Produrre informazioni giornalistiche di qualità comporta rischi per i giornalisti, nelle zone di guerra come in quelle di pace

Andrea Rocchelli, l’inviato di guerra ucciso nel Donbass – Ansa

Produrre informazioni giornalistiche di qualità comporta rischi per i giornalisti, nelle zone di guerra come in quelle di pace. Dal 1993 ad oggi, infatti, si sono contati 1.400 cronisti uccisi nel mondo, 55 dall’inizio di quest’anno. Inoltre, anche in Paesi come l’Italia, per impedire la circolazione di informazioni sgradite, giornalisti vengono spesso minacciati e aggrediti. Crimini che, come denunciato più volte dall’associazione “Ossigeno per l’informazione”, restano in gran parte impuniti. Queste sono alcune delle riflessioni emerse, questa mattina, durante il convegno “Guerra , Pace e informazione”, organizzato dall’associazione in collaborazione con l’ordine dei giornalisti del Lazio.

Durante l’evento è stata letta la lettera inviata, per l’occasione, dalla commissaria per i Diritti umani del Consiglio d’Europa, Dunja Mijatovic, che ha voluto condividere alcuni spunti sul tema della protezione di chi svolge questo mestiere in situazioni di conflitto. Secondo la commissaria, i giornalisti svolgono una missione cruciale di interesse pubblico. Spesso, infatti, è proprio grazie a loro che gravi violazioni dei diritti umani, crimini di guerra e altre atrocità vengono portate all’attenzione dell’opinione pubblica e di chi prende decisioni politiche. «A volte i giornalisti che coprono i conflitti hanno anche aiutato i tribunali a ottenere prove cruciali per stabilire le responsabilità per i crimini di guerra – ha scritto Mijatovic – Il loro lavoro può aiutare a sostenere i diritti umani, stabilire le responsabilità e promuovere la solidarietà internazionale».

Per questo motivo, i giornalisti che coprono i conflitti sono protetti dal diritto internazionale umanitario. Ciò significa che tutte le parti in conflitto devono proteggere i cronisti, evitando attacchi deliberati contro di loro e sostenendo i loro diritti in caso di cattura. Inoltre, lo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale stabilisce che dirigere intenzionalmente attacchi contro i civili, e quindi anche contro i giornalisti che non partecipano alle ostilità, costituisce un crimine di guerra. Il Consiglio d’Europa e altre organizzazioni internazionali hanno fissato degli standard precisi per aiutare gli Stati membri a rispettare il loro obbligo di proteggere i professionisti dell’informazione. «Purtroppo – ha proseguito Mijatovic ¬¬- la realtà sul campo si discosta molto da questi standard».

A questo proposito, è importante ricordare quanto accaduto al fotoreporter italiano Andrea Rocchelli, ucciso nel 2014 durante la guerra del Donbass da un colpo di mortaio sparato dall’esercito ucraino. Delitto che non ha ancora ottenuto giustizia. «Andrea Rocchelli si trovava in Donbass per documentare quanto stava avvenendo – ha spiegato Alberto Spampinato, presidente di Ossigeno – noi pensiamo che fu ucciso perché era diventato testimone di un crimine di guerra. Per una certa prassi, quando qualcuno viene ucciso durante una guerra, non c’è un colpevole».

Per la morte di Rocchelli è stato processato un presunto colpevole, un militare della Guardia nazionale ucraina che «come noi abbiamo scritto nel nostro dossier – ha proseguito Spampinato- è stato condannato in Italia a 24 anni di reclusione. Ma dopo questa condanna il presidente Zelensky, che era appena stato eletto, rilasciò una dichiarazione dicendo che il verdetto era ingiusto e, quindi, avrebbero chiesto all’Italia di modificarlo». Un anno dopo, in appello, la sentenza fu ribaltata per un vizio di forma. «Noi raccontiamo questa storia – ha ribadito Spampinato – perché dimostra che bisognerebbe investire una corte autonoma indipendente per accertare la verità in casi come questo».

I problemi, come già detto, però esistono anche in Italia. Secondo i dati pubblicati dall’Osservatorio di Ossigeno, i cronisti che hanno subito intimidazioni, nel corso del 2021, sono stati 384. Spesso viene utilizzata anche l’arma della querela “pretestuosa” per far desistere i giornalisti dalle loro inchieste. In caso di querela, infatti, i cronisti, spesso freelance, non avendo copertura assicurativa o un editore alle spalle, non sono in grado di affrontare le spese dei processi. Il Lazio risulta essere la regione in cui si sono state denunciate più minacce ma, se non si considerano i numeri assoluti, Puglia, Abruzzo, Campania e Basilicata sono le regioni in cui la pressione intimidatoria è più alta.

