Novecento. I racconti di Papini, talento fantastico in anticipo su Borges e la distopia

Finalmente raccolti i racconti dell’intellettuale fiorentino scritti tra 1906 e 1954. In uno si prefigura un mondo dove i ragazzi non vanno più a scuola

Giovanni Papini nel 1913

Giovanni Papini nel 1913 – WikiCommons

A Giovanni Papini, uno dei più brillanti figli del secolo, non è stato perdonato nulla: l’adesione al fascismo prima, la conversione al cattolicesimo poi, maturata con la traumatica esperienza della guerra, che lo indusse a pubblicare nel 1921 un’originale Storia di Cristo. Tra le tante cose scritte e dette su di lui mi pare particolarmente suggestivo quanto affermò lo storico dell’arte Maurizio Calvesi nel 1982 in un intervento intitolato Papini e la formazione fiorentina di Giorgio De Chirico: secondo cui «la lettura del Tragico quotidiano (1906) e del Pilota cieco (1907) fu decisiva per la svolta metafisica della pittura di Giorgio De Chirico». Un riferimento a un conclamato gigante del secolo scorso che, stando all’oblio in cui poi è precipitato Papini, non ti aspetteresti, soprattutto da parte di uno dei critici d’arte di ferrea fede progressista.

Era stato lo stesso scrittore, del resto, a parlare dei suoi racconti come di «novelle metafisiche». Ricavo le citazioni dall’Introduzione del curatore Raoul Bruni e dalla Prefazione di Vanni Santoni – cui s’aggiunge anche una Postfazione di Alessandro Raveggia – al ponderoso volume proposto dalle Edizioni Clichy (pagine 720, euro 25,00), che raccoglie ora I racconti dello scrittore fiorentino. Come scrive Bruni nelle Note sui testi sono qui riunite «le raccolte narrative pubblicate da Giovanni Papini tra il 1906 e il 1954, il racconto lungo La vita di Nessuno( 1912) e una serie di racconti dispersi», non senza radunare nella sezione finale «le prefazioni e le note d’autore».

Operazione questa – è importante aggiungerlo – che va a colmare una lacuna sorprendente del Meridiano curato da Luigi Baldacci e Giuseppe Nicoletti nel 1977, cui va comunque il grande merito di aver riproposto con autorevolezza il Papini, diciamo così, avanguardista, senza però includere alcun suo racconto: quando diventa evidente, proprio grazie a questo volume, che si tratti di uno dei più suggestivi frequentatori del ‘fantastico’ del Novecento non solo italiano.

Ho detto Papini: l’autore di racconti che piacque così tanto a Jorge Luis Borges, fino al punto da essere inserito nel 1975 nella famosissima collana ‘La Biblioteca di Babele’ allestita per il raffinato editore Franco Maria Ricci. Il volume s’intitolava Lo specchio che fugge, titolo quanto altri mai borgesiano in anticipo, preso appunto in prestito da quello del racconto eponimo incluso nella raccolta Il tragico quotidiano: «Volume numero due – sottolinea Santoni – dei trentatré in cui si articolava la collana», accanto tra gli altri a Jack London e Franz Kafka, Hermann Melville, Edgar Allan Poe. Indugiamo ancora un attimo sul rapporto con Borges: Bruni ha giustamente osservato che in un racconto come Le rovine circolari, uno dei più celebri di Finzioni( 1944), è «riecheggiata L’ultima visita del gentiluomo malato, che Borges incluse sia nell’Antologia della letteratura fantastica (1940), curata con Silvana Ocampo, sia nel tardo Libro dei sogni (1976)». Dico L’ultima visita del gentiluomo malato: già presente nel 1906 nella raccolta Il tragico quotidiano. E che dire di quei Ritratti immaginari, pubblicati nel 1940 (e scritti tra il 1936 e il 1939), i quali «trattano di persone mai esistite» e si richiamano palesemente a quelli celeberrimi di Walter Pater apparsi nel 1887?

