Preti, accompagnatori accompagnati

Fonte: Settimana News
La terza monografia della rivista Presbyteri è dedicata all’accompagnamento spirituale. Non solo con l’intento di ribadire l’importanza dell’accompagnamento spirituale o incoraggiare il presbitero a formarsi per questo prezioso servizio. Il numero intende «guardare al prete come destinatario dell’accompagnamento spirituale, cercando di cogliere le motivazioni per cui vale la pena intraprendere e rimanere fedeli ad esso e le molteplici resistenze che ne sono di ostacolo. Un accompagnamento spirituale efficace, capace di attenzione e di lettura delle varie fasi della crescita umana e spirituale, è il luogo privilegiato del discernimento per comprendere dove e come lo Spirito Santo conduce la vita e accompagnare il percorso (non scontato) della fede del presbitero». Pubblichiamo l’editoriale firmato da don Nico Dal Molin.

accompagnamento

«In quel tempo Gesù chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due» (Mc 6,7). Il testo della chiamata di Marco dice con chiarezza che i discepoli sono inviati in missione «a due a due». La stessa espressione è presente anche in Luca (10,1), pur in un contesto diverso come è la missione dei «settantadue discepoli».[1]

È vero che la sobrietà del testo non ci racconta come i due discepoli hanno vissuto la relazione tra loro. Eppure è una provocazione suggestiva per ricordarci che il ministero ordinato non è un’avventura solitaria e isolata, ma si colloca sempre e comunque nella dinamica della relazione, della compagnia.

Forse il testo di Marco suppone anche il fatto che in due ci si possa proteggere meglio dai pericoli. Già Qoelet suggeriva che è «meglio essere in due che uno solo» (Qo 4,9). L’essere in due dona robustezza e credibilità alla testimonianza che, per essere valida, si doveva fondare su almeno due testimoni (cf. Dt 19,15). Soprattutto, il non essere soli è essenziale per poter vivere la relazione, la comunione e la carità.

La forza di un amico e di una Parola
La missione del presbitero – oggi questo è ancora più evidente – non consiste anzitutto in attività, solo in un «fare» per gli altri, ma occorre spostare sempre più il baricentro del servizio pastorale verso una prospettiva relazionale.

La fraternità degli inviati è la prima testimonianza che certifica la bontà dell’andare e dell’annunciare il vangelo di Gesù. Il primo annuncio che i discepoli portano con sé è il gesto della loro comunione, è la vittoria sulla tentazione della solitudine.

La scelta che Gesù propone ai suoi ha certamente una forte valenza motivazionale. In realtà essa non sembra conveniente, perché muovendosi individualmente avrebbero certamente raggiunto più destinazioni. Non sembra neppure tanto efficace; un gruppo più consistente avrebbe potuto esercitare un impatto più diretto e provocante sull’uditorio.

Il «due» è il numero della relazione, sin dalle origini della creazione. La dualità significa differenza e alterità, ma anche bisogno, reciprocità e condivisione. Due è il numero che supera l’egoismo e l’autoreferenzialità, ma non si perde nella massa impersonale o nelle dinamiche di gruppo. Ci si guarda negli occhi in due, non in tre o in dodici, né da soli.[2]

E i discepoli partono solo con la forza di un amico e di una Parola.

Essere in compagnia è qualcosa di più del non rimanere soli, perché lo specifico è la condivisione. È un’esperienza profondamente ecclesiale: «Molte sono le membra, ma uno solo è il corpo. Non può l’occhio dire alla mano: “Non ho bisogno di te”; né la testa ai piedi: “Non ho bisogno di voi”» (1Cor 12,20-21).

Nella Chiesa, ma vale per ogni ambito della vita umana, siamo reciprocamente inviati gli uni agli altri per aiutarci. I compagni di strada che il Signore ci mette accanto, sono figure essenziali per ognuno di noi. Con loro si può condividere il pane della solitudine e dell’amicizia, del dubbio e della fiducia, della stanchezza e della serenità. Nel contesto di un cammino sinodale in cui sono impegnate le nostre Chiese, sarebbe importante tornare a chiederci: «Cosa ricevo dagli altri che mi aiuta a capire e a scegliere le cose buone della vita?».

