visibile dal cielo, sarebbero rimaste uccise dal raid dell’aviazione di Mosca. Il rapporto dei giornalisti americani è basato sul racconto di testimoni e sopravvissuti, come sull’analisi di foto e planimetrie.

Nel sostanziale stallo strategico, mentre la Ue cerca di mettere a punto il nuovo pacchetto di sanzioni che dovrebbe comprendere anche il petrolio, il Cremlino è al centro non solo delle decisioni sul conflitto ma anche di una ridda di voci che si sono accavallate in queste ore. Ufficiale è la smentita, non netta né chiara, di una dichiarazione di guerra totale che era attesa per il prossimo 9 maggio, giorno della commemorazione della vittoria sui nazisti nella Seconda guerra mondiale. Altrettanto ufficiale e vaga è la conferma che contatti con il Vaticano sarebbe intercorsi, ma senza che l’ipotesi di una visita del Papa a Mosca potesse concretizzarsi. A fianco di queste mezze verità cui gli apparati di Mosca ci hanno abituato, sono state rilanciate da fonti anonime le indiscrezioni sulla salute precaria di Vladimir Putin.

Secondo un video diffuso dal misterioso canale Telegram “General SVR”, ripreso da molte testate internazionali, il presidente russo è pronto a sottoporsi a un intervento chirurgico per un cancro, che lo costringerà a cedere per qualche giorno tutti i poteri Nikolai Patrushev. Quest’ultimo dal 2008 è segretario del Consiglio di sicurezza della Russia, un organo consultivo del presidente, nonché amico e confidente personale di Putin. Il canale “General SVR” è ritenuto essere gestito da un ex generale dei servizi segreti esteri, noto con lo pseudonimo di Viktor Mikhailovich.

Il video segue la segnalazione del sito investigativo russo The Project, secondo il quale un oncologo ha visitato lo Zar 35 volte negli ultimi anni. Si era parlato di un problema alla tiroide e ora anche all’addome. Si sa che il presidente è molto sensibile non solo al suo stato di salute, ma anche all’immagine che trasmette all’esterno. Ha sempre amato farsi riprendere in pose da uomo forte, a cavallo, a torso nudo o sul tatami come judoka.

“Patrushev è un vero cattivo. Non è migliore di Putin. Inoltre, è una persona più astuta e direi più insidiosa. Se va al potere, i problemi dei russi non faranno che moltiplicarsi”, dice la voce narrante su Telegram. “Viktor Mikhailovich” ha poi minacciosamente lasciato intendere che lui e i suoi alleati “faranno certi sforzi perché questo non accada, e spero che avremo successo”. E a Mosca, infatti, secondo altre notizie tutte da verificare, un certo numero di ex generali e funzionari del KGB si starebbe preparando a rovesciare il presidente e a mettere fine alla guerra in Ucraina, sempre più vista in Russia come un errore strategico e un disastro economico.

L’articolo in questione, apparso su un giornale inglese online di non eccelsa reputazione è comunque subito rimbalzato diffusamente sulla Rete anche grazie ad analisti autorevoli, sostiene che alcuni alti ufficiali del servizio di sicurezza Fsb siano frustrati per la mancanza di progressi militari in Ucraina così come alcuni generali ed ex comandanti dell’esercito. L’idea di un colpo di stato sarebbe ulteriormente rafforzata dall’attività sui social media in tutta la Russia e l’Europa orientale. In realtà, potrebbe trattarsi soprattutto di una speranza e di voci diffuse ad arte per seminare incertezza o verificare eventuali reazioni degli apparati di intelligence.

Di certo, il presidente ha compiuto epurazioni dopo i primi rovesci sul campo di battaglia. Questo però non può bastare per coalizzare un fronte capace di concepire e, soprattutto, realizzare un golpe contro il granitico potere di Putin e della sua cerchia. Soltanto se la guerra prenderà una piega ancore più negativa per la Russia, qualcosa potrebbe accadere anche al Cremlino.

Media Gb, ‘Putin verso annuncio guerra totale a Kiev’

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Vladimir Putin potrebbe abbandonare il termine “operazione speciale” per indicare l’invasione dell’Ucraina e parlare di ‘guerra totale’ a Kiev.