In molti di questi racconti vorticano i nomi più diversi, in un costante dialogo (quando non si tratti di scontro) che si consuma in una dimensione acronica, in cui gli artisti e gli scrittori sono tutti contemporanei. Cito dalle due pagine di fatto dedicatorie scritte al caro amico Vannicola e ricavate da La vita di Nessuno (1912), l’incredibile storia d’un feto inseguita dal concepimento fino alla nascita, ove spiega – nei modi d’un parossistico egotismo – la ragione per cui è contrario alle dediche («Io voglio che nei miei libri non vi sia altro nome e cognome che quello di Giovanni Papini»): «Io odio il capolavoro di Giovanni della Casa quanto – se non più – le mie prigioni di quel Silvio che infradiciò i nostri occhi di bambinetti elementari».

L’attacco del tutto imprevisto, in qualche modo gratuito, a un padre della patria come Silvio Pellico ci restituisce tutta l’insofferenza di Papini per la retorica risorgimentale che era ancora carduccianamente alla base della celebrazione della ‘nuova’ Italia. Quanto a Giovanni della Casa e al suo famoso ‘libretto’ si rimanda senz’altro all’esilarante racconto del 1912 poi raccolto in Buffonate (1914) e cioè La riforma del galateo. Questo per dire che la vocazione metaletteraria è già consapevolmente presente in Papini prima ancora che il concetto di metaletteratura nascesse (insieme alla Teoria della Letteratura) e che Borges scrivesse i suoi memorabili e più importanti racconti. Non senza aggiungere che si tratta d’una vocazione agonistica, militante, calata nel dibattito intellettuale dei suoi anni, ancora lontanissima da quella declinazione elusiva che caratterizzerà gli scrittori delle generazioni successive, da Borges all’ultimo Calvino appunto: stiamo pur sempre parlando dello scrittore che nel 1916 darà alle stampe Stroncature.

Tanto altro ci sarebbe da dire su questo Papini narratore fantastico. In conclusione – trascurando un punto cruciale e di grande futuro per la storia della nostra prosa come il nesso tra letteratura e filosofia – vorrei però accennare a un altro sottogruppo di testi, quelli lato sensu distopici, concentrandomi su La rivolta dei ragazzi pubblicato su ‘La Stampa’ nel 1913 e incluso anch’esso in Buffonate, che inizia nel nome di Michelstaedter. Ecco: che futuro sarebbe quello in cui i ragazzini si rifiutassero di andare a scuola, considerata ormai mero ‘reclusorio’? Chi parla è uno dei fondatori della Lega dei ragazzi: «Noi vogliamo fare per i bambini quel che le femministe fanno per le donne. Vogliamo proclamare, conquistare e difendere i diritti della fanciullezza! ». Del secolo a venire Papini aveva già capito tutto ciò che c’era da capire.

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Letteratura. Quando Rebora accolse la poesia come un dono

I “Canti anonimi” indicano il compimento dell’evoluzione spirituale, prima ancora che lirica, negli scritti dell’autore lombardo, frutto di ascolto e attesa. La nuova edizione commentata
Clemente Rebora

Clemente Rebora – archivio

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Domani, 6 aprile, alle 17 nell’aula magna della Cattolica di Milano viene presentata la nuova edizione commentata dei Canti anonimi di Clemente Rebora, edita da Interlinea e curata da Gianni Mussini (pagine 264, euro 28). Il volume propone una prefazione di Pietro Gibellini che proponiamo qui sopra in ampia sintesi. La presentazione sarà animata dalla tavola rotonda ‘L’immagine tesa: l’attualità di Rebora’ alla quale parteciperanno, col curatore Mussini, anche Giuseppe Langella, docente alla Cattolica e Valerio Rossi dell’Istituto sant’Ambrogio, Centro novarese di studi letterari. L’incontro sarà coordinato da Roberto Cicala, docente della Cattolica e direttore editoriale di Interlinea.