La dimensione del confronto e della relazionalità è essenziale nella missione del presbitero perché favorisce la verifica, l’incoraggiamento, la correzione fraterna, e mette una barriera all’ebbrezza narcisistica dell’io che non imputa mai a se stesso errori o peccati. Forse, proprio per questo negli Atti degli apostoli Luca è così insistente nel narrare le missioni di Paolo e Barnaba, di Paolo e Sila, di Barnaba e Marco…

A due a due, non da soli, un amico almeno su cui appoggiare il cuore quando il cuore manca; a due a due, per sorreggersi a vicenda; a due a due, come tenda leggera per la presenza di Gesù, perché dove due o tre sono uniti nel mio nome là ci sono io.[3]

Accompagnatori accompagnati
È il titolo di un saggio del monaco Guidalberto Bormolini. Risvegliare questa consapevolezza richiede di creare opportunità ed esperienze, luoghi e persone che facilitino il confronto e siano disponibili all’accompagnamento. Bormolini, pur con un focus specifico sulla relazione di accompagnamento nell’ultimo tratto della vita, suggerisce alcuni input benefici per ogni cammino di accompagnamento.

L’accompagnamento non ha come fine un risultato pratico, ma la «bellezza della cura in sé, che ogni essere vivente merita». È essenziale per l’accompagnatore curare la propria interiorità, per «avere la necessaria libertà interiore e per stabilire una indispensabile comunione profonda».

Questa dimensione è ben precisata dalla moderna psicologia relazionale; è definita connectedness (connessione), per cui una reale esperienza di autenticità è possibile all’interno di rapporti significativi che promuovano l’integrazione tra autonomia e relazionalità.[4]

Il percorso dell’accompagnamento inizia dal trasmettere a chi è accompagnato un principio fondamentale: «mi interesso di te perché sei importante». Per questo non ci può essere una «netta distinzione tra accompagnatore e accompagnato»; si tratta piuttosto di una relazione multipla in cui il beneficio è per entrambi, in quanto «aiutare inserisce in una rete di bene universale, che coinvolge sia chi dona sia chi riceve il dono della compagnia».[5]

Accompagnamento sapiente
«La Sapienza è uno spirito che ama l’uomo» (Sap 1,6). È di questa leggerezza sapienziale che c’è necessità per ogni cammino umano e spirituale, attento a tutte le dimensioni della persona: l’alterità, intesa come immersione in un tessuto di relazioni; la temporalità, per collocare ogni persona nel contesto della propria storia personale, fatta di memoria, di consapevolezza e visione del futuro; la progressività, che vede ogni persona umana non destinata ad un passivo e rassegnato immobilismo, ma la proietta in una scia di «paziente dinamicità».

Nel testo di Siracide 38,31-39,11 il sapiente è descritto come l’architetto che progetta e pianifica il lavoro per edificare una città. Nel secondo libro di Samuele (14,17-20) il sapiente è identificato con «l’angelo di Dio» che orienta e guida le scelte, come l’arcangelo Raffaele che, nelle vesti dell’amico Azaria, guida in maniera accorta e saggia il pericoloso cammino di Tobia.

Il profeta Ezechiele (27,8), con una metafora suggestiva, descrive il sapiente come un nocchiero capace di orientare la barca, guardando la bussola nel cielo buio della tempesta o scrutando le stelle del cielo nelle notti limpide e chiare.

Per contrasto, il profeta Isaia (3,3) dice ciò che il sapiente non dovrebbe né essere né fare. Contestualizzando la situazione di profonda anarchia in cui vive Gerusalemme, il profeta paragona il falso sapiente ad un mago che dai volteggi della sua bacchetta magica estrae solo un illusionismo fatuo e vuoto, che pervade parole e atteggiamenti.

«Per questo pregai e mi fu elargita la prudenza, implorai e venne in me lo spirito di sapienza (…). L’ho amata più della salute e della bellezza, ho preferito avere lei piuttosto che la luce, perché lo splendore che viene da lei non tramonta» (Sap 7,7-10).

