Domenica 30 aprile la Giornata per le Vocazioni

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Si celebra domenica 30 aprile la 60ª Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni sul tema “Vocazione: grazia e missione”. Si tratta, spiega il Papa nel suo Messaggio, di “un’occasione preziosa per riscoprire con stupore che la chiamata del Signore è grazia, è dono gratuito, e nello stesso tempo è impegno ad andare, a uscire per portare il Vangelo”. “Animato dallo Spirito – afferma il Papa – il cristiano si lascia interpellare dalle periferie esistenziali ed è sensibile ai drammi umani, avendo sempre ben presente che la missione è opera di Dio e non si realizza da soli, ma nella comunione ecclesiale, insieme ai fratelli e alle sorelle, guidati dai Pastori. Perché questo è da sempre e per sempre il sogno di Dio: che viviamo con Lui in comunione d’amore”.
In occasione della Giornata, l’Ufficio nazionale per la pastorale delle vocazioni ha preparato diversi materiali, tra cui il cortometraggio intitolato “Le parole della vocazione”. Realizzato dal documentarista Giovanni Panozzo, lo short film raccoglie le voci di cinque studenti universitari che riflettono sui grandi temi dell’esistenza umana, a partire da alcune parole come desiderio, tradizione, anziani, adulti, condivisione, Chiesa, futuro, spiritualità.

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“Ascoltare i loro racconti mostra un forte desiderio di una vita solida, vissuta in pienezza nella quale hanno voglia di buttarsi con entusiasmo e non senza paure riguardo al futuro. Sono giovani che alla base della vocazione cristiana si trova la consapevolezza, come afferma Papa Francesco nel suo Messaggio per la Giornata, ‘di essere stati creati dall’Amore, per amore e con amore, e [che] siamo fatti per amare’”, spiega don Michele Gianola, direttore dell’Ufficio. “Mettersi in ascolto dei loro racconti – aggiunge – allarga il cuore anche alla preghiera e al profondo desiderio di affidare al Signore le loro vite perché in lui possano trovare compimento a partire dai meravigliosi doni e potenzialità che esprimono. Donano speranza e infondono la passione a costruire insieme a loro l’oggi cui tutti, sono ancora parole del Pontefice, ‘nella Chiesa siamo servitori e servitrici, secondo diverse vocazioni, carismi e ministeri […]. In questo senso, la Chiesa è una sinfonia vocazionale, con tutte le vocazioni unite e distinte in armonia e insieme in uscita per irradiare nel mondo la vita nuova del Regno di Dio’”.
chiesacattolica.it 

Farrell: affidare ai laici compiti nei quali sono più competenti dei preti

Apertura del Convegno dedicato alla corresponsabilità tra Pastori e laici nella Chiesa

Il cardinale prefetto del Dicastero per i Laici, la famiglia e la Vita ha aperto i lavori del convegno “Pastori e Fedeli laici chiamati a camminare insieme”, in Vaticano fino al 18 febbraio. Dall’amministrazione economica al diritto civile e canonico, dalle arti alla comunicazione, dall’evangelizzazione alla carità: sono alcuni dei campi dove l’apporto dei laici porta entusiasmo e creatività
Antonella Palermo – Città del Vaticano

La necessità per i vescovi e i sacerdoti di consultare i laici prima di intraprendere ogni iniziativa importante nella propria diocesi o parrocchia, e l’affidamento ai laici di incarichi ecclesiali che per loro natura non richiedono la presenza di chierici. Sono i due aspetti approfonditi dal cardinale Kevin Farrell, prefetto del Dicastero per i Laici, la Famiglia e la Vita, nel suo intervento rivolto ai presidenti e referenti delle commissioni episcopali per i laici, protagonisti del convegno in corso in Vaticano, sul tema: “Pastori e Fedeli laici chiamati a camminare insieme”.

Promuovere una pastorale integrata
L’appuntamento tre giorni – cominciato il 16 febbraio per chiudersi il 18, nell’Aula nuova del Sinodo – è frutto dell’Assemblea Plenaria del Dicastero del novembre 2019, nella quale emerse con chiarezza l’esigenza di approfondire la responsabilità di ogni battezzato nella Chiesa. L’obiettivo è quello di sensibilizzare sia i pastori che i fedeli laici alla corresponsabilità. La logica della “delega” o della “sostituzione” del laico è infatti riduttiva, sottolinea il porporato, e va superata nel segno di ciò che Papa Francesco disse in quella circostanza, quando sottolineò proprio l’importanza dell’unità all’interno del Popolo di Dio. Farrell spiega che il suo dicastero sta cercando di promuovere questo modello di “pastorale integrata” e di positiva collaborazione.
La Chiesa non è una federazione ma un organismo unitario
Questa presenza attiva dei laici nella Chiesa, chiarisce il cardinale, nulla toglie alla loro missione primaria di essere lievito e fermento nella società e negli ambienti ordinari della vita: lavoro, scuola, mezzi di informazione, cultura, sport, politica, economia. “Questi, certamente, vanno considerati i campi ordinari della testimonianza cristiana dei laici, ma evitando una visione rigida ed esclusivista che estromette del tutto i laici da un attivo coinvolgimento nella vita ecclesiale”, afferma. Richiamando il punto 55 del Documento della Commissione Teologica Internazionale “La sinodalità nella vita e nella missione della Chiesa”, Farrell precisa la peculiarità della Chiesa: non una federazione, ma un organismo unitario, un soggetto comunitario.

L’elaborazione delle decisioni è compito sinodale
È la costituzione conciliare Lumen gentium a offrire il programma formativo in questo orizzonte. Citandone il n.37, il prefetto si sofferma in particolare su due aspetti. Innanzitutto, la necessità che il Pastore applichi ciò che prevede il Documento della Commissione (n.69) laddove si distingue la fase del ‘decison-making’ da quella del ‘decision-taking’: “l’elaborazione è un compito sinodale, la decisione è una responsabilità ministeriale”. Poi si tratta di affidare ai laici alcuni compiti per i quali essi dimostrano maggiori competenze, zelo e creatività rispetto a preti e consacrati che possono essere abituati – dichiara Farrell – a metodologie e prassi più tradizionali e meno ‘scomode’.

Campi in cui i laici possono esprimere zelo e creatività
Il cardinale presenta alcuni esempi che vanno dal campo dell’amministrazione economica e delle finanze a quello del diritto civile e, per coloro che hanno fatto studi specifici, anche del diritto canonico “pensiamo ad esempio ai processi di nullità matrimoniale; il campo del biodiritto e della bioetica, soprattutto per quei laici che provengono da studi di medicina”. Inoltre, fa riferimento al campo del dialogo fra scienza e fede (in particolare per quei laici che provengono da una formazione accademica di indirizzo scientifico) alle comunicazioni sociali, alle arti come luogo di testimonianza e di evangelizzazione. Poi c’è tutta l’impegno nell’evangelizzazione “di strada” o dei vari “ambienti sociali”: Farrell ricorda che nel Dicastero da lui guidato numerose sono le associazioni di fedeli nate proprio dall’impulso missionario di alcuni laici desiderosi di portare l’annuncio del Vangelo nei luoghi di incontro e di lavoro delle persone: i campus universitari, gli ambienti militari, il mondo dello sport… La raccomandazione è che i pastori non trascurino di “vigilare e accompagnare tutte queste iniziative prese dai laici – conclude il cardinale Farrell – ma abbiano sempre grande fiducia nel loro discernimento e nella loro fedeltà al Vangelo di Cristo e alla sua Chiesa”.
vaticannews

ESPERIENZE DI CHIESA Futuri preti ed amore in seminario

Nell’estate appena trascorsa, dal 25 al 28 luglio 2022, tutti i Rettori dei Seminari d’Italia e i responsabili delle Comunità propedeutiche si sono ritrovati a Siena per confrontarsi e poter offrire ai Vescovi alcune linee guida in vista del Sinodo e della nuova Ratio prevista per la primavera del 2023.

Bergoglio: occhi aperti nell'ammissione ai seminari - La Stampa

La domanda di fondo è stata quella di intercettare nei segni dei tempi la voce dello Spirito che chiama a vita nuova, superando la tentazione del si è fatto sempre così. Ma da dove partire per una riflessione oculata?

La questione circa la riforma dei Seminari è vecchia tanto quanto l’istituzione degli stessi e non riguarda solo e semplicemente una riforma di struttura – sarebbe come mettere un po’ di cipria su un viso vecchio e pieno di rughe – quanto una coraggiosa proposta di novità, anche teologica, ancora tutta da scrivere e che sicuramente non vogliamo trattare in questa sede.

Considerando gli scandali che stanno interessando la Chiesa, la tentazione sarebbe quella di confondere ogni cosa e ridurre il tutto a responsabilità personale di qualcuno. Sappiamo bene invece che la verità è molto più complessa e riguarda sia l’uomo nella sua totalità di spirito incarnato e corpo spiritualizzato (direbbe Levinas), capace di peccato e di santità, sia le dinamiche della struttura ecclesiale.

Volendo trattare tuttavia della formazione che il giovane seminarista riceve negli anni che sta in Seminario, ci chiediamo se ci sia spazio per l’amore. Il rischio sarebbe, infatti, quello di confondere il celibato con il non-amore e, negli anni, ci si potrebbe costruire la corazza – solo apparentemente invincibile – dell’apatia, dell’anaffettività e della durezza relazionale. Segni purtroppo molto ricorrenti tra i preti, capaci di parlare alle folle cercando like di consensi, ma incapaci di perdere mezza giornata per condividere le gioie e le sofferenze di un figlio spirituale o di una famiglia.

Ecco che la domanda torna e stavolta con molta perentorietà: ma questo prete è capace di amore?

È chiaro che si vive solo amando e se non ami il tuo stato di vita, trasformandolo in luogo di donazione amorosa e di feconda vita relazionale, allora si amerà altro.

La Ratio fundamentalis Il dono della vocazione, attualmente in vigore e pubblicata nel 2016, al n. 35 dice che “i presbiteri sono nel mondo e nella Chiesa, segno dell’amore misericordioso del Padre”. Tale virtù essenziale del presbitero è legata dal documento all’unico sacerdozio di Cristo. È necessario allora ricordarci che si sta parlando del Verbo del Padre incarnato e non di una dottrina o di un sistema di valore.

I presbiteri sono segno dell’amore rivelato del Padre, ma per essere tali occorre vivere in pienezza la propria umanità, senza paura del proprio limite ma senza neanche consacrarlo. La Gaudium et Spes al n. 41 dice che “seguendo Cristo Uomo perfetto, l’uomo diventa più uomo” e questo vale per tutti gli uomini, al di là dell’Ordine Sacro.

Ma è davvero così?