Avvenire

I cristiani e la guerra

di: Franco Monaco

guerra

Quella del rapporto tra i cristiani e la guerra è questione antica che oggi si ripropone facendo registrare divisioni che non devono sorprendere. Più specificamente, una divisione si è prodotta sul diritto alla difesa armata e, in concreto, sul rifornimento di armi alla resistenza ucraina. Di tali divergenze non ci si deve scandalizzare per due ragioni.

Criteri per la legittima difesa

La prima è l’indice di formalità-astrattezza che, per definizione, scontano i criteri che presiedono alla legittima difesa nel magistero della Chiesa e che, di riflesso, dischiudono a diverse possibili loro interpretazioni-attualizzazioni circa il caso concreto. Rammentiamoli quei quattro criteri:

  1. che si tratti a tutti gli effetti di extrema ratio dopo avere esperito tutte le vie negoziali;
  2. che a deliberare la difesa in armi sia l’autorità legittima;
  3. che vi sia la retta intenzione di limitarsi a ripristinare la giustizia offesa;
  4. che si dia una proporzionalità tra il male che si è costretti a infliggere e quello cui si intende porre rimedio.

Un’evoluzione-articolazione della vecchia dottrina della «guerra giusta» che, giustamente, si predilige non nominare più così, per quanto, va rammentato, essa fosse stata elaborata non già per incoraggiare le guerre ma semmai per circoscrivere i limiti della sua legittimità.

La seconda ragione per cui si spiega un certo pluralismo di giudizi e di opinioni tra cristiani sta in una doppia incrociata dinamica.

Da un lato, una chiara linea di sviluppo del magistero della Chiesa e, segnatamente, dei papi (specie a partire dalla Pacem in terris di Giovanni XXIII), che approda a una condanna sempre più netta della guerra moderna a sua volta riconducibile a due circostanze:

  1. lo sviluppo delle tecnologie belliche sino alle armi di distruzione di massa che inficiano in radice il criterio della proporzionalità;
  2. l’evoluzione e l’affinamento degli strumenti del diritto e delle sedi preposte a dirimere i conflitti che dovrebbero «archiviare» la guerra quale mezzo grezzo e anacronistico.

Ma, dall’altro, in senso per così dire estensivo, la suggestione dell’istituto del «diritto di proteggere» (così denominato dal diritto internazionale umanitario), della «ingerenza umanitaria» della comunità internazionale a fronte di genocidi, crimini contro l’umanità, gravi violazioni dei diritti inferte a persone e comunità che autorizzerebbero l’intervento anche coercitivo della comunità internazionale.

Ad esse fece un’apertura Giovanni Paolo II nel caso della Bosnia. Naturalmente solo quando ricorrono precise e accertate condizioni. Una tensione, un equilibrio tra opposte esigenze che si rinviene anche sul terreno «laico» della lettura-interpretazione dell’art. 11 della Costituzione: ripudio della guerra di offesa, eccezione per la guerra di difesa, cessione di sovranità a istituzioni internazionali che operano per la pace e la giustizia.

Naturalmente con la cura di definire quali e quando esse agiscono in concreto a quell’alto fine. Per esempio, distinguendo tra tali organizzazioni. Esemplifico: ONU, UE, NATO non sono la stessa cosa, hanno statuto e missioni diverse.

Esiste una differenza cristiana?

Dunque, si spiega un legittimo pluralismo delle opinioni tra i cristiani. Ciò non ci esonera dal domandarci se esista un unum necessarium, una «differenza cristiana». Un interrogativo pertinente in via generale che, a fortiori, ci si deve porre su una materia quale la pace e la guerra ove sarebbe singolare un totale allineamento al pensiero dominante, al senso comune, al giudizio mondano.

Solo qualche esemplificazione dello specifico (ancorché non esclusivo) cristiano: la pace è un valore («Cristo nostra pace»), la guerra un male estremo; la pace deve mettere le radici nel cuore e plasmare le relazioni brevi e lunghe (mediate dalle strutture sociali); si deve perciò contrastare il bellicismo degli animi, della cultura, del linguaggio; va esercitata una severa, attiva vigilanza su tutto ciò che può generare l’humus delle guerre ovvero ingiustizie, sopraffazione, produzione e commercio delle armi (opus iustitiae pax); vanno condannati la fabbricazione, il possesso e l’uso delle armi di distruzione di massa (andando oltre la sintesi conciliare della Gaudium et spes che lasciò insoddisfatti Lercaro e Dossetti) e dunque, in positivo, si devono sostenere i negoziati volti al disarmo degli arsenali chimici e atomici. Con la sua consueta franchezza, Francesco ha bollato come «follia» la corsa al riarmo.

Nel dibattito che attraversa la cattolicità italiana si dovrebbero evitare le semplificazioni e i paragoni azzardati. Un paio di esempi.