Un maestro sapienziale fa crescere la capacità di guardare in alto, andando oltre lo sguardo ripiegato su sé stessi. Victor Frankl, psicologo viennese, definisce questa dimensione la riscoperta di una «psicologia delle altezze», che non si contrappone ma integra il contributo prezioso della psicologia del profondo. Un’applicazione al cammino spirituale può divenire molto generativa e feconda.

Una lettura sapienziale permette di dare continuità di ricerca a chi ha perso il senso storico delle proprie radici motivazionali e soffre di amnesia, donando speranza a chi non sa più trovare il senso «teologico e teleologico» della propria scelta vocazionale.

La via sapienziale come conversione del cuore
«Per imparare a vivere ci vuole tutta una vita; non stupirti dunque se nessuno ha mai imparato». È un’espressione che si rifà ad un aforisma di Lucio Anneo Seneca, il filosofo stoico dell’età imperiale dell’antica Roma.

Da una parte, è un invito ad abbassare l’asticella delle alte aspettative che ciascuno di noi può nutrire nei confronti di se stesso e che possono essere trasferite nei rapporti interpersonali fino a renderli esigenti e possessivi. Dall’altra, può aiutare a ridimensionare le proprie ingenue fantasie infantili di onnipotenza.

Un cammino di accompagnamento personale può lenire e cicatrizzare quella ferita narcisistica, spesso non rimarginata, che sanguina dentro di noi e che possiamo toccare con mano, talvolta dolorosamente, di fronte al senso di inadeguatezza e precarietà che mai come in questi mesi ha avvolto il ministero presbiterale. Un cammino di accompagnamento sapienziale può divenire un’esperienza di mindfulness (consapevolezza) umana e spirituale, che rende più disposti e capaci di consegnarsi all’azione dello Spirito Santo.

Diviene opportunità per imparare ad «espropriarsi» del proprio ruolo, per vivere con più densità quel valore che ha orientato la scelta di vita: seguire il Signore Gesù. «Noi però abbiamo questo tesoro in vasi di creta, affinché appaia che questa straordinaria potenza appartiene a Dio, e non viene da noi» (2Cor 4,7). Invece di lamentarsi delle tribolazioni subite, che lo hanno messo continuamente a dura prova, Paolo afferma che la propria vulnerabilità personale, con cui è stato continuamente costretto a confrontarsi, si è rivelata essenziale per la sua missione.

La fragilità non pregiudica affatto l’annuncio del Vangelo, ma ne è addirittura la garanzia. I fallimenti nel ministero non sono il fallimento del ministero, dove il fallimento stesso può divenire momento di crescita e contributo prezioso alla salvezza propria e altrui. È un cammino di accettazione realistica di situazioni e sentimenti in cui prevalgono stanchezza, delusione, sfiducia senza che divengano un facile giustificatorio per eludere le proprie responsabilità.

È il prezzo da pagare alla propria umanità, che può trasformarsi in opportunità concreta per rievangelizzare il proprio vissuto alla luce della Parola risanatrice di Gesù, profondo conoscitore e guaritore del cuore umano.

Dio mi liberi dalla sapienza che non piange, dalla filosofia che non ride, dall’orgoglio che non s’inchina davanti ad un bambino. Dio mi guardi dall’uomo che si proclama fiaccola che illumina il cammino dell’umanità. Ben venga l’uomo che cerca il suo cammino alla luce degli altri (Gibran Kahlil).[6]

[1] Cf. «Fraternità e amicizia nella vita del prete», in Presbyteri 2020/10 (Editoriale).

[2] Annalisa Guida, «La missione dei dodici», in I Vangeli, Àncora, Milano 2015.

[3] Ermes Ronchi, «Dove noi vediamo deserti, Dio vede chance», in Avvenire, 4 luglio 2019.

[4] Cf. Susan Harter, La costruzione del Sé. Fondamenti di sviluppo e socioculturali, (Prefazione di William M. Bukowski), Guilford Press, New York City 2012 (2° ed.).

[5] Guidalberto Bormolini, Accompagnatori accompagnati. Condurre alla vita attraverso la morte, EMP, Padova 2020.

[6] Gibran Kahlil Gibran, La voce del maestro (ediz. integrale a cura di Tommaso Pisanti), Newton Compton, Roma 2020.