Radicata è l’attitudine della storiografia letteraria a riunire i grandi scrittori in terne: le corone del Trecento, Dante-Petrarca- Boccaccio; quelle del-l’Italia unita, Carducci- Pascoli- D’Annunzio; quelle del secolo breve, Ungaretti- Saba- Montale. A questi campioni della poesia novecentesca è andato ad aggiungersi, progressivamente, Clemente Rebora, per iniziativa, soprattutto, di Gianfranco Contini, Carlo Carena, Giovanni Raboni, Vanni Scheiwiller, figure di intellettuali che con il poeta lombardo hanno condiviso e condividono la geografia fisica ed etica. Sul loro terreno culturale e mentale sono radicati anche l’editore e il curatore di questi Canti anonimi, volume che arricchisce la serie reboriana di Interlinea, già nobilitata dai Frammenti lirici, dal Curriculum vitae, dagli scritti di guerra, dal carteggio con Scheiwiller. Fondando il testo sulla princeps e sulle postille autografe, e accompagnandolo con un chiaro apparato di varianti, Gianni Mussini (il curatore) si giova delle solide competenze filologiche acquisite negli anni d’oro dell’università pavese. Ma, lettore di poesia e poeta in proprio, mostra di avere una particolare sensibilità e acutezza nell’interpretare le poesie del suo autore. La compresenza delle diverse attitudini fa sì che le tre facce cristalline di questo libro, l’ecdotica, l’esegetica e l’ermeneutica, si riflettano l’una nell’altra, cosa che oggi si verifica raramente negli studi italianistici, dove la filologia circola spesso povera e nuda, come la filosofia nel memorabile sonetto petrarchesco, vuoi perché trascurata o ignorata dai più, vuoi perché chi la pratica fornisce spesso masse di dati non lievitati da fermenti interpretativi. La chiave che consente a Mussini di combinare il lavoro di editore, di commentatore e di critico sta nell’adozione di un criterio filologico, aggettivo da intendere, come lui chiarisce, nel senso etimologico di «amore della parola», criterio che gli consente «di illustrare il testo in tutte le sue implicazioni». Siamo agli antipodi di quello che Contini liquidava come filologismo, e nel cuore dell’ellisse nei cui due fuochi stanno i termini, amore e parola, che caratterizzano tanto il metodo dell’interprete, quanto la visione dell’interpretato. Il peso di questi valori- guida andrà crescendo nell’opera di Rebora, a partire dai Frammenti lirici e fino ai Canti anonimi, e farà acquistare idealmente ai loro nomi l’iniziale maiuscola. Dopo la conversione, don Clemente abbandonerà la scrittura poetica, che recupererà solo negli anni estremi, quando nel Curriculum vitae e nei Canti dell’infermità il minuscolo e il Maiuscolo finiranno per intrecciarsi, per abbracciarsi. Nei commenti alle singole liriche, Mussini coniuga diligenza e discrezione, stringendone efficacemente il succo ed evitando la trappola delle risorse elettroniche, quelle che spingono spesso i critici recenti a sovraccaricare i testi di rinvii ad altri autori. Le poesie di Rebora, si deve peraltro notare, hanno più contatti con altri versi della sua opera che con quelli dei precursori, le cui rare riprese, segnalate opportunamente da Mussini nel saggio introduttivo, non sono mai pedisseque né esibite. Anche là dove l’orecchio avverte, per esempio, un’eco dell’Onda dannunziana, colpisce la lontananza tra il descrittivismo iconico-musicale dell’Imaginifico e la meditazione cosmica reboriana, più prossima semmai a quella simboleggiata dagli abissi di Baudelaire o dal Mediterraneo di Montale. Dante, la cui incidenza su Re- bora è ora indagata nella robusta monografia di Roberto