Putin ‘Criminale di guerra per la deportazione dei bambini’

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– La Corte penale internazionale ha emesso un mandato di arresto per il presidente russo Vladimir Putin in relazione alla guerra in Ucraina.

Putin sarebbe “responsabile del crimine di guerra di deportazione e trasferimento illegale di popolazione (bambini) dalle zone occupate dell’Ucraina alla Russia”, si legge nel comunicato della stessa Corte.

Oltre a Putin, un altro mandato di arresto è stato spiccato nei confronti di Maria Alekseyevna Lvova-Belova, commissaria per i diritti dei bambini presso il Cremlino. I reati sarebbero stati commessi nel territorio occupato ucraino almeno a partire dal 24 febbraio 2022.
“Vi sono fondati motivi per ritenere che Putin abbia la responsabilità penale individuale per i suddetti crimini, per aver commesso gli atti direttamente, insieme ad altri e/o per interposta persona, e per il suo mancato controllo sui subordinati civili e militari che hanno commesso gli atti”, prosegue la nota.
La Corte sottolinea che i mandati di cattura sono stati emessi dalla II Camera preliminare dopo le istanze di accusa presentate il 22 febbraio 2023, a un anno esatto dall’inizio dell’invasione russa in Ucraina, e di averli fin qui tenuti “segreti al fine di proteggere vittime e testimoni e anche per salvaguardare le indagini”.
“Tuttavia – spiega la Corte -, consapevole che le condotte contestate nella fattispecie sarebbero in corso, e che la conoscenza pubblica dei mandati può contribuire a prevenire l’ulteriore commissione di reati, la Camera ha ritenuto che sia nell’interesse della giustizia autorizzare la Cancelleria a rendere pubblica l’esistenza dei mandati, il nome degli indagati, i reati per i quali i mandati sono stati emessi e le modalità di responsabilità stabilite dalla Camera”. (ANSA).

Kiev, almeno 20 i morti dopo il raid russo a Dnipro

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Tra le vittime anche una 15enne, e oltre 70 feriti

E’ salito ad almeno 20 il bilancio dei morti dell’attacco russo di ieri a un condominio di Dnipro: tra le vittime c’è anche una ragazza di 15 anni.

Lo ha reso noto su Telegram il governatore della regione di Dnipropetrovsk, Valentyn Reznichenko, come riporta il Kyiv Independent.

I feriti sono almeno 73, tra cui 14 bambini. Secondo Reznichenko, più di 40 persone sono state ricoverate negli ospedali locali. Circa 72 appartamenti sono stati completamente distrutti e altri 230 sono stati danneggiati nell’attacco.
(ANSA).

Allarme aereo in tutta l’Ucraina Decollato Mig russo che può portare razzi con testate nucleari

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ROMA, 25 DIC – Per la seconda volta nella giornata giorno è suonato l’allarme aereo in tutta l’Ucraina.

Lo riporta Ukrainska Pravda precisando che le sirene hanno iniziato a suonare nelle regioni di Kiev e Leopoli e poi si sono estese a tutto il resto del Paese.

Il gruppo di monitoraggio ‘Belarusian Gayun’ ha riferito che alle 14:00, l’aereo di tracciamento radar a lungo raggio Il-76 A-50U ‘Serhiy Atayants’ è decollato da Machulyshchy in Bielorussia. Subito dopo si è alzato in volo un jet da combattimento MiG-31K dell’aeronautica russa, che può trasportare missili Dagger equipaggiati con testate nucleari.
(ANSA).

Discusso tema della concessione dei visti ai turisti russi in Europa

Controlli a turisti russi alla frontiera di Nuijamaa

Anna Zafesova, giornalista de La Stampa, affronta il delicato e discusso tema della concessione dei visti ai turisti russi in Europa.

Gentile Anna, ci sono turisti russi in Italia e in Europa in questa estate?
Non ho dati. La mia percezione è che – nelle grandi città come Roma e Milano o in note località di villeggiatura – siano parecchi: forse solo poco meno rispetto ai numeri pre-covid.

Come è possibile? Si era detto che sarebbe stata un’estate senza turisti russi in tutta l’Europa, dopo le sanzioni…
Le sanzioni hanno determinato la sospensione dei voli dalla Russia all’Europa, ma non hanno comportato una limitazione dei visti, tanto che alcuni Paesi – in particolare la Finlandia – hanno funzionato da transito dei turisti russi diretti in Europa. Le ambasciate e i consolati dei Paesi occidentali hanno continuato a rilasciare visti turistici, come prima.

Solo da pochi giorni è affiorata – proprio dalla Finlandia – una questione di genere etico: la premier Sanna Marin ha detto di trovare ingiusto che il suo Paese si stia prestando a un tale flusso turistico dalla Russia, con ciò che è accaduto e sta accadendo in Ucraina. Ha quindi deciso di limitare l’emissione dei visti, continuando peraltro a concedere, senza limitazioni, i visti per studio, per ragioni culturali e familiari.

Conseguenze
Quali riflessi lei coglie di questa inaspettata presenza turistica?
Purtroppo, ho registrato una serie di episodi piuttosto spiacevoli, segnatamente negli ultimi giorni, in Europa e anche in Italia. Si sono verificati casi di aggressione verbale – e non solo – di russi e di russe contro persone ucraine, con video, a carattere denigratorio, finiti sui social con grande seguito di pubblico.

Ricordo l’episodio di un ragazzo russo che, a Milano, ha calpestato i manifesti degli ucraini che, regolarmente, si riuniscono in piazza Duomo, suscitando la giusta riprovazione dell’opinione pubblica milanese. Ho colto, peraltro, anche qualche manifestazione di solidarietà tra russi e ucraini nei Paesi europei, ma, tutto sommato, poca cosa.

Come si pone, secondo lei, la questione etica della presenza dei russi in Europa e in Italia?
La questione etica è stata per primo posta dal presidente ucraino Volomidir Zelenski in una intervista al Washington Post in cui ha sostenuto che i russi stanno godendo del privilegio di fare turismo in Europa mentre gli ucraini sono sotto le bombe. In effetti, anche a mio modo di vedere, è quantomeno imbarazzante che i turisti russi vengano in Europa a fare shopping come se nulla di grave sia accaduto e stia accadendo da quelle parti.

Consideriamo che chi può permettersi la vacanza in Europa è sostanzialmente un’élite acculturata, ossia quella che dovrebbe essere maggiormente in grado di comprendere le responsabilità del governo russo – e inevitabilmente di tutto il popolo russo – riguardo alla guerra di aggressione dell’Ucraina.

Russia – Europa
Lei, cosa auspica?
Ho già avuto modo di presentare (cf. qui) le dimensioni – piuttosto modeste – del movimento di protesta in Russia. Attendevo qualcosa di ben diverso. Non posso chiedere ai russi di immolarsi al proprio regime scendendo in piazza e finendo direttamente in carcere, ma mi sarei francamente aspettata, almeno quest’anno, un’astensione dai movimenti vacanzieri e di consumo verso l’Europa: come me pensano sicuramente tante altre persone in Europa e nel nostro Paese, in Italia.

La parte – sicuramente minoritaria – della popolazione russa che si oppone alla guerra e si oppone al regime di Putin è rimasta in Russia e ha cercato di esprimere forme di dissenso e di resistenza: so che sono avvenuti, ad esempio, sabotaggi ai binari dei treni diretti ai rifornimenti delle truppe di aggressione in Ucraina; si tratta di episodi poco o per nulla noti – radi – ma ci sono. Penso che dovremmo dedicarvi maggiore attenzione.

Posta la questione etica, come l’Europa potrebbe affrontarla?
I visti turistici rilasciati dai Paesi europei ai cittadini russi residenti nella Federazione andrebbero sospesi. Questa è la mia prima risposta, di impulso. Ma mentre dico questo avverto tutti i problemi che una tale determinazione susciterebbe.