S. Bernardo nel “Discorso sul Cantico dei Cantici” dice: “Amo perché amo, amo per amare. L’amore è sufficiente per sé stesso, piace per sé stesso e in ragione di sé”. L’amore è ragione a sé stesso, non si ama per essere un buon prete o per andare in Paradiso: si ama per restare uomini.

Il problema per il prete è chi amare e come educarci ad amare! Si può amare il proprio ruolo e la propria immagine, ed ecco che si ha don Narciso eternamente in bilico tra amore per sé e incapacità di un minimo segno di attenzione per gli altri. Come si esce dal narcisismo? Imparando la logica di Gesù, accettando le sconfitte pastorali e facendo pace con una logica di servizio umile e disinteressato.

La situazione di crisi che stiamo vivendo ci sta facendo un buon servizio in merito, a meno che sopportiamo il tutto passivamente, in vista di un ritorno alla gloria di un tempo. Si può amare confondendosi con la gloria di Dio e sentendosi talmente responsabili degli altri tanto da volerli salvare! Ed ecco che si ha il don Apocalisse con la sindrome del “faccio nuove tutte le cose” e con la pericolosa tendenza ad entrare nella sacralità della coscienza altrui.

Infine, si potrebbe trovare il prete che ama l’anima più del corpo (o il corpo più dell’anima), tra Platone e i figli dei fiori, e si avrebbe il don Costantino, non l’opinionista Della Cherardesca, ma l’imperatore romano con l’ansia di voler battezzare a tutti i costi i suoi sudditi per far ottenere loro la salvezza.

“È triste avere preti alla guida di una parrocchia che gridano a squarciagola o che vivono semplicemente di tre o quattro cose e non sanno dialogare”, così papa Francesco rivolgendosi ai presbiteri. Il problema di fondo è, dunque, imparare ad amare e questo si può fare solo seguendo la logica di Cristo – che è quella dell’incarnazione – superando l’autoreferenzialità del single.

Da prete posso dire di aver amato solo se durante la mia giornata sono stato capace di prossimità, di ascolto e di perdono nei confronti delle persone che mi sono state affidate, altrimenti diventa tutto retorica o idealizzazione astratta. Ecco la fecondità ordinaria e normale dell’amore che basta a sé stesso ed è capace di credibilità.
vinonuovo.it

Piccola Betania: una casa per “preti spezzati”

di: Francesco Strazzari

L’ha aperta nel 2019 il coraggioso Gérard Daucourt (1941), vescovo emerito di Nanterre (Francia), a Mesnil-Saint-Loup, villaggio rurale del dipartimento dell’Aube, a 25 chilometri a ovest della città di Troyes, nello spirito del beato Jean-Joseph Lataste, domenicano, e sotto la protezione di Nostra Signora della Santa Speranza. Casa e terreno sono stati dati dal vicino monastero dei monaci olivetani, fondato nel 1864 dal parroco Ernest André, che prese poi il nome di Emmanuel.

Lo scopo: la rigenerazione
La casa propone soggiorni di ressourcement (rigenerazione) ai preti e ai religiosi attraverso la vita comune, la preghiera, la partecipazione ai servizi e la cura dei luoghi.

È posta sotto la vigilanza pastorale del vescovo di Troyes, che affida la conduzione a un prete o a un vescovo emerito, il quale si avvale della collaborazione di laici, diaconi o preti e di un “consiglio della casa” di più membri, di cui fa parte un prete della diocesi di Troyes, delegato del vescovo, e di uno o una psichiatra.

La Piccola Betania è un’opera dell’Associazione Lataste, la cui sede è nel convento delle domenicane di Betania a Montferrand-le -Chateau. Gode all’interno dell’Associazione di una certa autonomia, soprattutto finanziaria, grazie a una convenzione sottoscritta tra il vescovo di Troyes, il presidente dell’Associazione Lataste e il superiore del monastero Nostra Signora della Santa Speranza.

La comunità dei monaci olivetani del monastero di Mesnil-Saint-Loup, vicino alla Piccola Betania, è coinvolta nel progetto, sia dal punto di vista morale sia spirituale e materiale, fin dalla sua nascita. Essa ha, infatti, acquistato, nel luglio 2019, una proprietà per l’avvio dell’opera e l’ha messa a disposizione dell’Associazione Lataste per aprire la Piccola Betania.

La casa può prendere in considerazione la domanda di accoglienza di ogni prete o religioso presentata dal proprio vescovo o dal suo superiore religioso, motivando il bisogno di “rigenerarsi”.

La domanda viene esaminata dal responsabile, il quale, se lo ritiene necessario, chiede il parere dei suoi collaboratori e dei membri del “consiglio della casa”. In caso di risposta positiva, viene stipulata una convenzione, da una parte, con il vescovo o superiore e, dall’altra parte, con il prete o religioso che ha chiesto di essere accolto.

Il prete o religioso viene accolto per un mese, terminato il quale, se si ritiene di procedere a un prolungamento, una valutazione sarà fatta dal responsabile con la persona interessata e con il suo vescovo o superiore, il quale dovrà esprimersi.

La discrezione
Chi viene accolto è invitato a una certa discrezione riguardo ad eventuali realtà dolorose o negative della sua vita o della vita degli altri membri della Piccola Betania, perché «per darsi a noi, Dio non guarda ciò che eravamo, gli interessa ciò che siamo» (beato Lataste).

Precisa mons. Daucourt: «Quando noi ci rivolgiamo a Lui, egli ci accoglie nella sua misericordia, ma non per lasciarci tali e quali siamo. Ci aiuta a dimenticare il passato e a protenderci in avanti, percorrendo i cammini della santità».

Il percorso di conversione va vissuto nel quotidiano, sia da parte di chi accoglie sia da chi è accolto. La quotidianità è il luogo di una comunione profonda, nella povertà e nella verità, e di un’autentica accoglienza reciproca, come si manifesta nella lavanda dei piedi, che viene praticata l’ultimo sabato del mese, rito di intensa commozione.

Ogni prete o religioso è accolto per rigenerarsi. È il solo motivo dell’accoglienza.

L’accompagnamento di un padre spirituale e quello di uno psicologo o psichiatra sono richiesti per ogni ospite della casa fin dall’inizio del secondo mese del suo soggiorno. Questi due accompagnamenti possono essere scelti dal prete o dal religioso.

Situazioni particolari
Nella domanda di accoglienza, il vescovo o il superiore religioso notificherà al responsabile della Piccola Betania, che informerà il vescovo di Troyes, tre informazioni molto importanti:

il motivo della necessità di una presa di distanza dal ministero finora svolto;
l’autorizzazione data o no di concelebrare l’eucaristia nella cappellina della casa;
le possibilità di uscite nel villaggio e all’esterno.
Riguardo ai preti o ai religiosi, spetta al vescovo o al superiore religioso indicare al responsabile della Piccola Betania di quale dipendenza si tratta e quali disposizioni particolari sono da prendere per aiutare il prete o religioso.

Abusi su minori o persone vulnerabili
Per coloro che si sono resi colpevoli di abusi su minori o su persone vulnerabili, sono stabilite queste norme:

Il prete o religioso non può uscire dalla Piccola Betania e dal villaggio.
Questa disposizione si applica anche se il prete o il religioso è stato oggetto di una sentenza di un tribunale ecclesiastico o se si trova nell’attesa di un pronunciamento canonico, anche se non vi è stato seguito a una denuncia eventualmente depositata contro di lui da parte civile.
Il vescovo o il superiore preciserà se il prete o religioso può o no concelebrare l’eucaristia nella cappella della Piccola Betania, sapendo che è privata e che i fedeli non vi sono ammessi se non in occasione di un’ora di adorazione eucaristica, ogni venerdì dalle 16.45 alle 17.45.
Nel caso di un prete, che ha lasciato il ministero o non ha più l’autorizzazione a esercitarlo, la casa comunica: se questa decisione è intervenuta a seguito di un abuso su minori o su persone vulnerabili, vale quanto detto sopra.

Tenuto conto della diversità delle situazioni, si cercherà inizialmente di conoscere le motivazioni profonde della domanda di accoglienza. Si dovrà soprattutto assicurarsi che il prete senza lo “statuto clericale” non cerchi di essere accolto per il solo motivo che non sa dove andare, ma che è veramente desideroso di vivere una “rinascita”, conducendo una vita fraterna di preghiera e di servizio con gli altri preti e religiosi e partecipando alle eucaristie secondo la sua situazione canonica.

In ogni caso, come gli altri che sono accolti, sarà ricevuto per un primo soggiorno di un mese rinnovabile secondo la valutazione che verrà fatta.

La vita nella Piccola Betania
L’orario nella Piccola Betania è il seguente: da lunedì a sabato: lodi alle 8.10, seguite dalla messa. Alle 9.30: servizi comunitari. Alle 12.15: pranzo, cui segue un tempo personale fino alle 15.00. Il martedì si tiene una riunione comunitaria. Il venerdì vi è l’adorazione eucaristica alle 16.45. Il giovedì alle 17.00 si riflette sul carisma del p. Lataste. Alle 18.00 si celebrano i vespri nel monastero degli olivetani. Alle 19.00 la cena. Non molto dissimile l’orario la domenica.

Finora una ventina tra preti e religiosi hanno trovato accoglienza nella Piccola Betania e le domande sono in forte aumento.

Una seconda Piccola Betania (Il roveto ardente) viene aperta a Piac, villaggio rurale a una decina di chilometri da Moissac, nel dipartimento della Garonna, diocesi di Montauban, proprietà delle Suore della Misericordia, la congregazione fondata da padre Lataste.

Il vescovo Gérard Daucourt, commentando l’edizione francese di Preti spezzati (EDB 2021), osserva: «È il grande mistero della comunione! È in esso che i “Preti spezzati” (Pretres en morceaux) e i preti contenti e perseveranti, i preti feriti e i preti che hanno ferito ma si sono consegnati alla giustizia e alla grazia della conversione, possono accogliere la misericordia per sé e offrirla agli altri. Per coloro che vivono questo mistero, la Chiesa, meno numerosa e più fragile, non sarà mai con la schiena al muro, difendendosi e proteggendosi. Sarà sempre la Chiesa al largo, entusiasta per le missioni più difficili, consolata e sostenuta dallo Spirito Santo».
settimananews

Preti, accompagnatori accompagnati

Fonte: Settimana News
La terza monografia della rivista Presbyteri è dedicata all’accompagnamento spirituale. Non solo con l’intento di ribadire l’importanza dell’accompagnamento spirituale o incoraggiare il presbitero a formarsi per questo prezioso servizio. Il numero intende «guardare al prete come destinatario dell’accompagnamento spirituale, cercando di cogliere le motivazioni per cui vale la pena intraprendere e rimanere fedeli ad esso e le molteplici resistenze che ne sono di ostacolo. Un accompagnamento spirituale efficace, capace di attenzione e di lettura delle varie fasi della crescita umana e spirituale, è il luogo privilegiato del discernimento per comprendere dove e come lo Spirito Santo conduce la vita e accompagnare il percorso (non scontato) della fede del presbitero». Pubblichiamo l’editoriale firmato da don Nico Dal Molin.

accompagnamento

«In quel tempo Gesù chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due» (Mc 6,7). Il testo della chiamata di Marco dice con chiarezza che i discepoli sono inviati in missione «a due a due». La stessa espressione è presente anche in Luca (10,1), pur in un contesto diverso come è la missione dei «settantadue discepoli».[1]

È vero che la sobrietà del testo non ci racconta come i due discepoli hanno vissuto la relazione tra loro. Eppure è una provocazione suggestiva per ricordarci che il ministero ordinato non è un’avventura solitaria e isolata, ma si colloca sempre e comunque nella dinamica della relazione, della compagnia.