Lo riporta l’Independent citando indiscrezioni di funzionari russi e occidentali.

In cerca di una “rivincita” per i fallimenti militari, gli alti ufficiali dell’esercito russo – riporta il media britannico – starebbero spingendo il presidente russo ad annunciare il cambiamento durante la parata annuale del Giorno della Vittoria il 9 maggio. La mossa permetterebbe al Cremlino di attivare la legge marziale, coinvolgere i suoi alleati in un aiuto militare e proclamare la mobilitazione di massa. (ANSA).

I due ecumenismi

di: Riccardo Cristiano settimananews

ecumenismi

Le affermazioni e le scelte del patriarca di Mosca sono inequivocabili, soprattutto se interpretate non solo nella tragica contingenza dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, bensì nel più ampio e complesso mondo dei rapporti tra le religioni e la geopolitica.

Riguardano e impattano il mondo ortodosso, ma hanno grande rilievo nella connessione di pensieri dalle origini, di per sé, molto lontane: in Occidente – negli stessi Stati Uniti, ad esempio – ovvero nel Medio Oriente. Sino ad imbastire una sorta di ecumenismo dei fondamentalismi religiosi.

Il punto cruciale è il tempo: in quale tempo della storia si colloca il baricentro o la casa di questi pensieri?

Il luogo del tempo
Secondo il grande scrittore siriano Yassin al-Haj Saleh, dobbiamo cogliere il tempo, capire dove abita. Sì, dobbiamo stabilire dove sia più saggio ubicare la casa del tempo: nel presente o nel passato. Compiendo la seconda scelta, si vive rintanati in piccoli mondi, tribali, contrapposti, mitologici.

L’antica Odissea ci parla di un tempo che ha la sua casa, appunto, nel passato. Ulisse vuole tornare ad Itaca. La meta del viaggio è il ritorno. Mentre nella contemporaneità – a noi più prossima – è arrivato uno come Keruac a dirci che siamo su una strada che passa sulla soglia di casa, su cui immetterci, non per tornare indietro ma per andare avanti, incontro al domani, perché ci sia domani.

La tendenza a riportare la casa del tempo nel passato l’abbiamo vista diffondersi tra noi, in questi anni, coi sovranismi. La tendenza più rischiosa è stata colta alla perfezione da una religiosa orientale cattolica che, in un’intervista a un quotidiano italiano, ha detto: “Il presidente, il popolo e l’esercito sono la nostra Santissima Trinità”.

Patriarcato e nazionalismo
Il nazionalismo è patriarcale, perché concepisce il passato come il padre del presente e rifiuta di pensare il presente come il tempo dei fratelli. Uscire dal passato è quindi impossibile per chiunque usi il passato quale strumento di legittimazione del potere.

Così collocano la casa del tempo – nel passato – molti fondamentalisti islamici. È infatti evidente quanto l’esportazione della rivoluzione khomeinista abbia mirato e miri a ri-fare l’impero persiano, ossia a tornare a quel tempo. Che dire poi della scelta del regno saudita di fare del Corano la Costituzione ove collocare la casa del proprio tempo?

Per certi versi, gli unici che vogliono cancellare il passato e ri-fare la storia sono gli ultraestremisti islamici dell’Isis, ma a loro modo, cioè con un nuovo punto di inizio posto nella scelta del presunto califfo di chiamarsi Abu Bakhr, come il primo successore di Maometto: nuova origine del tempo e uso della gomma abrasiva sulla storia islamica, da riscrivere dalle origini guardando indietro.

Nazionalismo, insieme a piccolo o grande impero, è il concetto chiave per interpretare il pensiero politico dei fondamentalisti.

Il mondo russo di Cirillo
Kirill – da quando è stato eletto patriarca di Mosca e di tutte le Russia – insiste sul concetto di mondo russo, equivalente a Santa Russia. Il suo patriarcato, dunque, non riconosce gli attuali confini politici della Federazione Russa: non sono i confini fisici a delimitare le sue competenze territoriali. Il patriarca vuole avere piena giurisdizione su tutto ciò che appartiene al supposto mondo russo, cioè su Russia, Bielorussia, Ucraina, Moldavia e persino Kazakistan. Almeno.