Il primo problema è che i russi che, in questi mesi, si sono allontanati dalla Federazione lo hanno fatto avvalendosi unicamente dei visti turistici, oppure senza avvalersi di alcun visto – verso i Paesi che dalla Russia non lo richiedono –, ma sempre come turisti: sto parlando di circa quattro milioni di persone.

Togliere i visti significherebbe quindi togliere questa possibilità, mentre lo stesso Zelenski ha sostenuto che i russi che lasciano la Federazione per dissenso rispetto politica di guerra del loro Paese andrebbero ben accolti in Europa.

Si tratterebbe, allora, di rilasciare visti non più turistici, bensì mirati in senso umanitario, senza tuttavia giungere alla richiesta di asilo in ambasciata.

Perché non offrire – da subito – la possibilità della richiesta di asilo?
Perché, dopo un attimo dalla formulazione della richiesta di asilo, in una qualsiasi ambasciata o consolato in Russia, la polizia segreta di Putin ne verrebbe a conoscenza, con le conseguenze del caso.

I russi che si trovano nei Paesi occidentali già hanno la possibilità di presentare istanza di asilo: le risulta che ne stiano fruendo?
In pochissimi casi. La stragrande maggioranza dei russi trasferitisi all’estero – dal 24 febbraio ad oggi – non ha presentato istanza di asilo e non ha intenzione di farlo, per vari e comprensibili motivi: temono innanzi tutto le conseguenze di un atto così impegnativo e forte sui familiari e sugli amici rimasti in Russia; temono poi di non poter più tornare in Russia nel momento in cui siano nell’urgenza di farlo.

La scelta dell’asilo è, infatti, di per sé, irreversibile; molti non hanno, poi, obiettivamente, alcuna intenzione di vivere per sempre in occidente: pensiamo, ad esempio, ai giovani che sono espatriati per evitare la chiamata alle armi, contando su una situazione contingente che in qualche modo si sarebbe risolta o che si risolverà.

Quali misure?
Quale sarebbe la reazione dei russi a misure stringenti imposte dall’Europa sui visti?
Le misure di carattere punitivo rischierebbero di fare il gioco del governo di Putin e del suo apparato di propaganda. Da anni Putin in persona sostiene che l’occidente non vuole i russi – non li ha mai voluti – e, alla prima occasione, li caccia: perciò – per lui – è bene che i russi restino a casa, pensino a sostenere il loro Paese nel mondo, pensino a sostenere lui stesso.

La propaganda al suo seguito alimenta la tesi della russofobia degli occidentali e quindi del deliberato maltrattamento dei russi in occidente. Episodi simili a quelli a cui ho accennato – avvenuti a Milano – hanno determinato la sospensione del visto o della prenotazione alberghiera ai loro infausti protagonisti e ora vengono manipolati in Russia a sostegno della tesi discriminatoria e vittimistica.

Lo stesso oppositore russo più noto, Alexei Navalny, dal carcere, ha fatto sapere che chiudere i confini da parte dei Paesi occidentali sarebbe un grosso regalo a Putin.

C’è un modo per evitare effetti così contraddittori?
In Lettonia, ad esempio, si è detto di voler negare i permessi di soggiorno soltanto ai russi sostenitori di Putin. Si tratta di un Paese che si sente direttamente minacciato: capisco quindi la posizione ma non penso che possa essere mantenuta – in maniera così mirata – e quindi essere estesa a tutti i Paesi occidentali.

L’dea della Lettonia ha il pregio della giustificazione di diritto: infatti una misura punitiva – nel nostro pensiero occidentale – non può mai risultare indiscriminata, bensì sempre ed esclusivamente ad personam, perché possa essere giusta.

Il problema è dunque di applicazione su vasta scala e di strumenti applicativi adeguati allo scopo. Si è detto di chiedere ai russi intenzionati a venire in Europa di firmare un documento individuale di condanna della guerra. Penso che molti russi – persino sostenitori di Putin – sarebbero pronti a firmare un tale documento pur di venire in vacanza in Europa, ma ritengo che questa risulterebbe una misura inefficace ai fini di un’autentica responsabilizzazione, oltre che, probabilmente, risultare una misura contraria al diritto occidentale, perché fondata su una discriminazione delle idee.

In Italia il problema si è esplicitamente posto – mi pare – solo all’inizio della guerra e solo per quanto riguarda figure di fama internazionale.
Ha fatto notizia il caso del famoso direttore d’orchestra Valerij Gergiev a cui la Scala di Milano ha chiesto una sorta di abiura della guerra di aggressione della Russia sull’Ucraina e un’esplicita presa di distanza da Putin, quale condizione per poter continuare la collaborazione artistica: cosa che non poteva avvenire e difatti non è avvenuta. Ricordo che Gergiev è uno dei pilastri della propaganda di Putin. È un uomo molto in vista e molto influente in Russia.

Secondo me, un ente privato come la Scala aveva e ha tutto il diritto di selezionare le proprie collaborazioni, secondo i propri codici etici.

La cultura
Questo può essere il criterio con cui il mondo culturale si rapporta con gli esponenti della cultura russa?
Sì, penso che per il mondo della cultura sia relativamente più facile selezionare gli artisti – su invito – alle manifestazioni e alle rappresentazioni in Italia e in Europa. E penso che ciò stia avvenendo, anche per non incorrere in incidenti e polemiche che possano rovinare gli eventi culturali.

Per quel che so, gli organizzatori stanno prestando attenzione ai profili – non solo artistici – delle persone invitate, parlandone e parlando prima con loro. In questo modo gli eventi culturali possono diventare occasioni di dialogo con chi è veramente aperto al dialogo, senza peraltro esigere improbabili abiure.

Le opinioni pubbliche dei Paesi europei, secondo lei, cosa effettivamente chiedono ai governi?
Questo è il punto. Esistono opinioni pubbliche – con elettorati – di diversa natura da Paese a Paese e, ovviamente, anche all’interno dello stesso Paese. Faccio ancora l’esempio della Finlandia perché è il Paese che con più forza ha posto il caso a tutta l’Europa: nelle sue città di frontiera sono arrivati e continuano ad arrivare migliaia e migliaia di russi di cui una parte prende l’aereo e viene in Europa a fare vacanza, mentre un’altra consistente parte si ferma a fare shopping, aggirando in tal modo le sanzioni che privano i mercati russi di certi prodotti.

Va detto che alcune persone vanno alla ricerca di medicine o di altri beni di prima necessità introvabili in Russia, ma tanti altri si permettono la ricerca del lusso o perseguono la rivendita illegale dei beni acquistati, una volta rientrati in patria. Ebbene, questo può fare evidentemente comodo all’economia e alla società finlandese.

Allo stesso modo può far comodo al turismo italiano ricevere di nuovo – quest’anno – molti turisti russi. Ma c’è, appunto, il problema etico di cui ho detto. Bene ha fatto la premier finlandese Sanna Marin a porlo e ad interpretare i sentimenti di buona parte dei suoi concittadini. Penso che il problema sia e, per quanto possibile, debba essere avvertito dalle opinioni pubbliche dei Paesi europei.

Non dimentichiamo poi che di queste opinioni pubbliche sono parte integrante i milioni di ucraini in diaspora nei Paesi europei. Nella demografia italiana costituiscono centinaia di migliaia di persone presenti ben da prima della guerra. Le cancellerie degli Stati non possono non tenerne conto. Qualcuna lo sta facendo con alcune scelte sui visti e i permessi di soggiorno: oltre alla Finlandia e alla Lettonia, posso citare la Repubblica Ceca o la Lituania. Ma siamo all’ordine sparso, non ancora a un ordine europeo.

Andare in Russia
Cosa sta accadendo nella direzione inversa, ossia dall’Europa alla Russia? È più difficile – poniamo per gli italiani – andare in Russia?
Per i cittadini europei che vogliono andare in Russia non è cambiato molto, se non che mancano i voli diretti e quindi si deve passare attraverso altri Paesi, così come appunto stanno facendo i russi verso l’Europa.