Forse il testo di Marco suppone anche il fatto che in due ci si possa proteggere meglio dai pericoli. Già Qoelet suggeriva che è «meglio essere in due che uno solo» (Qo 4,9). L’essere in due dona robustezza e credibilità alla testimonianza che, per essere valida, si doveva fondare su almeno due testimoni (cf. Dt 19,15). Soprattutto, il non essere soli è essenziale per poter vivere la relazione, la comunione e la carità.

La forza di un amico e di una Parola
La missione del presbitero – oggi questo è ancora più evidente – non consiste anzitutto in attività, solo in un «fare» per gli altri, ma occorre spostare sempre più il baricentro del servizio pastorale verso una prospettiva relazionale.

La fraternità degli inviati è la prima testimonianza che certifica la bontà dell’andare e dell’annunciare il vangelo di Gesù. Il primo annuncio che i discepoli portano con sé è il gesto della loro comunione, è la vittoria sulla tentazione della solitudine.

La scelta che Gesù propone ai suoi ha certamente una forte valenza motivazionale. In realtà essa non sembra conveniente, perché muovendosi individualmente avrebbero certamente raggiunto più destinazioni. Non sembra neppure tanto efficace; un gruppo più consistente avrebbe potuto esercitare un impatto più diretto e provocante sull’uditorio.

Il «due» è il numero della relazione, sin dalle origini della creazione. La dualità significa differenza e alterità, ma anche bisogno, reciprocità e condivisione. Due è il numero che supera l’egoismo e l’autoreferenzialità, ma non si perde nella massa impersonale o nelle dinamiche di gruppo. Ci si guarda negli occhi in due, non in tre o in dodici, né da soli.[2]

E i discepoli partono solo con la forza di un amico e di una Parola.

Essere in compagnia è qualcosa di più del non rimanere soli, perché lo specifico è la condivisione. È un’esperienza profondamente ecclesiale: «Molte sono le membra, ma uno solo è il corpo. Non può l’occhio dire alla mano: “Non ho bisogno di te”; né la testa ai piedi: “Non ho bisogno di voi”» (1Cor 12,20-21).

Nella Chiesa, ma vale per ogni ambito della vita umana, siamo reciprocamente inviati gli uni agli altri per aiutarci. I compagni di strada che il Signore ci mette accanto, sono figure essenziali per ognuno di noi. Con loro si può condividere il pane della solitudine e dell’amicizia, del dubbio e della fiducia, della stanchezza e della serenità. Nel contesto di un cammino sinodale in cui sono impegnate le nostre Chiese, sarebbe importante tornare a chiederci: «Cosa ricevo dagli altri che mi aiuta a capire e a scegliere le cose buone della vita?».

La dimensione del confronto e della relazionalità è essenziale nella missione del presbitero perché favorisce la verifica, l’incoraggiamento, la correzione fraterna, e mette una barriera all’ebbrezza narcisistica dell’io che non imputa mai a se stesso errori o peccati. Forse, proprio per questo negli Atti degli apostoli Luca è così insistente nel narrare le missioni di Paolo e Barnaba, di Paolo e Sila, di Barnaba e Marco…

A due a due, non da soli, un amico almeno su cui appoggiare il cuore quando il cuore manca; a due a due, per sorreggersi a vicenda; a due a due, come tenda leggera per la presenza di Gesù, perché dove due o tre sono uniti nel mio nome là ci sono io.[3]

Accompagnatori accompagnati
È il titolo di un saggio del monaco Guidalberto Bormolini. Risvegliare questa consapevolezza richiede di creare opportunità ed esperienze, luoghi e persone che facilitino il confronto e siano disponibili all’accompagnamento. Bormolini, pur con un focus specifico sulla relazione di accompagnamento nell’ultimo tratto della vita, suggerisce alcuni input benefici per ogni cammino di accompagnamento.

L’accompagnamento non ha come fine un risultato pratico, ma la «bellezza della cura in sé, che ogni essere vivente merita». È essenziale per l’accompagnatore curare la propria interiorità, per «avere la necessaria libertà interiore e per stabilire una indispensabile comunione profonda».

Questa dimensione è ben precisata dalla moderna psicologia relazionale; è definita connectedness (connessione), per cui una reale esperienza di autenticità è possibile all’interno di rapporti significativi che promuovano l’integrazione tra autonomia e relazionalità.[4]

Il percorso dell’accompagnamento inizia dal trasmettere a chi è accompagnato un principio fondamentale: «mi interesso di te perché sei importante». Per questo non ci può essere una «netta distinzione tra accompagnatore e accompagnato»; si tratta piuttosto di una relazione multipla in cui il beneficio è per entrambi, in quanto «aiutare inserisce in una rete di bene universale, che coinvolge sia chi dona sia chi riceve il dono della compagnia».[5]

Accompagnamento sapiente
«La Sapienza è uno spirito che ama l’uomo» (Sap 1,6). È di questa leggerezza sapienziale che c’è necessità per ogni cammino umano e spirituale, attento a tutte le dimensioni della persona: l’alterità, intesa come immersione in un tessuto di relazioni; la temporalità, per collocare ogni persona nel contesto della propria storia personale, fatta di memoria, di consapevolezza e visione del futuro; la progressività, che vede ogni persona umana non destinata ad un passivo e rassegnato immobilismo, ma la proietta in una scia di «paziente dinamicità».

Nel testo di Siracide 38,31-39,11 il sapiente è descritto come l’architetto che progetta e pianifica il lavoro per edificare una città. Nel secondo libro di Samuele (14,17-20) il sapiente è identificato con «l’angelo di Dio» che orienta e guida le scelte, come l’arcangelo Raffaele che, nelle vesti dell’amico Azaria, guida in maniera accorta e saggia il pericoloso cammino di Tobia.

Il profeta Ezechiele (27,8), con una metafora suggestiva, descrive il sapiente come un nocchiero capace di orientare la barca, guardando la bussola nel cielo buio della tempesta o scrutando le stelle del cielo nelle notti limpide e chiare.

Per contrasto, il profeta Isaia (3,3) dice ciò che il sapiente non dovrebbe né essere né fare. Contestualizzando la situazione di profonda anarchia in cui vive Gerusalemme, il profeta paragona il falso sapiente ad un mago che dai volteggi della sua bacchetta magica estrae solo un illusionismo fatuo e vuoto, che pervade parole e atteggiamenti.

«Per questo pregai e mi fu elargita la prudenza, implorai e venne in me lo spirito di sapienza (…). L’ho amata più della salute e della bellezza, ho preferito avere lei piuttosto che la luce, perché lo splendore che viene da lei non tramonta» (Sap 7,7-10).

Un maestro sapienziale fa crescere la capacità di guardare in alto, andando oltre lo sguardo ripiegato su sé stessi. Victor Frankl, psicologo viennese, definisce questa dimensione la riscoperta di una «psicologia delle altezze», che non si contrappone ma integra il contributo prezioso della psicologia del profondo. Un’applicazione al cammino spirituale può divenire molto generativa e feconda.

Una lettura sapienziale permette di dare continuità di ricerca a chi ha perso il senso storico delle proprie radici motivazionali e soffre di amnesia, donando speranza a chi non sa più trovare il senso «teologico e teleologico» della propria scelta vocazionale.

La via sapienziale come conversione del cuore
«Per imparare a vivere ci vuole tutta una vita; non stupirti dunque se nessuno ha mai imparato». È un’espressione che si rifà ad un aforisma di Lucio Anneo Seneca, il filosofo stoico dell’età imperiale dell’antica Roma.

Da una parte, è un invito ad abbassare l’asticella delle alte aspettative che ciascuno di noi può nutrire nei confronti di se stesso e che possono essere trasferite nei rapporti interpersonali fino a renderli esigenti e possessivi. Dall’altra, può aiutare a ridimensionare le proprie ingenue fantasie infantili di onnipotenza.

Un cammino di accompagnamento personale può lenire e cicatrizzare quella ferita narcisistica, spesso non rimarginata, che sanguina dentro di noi e che possiamo toccare con mano, talvolta dolorosamente, di fronte al senso di inadeguatezza e precarietà che mai come in questi mesi ha avvolto il ministero presbiterale. Un cammino di accompagnamento sapienziale può divenire un’esperienza di mindfulness (consapevolezza) umana e spirituale, che rende più disposti e capaci di consegnarsi all’azione dello Spirito Santo.

Diviene opportunità per imparare ad «espropriarsi» del proprio ruolo, per vivere con più densità quel valore che ha orientato la scelta di vita: seguire il Signore Gesù. «Noi però abbiamo questo tesoro in vasi di creta, affinché appaia che questa straordinaria potenza appartiene a Dio, e non viene da noi» (2Cor 4,7). Invece di lamentarsi delle tribolazioni subite, che lo hanno messo continuamente a dura prova, Paolo afferma che la propria vulnerabilità personale, con cui è stato continuamente costretto a confrontarsi, si è rivelata essenziale per la sua missione.

La fragilità non pregiudica affatto l’annuncio del Vangelo, ma ne è addirittura la garanzia. I fallimenti nel ministero non sono il fallimento del ministero, dove il fallimento stesso può divenire momento di crescita e contributo prezioso alla salvezza propria e altrui. È un cammino di accettazione realistica di situazioni e sentimenti in cui prevalgono stanchezza, delusione, sfiducia senza che divengano un facile giustificatorio per eludere le proprie responsabilità.

È il prezzo da pagare alla propria umanità, che può trasformarsi in opportunità concreta per rievangelizzare il proprio vissuto alla luce della Parola risanatrice di Gesù, profondo conoscitore e guaritore del cuore umano.

Dio mi liberi dalla sapienza che non piange, dalla filosofia che non ride, dall’orgoglio che non s’inchina davanti ad un bambino. Dio mi guardi dall’uomo che si proclama fiaccola che illumina il cammino dell’umanità. Ben venga l’uomo che cerca il suo cammino alla luce degli altri (Gibran Kahlil).[6]

[1] Cf. «Fraternità e amicizia nella vita del prete», in Presbyteri 2020/10 (Editoriale).