Senza un minimo accenno alle vicende di un passato prossimo dolorosissimo – ad esempio, lo sterminio dei kulaki ucraini da parte di Stalin -, Kirill torna al passato remoto del battesimo della Rus’ – il mitologico rito collettivo con cui il re Vlad unì le tribù slave nell’860 – per là collocare la sua casa del tempo, evocando, con ciò, un idealismo spiritualistico che dominerebbe il corpo unitario del popolo russo.

Ma il patriarca non ricorda o non vuole ricordare le lezioni di grandi autori – scrittori, filosofi e teologi russi -, quali Nikolai Berdjaev, che, dall’esilio di Parigi, ormai diversi decenni fa, scriveva della libertà quale valore supremo dovuto al prossimo.

Il dovere verso l’altro
Mentre la libertà – quale dovere verso il prossimo -, altro da sé, mi sembra una caratteristica – questa sì – santa (perché da Dio) e perciò posta in evidenza nel Documento sulla fratellanza umana firmato da Francesco e dall’imam di al Azhar ad Abu Dhabi! “La libertà è un diritto di ogni persona: ciascuno gode della libertà di credo, di pensiero, di espressione e di azione. Il pluralismo e le diversità di religione, di colore, di sesso, di razza e di lingua sono una sapiente volontà divina, con la quale Dio ha creato gli esseri umani”.

La libertà è un dono di Dio e, nello stesso tempo, un dovere nei confronti dell’altro. Come, dunque, l’idea di mondo russo – così come pure altre idee che hanno circolato e circolano anche nel mondo cattolico collegando l’altare all’impero – può conciliarsi con la libertà nella comunione ecclesiale?

Il professor Antoine Courban, in un suo recente articolo sulla questione moscovita, ha riassunto brillantemente l’incompatibilità dei due modelli di Chiesa: da una parte sta la Chiesa che si pone in funzione dell’assemblea dei fedeli del luogo in cui questa vive – come da tradizione apostolica -, dall’altra sta la Chiesa etno-nazionale, fondata sull’identità dei suoi membri che inevitabilmente piomba nel filetismo, o etno-filetismo, cioè nella predilezione di un gruppo etnico, ossia nell’eresia condannata dal Grande Concilio ortodosso del 1872.

Il filetismo – molto diffuso, ad esempio, anche nella cultura e nella realtà del cattolicesimo medio-orientale – affonda, per me, le sue radici nella questione della protezione, così come conosciuta dai cristiani sotto il governo ottomano.

La protezione ottenuta dai musulmani – nel momento in cui arrivò Napoleone e portò con sé il concetto di nazione – indusse a tradurre il termine sino ad allora usato per indicare le comunità di fede – millet – con “nazione”. “Nazione cristiana” è divenuto il modo di dire che non esiste un mondo che non conosca le nazioni su base etnica e religiosa. Ma non è sempre stato così. E non detto che debba essere così.

Fondamentalismi: il nemico necessario
La mia sensazione – forse esagerata – è che l’idea del mondo russo richieda dei nemici per autosostenersi. Nella Quarta Teoria Politica di Aleksandr Dugin, – quella del mondo russo contro l’Occidente – l’idea diviene “metafisica”. “Metafisica” è la parola che il patriarca ha pronunciato nella sua omelia del 6 marzo scorso, tracciando un muro tra il mondo russo e il potere mondiale che vuole imporre il peccato contro Dio quale opzione disponibile all’uomo.

“I gay pride sono progettati per dimostrare che il peccato è una delle variabili del comportamento umano. Ciò significa che si vuole imporre con la forza un peccato condannato dalla legge di Dio, e quindi imporre con la forza alle persone la negazione di Dio e della sua verità. […]. Intorno a questo argomento oggi c’è una vera guerra. Stiamo parlando di qualcosa di diverso e molto più importante della politica. Stiamo parlando della salvezza umana, di come finirà l’umanità, da quale parte, a destra o sinistra, di Dio Salvatore che viene nel mondo come Giudice […]. Quanto affermato indica che siamo entrati in una lotta che non ha un senso fisico, ma un significato metafisico”.