Si può passare dalla Finlandia, in volo, ad esempio, sino a Helsinki e poi, da Helsinki, via terra: così si può arrivare a San Pietroburgo; oppure si può andare in volo sino a Istambul e da lì a Mosca. Istambul è divenuto il principale scalo aereo dall’occidente verso la Russia. Chiaramente i costi sono incrementati.

Dal 15 luglio scorso, peraltro, la Russia ha fatto cadere le limitazioni precedentemente in vigore a motivo – almeno ufficialmente – del covid. Vero è che la Russia ha stilato un elenco di Paesi amici versus Paesi ostili. Non escludo quindi che per qualche occidentale, non gradito e proveniente dai Paesi ostili, possa essere sollevato qualche problema di ingresso.

Ma ufficialmente non ci sono limitazioni, tanto da consentire alla propaganda di fare sfoggio di una liberalità che in occidente non sussisterebbe. Il regime, in tal senso, è molto abile: basti pensare all’accoglienza – strumentale – riservata ad alcune figure occidentali, ben accolte in Russia perché sono andate a manifestare il loro sostegno a Putin. Il caso più recente è quello dell’attore Steven Seagal.

Intuisco che la materia è delicata e complessa – avverto che lei stessa è combattuta tra opposte istanze –, può tuttavia trarre una sua conclusione: cosa dovrebbero, secondo lei, insieme stabilire i Paesi europei?
La mia personale posizione è che i visti turistici in quanto tali vadano sospesi e questo per dare un segnale – netto e determinato – di tipo etico. Consentire i flussi turistici come se nulla fosse è un messaggio eticamente sbagliato. C’è una responsabilità individuale e c’è una responsabilità collettiva. Non vanne ignorate.

Nel mentre ritengo che debba essere messa a punto una procedura chiara e di sicuro accesso per consentire ai cittadini della Federazione russa di accedere ai Paesi europei per ragioni non turistiche, quindi, sicuramente, per ragioni familiari, culturali, di studio, ma anche umanitarie. Penso che l’Europa debba muoversi con molta prudenza, ma debba farlo.

fonte: settimananews

Guerra in Ucraina. A Kiev cresce l’allarme. A Mosca i funerali di Darija Dugina

Zelensky incassa la solidarietà dei leader mondiali sulla restituzione della Penisola di Crimea. Paura di raid sui civili per l’Indipendenza. Gli Usa ai propri cittadini: lasciate il Paese

Alexandr Dugin ha partecipato ai funerali della figlia Darya, uccisa in un attentato a Mosca

Alexandr Dugin ha partecipato ai funerali della figlia Darya, uccisa in un attentato a Mosca – Reuters

da Avvenire

«Faremo di tutto per liberare la Crimea». Alla vigilia del giorno dell’Indipendenza dalla Russia – che ricorre oggi e coincide con i sei mesi dall’inizio dell’invasione –, il presidente Volodymyr Zelensky è apparso irremovibile. La restituzione della Penisola, occupata nel 2014, come quella di Dontesk e Lugantsk, resta la base per qualunque negoziato con Mosca. Non si tratta solo dell’Ucraina, «vogliamo ristabilire l’ordine e il diritto», ha aggiunto il leader nel corso di Crimea Platform, evento di solidarietà a cui hanno partecipato oltre 40 capi di Stato e di governo e i vertici Ue.

Tutti si sono schierati al fianco di Zelensky, seppure Emmanuel Macron e Olaf Scholz con toni più sfumati. Più nette le parole di Mario Draghi, Andrei Duda e di Antony Blinken, pronunciate proprio mentre Washington starebbe per varare un nuovo pacchetto di aiuti da tre miliardi di dollari. A sorprendere è stata soprattutto la posizione forte di Recep Tayyip Erdogan. «La restituzione della Crimea all’Ucraina, di cui è parte inseparabile, è essenzialmente un requisito del diritto internazionale», ha detto il presidente turco.

In questi giorni la tensione sul terreno è altissima. E l’allerta, dopo mesi, tocca Kiev, tornata nel mirino. Si prevede un’escalation di attacchi russi per l’Indipendenza, fatto che – ha precisato Zelensky – causerebbe «una risposta forte». Nel timore di raid sulle infrastrutture civili, molti cittadini stanno lasciando la capitale e il dipartimento di Stato Usa ha chiesto ai propri cittadini di partire dall’Ucraina. Kiev, da parte sua, ha per la prima volta colpito l’edificio dell’amministrazione filo-russa di Donetsk, causando – secondo fonti secessioniste, tre morti. Il capo, Denis Pushlin, e il presidente della Duma, Vyacheslav Volodin sarebbero scampati per un soffio al lancio di missili.

La Russia dice addio a Darija Dugina ed entra nel settimo mese di guerra. Ma emergono nuovi particolari sull’attentato costato la vita alla figlia del filosofo ultra-conservatore, e soprattutto in molti si chiedono quali potranno essere le conseguenze dell’attacco, nella versione di Mosca portato avanti da una militante nel battaglione di Azov scappata in Estonia. Ricostruzione che Kiev ha bollato come «fantasiosa propaganda».

Ieri a Mosca in centinaia hanno voluto tributare l’ultimo omaggio alla giovane donna, morta ad appena 30 anni nella notte di sabato. Per tutta la mattinata la sala in cui è stata ospitata la salma ha ricevuto l’omaggio di russi colpiti dalla tragica sorte di Darija, che hanno voluto lasciare un omaggio floreale davanti al ritratto in bianco e nero della vittima e alla bara che, come vuole la tradizione ortodossa, resta aperta per tutta la funzione funebre. Ad accoglierli, il padre, Aleksandr Dugin e la moglie, entrambi vestiti di nero e con il volto devastato dal dolore.

Alla funzione funebre, che si è tenuta nel centro televisivo Ostankino, uno dei luoghi più celebri della Russia sovietica, il padre ha ricordato la figlia come una donna che «non aveva paura della verità». Secondo la testimonianza del filosofo, proprio la sera della sua morte, Darija avrebbe detto al genitore di sentirsi «una vera guerriera». «Mia figlia è morta per il popolo – ha detto Dugin durante l’orazione –, è morta per la Russia, al fronte. Il fronte è qui». Ieri aveva dichiarato che la giovane donna era una vittima del «regime nazista ucraino» e che bisognava andare avanti per la vittoria in Ucraina.

Fra le altre persone che hanno ricordato Darija con un discorso, c’erano il deputato Leonid Slutsky, noto per la sua approvazione dell’operazione militare speciale in Ucraina, il vice-presidente della Duma, Sergey Neverov, e il magnate russo Konstantin Malofeev, di orientamento ultra-conservatore, nonché fondatore e proprietario della tv russa Tsargrad. Quest’ultimo, in particolare, è un oligarca vicino a Putin. Il presidente russo ieri ha firmato l’assegnazione postuma dell’Ordine del Coraggio, una delle maggiori onorificenze russe, alla giovane vittima dell’attentato.

Intanto, emergono nuovi dettagli che gettano altre ombre sulla reale capacità di controllo del territorio da parte delle forze russe, oltre a suggerire che l’attentato avrebbe potuto essere evitato. Stando alle indagini, è ormai certo che il vero obiettivo fosse Aleksandr Dugin e non la figlia, che non avrebbe dovuto proprio essere coinvolta. La carica esplosiva, che si è rivelata fatale per Darija e che è stata montata sulla sua Toyota, è stata azionata da un comando, posto su una macchina che stava seguendo il ritorno della vettura con a bordo la giovane donna verso Mosca.

Natalya Vkov, che, secondo la versione russa, fa parte del battaglione d’Azov ed era in Russia dal 23 luglio, non solo ha vissuto indisturbata nello stesso palazzo della vittima per quasi un mese ed è riuscita a passare il confine fra Russia ed Estonia dopo aver cambiato targa alla sua automobile. Si trovava nei paraggi anche la sera dell’attentato. Il tutto senza che l’Fsb, erede del Kgb, si sia accorto di nulla.