[2] Annalisa Guida, «La missione dei dodici», in I Vangeli, Àncora, Milano 2015.

[3] Ermes Ronchi, «Dove noi vediamo deserti, Dio vede chance», in Avvenire, 4 luglio 2019.

[4] Cf. Susan Harter, La costruzione del Sé. Fondamenti di sviluppo e socioculturali, (Prefazione di William M. Bukowski), Guilford Press, New York City 2012 (2° ed.).

[5] Guidalberto Bormolini, Accompagnatori accompagnati. Condurre alla vita attraverso la morte, EMP, Padova 2020.

[6] Gibran Kahlil Gibran, La voce del maestro (ediz. integrale a cura di Tommaso Pisanti), Newton Compton, Roma 2020.

Papa Francesco ha criticato i preti tradizionalisti con “i merletti della nonna”

Papa Francesco ha criticato i preti tradizionalisti con “i merletti della nonna”

(askanews) – Papa Francesco ha criticato i sacerdoti tradizionalisti che indossano ancora i “merletti della nonna”. L’occasione è stata l’udienza concessa da Bergoglio ai vescovi e ai sacerdoti siciliani. Pur non avendo assistito ad una messa in Sicilia, ha detto, ha però visto delle foto di alcune celebrazioni liturgiche: “Io parlo chiaro: ancora i merletti, i ‘bonnetti’, ma dove stiamo? 60 anni dopo il Concilio…”, da detto in riferimento alla riforma liturgica del Concilio vaticano II. Per Francesco è necessario “un po di aggiornamento anche nell’arte liturgica, nella moda liturgica. Sì, delle volte – ha proseguito il papa con una vena di humour – portare qualche merletto della nonna, ma delle volte… è per fare un omaggio alla nonna, no? E’ bello fare omaggio alla nonna, ma è meglio celebrare la madre, Santa Madre Chiesa, e come vuole essere celebrata”, secondo “la riforma liturgica che il Concilio ha portato avanti”.

 

Rifare i preti?

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Il tema non è nuovo, in realtà è dibattuto da anni. Ma sempre sottovoce, in un misto di pudore e prudenza. Per questo l’intervento dell’arcivescovo di Modena-Nonantola e vescovo di Carpi, Erio Castellucci, ha l’indubbio merito di portare a galla con trasparenza e schiettezza una questione che presenta ormai i caratteri della necessità e dell’urgenza. Parliamo del tema dei seminari e della formazione al ministero presbiteriale. Il merito è innanzitutto del libro di don Enrico Brancozzi Rifare i preti. Come ripensare i seminari (Edizioni Dehoniane, Bologna, 2021) che, affrontando il problema nel contesto socio-culturale della “fine della cristianità”, descrive compiutamente i limiti dell’impostazione corrente alla formazione presbiteriale, e lancia correttivi e proposte che investono la stessa struttura attuale del seminario. Ma è indubbio che sia proprio l’autorevolezza del saggio introduttivo a firma del vice presidente della Cei, scritto prima dell’elezione a tale incarico, ad aver definitivamente sdoganato l’esigenza di un dibattito aperto e trasparente che i tempi impongono.

Monsignor Castellucci, cos’è che non va più nei seminari diocesani?

Invece che “non va più” direi “che non va abbastanza”. Intendo dire che il modello di formazione corrente dovrebbe integrare i cambiamenti radicali intervenuti tanto sul piano ecclesiale che sociale nella figura del prete. Oggi spesso i giovani candidati devono fare i conti con parecchi timori: la paura di vedersi spesi in soffocanti incombenze organizzative piuttosto che nell’annuncio del Vangelo, il rischio di sentirsi impantanati in una pastorale tradizionale, senza novità e senza entusiasmo, il rischio di un iperattivismo che condiziona il tempo della preghiera e della riflessione, i dubbi sulla qualità del proprio celibato che è oggi assai meno protetto che in passato. E, soprattutto, il timore di non essere in grado di mantenere negli anni una coerenza di vita, nel raffronto inevitabile con i preti che coerenti non sono, o che lasciano il ministero: benché pochi, la loro situazione fa parecchio rumore. Mi sembra che l’attuale strutturazione del Seminario non sia più sufficiente ad attrezzare i futuri presbiteri. Mi rendo ben conto che è un argomento spinoso e che rischia di dividere chi difende la forma attuale e chi ne vorrebbe un’altra. Ma qui non c’entra nulla l’essere progressisti o conservatori, qui conta saper dare una formazione che sia congrua alla vita che il prete dovrà svolgere. Penso che i padri conciliari tridentini, che ebbero grande coraggio riformatore e l’intuizione di ristrutturare in profondità la pastorale, istituendo tra l’altro i Seminari, sicuramente e con lo stesso spirito, promuoverebbero oggi una analoga profonda riforma adeguata alla realtà odierna.

Ma dove si denota maggiormente il distacco tra formazione e realtà attuale del ministero?

Nella prefazione al libro di don Brancozzi cito un episodio. Durante una riunione sulle vocazioni nella mia diocesi di provenienza, un frate francescano ci disse pressappoco così: noi religiosi siamo più fortunati di voi diocesani, perché negli anni della formazione veniamo abituati a vivere uno stile di vita, uno scandire i tempi, una prassi liturgica, che sarà poi la medesima della nostra vita conventuale; mentre i diocesani seguono per sei anni un tipo di vita molto scandito e custodito, ma quando escono sono poi chiamati a condurre una vita molto diversa e devono imparare a gestire da soli il tempo, custodendo gli spazi della preghiera e dello studio, senza farsi travolgere da un ministero sempre più complesso. Si potrebbe ipotizzare, come cerco di fare nella prefazione, qualche “esperimento” guidato, in Italia, per immaginare un percorso di preparazione al ministero presbiterale in due fasi: una più “collegiale”, come è il Seminario attuale, e una più “parrocchiale”, divise a piccoli gruppi (di almeno due), dove i seminaristi potrebbero abitare in un centro parrocchiale e imparare a ritmare lo studio, la pastorale, la preghiera.

Insomma, pare di capire, che il discorso sulla crisi dei processi formativi non possa prescindere dal più generale problema della crisi della figura del prete oggi. Ma intanto mi lasci dire, come costantemente ci rammenta Papa Francesco, che occorre sgombrare il campo da quest’accezione negativa del termine crisi.

La crisi è sempre culla di cambiamenti. Purché la si sappia accogliere, non la si rimuova, ci si sappia vivere dentro, e volgere in positivo. Dobbiamo guardare alla realtà dei fatti. I due indicatori principali, cioè il numero di vocazioni e il numero di abbandoni dal ministero, ci dicono che la crisi c’è ed è profonda. È cambiata l’eco, gli abbandoni in particolare fanno meno scalpore che negli anni Settanta, ma il fenomeno rimane. Dopo quegli anni turbolenti si diffuse l’errata convinzione che vi fosse una “specificità italiana” in controtendenza rispetto alla crisi globale, ma i fatti successivi la stanno smentendo; oggi non possiamo più vivere di rendita e ci rendiamo conto che occorrono scelte coraggiose. È cambiata, certo, la cornice di riferimento: una volta gli abbandoni avevano una dimensione mass-mediatica, e il sapore di una contestazione, contro la rigidità dell’istituzione, contro la legge del celibato, contro i vincoli morali, e per una Chiesa povera. Oggi la dimensione è piuttosto quella della rinuncia individuale, del ripiegamento, della crisi d’identità dell’insostenibilità dello stile di vita richiesto. Penso che dovremmo maggiormente indagare sul ruolo socio-ecclesiale del prete: è cambiata la percezione del suo ruolo da parte del popolo di Dio e della società. È venuto meno quel profilo di sacralità che si attribuiva e gli si attribuiva. La realtà ha corso più veloce della teologia e per quanto già il Vaticano II — rilanciando il sacerdozio battesimale — avesse già lasciato da parte le categorie del presbitero mediator Dei et hominum o del sacerdos alter Christus, non sono mancate nel periodo successivo al concilio, e non mancano tuttora, recuperi di questa visione sacrale. D’altronde questa crisi d’identità va letta all’interno di quel più ampio fenomeno da metabolizzare che Papa Francesco, senza mezzi termini, ha definito come “la fine della cristianità”.

Nella scarsa aderenza alla realtà rientra anche uno stile di vita, diciamo così, più “comodo” o deresponsabilizzante?

Non mi sento di generalizzare. Vi sono tanti preti che faticano molto, fisicamente e psicologicamente, e vivono un ministero tutt’altro che “comodo”. La missione del presbitero richiede un’empatia con la vita delle persone, sempre più complicata; un’empatia che non può essere solo di facciata. Il prete partecipa anche emotivamente alle vicende quotidiane della gente a cui è inviato. Ovviamente vi possono essere anche delle “rendite di posizione”, per chi riesce a crearsele; oltre che ingiuste, non sono più attuali col mondo d’oggi. Non so come si possa conciliare la passione dell’annuncio del Vangelo e della prossimità alle persone con la “comodità”, ma ogni tanto qualcuno ci riesce. In questi casi, ci si chiede sempre come sia potuto accadere che negli anni del Seminario i formatori non abbiano intercettato questa tendenza alla “fuga” e al “riparo”. E prima ancora del processo formativo c’è l’aspetto non meno importante della selezione all’ingresso. Sì, su questo piano già parecchi interventi sono stati fatti. Oggi nei Seminari il discernimento vocazionale è svolto in parallelo ad una disamina della personalità psicologica dei candidati. I rifiuti all’ingresso non sono più rari e si cerca di non farsi prendere dall’ansia del numero. Dobbiamo del resto rapportare la diminuzione dei seminaristi ai tempi mutati. Le cito solo alcuni dati: la rarefazione di famiglie con molti figli e la riduzione drastica delle nascite hanno sicuramente contribuito a ridurre il numero delle candidature; gli ingressi sono sempre più spesso di persone “mature”, spesso dopo magari una prima laurea civile; anche il background culturale è molto cambiato: non pochi provengono da studi tecnici o scientifici senza una solida base filosofica e a volte anche catechistica; alcuni hanno già vissute esperienze anche difficili. Tutto ciò rende il discernimento più complesso di un tempo, e sicuramente non lo esaurisce nelle sole fasi iniziali del percorso.

A fronte di questa situazione lei ha formulato una proposta, alla quale ha già accennato.