Cicala ( Da eterna poesia, il Mulino, Bologna 2021), si conferma suo modello di densità ed espressivismo, anche se la sonante asprezza che caratterizzava i Frammenticoabita nei Canti – dove predomina il sermo humilis, consono al loro supposto anonimato – con la melica dolcezza delle rime, che richiama quella delle pascoliane ninne-nanne e delle filastrocche infantili. Assai persuasivo è pure il rinvio di Mussini a certe cadenze di Jacopone, autore da lui studiato a fondo. I frutti più sostanziosi del suo lavoro, Mussini li offre nel saggio introduttivo. Coniugando la critica stilistica con lo studio del pensiero del poeta, strettamente connesso alle sue vicende biografiche, Mussini esamina la forma del testo senza prescindere dal significato, e vede dunque nel lessico una spia dello stato d’animo e il riflesso di una ricerca conoscitiva. Valga per tutte la voce perdono, i cui riaffioramenti sono considerati tappe della progressiva metànoia del poeta, nella quale giocano un ruolo essenziale le vicende amorose e il trauma della guerra. Ed è proprio un episodio bellico, la vista del corpo decomposto di un commilitone, a fargli intitolare una poesia Perdóno?, dove il punto interrogativo segnala lo smarrimento della coscienza, la sete di un senso che il poeta va cercando strenuamente. Con precisi appoggi testuali, Mussini illumina anche l’itinerario che porterà l’autore alla fede, itinerario di cui traccia il percorso con mano delicata, spiegando «Rebora con Rebora». Il rigore del suo metodo lo protegge dal rischio di scambiare una conversione potenziale per una conversione in atto, forte della lezione dell’amato e studiato Manzoni, da cui ha appreso che le metamorfosi della coscienza non sono improvvise né radicali, e che l’uomo vecchio reca in sé il germe dell’uomo nuovo. Il passaggio di Rebora dall’io al noi e dal noi all’Altro emerge dal confronto dei Frammenti lirici, moderno Liber fragmentorum che lega in collana le schegge di un ego egemone ma diffratto, con i Canti anonimi, in cui il soggetto, da solista, si fa voce di un coro. Il titolo, denso e pregnante, chiarisce la novità del volumetto rispetto alla prima raccolta: il melodioso sostantivo ‘Canti’ ha ben altro suono e senso rispetto a ‘Frammenti’, e all’aggettivo implicitamente narcisistico del libro precedente, ‘lirici’, succede ora ‘anonimi’, come se quei canti non fossero composti ma soltanto «raccolti» dal poeta, giusta la dicitura del frontespizio della princeps. In tal modo Rebora si allinea di fatto all’estetica rosminiana e manzoniana dell’inventio, secondo cui il poeta non è che il tramite di un dono provvidenziale, trovatore e diffusore di testi che esisterebbero prima e fuori di lui. I Canti segnano dunque un progresso poetico e spirituale nella vicenda dell’autore, ma anche al loro interno fanno registrare un avanzamento, quello dall’alfa della sua quête letteraria e mentale all’omega dell’incontro supremo, ancora incerto. La raccolta si apre infatti con la lirica in cui Rebora, ponendosi in paziente e calma attesa, raccoglie e serba nel cuore i frutti della propria meditazione per donarli poi «a chi ha cercato»; e si chiude con la poesia in cui la persistente attesa di «nessuno» si fa certezza dell’arrivo di un misterioso Qualcuno, già presente con il suo «bisbiglio». L’agnizione del dolce ospite dell’anima imporrà al Rebora sacerdote una lunga astensione dalla scrittura letteraria. Poi, con l’esperienza dolorosa della malattia, tornerà a scorrere la sua vena lirica, posta al servizio di una Parola e di un Amore fattisi più grandi.