Dentro il sito di Zaporizhzhia «È una bomba a orologeria»

Un militare russo di guardia all’esterno della centrale nucleare di Zaporizhzhia/

Reuters

Quella che si vede dalle sponde del fiume Dnipro a Enerhodar, nel distretto di Zaporizhzhia, è «una grande bomba a orologeria». Lo dice un ingegnere dell’impianto nucleare che ha deciso di correre più di un rischio per raccontare i giorni più pericolosi per almeno tre Continenti. Nelle ultime settimane l’area è stata bersagliata da centinaia di colpi, fino a 120 razzi segnalati in una sola notte. Secondo fonti indipendenti giunte fino all’ultimo avamposto sotto il controllo ucraino (giornalisti e organizzazioni umanitarie) i lanci provengono proprio da Enerhodar. Kiev accusa Mosca di farsi scudo della centrale per lanciare attacchi. La Russia risponde sostenendo che le minacce arrivino proprio dai combattenti ucraini. Per l’Aiea, l’organo di controllo nucleare delle Nazioni Unite, c’è un «rischio reale di disastro nucleare» se non cessano i combattimenti e non viene consentito l’accesso agli ispettori. Anche perché, confermano diverse fonti, a questo punto non serve neanche che si spari per accelerare la corsa verso l’abisso delle radiazioni fuori controllo. È quello che ieri il presidente Zelensky ha definito «terrorismo nucleare russo» in un colloquio con il presidente francese Macron.

Zelensky accusa: «terrorismo nuclerare»

L’ingegnere di Zaporizhzhia lo ascoltiamo in tre, più volte e in più giorni. La comunicazione si interrompe spesso: per problemi di rete, o per non farsi scoprire. Alcune volte parla a voce, altre preferisce inviare documenti e immagini. L’ingegnere sa bene che dal momento della pubblicazione la sua vita e quella dei suoi familiari è in pericolo, ma così vicini al punto di non ritorno ha deciso di andare avanti. Quando cita l’impianto, lo fa come si trattasse di un luogo sacro. Usa la maiuscola, lo chiama semplicemente “la Centrale”. «La situazione era drammatica, ma a farla precipitare sono i bombardamenti mirati da parte degli occupanti russi», esordisce. Spiega: «All’inizio, a qualunque mente sana questa ipotesi sarebbe apparsa come un puro delirio suicida. Ma è successo questo: una specie di “autofuoco” ». Il perché lo ha capito ascoltando dall’interno: «I russi sono rimasti impressionati dall’enorme risonanza mediatica dell’attacco ucrai- no alla zona della città di Energodar e alle vicinanze della Centrale, e si sono detti che avrebbero provveduto loro a mantenere alta quell’attenzione internazionale, e a imputare all’Ucraina le successive bombe contro le strutture dell’impianto».

Il rimprovero a Kiev e l’accusa ai russi

Se da una parte non nasconde che nell’area una reazione ucraina vi sia stata, dall’altra rivela come Mosca abbia deciso di cavalcare quegli scambi di colpi per terrorizzare il mondo e alzare la posta. «Parlare di errori, di bersagli mancati, è in questo caso ridicolo. Non è che i militari russi – insiste –, quando gli prende la voglia di sparare, si mettono a sparare alla cieca in tutte le direzioni, compresa la propria». E ricorda un episodio di aprile, quando gli fu chiaro che non sarebbe stata più l’Ucraina ad avere il controllo degli impianti. «Era venuta la delegazione di Rosatom, l’agenzia atomica russa, e aveva meticolosamente svolto tutti i compiti di cui era incaricata, dai rilievi topografici all’analisi dei rischi per le infrastrutture. Poiché a regolare il fuoco dell’esercito russo sono i rappresentanti di Rosatom», protetti dalle squadre dei servizi segreti russi.

Il drammatico conto alla rovescia

All’inizio, la prendiamo per una rassicurazione. I tecnici di Mosca dovrebbero conoscere ogni conseguenza. Ma i calcoli devono fare i conti con la realtà. La presenza di Rosatom dimostra che la Russia potrebbe garantire un accesso sicuro agli ispettori Onu dell’Aiea. Eppure ancora ieri da Mosca è arrivato il consueto

niet. «Attraversare la linea del fronte è un rischio enorme, dato che le forze armate ucraine sono formazioni armate eterogenee – ha sostenuto Igor Vishnevetsky, vicedirettore del dipartimento per la “Non proliferazione e il controllo degli armamenti” del ministero degli Esteri del Cremlino –. Potrebbe accadere di tutto se la delegazione dell’Aiea attraversasse la linea del fronte». In realtà, l’Ucraina ribadisce di avere tutto l’interesse a far arrivare gli ispettori che potranno constatare lo stato dell’occupazione nella centrale. Ma da Mosca prendono altro tempo.

La nostra fonte a Zaporizhzhia intanto continua a parlare e a scrivere da tecnico. Ci trasmette una mappa dell’impianto in tempo reale. Non possiamo pubblicarla: con facilità si risalirebbe al mittente. Si tratta di una planimetria dettagliata, nella quale l’ingegnere indica i punti chiave e la dislocazione delle forze di occupazione. Dice: «Punto primo: sparano per fare danni, ma non in modo fatale. Punto secondo: i loro colpi mirano principalmente a interrompere le linee di trasmissione ad alta tensione che collegano la Centrale con il sistema energetico dell’Ucraina. E molti sono già andati a segno. Perché è pericoloso? Nessuna centrale nucleare può funzionare “ad aria”, a salve, per così dire, ma deve essere alimentata con l’elettricità da qualche parte. Se perdiamo tutti i “consumatori” in una volta, andremo incontro a grossi problemi». I reattori, infatti, continuerebbero a produrre energia e non possono essere spenti con un semplice clic. È come spegnere di colpo i motori di un incrociatore procede avanti tutta: continuerà a spingersi al largo per inerzia. Ecco cosa accadrebbe: «Se non c’è un posto in cui convogliare l’elettricità, i blocchi verranno spenti in caso di emergenza. E se tutte le unità di alimentazione vengono spente in caso di emergenza, non c’è nessun posto da cui prendere l’elettricità per alimentare le pompe di raffreddamento della zona attiva (il cuore nucleare, ndr)». Per farlo capire anche a noi, l’ingegnere prova a semplificare: «In parole povere: almeno un’unità di potenza deve funzionare per dotare il sistema di alimentazione per le sue esigenze. Grazie a questo sistema energetico, possiamo evitare un incidente nucleare». Tuttavia, «se disconnetti tutte le “utenze” esterne in modo brusco (cosa che la Russia sta facendo ora), ci sarà un cosiddetto blackout (un arresto contemporaneo di tutte le unità elettriche funzionanti), che può portare a un disastro nucleare». I piani alternativi, in questo caso, sono destinati a non funzionare, perché servirebbe che tutto il personale fosse sul posto: «Attualmente alla Centrale ci sono tra le 1.400 e le 1.900 persone. Il numero di dipendenti regolamentare a tempo pieno è di 12mila».

«Noi in ostaggio di Mosca»

La vita all’interno è un incubo costante. Le esplosioni nei pressi dell’impianto vengono messe a segno ad orari regolari, così da organizzare i lavoro dei tecnici di conseguenza. «Di norma il personale del turno mattutino (7-15) esce più tardi del necessario, perché è alle 14 che iniziano i bombardamenti. La stessa storia – riferisce l’ingegnere – vale per il personale serale (15-23). Succede così che i lavoratori si espongono al pericolo semplicemente venendo o uscendo per il cambio di turno». «Tutti siamo in ostaggio delle situazioni più inaspettate, perché gli attacchi più accaniti dei russi vengono effettuati proprio durante la permanenza del maggior numero di personale. Tutto ciò ha fatto sì che un numero molto elevato di dipendenti ha lasciato Energodar nelle ultime settimane». Non c’è altro d’aggiungere, a parte un avvertimento: «Questo è il punto critico, perché una stazione povera di personale – osserva alla fine – è una grande bomba a orologeria».