Sì, ma ci tengo a ribadire che è “una” proposta, senza alcuna pretesa. Credo che sia opportuno, in questo campo, procedere in via sperimentale e progressiva. E anche tenendo in buon conto alcune esperienze già sperimentate in altri Paesi, penso alla diocesi di Parigi per esempio. La proposta è per il primo triennio perfettamente aderente alle attuali indicazioni, sia vaticane sia italiane: coloro che si dichiarano disponibili al ministero sacerdotale dovrebbero vivere innanzitutto un anno propedeutico, nel corso del quale verificare la congruità della chiamata (specie sotto il profilo psicologico), colmare le lacune culturali (specie per le carenze in campo umanistico) e avviarsi alla vita spirituale e comunitaria. A seguire, poi, un biennio di vita in seminario, sul modello oggi in vigore, (magari però in strutture a carattere regionale o interdiocesano, in modo da marcare il distacco dei seminaristi dagli ambienti di provenienza) per concentrarsi sugli studi filosofici e approcciare quelli teologici, e per impostare una regola di vita spirituale. Il successivo triennio — qui la proposta diverge dalla prassi attuale — i seminaristi potrebbero essere inseriti in piccole comunità dentro le parrocchie, nelle quali possano imparare ad armonizzare azione pastorale e studio, momenti di fraternità e esperienze di quotidiana relazione col mondo dei laici. Infine l’ultimo anno, quello del diaconato, potrebbe essere vissuto abitando nella famiglia di un diacono permanente, per recuperare quella dimensione familiare (propria del protocristianesimo) che immergerebbe direttamente il futuro prete nelle dinamiche, anche gravose, della quotidianità familiare, e che gli risulteranno poi utili nella successiva vita ministeriale a mantenere un sicuro ancoraggio con la realtà, e a guadagnare quella necessaria dose di empatia col popolo di Dio che una pastorale efficace richiede. Ovviamente anche in queste ultime due fasi del percorso sarebbero da includere momenti collettivi di formazione (esercizi spirituali, occasioni liturgiche, ritiri, vacanze, e altro). Ripeto, non c’è alcuna pretesa in questa proposta. So per certo — dato che ne avevo scritto già nove anni fa — che vi sono anche molte plausibili obiezioni, ma a me sembra che un sistema così consenta una preparazione dei candidati più omogenea a quella che poi vivranno nella successiva vita ministeriale. E diventerebbe più vera la formula che il rettore del Seminario pronuncia, nel rito di ordinazione, alla severa domanda del vescovo sul candidato: «Sei certo che ne è degno?». La formula infatti è: «Dalle informazioni assunte presso il popolo cristiano e da coloro che ne hanno curata la formazione, posso attestare che ne è degno». Ma mi rendo ben conto, che si tratta in fondo dell’estrapolazione di un singolo tema — quello della formazione preparatoria — da problematiche più ampie, e che richiedono ripensamenti più complessivi: penso al ruolo del prete e in generale alla stessa pratica della pastorale come oggi è intesa. L’essere divenuti minoritari nel mondo non deve significare afflizione e autocommiserazione per “i bei tempi andati”, ma stimolo per una ritrovata creatività. Mi lasci esprimere un auspicio finale: che il cammino sinodale delle Chiese in Italia, appena iniziato, possa essere occasione di rinnovamento spirituale di tutta la nostra vita pastorale.

di ROBERTO CETERA – Osservatore Romano

Vita e celibato Un necessario ripensamento teologico

Stati «generali della natalità». L’antica espressione di matrice feudale, diventata in seguito emblema dell’innesco di un processo rivoluzionario, è stata scelta dal Forum delle famiglie per organizzare un incontro dedicato all’«inverno demografico» italiano (Roma, 14 maggio 2021). L’inaugurazione è stata così solenne da contemplare un discorso del primate d’Italia. Le parole di papa Francesco sono state contraddistinte da una nota di forte attualità largamente ispirata dalla «ripartenza» post pandemica.

I tre pensieri guida proposti dal papa sono stati contraddistinti da altrettante espressioni chiave: «dono» (concepimento e nascita sono, per definizione, realtà che ci precedono), «sostenibilità generazionale» (non c’è ripartenza senza ripresa demografica), «solidarietà strutturale» (occorre provvedere a un sostegno organico alle famiglie). È una spia del clima «invernale» il fatto che tra questi pensieri manchi il termine «responsabilità». In tempi non lontani parlare di maternità e paternità responsabili rientrava nel lessico comune. Ogni dono presuppone, va da sé, un donatore, allo stesso modo in cui non è concesso parlare di creature senza riferirsi al Creatore («Laudato si’ mi’ Signore, cum tucte le tue creature»).

Fra i tre riferimenti è evidentemente quello legato al dono a trovare più rispondenze nell’ambito delle tradizioni spirituali. A prescindere dalle questioni demografiche, in questo caso irrilevanti, sarebbe opportuno riesaminare il tema del perché il clero secolare di rito latino è compartecipe di quel dono solo nel ricevere e non già nel dare.

Precetti e «consigli evangelici»

Secondo una plausibile percezione media, l’ebraismo è più prossimo al cattolicesimo di quanto non lo sia al protestantesimo. I motivi di questa vicinanza si trovano nel valore attribuito ai precetti. La radicale dialettica riformata sottesa alla polarità fede-opere appare più lontana dalla sensibilità ebraica della mediazione cattolica in cui, senza negare il ruolo della grazia, alle opere viene assegnato un compito decisivo anche nell’orizzonte della salvezza.

Va da sé che molto ci sarebbe da precisare rispetto a questa precomprensione abbastanza stereotipata. Tuttavia essa ha una sua parziale ragion d’essere. Eppure c’è anche dell’altro. È il caso, per esempio, dei cosiddetti «consigli evangelici», scelte volontarie che segnano una differenza tra una condizione particolare e quella dei comuni fedeli. Qui tra ebraismo e protestantesimo le affinità sono maggiori di quelle che si registrano rispetto al cattolicesimo.

La distanza fra la tradizione ebraica e quella cattolica è assai netta in relazione al comandamento di sposarsi e di generare che nell’ebraismo non conosce eccezioni. A tale proposito, nelle corde di Lutero vi sono espressioni che l’ebraismo non avrebbe alcuna difficoltà a fare proprie: «Il matrimonio è poi un ordine e una creazione di Dio (…) Satana infatti odia questo genere di vita. Suvvia in nome di Dio arrischiati [si sta rivolgendo al suo discepolo Dietrich Veit; nda] sulla sua benedizione e sulla sua creazione».1

Va da sé che queste parole sono condivise anche dal cattolicesimo che rende il matrimonio un sacramento. Tuttavia esse non possono essere dotate di un’estensione universale. Nella tradizione cattolica si è infatti obbligati ad affermare che il matrimonio è buono, ma non ogni forma di vita buona è riconducibile a esso. In luogo di un radicale aut aut, occorre rivolgersi a un più mediato et et. Secondo Giovanni Crisostomo: «Chi denigra il matrimonio, sminuisce anche la gloria della verginità; chi lo loda, aumenta l’ammirazione che è dovuta alla verginità», quest’ultima infatti attesta una condizione più alta non rispetto a quanto è brutto, ma rispetto a quanto è bello.2

Il Catechismo della Chiesa cattolica (n. 1619) dichiara che: «La verginità per il regno dei cieli è uno sviluppo della grazia battesimale, un segno possente della preminenza del legame con Cristo, dell’attesa ardente del suo ritorno, un segno che ricorda pure come il matrimonio sia una realtà del mondo presente che passa (cf. Mc 12,25; 1Cor 7,31)». La scelta però può essere vissuta anche in modo molto spoglio, ma non per questo meno autentico. Ivan Illich, a proposito di se stesso, scrisse che il voto di castità è scelta «di vivere adesso la povertà assoluta che ogni cristiano spera di vivere nell’ora della morte».3

Fino a qui ci troviamo in un ambito condiviso anche dall’ortodossia. Tocchiamo infatti le basi peculiari della vocazione monastica. La presenza di uomini e donne che scelgono di testimoniare il Regno nell’attesa della venuta del Signore, alla fine dei tempi, fa parte di una grande e condivisa tradizione cristiana.

Quanto è peculiare al cattolicesimo, o meglio al suo rito latino, è l’imposizione del celibato come condizione indispensabile per l’esercizio del sacerdozio ministeriale. Anni addietro, in Conversazioni notturne a Gerusalemme, fu posta a Carlo Maria Martini una domanda in termini molto franchi: «Non avere rapporti sessuali è innaturale. Come mai i preti non devono sposarsi?».

Il cardinale rispose: «I preti possono sposarsi in tutte le Chiese a eccezione di quella cattolica romana. L’idea che i sacerdoti non debbano sposarsi è nata dal monachesimo. Donne e uomini vivono insieme in comunità, oppure da eremiti, per seguire Gesù nel suo celibato. Vogliono essere completamente liberi per servire Dio (…) rischiano la vita per amor suo. Per il celibato è fondamentale che una comunità offra al sacerdote uno spazio in cui sentirsi amato e protetto. Un prete non deve sentirsi solo…».4

Celibato per tutti?

La lunga esperienza pastorale rese evidente a Martini quanto sia grande il problema del prete che vive in solitudine nel cuore della città. Tuttavia il centro della questione non sta nel dramma reale del conforto nei riguardi di chi ha fatto una scelta che dovrebbe renderlo disponibile verso tutti. Né tutto è risolvibile nella grande testimonianza di colui che decide volontariamente di restare solo per essere più vicino a chi, contro il suo volere, è stato gettato dalla vita nella solitudine. Questa vocazione radicale rende prossimi alla gente e costringe chi la fa propria a comprendere come vanno le cose del mondo anche quando, di persona, si astiene dal rischio di allevare figli in una società difficile.

Occorre chiedersi, e non solo per motivi pastorali, se la scelta del celibato obbligatorio, imposta in Occidente alla fine dell’XI secolo e codificata disciplinarmente solo con il concilio di Trento, non rappresenti una perdita rispetto alla posizione mantenuta dalla grande tradizione ortodossa (e contemplata anche dalle Chiese cattoliche di rito orientale) che rende vincolante il celibato per i monaci e per i vescovi ma non per i presbiteri che vivono nel mondo.

La vitalità del neomonachesimo occidentale (peraltro non al riparo da prove; basta pensare al «caso Bose») ha di nuovo posto al centro dell’attenzione la differenza tra lo status di monaco e quello di presbitero. Tutto ciò potrebbe trasformarsi in occasione per ripensare alle condizioni e agli obblighi propri del presbitero secolare. Ciò avverrebbe in nome della tradizione e non già contro di essa.

La storia della Chiesa mostra che, alle spalle dell’opzione celibataria imposta ai sacerdoti, vi sono pure considerazioni teologiche diverse rispetto a quelle legate alla perfezione monastica. Alcune di esse sono molto antiche.

Per esempio già nel Sinodo di Elvira (attorno al 300), l’accento posto sull’astinenza sessuale di vescovi, presbiteri e diaconi, lungi dall’essere assunto dalla novità del sacerdozio di Cristo, deriva dall’ibrido impasto che lo collega a una spuria ripresa dell’antico sacerdozio levitico.5 Prima di compiere il loro servizio al Tempio di Gerusalemme, i kohanim (sacerdoti) dovevano entrare in uno stato di purità – ovviamente temporaneo – il che comportava per loro l’astensione dai rapporti sessuali. Pensando al nuovo sacerdozio secondo l’ordine di Melchìsedek come eterno (cf. Sal 110,4) si è ritenuto logico concludere che anche l’astensione dal sesso fosse perenne.