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Se l’indicibile leopardiano è nell’amore

Il motivo della morte attraversa i Canti di Giacomo Leopardi: dal suicidio di Saffo, personaggio nel quale il poeta ha inteso simboleggiare il proprio senso di diversità, alla prematura scomparsa di Silvia, che allude alla caduta delle illusioni giovanili. Al tema della morte si lega spesso quello dell’amore:

Amore e morte si intitola uno dei cinque componimenti del ‘ciclo di Aspasia’, mettendo subito in chiaro un binomio tipicamente romantico. Su un’indagine relativa a ‘eros’ e ‘morte sacrificale’ nei Canti di Leopardi è incentrato l’ultimo saggio di Franco D’Intino, professore di Letteratura italiana contemporanea all’Università ‘La Sapienza’ di Roma, dove ha fondato e dirige il Laboratorio Leopardi: L’amore indicibile (Marsilio, pagine 230, euro 21). L’autore si addentra nei Canti leopardiani a partire da alcuni ingressi strategici: l’esordio, il centro, la fine. D’Intino mette in luce come nel pensiero e nella poesia di Leopardi l’eros sia una forza centrale, che travolge l’essere umano, che però in molti casi può essere anche in grado di salvarlo. Ma in che modo si lega il motivo dell’amore a quello della morte? Al cuore dell’immaginario leopardiano è il ‘sacrificio d’amore’, come vediamo nella canzone inaugurale, All’Italia, che celebra la morte e la gloria futura dei martiri della patria, offrendo una via d’uscita dalla miseria del presente. Quello che interessa Leopardi è l’’eros paidikòs’ degli antichi Greci, «in continua tensione», come scrive lo studioso, «tra desiderio e istanze morali, pedagogiche e politiche», un amore, insomma, «non vergognoso e lubrico ma invece celeste, divino e benefico». Con A Silvia, il «grande idillio» scritto dieci anni dopo, la tessitura tematica presenta un sottotesto correlato ai culti persefonei per esprimere il mistero della morte-rinascita della natura (con il passaggio simbolico, a cui si accennava sopra, dal piano naturale a quello esistenziale). D’Intino definisce questo testo «il canto in cui Leopardi mette tutto se stesso, la sua vita e il suo pensiero, condensati in una mirabile sintesi poetica che è, come l’autentico frutto del genio, indicibile e inesauribile». Infine, nei Frammenti che chiudono la raccolta, troviamo il motivo del rimpianto del tempo perduto e quello di un desiderio di pienezza da realizzare nel presente, nel poco tempo che il poeta intuisce rimanergli. L’idea iniziale di questo originale percorso ermeneutico – che sfrutta anche gli strumenti della narratologia per leggere un’opera di poesia (nel senso di un’attenzione agli intrecci, ai personaggi, oltre che ai temi e ai motivi) – è venuta a D’Intino dai suoi studi filologici sui testi leopardiani, a conferma di come, per dirla con Jean Starobinski, la filologia e la critica possano, anzi debbano dialogare, se si vuole giungere a significativi risultati interpretativi. Così per definire il disegno complessivo tracciato nel volume «potremmo dire che l’iniziale allegro primaverile si approfondisce nei colori più carichi di un’estiva e autunnale maturità, per disseccarsi poi in una disincantata e ironica asciuttezza invernale». Che è, per Leopardi, il percorso dell’esistenza umana.

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Strega: vince Emanuele Trevi con 187 voti

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Emanuele Trevi vince il Premio Strega 2021 con 187 voti per ‘Due vite’ (Neri Pozza). Al secondo posto Donatella Di Pietrantonio con ‘Borgo Sud’ (Einaudi), 135 voti e al terzo Edith Bruck con ‘Il pane perduto’ (La Nave di Teseo), 123 voti, già vincitrice del Premio Strega Giovani 2021.

Al quarto posto Giulia Caminito con ‘L’acqua del lago non è mai dolce’ (Bompiani), 78 voti e al quinto Andrea Bajani con ‘Il libro delle case’ (Feltrinelli), 66 voti. A presiedere il seggio Sandro Veronesi, vincitore della scorsa edizione del Premio Strega. Hanno votato in 589 su 660 aventi diritto, pari a circa l’89%. (ANSA).