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Putin, Russia e Corea Nord amplieranno relazioni bilaterali Media, leader russo invia lettera a Kim Jong-un

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La Russia e la Corea del Nord rafforzeranno le relazioni bilaterali: lo ha riferito oggi l’agenzia di stampa statale di Pyongyang, la Kcna, citando il presidente russo Vladimir Putin.
Lo riporta il Guardian.
Secondo l’agenzia Putin ha inviato una lettera al leader nord coreano Kim Jong-un nel giorno della liberazione della Corea del Nord affermando che i due Paesi “amplieranno le relazioni bilaterali globali e costruttive attraverso sforzi comuni”.
Nella missiva il leader russo ha spiegato che legami più stretti sarebbero nell’interesse di entrambi i Paesi e contribuirebbero a rafforzare la sicurezza e la stabilità della penisola coreana e della regione asiatica nord-orientale. (ANSA). 

Intervista. Prodi:«In Ucraina la pace solo con intesa Usa-Cina»

Quando cominciano i contrasti personali, è un problema tenere tutti dentro. Divaricazioni anche a destra, è il Pd oggi il più granitico
Romano Prodi, ex capo del governo e già presidente della Commissione Europea

Romano Prodi, ex capo del governo e già presidente della Commissione Europea – Ansa

Avvenire

Professor Romano Prodi, stiamo ai calci di rigore per questa maggioranza o ancora ai supplementari?
Guardo con un certo distacco a queste fibrillazioni che durano d’altronde già da settimane – risponde l’ex premier e fondatore dell’Ulivo –. Ho sempre ritenuto che si arrivasse alla regolare fine della legislatura e ritengo ancora che sia un interesse comune. Salvo però “incidenti”, che in politica possono sempre capitare: si fanno errori che possono portare a un suicidio politico. Con me, a esempio, Bertinotti fece un errore.

Quale giudizio dà delle osservazioni del M5s di Conte, condensate nei 9 punti del documento dato a Draghi?
Non ho ancora capito se quella del M5s sia tattica o strategia. Marcare differenze rispetto alla linea del governo è un conto, procedere a una rottura vuol dire però mandare a un elettorato, già sbandato per la situazione globale che stiamo vivendo, un messaggio che disorienta ancora di più gli elettori stessi.

Anche quelli 5 stelle?
Mi pare che gli elettori del M5s non vedano più il Movimento come lo strumento del cambiamento. Senza contare che, dopo la scissione, le stelle non sono più 5, ma se ne contano almeno 10…

Vede margini per un “ripensamento” dei pentastellati?
Gli ultimi mesi sono stati caratterizzati da polemiche e contrasti personali fra i leader politici più che da analisi nel merito dei temi. Diventa difficile fare previsioni.

Per Draghi è difficile guidare un governo di larghe intese con spinte simili?
Lo dice a me? Io contavo su una maggioranza meno ampia, eppure ho avuto le mie belle difficoltà. È un’arte complicata che si impara adagio adagio. Il problema è anche che, quando cominciano le divisioni, diventa difficile continuare a tenere tutti dentro e a costruire. Le divaricazioni oggi ci sono in quasi tutti i partiti, anche dentro Lega e Forza Italia. E tutto questo porta anche a un possibile, ulteriore aumento dell’astensione nelle urne. Per paradosso il Pd, che è sempre stato un simbolo di lotte e di divisioni, è oggi quello più granitico.

Il fenomeno astensione la preoccupa?
Molto. Proprio per questo penso che ci siano grandi spazi per chi saprà dialogare con gli elettori, perché oggi non c’è dialogo fra governanti e governati. Ci rendiamo conto che si è stati capaci di fare un referendum sul sistema elettivo dei membri del Csm, non certo un tema di cui si parla a tavola? Non si può replicare il modello partecipativo dell’Ulivo, era un’epoca diversa, ma l’obiettivo deve essere lo stesso. Il Rosatellum è il peggior sistema elettorale possibile, almeno cerchiamo di riavvicinare i cittadini.

L’ha colpita Berlusconi che chiede una verifica?
Appunto. È un’altra conferma che siamo in momenti di assoluta incertezza. Dove l’improbabile diventa possibile.

Hanno fatto discutere le sue frasi sul campo largo che, secondo alcuni, lei avrebbe dato per “sepolto”. Qual è la giusta interpretazione?
Si tratta di un gioco che la destra ama fare da sempre, ma restano delle interpretazioni interessate che puntano a seminare fra me ed Enrico Letta una zizzania che non esiste. Io ho detto semplicemente che gli ultimi avvenimenti hanno rimescolato tutto e che occorre ridisegnare cornice e contenuti delle alleanze. Il campo “senza confini” di cui ho parlato non è altro che il campo largo di Letta alla luce dei nuovi fatti.

Ma si sente ancora una “riserva della Repubblica”?
Ma neanche per sogno. Io ho finito l’impegno politico nel 2008 e dopo non ho mai fatto passi avanti per avviarne uno nuovo. Ho sempre dato, sì, la mia disponibilità a servire il Paese se necessario, mai è stata accolta. Quindi, un impegno non lo valuto e non lo ritengo possibile.

Nei momenti di svolta torna spesso d’attualità il taglio del costo del lavoro.
Le ricordo però che il primo forte taglio l’ho fatto io. Prima, avevamo un peso delle tasse sui salari superiore alla media europea, ora invece siamo già al livello medio. Dato il livello miserevole delle retribuzioni di oggi, ogni taglio è benvenuto. Si tenga presente però che l’esigenza non è uguale per tutti e che bisogna occuparsi anche di chi non ha un contratto regolare.

Per farlo servono però tanti soldi. Serve uno scostamento del bilancio, in deficit?
Io ho sempre dato grande attenzione al debito pubblico, oggi esso è ancora alto e non possiamo dimenticare che questo ci mette sempre a rischio nei mercati, ancor più se salgono molto i tassi d’interesse. Eviterei, quindi, uno scostamento.

Veniamo all’Ucraina. Come vede la situazione dopo quasi 5 mesi di guerra?
Estremamente rischiosa. La guerra sta durando tanto, troppo. E ora, sul fronte energetico, Putin sta giocando come il gatto col topo con i Paesi europei, con un’interruzione del gas addebitata a motivi tecnici, ma che arriva proprio quando si tenta di aumentare gli stoccaggi.

E il governo si sta muovendo bene su questo fronte?
Vedo molto ottimismo da parte del governo, spero che sia motivato. Riterrei comunque utile preparare un piano, non obbligatorio, di consigli ai cittadini su come risparmiare energia: una forma di “persuasione amicale”.

C’è attesa per l’annunciata telefonata fra i presidenti di Usa e Cina, Biden e Xi Jinping.

È difficile che si arrivi a quella pace giustamente invocata da papa Francesco se non c’è un accordo fra questi due grandi Paesi. Si può far poco senza di loro. Per ora non vedo però passi avanti.

Ci sarebbe l’Europa, no?
È stata una bella immagine vedere Draghi, Scholz e Macron sul treno per Kiev, però in generale la voce dell’Europa è ancora troppo flebile. C’è stato il necessario e giusto fronte comune nello schierarsi militarmente a sostegno dell’Ucraina, ma la stessa unione non c’è sulle sanzioni, sulla politica energetica. E quando non si è uniti sulle politiche complementari, diventa difficile ritagliarsi quel ruolo di pacificatore che per la Ue dovrebbe essere proprio.

È diventata più importante la Turchia di Erdogan…
Chi ha comprato gli aerei da combattimento dagli Usa e i missili per abbatterli dalla Russia, può fare benissimo da pacificatore. Ma solo se le due potenze Usa e Cina daranno un via libera che preveda uno o più Paesi, oppure istituzioni, come mediatori.

Ma come si può arrivare a una pace?
Ci sarebbe bisogno di una conferenza internazionale promossa e presieduta dall’Onu, un qualcosa tipo Yalta, ma non vedo ancora un cammino e una spinta verso di essa. Oggi sembra un pio desiderio, del tutto irrealizzabile. Su questo dovrebbe spingere l’Ue. Anche per dare risposte alla vera sofferenza dell’Africa, dove in 16 stati si stanno esaurendo le scorte di cereali, senza che scatti quella mobilitazione mondiale che ci vorrebbe.