È stata, dunque, una visione teologicamente impro-
pria di una Chiesa che si pensava come nuovo Israele ad aver favorito l’associazione tra l’essere presbitero e l’essere celibe.

Prima che la pressione degli avvenimenti e le urgenze pastorali conducano ad affrettati accomodamenti, sarebbe bene ripensare, per tempo, ad alcuni fondamentali snodi teologici.

 

 

1 M. Lutero, Discorsi a tavola, n. 233, Einaudi, Torino 1969, 50.

2 Cf. Catechismo della Chiesa cattolica, n. 1620.

3 Cit. in F. Milana, «Postfazione» a I. Illich, Pervertimento del cristianesimo, Quodlibet, Macerata 2008, 143.

4 C.M. Martini, G. Sporschill, Conversazioni notturne a Gerusalemme, Mondadori, Milano 2012, 32.

5 Cf. H. Denzinger, Enchiridion symbolorum, definitionum et declarationum de rebus fidei et morum, ed. bilingue, a cura di P. Hünermann, EDB, Bologna 1995, n. 119.

il Regno

L’emozione della curiosità nella vita presbiterale

di: Maurizio Mattarelli – Laura Ricci

“Ho visto gente andare, perdersi e tornare… / Pioggia e sole cambiano la faccia alle persone… / Abbaiano e mordono… / Ma il vero Amore può nascondersi, confondersi, ma non può perdersi mai (Sempre per sempre, Francesco De Gregori).

È con questo spirito che, alcuni anni fa, è venuto alla luce il Gruppo Timoteo, dal nome del giovane presbitero “ordinato” da san Paolo e da lui accompagnato e sostenuto nel suo ministero (cf. Timoteo e l’Arte della Manutenzione del Presbiterato, in Il Margine n. 7, 2018).

Sono tempi nei quali “la pioggia e il sole” della pastorale “abbaiano e mordono” ed è alto il rischio dell’esaurimento emotivo e della confusione, derivanti dal pressante carico del ruolo istituzionale che i preti devono sostenere in «questo cambiamento di epoca» (papa Francesco).

È una situazione che amplifica la separazione alienante tra spiritualità e corporeità, non solo praticata ma, a volte, inconsapevolmente teorizzata. Ciò deriva dal fatto che la formazione presbiterale favorisce, tuttora, l’aspetto cognitivo-intellettuale, senza integrarlo sufficientemente con le dimensioni affettive, emotive e neurobiologiche. Occorre allora aver cura di sé, regalarsi un tempo e uno spazio per ascoltarsi e confrontarsi, un luogo che favorisca l’intimità con sé stessi e con i membri del gruppo.

Per essere individui integri, integrati ed integranti, un aspetto fondamentale è la curiosità, intesa come la capacità primaria della mente di stabilire legami e di poter entrare così in relazione con l’Altro.

ministero

Nella nostra conduzione del Gruppo Timoteo, agiamo e promuoviamo un atteggiamento di genuina curiosità: impariamo a guardare l’altro, noi stessi, e soprattutto la relazione come ad una realtà da percepire e da scoprire, e non da pre-definire. Quest’atteggiamento curioso ci consente di evitare due errori: ignorare l’altro, riducendolo a “identico a me”, e ignorare noi stessi, come se fossimo fuori dalla relazione.

La curiosità controbilancia una certa ansia del prete nel fornire alla persona “la risposta giusta” che è più funzionale a tranquillizzare se stesso circa il proprio valore, piuttosto che al bene della persona e delle comunità che incontra.

Con questo isolamento pandemico, abbiamo poi sperimentato come essere da soli sia una delle più grandi sofferenze umane; nonostante ciò, viviamo in ambienti sociali ed ecclesiali di persone che cercano disperatamente di amarsi senza riuscirci.

Siamo molto connessi e, a volte, così poco comunicanti!

Per comunicare abbiamo bisogno di aprire nuovi varchi liturgici di possibilità e di costruire nuovi ponti di prossimità. In diverse parrocchie, gruppi di famiglie hanno ri-creato piccole comunità, ritrovando una fede e dei riti più in sintonia con la dimensione propria personale, trasformando questo momento di distanza e di crisi in opportunità. Nella gente è aumentato il bisogno di una spiritualità che dia significato al mondo attorno a noi, ai nostri rapporti interpersonali e alla nostra esistenza di cittadini e credenti.

Scoprire nuove potenzialità personali e nutrire i talenti comunitari può diventare un nuovo stile di prossimità vitale, creativa, responsabile, protettiva e densa di passione per la vita che ci attende nella società post-coronavirus.

Ascoltare le persone ed essere insieme con loro curiosi e aperti a nuove opportunità, ci permette di fare lo spazio necessario a ciò che arriverà, sostenendo il piacere di condividere il tempo insieme, con quella voglia che genera l’attesa e il desiderio dell’incontro.

C’è pure chi educa, senza nascondere / l’assurdo ch’è nel mondo, aperto ad ogni / sviluppo ma cercando / d’essere franco all’altro come a sé, / sognando gli altri come ora non sono: / ciascuno cresce solo se sognato (Danilo Dolci).

Usiamo l’emozione della curiosità con «l’intelligenza della pioggia e del sole», per comprendere le necessità dell’Altro anche dietro le apparenze e nei luoghi nascosti; usiamo l’intuizione, la vicinanza, l’affetto, il rispetto, la generosità e la prudenza per celebrare l’eucaristia nella vita: «Vi esorto fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spiri­tuale» (Rm 12,1).

Ci concediamo di “sognare ad occhi aperti”, di vedere noi stessi, l’altro e la relazione in un modo nuovo, inedito, mutando i sogni in progetti, promuovendo una maieutica reciproca che permetta la trasformazione d’individualità singole in un gruppo. Siamo così, promotori curiosi di una comunità sociale ed ecclesiale in cui ciascuno abbia riconosciuto il proprio potere, coniugando “il sognare” con “l’agire”.

Nel nostro percorso supervisivo di gruppo, i presbiteri si esercitano a dare spazio all’Altro: così, quando sono in relazione con le persone e le comunità a loro affidate, possono promuovere uno spazio relazionale che permette alle persone di attingere alle proprie risorse vitali e spirituali.

In questi anni, i presbiteri che hanno frequentato il Gruppo Timoteo hanno compreso cosa significhi mettere da parte la facoltà del decidere ciò che avviene a favore della capacità di contemplare quello che sta accadendo e del significato che ciò ha per la persona: quest’atteggiamento consente il silenzio e crea la possibilità di costruire una relazione profonda e autentica.

Se guardiamo alla relazione con curiosità, è perché siamo fiduciosi che può essere vitale e generativa e, perciò, imprevedibile com’è lo Spirito! È dunque fondamentale essere curiosi con gli individui e i gruppi che accompagniamo, imparare come stare con loro, incoraggiare l’immaginazione e favorire la capacità di sognare e sognarsi in un altro modo, in più modalità possibili che sostengano questo cambiamento epocale.

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Parrocchie senza prete. Quali soluzioni?

Si è svolta a Torreglia (PD) dal 24 al 27 giugno la 69ª Settimana di aggiornamento pastorale promossa dal Centro orientamento pastorale (COP). I lavori hanno avuto come oggetto “La parrocchia senza preti. Dalla crisi delle vocazioni alla rinnovata ministerialità laicale”. Tra i relatori: F. Garelli, G. Villata, A. Steccanella, L. Bressan, L. Tonello, L. Voltan e A. Mastantuono.

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I lavori hanno preso avvio con la presentazione della situazione del clero in Italia; è innegabile – ci dicono i dati statistici – che, in tre decenni, il numero dei preti si è ridotto di circa il 16%, con grandi differenze a livello territoriale (situazione assai critica al Nord e più favorevole al Sud), con un’età media di oltre 61 anni, ma anche in questo caso con rilevanti differenze territoriali 1/3 del clero ha più di 70 anni, mentre il clero giovane (con meno di 40 anni) rappresenta il 10% del corpo sacerdotale.

La consapevolezza che il fenomeno ha i caratteri della permanenza e non può essere superato con il ricorso a soluzioni tampone previste dal Codice (can. 517 §2), ha stimolato una riflessione sulla Chiesa in cui il senso di corresponsabilità di tutti e uno stile più sinodale possono contribuire allo slancio missionario, poiché quest’ultimo diviene l’oggetto di tutti i fedeli, non per salvaguardare la sua organizzazione ma per una sempre maggiore fedeltà al mandato evangelico.

Soggetto collettivo

Se nella figura “anteriore” della Chiesa, così come si è costituita nel secondo millennio, la comunità parrocchiale di fatto si è identificata con i servizi resi quasi esclusivamente dal parroco e dai suoi collaboratori, la Lumen gentium (n. 26) invita a pensarci come «soggetto collettivo». La constatazione e l’interrogativo: «Quando assistiamo alle celebrazioni domenicali e ci chiediamo chi è il soggetto: il prete che viene da fuori e continua a tener viva l’eucaristia per persone spesso anziane – cosa assolutamente legittima – oppure una comunità “soggetto collettivo” che accoglie il prete affinché la presieda nel nome dello stesso Cristo?» conduce ad abitare la mancanza di preti spostando l’attenzione dal «che cosa fare» a «chi è coinvolto», in parole più semplici: ad una riflessione sulla Chiesa che superi la tentazione del clericalismo che nasce dal dimenticare che «la Chiesa non è un’élite dei sacerdoti, dei consacrati, dei vescovi, ma che tutti formano il santo popolo fedele di Dio» (papa Francesco).

Il concilio Vaticano II aveva provato a disegnare una Chiesa in cui «… comune è la dignità dei membri in forza della loro rigenerazione in Cristo, comune è la grazia di essere figli, comune la chiamata alla perfezione, una la speranza e l’indivisa carità» (LG 32). Il sogno è stato mille volte ripensato, ammorbidito e ostacolato.

Corresponsabilità e sinodalità

Ci si augura che sia ormai superata (?) la visione di comunità ecclesiali in cui la relazione dei preti con i laici era costruita sui vecchi modelli dell’accentramento e della delega benevola, che rispecchiava una visione «gerarcologica» (Congar) o «piramidale» (papa Francesco), nella quale l’unico soggetto della missione salvifica era la gerarchia, mentre i laici erano esecutori o poco più; come non è più sufficiente parlare di collaborazione dei presbiteri con i laici, quasi che solo sul piano operativo – e sulla spinta della necessità – si dovessero costruire delle convergenze; è, invece, il momento di strutturare una vera e propria prassi di corresponsabilità, che rispecchia l’ecclesiologia del popolo di Dio tutto intero come “soggetto” della missione.