Non è esattamente quanto scriveva il padre del fondamentalismo islamico, Sayyd Qutb? Per Qutb la questione con l’Occidente è soprattutto “stabilire per legge le norme del comportamento collettivo e scegliere qualsiasi modo di vita senza tener conto di quanto prescritto da Dio”.

È importante cogliere la convergenza rintracciabile grazie al saggio pubblicato da La Civiltà Cattolica di padre Antonio Spadaro e Marcello Figueroa a proposito dei fondamentalisti americani, cattolici e protestanti: nella loro narrativa “ciò che spinge al conflitto non è bandito. Non si considera il legame esistente tra capitale e profitti e la vendita di armi. Al contrario: spesso la guerra stessa è assimilata alle eroiche imprese di conquista del Dio degli eserciti, di Gedeone e di Davide. In questa visione manichea, le armi possono dunque assumere una giustificazione di carattere teologico, e non mancano anche oggi pastori che cercano per questo un fondamento biblico, usando brani della Sacra Scrittura come pretesti fuori contesto”.

Cosa aggiungono gli 800 teologi ortodossi che hanno contestato Kirill? Se i fondamentalisti americani parlano di Stati Uniti come nazione benedetta da Dio, i teologi ortodossi ricordano al patriarca russo che parlare in questi termini è eresia, perché se la Chiesa fosse etnica non sarebbe più la Chiesa di Cristo, del Vangelo, degli Apostoli.

Dalla Chiesa etnica filtra un approccio messianico – in senso politico – che a prima vista può sfuggire. Voler edificare il Regno di Dio, pretendere di possederlo nel mondo russo, o altrove, è molto pericoloso.

Nel citato saggio di padre Antonio Spadaro e del pastore Marcelo Figueroa sul fondamentalismo americano, si scrive: “Il termine fondamentalismo evangelico, che oggi si può assimilare a destra evangelicale o teoconservatorismo, ha le sue origini negli anni 1910-15.

A quell’epoca un milionario del Sud della California, Lyman Stewart, pubblicò 12 volumi intitolati I fondamentali (Fundamentals). L’autore cercava di rispondere alla minaccia delle idee moderniste dell’epoca, riassumendo il pensiero degli autori di cui apprezzava l’appoggio dottrinale. […]. Furono suoi estimatori vari esponenti politici e anche due presidenti recenti come Ronald Reagan e George W. Bush. Il pensiero delle collettività sociali religiose ispirate da autori come Stewart considera gli Stati Uniti una nazione benedetta da Dio, e non esita a basare la crescita economica del Paese sull’adesione letterale alla Bibbia”.

Non sorprende allora che il professor Massimo Borghesi abbia scritto sul fondamentalismo islamico parole che possiamo riferire anche a Kirill come ai fondamentalisti americani: “Non si tratta di una mera espressione di tradizionalismo, ma di una modernità reazionaria che prende forma nell’imitazione dell’antioccidentalismo ideologico marxista che dilaga nell’Europa e nel mondo a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta. La critica all’Occidente, che è propria del fondamentalismo, è del tutto analoga a quella che il marxismo rivolgeva al sistema capitalistico, egoista e corrotto”.

La leadership di Francesco
Qui emerge un altro punto che unisce i fondamentalisti ma pure i pan-arabisti e buona parte dei marxisti sovietici e post-sovietici: porsi contro il mondo egoista e corrotto. E dunque bisogna combattere contro questo mondo, corrotto e corruttore.

Il timore è fortemente fondato anche in America. Padre Spadaro e il pastore Figueroa ancora scrivono: “(questi vogliono) combattere le minacce ai valori cristiani americani e attendere l’imminente giustizia di un Armageddon: una resa dei conti finale tra il Bene e il Male, tra Dio e Satana”.

Ecco perché, per me, solo Francesco emerge come il leader morale globale, perché il suo ecumenismo unisce nella fratellanza tutti coloro che pongono la casa del tempo nel presente, quale tempo dei fratelli. Unisce credenti e non credenti per il mondo, non contro il mondo, per cambiarlo, non per distruggerlo.

È un ecumenismo – quello di Francesco – che richiede l’impegno esigente e il sostegno di tutti, diversamente fratelli. Ci ricorda che non può esserci un fondamentalismo anti-fondamentalista.