In sintesi resta pessimista, professore?
Osservo che c’è nel mondo un crescente desiderio di pace. Una pace indispensabile prima che si manifestino due ulteriori effetti della guerra: che il mondo si divida in due – Paesi capitalistici contro tutti gli altri – e che il riarmo tedesco, senza una simultanea partenza di una difesa comune europea, alteri gli equilibri nella Ue facendo prevalere anche sugli altri fronti il peso della Germania rispetto all’equilibrio fra i diversi Paesi. Non ho alcun dubbio sulla maturità della democrazia tedesca, ma quando si creano troppe disparità diventa più difficile fare una comune politica europea.

Ucraina. L’estate calda dei pacifisti italiani Da Roma a Kiev, l’impegno continua

Sono quattro gli appuntamenti da segnare in rosso in agenda per chi è impegnato in una soluzione del conflitto senza armi: 18 giugno a Roma, 24 giugno e 14 luglio a Odessa, 11 luglio a Kiev

La manifestazione del Giovani per la Pace, organizzata l'8 aprile scorso, dalla Comunità di Sant'Egidio, «Non possiamo restare in silenzio»

La manifestazione del Giovani per la Pace, organizzata l’8 aprile scorso, dalla Comunità di Sant’Egidio, «Non possiamo restare in silenzio» – Siciliani

Avvenire

I 108 giorni di guerra che hanno sconvolto l’Ucraina e messo in crisi l’economia mondiale non hanno ancora messo all’angolo il movimento per la pace. Né in Italia, né in Europa. Quattro gli appuntamenti in rosso sull’agenda pacifista: 18 giugno a Roma, 24 giugno e 14 luglio a Odessa, 11 luglio a Kiev. Un’azione tenace e ostinata, anche se in buona parte ignorata dai grandi mezzi di informazione.

Dopo tre mesi e più di mobilitazione e grandi manifestazioni, il popolo pacifista è ancora attivo sui territori, con una serie di numerosi incontri e iniziative capillari. Un’attività dal basso, che fa da supporto a importanti appuntamenti nazionali. Dopo l’incontro a Bruxelles delle organizzazioni per la pace, organizzato il primo giugno dalla rete di Solidar – gruppo di Ong europee che si occupa di cooperazione, aiuto umanitario, servizi sociali e formazione e collabora con i sindacati –, il 18 giugno si replica a Roma su scala nazionale. Ospitati nella sede dell’Agesci, si incontreranno le oltre 60 associazioni di Rete italiana Pace e Disarmo, più altre dodici organizzazioni, per discutere su come “Costruire un’Europa di pace”. L’incontro sarà dalle 14 alle 18 in largo dello Scautismo 1, anche in streaming: «Non è più sufficiente dichiararsi per la pace, ma serve discutere su come agire».

Subito dopo partirà la prima di due nuove carovane della Pace #StopTheWarNow con destinazione Odessa, dal 24 al 27 giugno, poi seguita da quella dal 14 luglio al 18 luglio. L’iniziativa, aperta il 1° aprile dalla prima carovana della pace, trasportò con 70 automezzi, a Leopoli, 30 tonnellate di aiuti, riportando in Italia 300 profughi. Due le richieste delle carovane di giugno e luglio, 25 mezzi e un centinaio di persone ciascuna: «Riapertura del porto di Odessa per l’esportazione di grano, perché nessuno ha il diritto di far morire nessun altro di fame», e poi «aiuti umanitari e fine dell’assedio e dei bombardamenti su Mykolaiv».

Per l’11 luglio poi, è prevista la mobilitazione che vuole portare 5mila persone a Kiev, promossa da Project Mean, Movimento europeo di azione non violenta. «Siamo convinti – dicono i promotori – che l’azione armata può fermare o sconfiggere l’aggressione, ma non cambiare il contesto che l’ha resa possibile, mentre una massiccia presenza internazionale nonviolenta può creare le condizioni per un futuro che escluda la guerra nella risoluzione dei conflitti».

Il movimento per la pace da mesi dunque si mobilita per far ascoltare una voce diversa da quella delle armi. Subito dopo l’invasione russa del 24 febbraio, la Comunità di Sant’Egidio si era mobilitata tra veglie di preghiera, flash mob dei Giovani per la pace, fino alla prima manifestazione a piazza Santi Apostoli a Roma, già il 25 febbraio.

Poco dopo, il 5 marzo, piazza San Giovanni in Laterano a Roma aveva accolto decine di migliaia di persone per la manifestazione nazionale promossa dalle maggiori realtà dell’associazionismo, assieme a Cgil e Uil. E dopo la già citata carovana della pace del 1° aprile, c’era stata, il 24 aprile, l’edizione straordinaria della Marcia della Pace, decine di migliaia di persone a piedi da Perugia ad Assisi.

«Il movimento per la pace è rimasto unito – rivendica Francesco Vignarca, coordinatore delle campagne di Rete pace e disarmo – nonostante la fatica di andare controcorrente, le derisioni e le accuse inaccettabili di “putinismo”. C’è un arcobaleno di realtà che lavora sul territorio con le associazioni, i sindacati, le parrocchie». Se l’azione pacifista non è riuscita a rallentare il massiccio ricorso alle armi, «è perché non siamo noi a decidere. Ma bisogna prendere atto che le azioni messe in campo dai governi hanno solo acutizzato la situazione, reso “endemico” il conflitto, rafforzato Putin sul fronte interno e sul campo».

I pochi tentativi di ridare spazio alla diplomazia, come il Piano di pace in quattro punti del governo italiano, «hanno ricalcato quattro degli otto punti del piano che avevamo presentato fin dal 24 febbraio». Già allora i pacifisti avevano chiesto la cessazione degli scontri, la neutralità dell’Ucraina, l’attuazione degli accordi di Minsk su autonomia del Donbass e rispetto della popolazione russofona, l’avvio di trattative per la sicurezza reciproca dell’Unione europea e della Russia.

«Eravamo stati ridicolizzati, accusati di essere filorussi. Poi quegli stessi punti, presentati a maggio dal premier Mario Draghi e dal ministro degli Esteri Luigi Di Maio – ricorda Vignarca –, non erano più utopie da anime belle, ma proposte apprezzate anche dalle Nazioni Unite e dalla Francia».

Ortodossia russa: Hilarion dimesso e Crimea accorpata

destituzione

La destituzione di Hilarion Alfeev da responsabile del Dipartimento per i rapporti internazionali del patriarcato di Mosca e l’acquisizione delle diocesi della Crimea sotto la diretta responsabilità della Chiesa russa sono le decisioni maggiori del sinodo dei vescovi del 7 giugno.

Ambedue sembrano motivate dalla guerra in Ucraina. Hilarion non sarebbe stato abbastanza convinto nel sostenerla, i vescovi della Chiesa ucraina filo-russa hanno deciso il 27 maggio di tagliare i ponti con la “Chiesa madre”, isolando Cirillo e frantumando il sogno del Russky mir (mondo russo), il contenitore ideologico della spinta imperiale di Putin.

Il nuovo responsabile del dipartimento sarà il metropolita Antonio di Korsun (Sevryuk), che manterrà la direzione dell’esarcato dell’Europa occidentale e la carica di capo-ufficio del patriarcato per le istituzioni estere. Sostituirà Hilarion nei ruoli fondamentali di presidente del dipartimento, membro permanente del sinodo, membro del consiglio supremo della Chiesa. Hilarion cederà anche la carica di rettore degli studi post-laurea a vantaggio dell’arciprete Maxim Kozlov.