Il ricorso alla «corresponsabilità di tutto il popolo di Dio» sembra essere una delle strade da percorrere per abitare e superare la mancanza del clero, ma con le necessarie specificazioni.

L’idea che rimanda alla corresponsabilità nel Concilio (ricordiamo che il termine “corresponsabilità” non è presente nei testi conciliari) si fonda sull’asserto che in forza del battesimo tutti, ciascuno per la sua parte, siamo responsabili della comunione e della missione della Chiesa. Corresponsabilità ha qui a che fare certamente con la Chiesa. Non già però con la sua organizzazione o il suo funzionamento, ma con la sua radice – la comunione – e il suo senso ultimo – la missione –, cioè l’essere segno e strumento di tale comunione.

Parrocchia senza preti
Laici, non specialisti del sacro

Nella proposizione attuale della corresponsabilità sembra assente, o poco esplicitato, l’orizzonte ampio e fondamentale della comune responsabilità di fronte al mondo, quello dell’evangelizzazione.

È necessario purificarla da una declinazione eccessivamente funzionale alla gestione ecclesiastica allo scopo di riguadagnare la corretta referenza della comune responsabilità ecclesiale. In altre parole, è indispensabile recuperare la corretta prospettiva conciliare, in base alla quale, quando si parla di comune responsabilità ecclesiale, il riferimento non è tanto alla conduzione/gestione ecclesiale, bensì al comune impegno per la testimonianza della fede. Esiste il rischio che la stabilità e la partecipazione alla «cura pastorale», proprie dei ministeri laicali, conducano a qualche forma di clericalizzazione dei laici, trasformandoli in un «clero di riserva» (a disposizione del «clero ufficiale») o in una nuova categoria di specialisti del sacro estranei di fatto alla vita del mondo.

La corresponsabilità non è prima di tutto un aiuto ai pastori, ma espressione della vita cristiana, che trova luogo e forma principalmente nella vita concreta del territorio, della gente, del luogo di lavoro.

È necessario partire da questo riferimento fondamentale, perché esso chiarisce che i laici sono abilitati e riconosciuti nella loro responsabilità ecclesiale anzitutto e propriamente come laici, cioè non in forza di eventuali incarichi intraecclesiali, ma in forza della loro concreta vita cristiana, secondo la vocazione e lo stato di ciascuno.

L’ambito dell’impegno laicale non è peculiarmente la cura pastorale della comunità cristiana, ma si esprime nella responsabilità testimoniale nel servizio della comunità ecclesiale e sociale.

Una rinnovata visione della ministerialità

Come far vivere le comunità nel «vacuum lasciato da preti diventati itineranti» (C. Theobald)?

La risposta consiste nel creare progressivamente una nuova cultura ministeriale nella Chiesa alla luce di due condizioni: in primo luogo, la presa di coscienza, da parte delle nostre comunità, del loro ruolo di presenza missionaria in seno alla società; in secondo luogo, la scoperta che esse non dispongono automaticamente di preti a volontà ma che questi sono un dono fatto alla comunità che deve, a sua volta, sempre chiedersi di quale ministero ha bisogno per compiere la missione. Un processo – questo – che rimanda a comunità sinodali consapevoli di essere un popolo in cui «tutti fanno tutto, ma non allo stesso modo né allo stesso titolo» (Conferenza episcopale francese).

Dire sinodalità è affermare il camminare insieme, in cui il pastore esercita uno specifico e irrinunciabile compito di guida in un’effettiva, e mai definibile in partenza, interazione con gli altri carismi e ministeri di natura battesimale.

Parrocchie senza prete

Il sorgere di nuovi ministeri ecclesiali non può avvenire per una sorta di accanimento terapeutico su alcuni che vengono quasi precettati per il servizio alla comunità, ma nasce da un’opera di discernimento comune di sacerdoti e laici che si pongono insieme il tema della praticabilità della vita cristiana in quel luogo.

Per quanto nasca da una radice carismatica, un ministero deve avere una figura precisa e godere quindi di una certa stabilità riconosciuta come tale almeno dalla Chiesa diocesana. Se, mediante il battesimo e la cresima, ogni cristiano diventa presenza di Vangelo nel suo ambiente, il riconoscimento di questa persona da parte della comunità e del prete responsabile la trasforma in presenza di Chiesa.

Un ministero suppone quindi un riconoscimento pubblico e un mandato esplicito, ma anche un rendere contodell’azione svolta; in effetti, alla persona inviata sono attribuiti una funzione o un compito ben definiti e stabiliti in una lettera di missione.

Esperienze

All’interno della Settimana COP sono state presentate alcune esperienze già in atto. Le ricordiamo brevemente.

  • Le unità pastorali

È un’esperienza che coinvolge ormai numerose diocesi in Italia; ha innescato un processo di revisione e di rilettura della figura classica e abituale della parrocchia che ha condotto ad una serie di acquisizioni: la riscoperta dell’evangelizzazione, come compito prioritario, appartenente a tutto il popolo di Dio; non più solo il prete come unico referente della pastorale della parrocchia, ma tutti i battezzati che desiderano vivere la loro fede in stile di corresponsabilità; non più la singola parrocchia, caratterizzata dalla coppia “campanile al centro, confini alla periferia”, ma più parrocchie insieme che agiscono, almeno in alcuni ambiti, come soggetto unitario di evangelizzazione.

  • Assunzione di responsabilità da parte di laici e di famiglie

Accanto alla figura di un responsabile parrocchiale laico (cf. can. 517 § 2) sono presenti in Italia alcune esperienze di responsabilità parrocchiale affidate ad una famiglia. In forza del sacramento del matrimonio, la famiglia non solo è luogo originario di relazioni generative al suo interno, ma anche nei confronti della comunità.

  • Le équipes di animazione pastorale

L’attivazione delle équipes contribuisce a rafforzare l’idea di Chiesa che si realizza in un luogo e permette alla singola comunità di continuare ad essere artefice della missione della Chiesa sul territorio localizzandosi e generando vita di fede. In quanto figura pastorale qualificata ed efficace, manifesta una ricca simbolica ecclesiale. Il gruppo evita l’identificazione e la concentrazione dell’azione sulla singola persona (clericalismo); permette un confronto a più voci evitandole personalizzazioni (sinodalità); consente la promozione di una collaborazione efficace (comunione); configura in piccolo la comunità stessa con la varietà dei doni e delle operazioni (soggettualità); traduce in operatività le indicazioni degli organismi di consiglio (prassi pastorale).

Pastore o funzionario del sacro?

cittanuova.it

A motivo della ben nota crisi vocazionale il numero di sacerdoti e religiosi/e è notevolmente diminuito, e con esso di pari passo, ma in modo inversamente proporzionale, è aumentato il vostro carico di lavoro. Sono testimone – e non credo di dire nulla di nuovo – di sacerdoti giovani e meno giovani carichi di impegni, che forse appaiono gratificanti nei primi anni dopo l’ordinazione quando alimentano il senso di onnipotenza – di cui tutti noi, a turno, siamo vittime – ma che, nel corso del tempo, finiscono per diventare degli oneri enormi.

Forse, come lei accenna con sapienza e insieme discrezione, è necessario ripensare il “modello di prete” nel terzo millennio, perché questa vocazione non si appiattisca all’essere un “burocrate del sacro”, come si autodefinisce un mio amico sacerdote.

Mi vengono in mente alcune considerazioni: ormai abbiamo superato il mito del prete come di un uomo superdotato e sempre disponibile, come se non fosse un essere umano con i suoi limiti e le esigenze più semplici di un ritmo di vita sano.

Però bisogna ancora sfatare il mito del prete inteso come uomo singolo a servizio degli altri.

Una vocazione infatti, anzi qualunque vocazione, anche quella degli sposi, non è mai una vocazione individuale che possa sussistere in se stessa, o che possa appoggiarsi unicamente sulla singola personalità, per quanto eccellente sia.

Ogni vocazione è inserita all’interno di una comunità che dà senso, sostiene, collabora alla buona riuscita della coppia, del sacerdote, dell’uomo e della donna consacrata. Forse lo si dice, ma in modo vago ed ideale, invece ha una valenza estremamente seria e concreta.

Tutti siamo reciprocamente responsabili della vocazione altrui. La vocazione del singolo chiamato da Dio, o della coppia, acquistano significato solo all’interno di un noi comunitario.

Nessuno sarebbe in grado di realizzare compiutamente l’essere marito, l’essere moglie, l’essere genitore, l’essere sacerdote, l’essere religioso senza il sostegno di preghiera, ma anche di presenza, di incoraggiamento e di collaborazione degli altri.

Di fatto accade così, ma come può il sacerdote addossarsi da solo, o al massimo con un “vice”, tutte le attività che ruotano attorno a una parrocchia, o comunque a un servizio di apostolato? Non solo per il grande carico materiale, ma anche per quello emotivo, psicologico ed affettivo.

Lo stesso vale per la famiglia che non può portare avanti da sola la chiamata a vivere l’amore in modo esclusivo e generativo, senza persone intorno che la sostengono e la aiutano a custodire il dono reciproco.

Ciascuno, secondo la propria parte – ma il discorso qui è complesso e articolato perché chiama in causa un serio ripensamento dell’organizzazione della Chiesa –, è chiamato a dare ascolto, ad offrire accoglienza, a prestare attenzione, a portare un aiuto materiale perché l’altro funzioni. E se uno di noi cade durante il cammino, tutti cadiamo con lui o con lei, e siamo in qualche modo responsabili della superficialità che non ci ha permesso di cogliere un eventuale malessere o una necessità importante.

Per la fragilità dell’essere umano attuale, per la complessità del mondo contemporaneo, per la quantità di esigenze che ci sono nel mondo,non possiamo più permetterci di ragionare con le categorie dell’io.

Certo è una mentalità oggi tutt’altro che spontanea, per il narcisismo e l’individualismo diffusissimi, e forse il discorso suona utopico, però ritengo che gli anni di formazione alla vita sacerdotale, a quella religiosa, e a quella familiare, dovrebbero introdurre questo modo di intendere la vocazione. Altrimenti tutto si concentra attorno alle capacità strettamente personali e alle doti di questo o quello.

È chiaro che ciascuno ha delle qualità e delle risorse umane uniche, non si tratta di spersonalizzare l’identità del singolo, tuttavia è la comunità di fede ad accogliere una famiglia che si forma e a collaborare perché la sua vocazione si compia, ed è la comunità di fede ad accogliere e sostenere il sacerdote o il religioso, perché la sua specifica missione si realizzi il meglio possibile.

Questo significa formare la mente e il cuore che la fraternità, la “casa”, è una sola.

Quando si percepisce un ambiente come proprio, si ha cura di ogni suo angolo senza pensare a chi tocchi pulirlo, ad esempio. Dentro casa, moglie, marito e figli si ripartiscono i compiti, perché tutto funzioni al meglio, ma ciascuno vive lo spazio della casa come proprio, e sente di essere responsabile del buon andamento generale.

Questo significa aver maturato un senso di appartenenza alla propria vocazione. Altrimenti si è solo ospiti o eternamente bambini.

La persona adulta, che ha sviluppato un senso di appartenenza alla propria comunità familiare e di fede, si impegna perché questa funzioni bene, vive come propria responsabilità il benessere dei suoi membri, si preoccupa per loro, si accorge se c’è qualcosa che non va.

Se gradualmente facessimo nostra questa prospettiva di fraternità, per tornare alla riflessione iniziale, si smorzerebbe la competizione, il conflitto, il voler primeggiare: che senso ha fare a gara in casa propria? Se l’obiettivo è comune, e il compito è portato avanti insieme, diventa molto meno importante chi lo realizza in quel momento. Ciò significa, almeno questo è ciò che riesco a intuire, far sentire la persona parte di una fraternità più vasta e non caricarla di oneri che, se possono farla sentire in gloria in alcuni momenti, possono anche schiacciarla e farla sentire isolata in molti altri.

Messico. Ancora violenza: trovato morto prete. Le suore lasciano Chilapa

Una protesta in Messico contro la violenza che miete sempre più vittime (Lapresse)

Una protesta in Messico contro la violenza che miete sempre più vittime (Lapresse)

L’unica certezza è che un altro sacerdote è stato trovato morto in Messico. Si chiamava padre Raúl Quiñones Arellano, 47 anni ed era parroco a El Barril, vicino a Zacates. Giovedì mattina, la domestica l’ha trovato steso sul pavimento. La polizia, accorsa sul posto, ha affermato che il prete era stato assassinato la notte precedente. Poi, le autorità hanno cambiato versione. La Procura ha detto che i risultati dell’autopsia escluderebbero l’assassinio. Padre Raúl sarebbe stato stroncato da una crisi respiratoria. I dubbi, in ogni caso, restano.

La violenza nel Paese ha ormai raggiunto livelli bellici, con duemila morti nel solo mese di gennaio. Colpa delle bande criminali che operano con il sostegno di interi pezzi corrotti delle istituzioni. È questo intreccio tra mafie e politica a rendere i poteri pubblici impotenti. Consentendo ai gruppi delinquenziali di imporre sul territorio un potere parallelo. Col terrore. Chiunque rappresenti un’alternativa al loro pugno di ferro viene considerato una minaccia. E, dunque, eliminato. Giornalisti, attivisti e, in misura crescente, sacerdoti e laici impegnati.

L’ultima dimostrazione è il “ritiro” delle suore dalla diocesi di Chilpacingo-Chilapa. Di fronte all’orrore dell’omicidio dei genitori e della sorella di una di loro, le religiose guadalupane hanno dovuto lasciare la regione del Guerrero, una delle più violente del Messico. Le suore guadalupane amministravano l’istituto Morelos, uno dei più antichi della città di Chilapa, frequentato da 700 alunni, dall’asilo alle superiori. Da settembre a dicembre per paura di rappresaglie, erano state sospese le lezioni: la mancanza di sicurezza aveva imposto i corsi telematici per protezione dei ragazzi.

«Siamo indignati e tristi per il sequestro e la morte dei familiari di una nostra suora, uccisa insieme ad altre sei persone, il 30 gennaio scorso». A parlare è monsignor Salvador Rangel il vescovo che ha denunciato le drammatiche condizioni del Guerrero. Dove l’infiltrazione dei narcos ha raggiunto livelli allarmanti. E i cittadini sono drammaticamente indifesi. In tale contesto “hobbesiano”, lo stesso vescovo ha dovuto cercare un dialogo con i narcotrafficanti scopo di salvare la vita dei suoi fedeli.

Questa volta non c’è riuscito, nonostante le suore erano state da lui al momento del rapimento dei familiari. Altre volte monsignor Rangel aveva tentato e c’era riuscito. Un intermediario aveva fatto incontrare il vescovo con i capi dei narcos della zona. Tre gruppi dettano legge da tempo nel grande serbatoio dell’eoroina del Messico, facendosi una guerra che sta insanguinando tutta la regione. Pochi giorni fa due sacerdoti, Iván Añorve Jaimes y Germain Muñiz García, uno appartenente a questa diocesi e l’altro ad Acapulco, erano stati ammazzati in autostrada.

All’inizio, la Procura locale aveva cercato di insinuare che i preti uccisi avessero legami “sospetti” con i gruppi criminali. Dopo la secca smentita della diocesi e del vescovo Rangel – che è costata a quest’ultimo anche una denuncia –, il governatore Héctor Estudillo Flores ha fatto marcia indietro. E ha ammesso che i sacerdoti in questione non avevano niente a che fare con i narcos

da Avvenire

Sacerdoti, non dimenticare chi dona la vita per noi

Preti di strada. Preti chinati sulle ferite degli altri: immigrati, emarginati, famiglie in difficoltà, nuovi poveri. Preti che guidano nel buio dell’incertezza, sostengono nel momento dello sconforto.

Il Giubileo dei sacerdoti, che durerà fino al 3 di giugno, è l’occasione per riaccendere i riflettori sui parroci della nostra parrocchia accanto che si donano senza domandare nulla in cambio. Papa Francesco per loro- immagine del Buon Pastore vicino alla sua gente e servitore di tutti- chiede  un sostegno concreto di preghiera e d’affetto. Ci sono preti come don Mimmo Zambito, parroco di Lampedusa, da anni impegnato nell’accoglienza senza riserve ai migranti giunti sulle coste di quell’isola, porta d’Europa, stremati e senza più speranza. Ci sono religiosi come padre Nico Rutigliano, guanelliano, che  nella sua parrocchia di Fondo Fucile, in provincia di Messina, ha salvato dal degrado un campo incolto con il quale ha potuto tirar via dalla strada decine di giovani ora impegnati anche nel recupero scolastico. Salvandoli da droga e mafie. Ci sono frati come fra Gabriele Onofri, titolare della parrocchia Nostra Signora degli Angeli a Genova Voltri, che dal nulla hanno creato mense, dormitori, centri d’ascolto. E ora sono diventati punto di riferimento imprescindibile per le società civili locali.  Tutto senza le luci della ribalta, senza grande clamore. Nel silenzio più profondo donano la loro vita per tutti noi. Ad imitazione di Cristo. Per favore, non dimentichiamoli. Mai.
(Federico Piana) Radio Vaticano

Papa: no a parrocchie aperte ‘a orario’ Bergoglio, non c’è porta aperta, non c’è prete che accoglie

(ANSA) – CITTA’ DEL VATICANO, 29 MAG – Il Papa parlando a braccio nel corso dell’ omelia della messa per il giubileo dei diaconi ha detto di dispiacersi quando: “vedo orario nelle parrocchie, ‘da talora a talora’, poi non c’è porta aperta, non c’è prete, non c’è diacono, non c’è laico che riceva la gente”.
“Trascurare gli orari, – ha esortato – avere questo coraggio”.
“Il servitore trascura gli orari, a me fa male al cuore”. Papa Francesco ha fatto questa osservazione a proposito della disponibilità come stile del servizio cristiano e ha aggiunto: “la mitezza è una virtù dei diaconi, il diacono non gioca a scimmiottare il prete, no egli è mite”. Nel passaggio successivo in cui descriveva “i tratti miti e umili del servizio cristiano”, “che è imitare Dio servendo gli altri: accogliendoli con amore paziente, comprendendoli senza stancarci, facendoli sentire accolti, a casa, nella comunità ecclesiale, dove non è grande chi comanda, ma chi serve”, papa Bergoglio ha raccomandato: “E mai sgridare, mai”.

Giornata del Seminario. Statistiche diocesane al 24 Novembre 2015

Andamento delle ordinazioni e dei decessi negli ultimi 16  anni

Dal 20 settembre 1998  ad oggi sono stati ordinati

44 presbiteri  – in media 2 / 3 all’anno e 50 diaconi permanenti.

Nello stesso  periodo sono  deceduti:  154  presbiteri  (la media  è di 9 / 10 preti  all’anno) e 14 diaconi permanenti.

Attualmente i preti diocesani sono 24289 i preti dai 75 anni in su; 26 hanno dai 25 ai 40 anni. L’età media oggi è 64,37

I diaconi permanenti sono  in tutto 105; di questi 5 sono praticamente inabili al ministero. L’età media dei diaconi è 64,39.

Preti con ministero in Diocesi

Nelle missioni diocesane ci sono ora 9 preti2 preti sono studenti a Roma e 1 a Padova (continuando a svolgere un servizio in diocesi); 1 prete insegna stabilmente alla Lateranense e saltuariamente collabora a Reggio; 5 sono incardinati a Reggio ma svolgono un ministero fuori Diocesi;  Intorno ai 26 non svolgono ministero attivo. Questo significa che i preti diocesani che svolgono un ministero attivo in Diocesi  sono, dì fatto,  poco  meno  di  219. Nella  cura delle parrocchie  ci  aiutano  12  preti  extra diocesani (di  cui 4 dalla Polonia e 4 italiani di altre diocesi);

Risiedono a Reggio due cappellani etnici:

  • un prete ghanese per gli immigrati anglofoni dall’Africa
  • un parroco in San  Giorgio  per  i numerosi ucraini di rito greco-cattolico.

Parroci, Unità pastorali, Comunità ministeriali

I parroci (tra essi consideriamo anche gli amministratori parrocchiali e i delegati alla cura pastorale) sono in tutto 107 (di cui 4 co-parroci non moderatori):

Parroci

Dagli 81 ai 90 =  9; dai 71 agli  80 = 28; dai 61 ai 70 = 25; dai 51 ai 60 = 26; dai 40 ai 50 = 17.

Le parrocchie sono 317 (con le 2 parrocchie ospedaliere). Ciò significa che i parroci hanno in media a carico 2,96 parrocchie.

Tra i 26 giovani sacerdoti (cioè che non superano i 10 anni di Ordinazione), i parroci sono 3; 19 sono i vicari e i collaboratori parrocchiali, 1 è Missionario Fidei Donum in Madagascar, 2 studenti.

Ci sono stati ulteriori accorpamenti di parrocchie per cui le Unità  pastorali (UP),  di due o più parrocchie  (con un unico parroco o con co-parroci), sono aumentate  di numero  (attualmente poco più di 72). Restano non accorpate 24 parrocchie (4  nel Vicariato urbano, 5  nel Vicariato sassolese).

Le comunità ministeriali sono poco più 25  le “comunità ministeriali” sono caratterizzate dalla presenza  da due a quattro (o cinque) preti, con un minimo di vita comune  regolare, al  servizio di una UP con due o più parrocchie.

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