«Cirillo e Hilarion non si sono mai davvero intesi e quest’ultimo spera di ereditare la carica del primo. Nell’attuale contesto il numero due del patriarcato poteva sembrare troppo timoroso a Cirillo» (J.-F. Colosimo). «Evidentemente (Cirillo) ha ritenuto che Hilarion fosse andato un po’ troppo per la sua strada, ma è difficile dire che cosa l’abbia disturbato in particolare. Forse non ha sostenuto abbastanza la linea di Cirillo sull’Ucraina esagerando nei suoi tentativi di dialogo, di mantenere aperte le relazioni con le altre Chiese» (S. Caprio). «Cirillo ha deposto Hilarion. Il trasferimento in Ungheria è una retrocessione da ministro degli esteri a vescovo regionale. È anche un segno di mancanza di fiducia. Cirillo sembra essere in uno stato di emergenza: sta perdendo i pezzi. La Chiesa ucraina (filo-russa) si allontana. Fatta eccezione per l’Ungheria, la maggioranza degli altri paesi sta prendendo distanza» (R. Elsner).

Efi Efthimiou (Orthodox times) ha sottolineato i segni di smarcamento di Hilarion: poco presente nella difesa della guerra, in dialogo con Crisostomo di Cipro (scomunicato da Mosca), firmatario di un appello contro tutte le guerre uscito dalla pre-assemblea ortodossa in preparazione alla conferenza del Consiglio ecumenico delle Chiese, in dialogo con il card. Erdȍ di Budapest pochi giorni prima della decisione del sinodo. La sede ungherese è tuttavia rilevante negli attuali equilibri internazionali della Russia. È stato Orban a impedire che Cirillo finisse nella lista degli oligarchi da censurare e l’episcopato locale, assieme a quelli di Visegrad, è un aperto sostenitore dell’anti-occidentalismo e anti-europeismo.

Riempito di onorificenze da parte di Putin, Hilarion avrà ora il tempo di tessere la sua tela e coltivare le sue passioni musicali e saggistiche. Nel comunicato del sinodo manca ogni parola di ringraziamento per tutti i ruoli finora rivestiti. Della sua lunga carriera si ricorda l’opera di normalizzazione nei confronti dell’Ortodossia inglese (A. Bloom) e il rafforzamento degli istituti teologici e del loro riconoscimento istituzionale. Come anche la dura polemica con gli ortodossi greci che ha, di fatto, bloccato il dialogo cattolico-ortodosso. P. Anderson sottolinea anche la sua giovanile difesa dei manifestanti lituani repressi in forma violenta dalle truppe scelte russe nel 1991.

Un nuovo scisma?
Il clima di emergenza nell’ortodossia russa è stato sottolineato dal patriarca Crisostomo di Cipro in un’intervista del 6 giugno: «Cirillo ha messo sotto pressione tutti i metropoliti. È molto autoreferenziale e i metropoliti hanno paura di avvicinarsi». Come nel passato comunista il partito era il riferimento, così ora: «Il comunismo è morto, ma la mentalità comunista rimane».

I territori acquisiti dalla Russia venivano “occupati” dai metropoliti russi.

La seconda decisione del sinodo del 7 giugno va un po’ in questa linea. Si decide infatti «di accettare le diocesi di Dzhankoy, Simferopol e Feodosiya in diretta subordinazione canonica e amministrativa al patriarcato di Mosca e di tutta la Russia e al santo sinodo della Chiesa ortodossa russa». La Crimea, finora appannaggio della Chiesa ortodossa ucraina filo-russa, viene sottratta alla direzione del metropolita Onufrio per trasferirla a Mosca.

Premessa per quanto potrà succedere ai territori del Donbass se l’occupazione russa diventasse definitiva. La scelta moscovita è in relazione alla decisione del concilio (laici e vescovi) della Chiesa di Onufrio (27 maggio) di prendere le distanze da Mosca e, conseguentemente, di modificare i propri statuti. Il sinodo moscovita fa presente che «ogni discussione sulla vita della Chiesa ortodossa ucraina deve avvenire nei limiti della normativa canonica». E aggiunge, a premonizione di un possibile nuovo scisma, «per evitare nuove divisioni nella Chiesa».
settimananews.it 

Pace in Ucraina: una sola preghiera al Signore: “per favore, fai qualcosa!”

Suor Svitlana Matsiuk con due bimbi profughi

Religiose in Ucraina. Suor Svitlana: “Prego per strappare a Dio il suo aiuto”

Appartiene alla Congregazione delle Missionarie Serve dello Spirito Santo, suor Svitlana Matsiuk. Durante questo tempo di guerra, ha scelto di rimanere in mezzo alla sua gente a Matkivtsi, in Ucraina. Racconta che durante la notte spesso si sveglia con sulle labbra una sola preghiera al Signore: “per favore, fai qualcosa!”

di Svitlana Dukhovych

“La guerra ha radicalmente cambiato la mia vita e continuerà a cambiarla”, racconta suor Svitlana Matsiuk della Congregazione delle Missionarie Serve dello Spirito Santo. Prima della guerra la suora aveva iniziato gli studi a Roma, a gennaio scorso è tornata in Ucraina e avrebbe dovuto riprendere gli studi a settembre. Adesso non sa se potrà farlo. Prima della guerra la sua comunità viveva a Khmelnytskyj, capoluogo dell’omonima regione, dove le religiose sono presenti dal 1995, ma adesso hanno dovuto spostarsi in un paesino, Matkivtsi, dove sono ospitate dai Frati Minori Conventuali e dove riescono ad aiutare coloro che scappano dalle zone più colpite dal conflitto.

Dio è presente nella sofferenza

La guerra ha sconvolto non solo la vita esteriore delle suore: “Sono cambiata dal punto di vista sia psicologico che spirituale – dice la missionaria -. Questa situazione ha introdotto degli interrogativi nel mio rapporto con Dio e nella mia vita di fede”. Il 24 febbraio suor Svitlana stava con le altre consorelle in un paesino vicino a Vinnytsia e a svegliarle la mattina è stato il frastuono delle esplosioni. Dopo il primo istante di perplessità – forse è un incidente… – sono giunti lo shock e le domande: “Come è possibile?” “Sta realmente accadendo?”. Il dolore atroce che ha provocato queste domande, permane ancora e diventa acuto quando suor Svitlana incontra e ascolta chi ha guardato negli occhi la morte: i soldati feriti che ha visitato nell’ospedale militare e i profughi che durante il viaggio hanno visto morire la gente. “Ascoltarli suscita tante domande su Dio e anche sulla natura del male. Prima della guerra sapevo che esisteva il male – continua suor Svitlana – , ma non toccava la nostra vita come adesso. Questa è un’altra realtà nella quale c’è anche Dio che lì soffre e viene crocifisso… E Dio mi ha risposto con una domanda: ‘Vuoi entrare con me in questa realtà?’. Io non voglio scappare da questo, creandomi dei mondi illusori, ma voglio entrarci, starci per fare il maggior bene possibile”.

Il sostegno offerto ai profughi

A Matkivtsi le Missionarie Serve dello Spirito Santo svolgono il loro servizio per i bisognosi presso il Santuario di Nostra Signora di Fatima, insieme ai Frati Minori Conventuali. Nelle prime settimane di guerra hanno organizzato un rifugio per le persone in fuga. Col tempo, il flusso degli sfollati interni è diminuito e quindi le suore hanno deciso di allestire un piccolo centro di aiuto: distribuiscono vestiti, cibo e medicine ai rifugiati e inoltre offrono il loro tempo ascoltandoli. “Per loro è importante sapere che possono venire qui e che saranno aiutati e ascoltati”, dice suor Svitlana. “E in questa situazione, dove il male è molto visibile, è molto importante sapere che esiste anche tanto bene”.

Una preghiera che è un grido d’aiuto

Il ritmo della preghiera comunitaria è cambiato: spesso gli orari vengono spostati a causa di impegni urgenti. “Però la mia preghiera personale è diventata più intensa, qualche volta mi sveglio di notte e prego. E la preghiera diventa un grido: per favore, fai qualcosa! Non è più pregare o chiedere, è strappare a Dio il suo aiuto”. Di un’ esperienza simile di preghiera parla anche la consorella suor Victoria. L’inizio della guerra l’ha trovata in Grecia, dove dal 2019 svolgeva la missione presso Jesuit Refugee Service. “Nella prima settimana piangevo, leggevo le notizie, chiamavo i miei amici e famigliari in Ucraina e pregavo giorno e notte. Ho detto a loro di scrivermi nel caso si fossero trovati in situazione critica. Una mia amica abitava in uno dei paesini nella regione di Kyiv che all’inizio della guerra erano occupati dai militari russi. Per un po’ di tempo si nascondeva con la famiglia in una cantina, e loro non sapevano se dovevano scappare o rimanere. Continuamente mi chiedeva di pregare. E io chiedevo a Dio: salvali, aiutali a scappare, rendili invisibili. Quando sono riusciti a scappare, mi sono sentita sollevata”.

La fede mi fa credere che supereremo questo dolore

In quei momenti per suor Victoria il bisogno di pregare diventava come il bisogno di respirare. Così ha deciso di tornare in Ucraina. Le sue consorelle a Khmelnytskyj erano contrarie perché ovunque nel Paese c’è il rischio di bombardamenti. “Però io provengo dalla Crimea e una volta ho già perso la mia patria. Per questo ho deciso che voglio tornare in Ucraina”. “Voglio condividere con la mia gente le paure, la sofferenza e anche la fede”, dice la suora, confidando che per lei è stata una sorpresa vedere quante preghiere e celebrazioni si fanno ogni giorno nel Santuario di Nostra Signora di Fatima a Matkivtsi. Gli sfollati che arrivano, spesso chiedono alle suore di pregare con loro o pregare per i loro cari che sono rimasti nei luoghi più colpiti. “Questi due ultimi mesi – aggiunge suor Svitlana – è stato per noi anche un intenso tempo di evangelizzazione, di testimonianza che qui Dio è presente”. “La mia esperienza di Dio nel passato – dice ancora suor Victoria – mi dà la fiducia che anche se attraverseremo grandi prove e sofferenze, e anche se il prezzo sarà molto alto, anche la ricompensa sarà alta. La mia esperienza mi dice che Dio non gioca mai con noi e se permette qualcosa del genere, vuol dire che Lui sa che riusciremo a superare tutto questo e che Lui ci porterà nelle sue braccia attraverso tutto questo”.

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Ucraina. Guerra, giorno 70: voci e misteri sul Cremlino, tra malattie e tentati golpe

L’assalto finale a Mariupol nasconde lo stallo strategico di Mosca, che nega l’annuncio dell’offensiva totale, ma subisce indiscrezioni circa una operazione a Putin e un piano per il colpo di stato
Guerra, giorno 70: voci e misteri sul Cremlino, tra malattie e tentati golpe
Avvenire

Il settantesimo giorno di guerra segna la decima settimana di combattimenti a partire dal 24 febbraio. Le forze russe continuano a martellare gli snodi ferroviari nel tentativo di fermare l’arrivo dei rifornimenti militari dall’Occidente. Missili piovono su diverse zone dell’Ucraina, non risparmiando l’Ovest e le aree di confine con gli altri Paesi europei. Ma gli sforzi di Mosca non sembrano essere sufficientemente efficaci, se è vero che carichi di armi britanniche sono giunti da poco e altri arsenali consegnati nel Donbass hanno permesso contrattacchi efficaci nella regione di Kharkiv.

A Mariupol, intanto, si consuma forse l’ultimo, tragico atto dell’assedio allo stabilimento Azovstal, dove i bombardamenti avrebbero fiaccato la resistenza dell’ultimo nucleo di combattenti e permesso ai soldati russi di entrare nel dedalo dell’acciaieria per una caccia all’uomo che coinvolgerà anche i civili rimasti intrappolati. Si vedrà meglio nelle prossime ore: Mosca infatti ha proclamato una tregua da giovedì a sabato ufficialmente per evacuare i civili rimasti con “corridoi umanitari”.

Video

Ma strage potrebbe sommarsi a strage, perché l’agenzia Ap è riuscita a completare una ricostruzione attendibile dell’attacco aereo al teatro di Mariupol, il 16 marzo scorso. Il bilancio è agghiacciante: 600 delle mille persone rifugiate nell’edificio, che era contrassegnato all’esterno da una grande scritta “bambini”, visibile dal cielo, sarebbero rimaste uccise dal raid dell’aviazione di Mosca. Il rapporto dei giornalisti americani è basato sul racconto di testimoni e sopravvissuti, come sull’analisi di foto e planimetrie.

Nel sostanziale stallo strategico, mentre la Ue cerca di mettere a punto il nuovo pacchetto di sanzioni che dovrebbe comprendere anche il petrolio, il Cremlino è al centro non solo delle decisioni sul conflitto ma anche di una ridda di voci che si sono accavallate in queste ore. Ufficiale è la smentita, non netta né chiara, di una dichiarazione di guerra totale che era attesa per il prossimo 9 maggio, giorno della commemorazione della vittoria sui nazisti nella Seconda guerra mondiale. Altrettanto ufficiale e vaga è la conferma che contatti con il Vaticano sarebbe intercorsi, ma senza che l’ipotesi di una visita del Papa a Mosca potesse concretizzarsi. A fianco di queste mezze verità cui gli apparati di Mosca ci hanno abituato, sono state rilanciate da fonti anonime le indiscrezioni sulla salute precaria di Vladimir Putin.

Secondo un video diffuso dal misterioso canale Telegram “General SVR”, ripreso da molte testate internazionali, il presidente russo è pronto a sottoporsi a un intervento chirurgico per un cancro, che lo costringerà a cedere per qualche giorno tutti i poteri Nikolai Patrushev. Quest’ultimo dal 2008 è segretario del Consiglio di sicurezza della Russia, un organo consultivo del presidente, nonché amico e confidente personale di Putin. Il canale “General SVR” è ritenuto essere gestito da un ex generale dei servizi segreti esteri, noto con lo pseudonimo di Viktor Mikhailovich.

Il video segue la segnalazione del sito investigativo russo The Project, secondo il quale un oncologo ha visitato lo Zar 35 volte negli ultimi anni. Si era parlato di un problema alla tiroide e ora anche all’addome. Si sa che il presidente è molto sensibile non solo al suo stato di salute, ma anche all’immagine che trasmette all’esterno. Ha sempre amato farsi riprendere in pose da uomo forte, a cavallo, a torso nudo o sul tatami come judoka.

“Patrushev è un vero cattivo. Non è migliore di Putin. Inoltre, è una persona più astuta e direi più insidiosa. Se va al potere, i problemi dei russi non faranno che moltiplicarsi”, dice la voce narrante su Telegram. “Viktor Mikhailovich” ha poi minacciosamente lasciato intendere che lui e i suoi alleati “faranno certi sforzi perché questo non accada, e spero che avremo successo”. E a Mosca, infatti, secondo altre notizie tutte da verificare, un certo numero di ex generali e funzionari del KGB si starebbe preparando a rovesciare il presidente e a mettere fine alla guerra in Ucraina, sempre più vista in Russia come un errore strategico e un disastro economico.

L’articolo in questione, apparso su un giornale inglese online di non eccelsa reputazione è comunque subito rimbalzato diffusamente sulla Rete anche grazie ad analisti autorevoli, sostiene che alcuni alti ufficiali del servizio di sicurezza Fsb siano frustrati per la mancanza di progressi militari in Ucraina così come alcuni generali ed ex comandanti dell’esercito. L’idea di un colpo di stato sarebbe ulteriormente rafforzata dall’attività sui social media in tutta la Russia e l’Europa orientale. In realtà, potrebbe trattarsi soprattutto di una speranza e di voci diffuse ad arte per seminare incertezza o verificare eventuali reazioni degli apparati di intelligence.

Di certo, il presidente ha compiuto epurazioni dopo i primi rovesci sul campo di battaglia. Questo però non può bastare per coalizzare un fronte capace di concepire e, soprattutto, realizzare un golpe contro il granitico potere di Putin e della sua cerchia. Soltanto se la guerra prenderà una piega ancore più negativa per la Russia, qualcosa potrebbe accadere anche al Cremlino.