Antonio Polito, vicedirettore del Corriere, con intenti positivi, ha scritto che i «cattolici democratici» sarebbero i più decisi nel sostegno armato alla resistenza ucraina, ma, come spesso accade, par di capire – e con molta approssimazione – intendeva gli ex DC.

Per converso, il politologo Angelo Panebianco – è un suo vecchio mantra – bolla i cattolici come inclini a un pacifismo ingenuo e impolitico che, a suo dire, contribuirebbe a minare l’affidabilità atlantica del nostro paese.

Semplificazioni, appunto.

È auspicabile un confronto

Così pure, taluni amano dare una rappresentazione schematica delle articolate posizioni cattoliche sulla guerra in Ucraina come l’eredità lunga della dialettica De Gasperi-Dossetti. Di nuovo una semplificazione.

Vero è che Dossetti, da politico, si smarcò da un atlantismo acritico e, come accennato, da religioso, si mostrò insoddisfatto della sintesi conciliare che, a suo dire, avrebbe dovuto operare un coraggioso scatto evangelico nella più risoluta condanna delle guerre. Eppure Dossetti partecipò da protagonista alla lotta di liberazione. Dunque, non un cristiano ignaro della circostanza che la libertà talvolta va conquistata con la lotta armata.

Così pure è molto tirata la tesi di chi fa appello all’autorità di De Gasperi a sostegno delle tesi più interventiste di oggi. Basti un interrogativo: in quel contesto internazionale, da capo del governo (e per di più di un paese sconfitto), egli non poteva che essere decisamente atlantista e tuttavia, in quanto riconosciuto «padre dell’Europa» e fautore (inascoltato) della difesa comune europea, chi può dire con sicurezza come si regolerebbe oggi dentro un conflitto che manifestamente certifica una subalternità-irrilevanza della UE?

Ripeto: meglio non indulgere a schematismi e a paragoni fuorvianti. La comprensione delle ragioni per le quali, nel quadro di una comune e impegnativa tensione alla pace, si dà una legittima pluralità di opinioni anche tra cristiani su come regolarsi circa la guerra in corso gioverebbe alla qualità (e persino al tenore fraterno) del confronto.

Settimana News

La cause della guerra secondo papa Francesco: «autocrazia, imperialismi armi»

La cause della guerra secondo papa Francesco: «autocrazia, imperialismi armi».

CITTÀ DEL VATICANO-ADISTA. Di bandiere ucraine portate dai fedeli che sventolavano in piazza San Pietro durante gli Angelus domenicali del pontefice se ne sono viste parecchie nell’ultimo mese e mezzo, da quando è iniziata la guerra.

Ieri però è stato lo stesso papa Francesco che, al termine dell’udienza generale del mercoledì nell’aula Paolo VI in Vaticano, ha srotolato davanti ai presenti una bandiera ucraina ricevuta in dono.

«Ieri (martedì, per chi legge, ndr), proprio da Bucha, mi hanno portato questa bandiera – ha detto Bergoglio durante i saluti finali –. Questa bandiera viene dalla guerra, proprio da quella città martoriata». Il gesto “fuori protocollo” del pontefice è sottolineato anche dalla prima pagina dell’Osservatore Romano di ieri, che reca una grande foto di Francesco e il titolo: «La bandiera che racconta l’orrore di Bucha».

«Le recenti notizie sulla guerra in Ucraina, anziché portare sollievo e speranza, attestano invece nuove atrocità, come il massacro di Bucha: crudeltà sempre più orrende, compiute anche contro civili, donne e bambini inermi. Sono vittime il cui sangue innocente grida fino al Cielo e implora: si metta fine a questa guerra! Si facciano tacere le armi! Si smetta di seminare morte e distruzione!», ha detto ancora Bergoglio, che ha poi fatto salire accanto a sé cinque bambini ucraini – cinque fratelli di una casa famiglia di Odessa accolti a Cagliari dallo scorso 24 marzo – insieme alla loro mamma.

«Questi bambini – ha proseguito – sono dovuti fuggire e arrivare in una terra straniera: questo è uno dei frutti della guerra. Non dimentichiamoli, e non dimentichiamo il popolo ucraino. È duro essere sradicati dalla propria terra per una guerra».

Dopo qualche prudenza delle prime ore, la denuncia dell’invasione russa dell’Ucraina è stata netta da parte del pontefice, anche se qualcuno ancora lo accusa di filoputinismo o di «generica condanna della guerra e del riarmo», come ha scritto Ernesto Galli Della Loggia sul Corriere della Sera.

D’altro canto però Francesco continua a evidenziare anche le cause strutturali della guerra: gli imperialismi, i nazionalismi, la corsa agli armamenti. Lo ha fatto durante il recente viaggio a Malta, puntando il dito contro le «seduzioni dell’autocrazia» e dei «nuovi imperialismi» e i «grandi investimenti e commerci di armi».

E lo ha fatto nuovamente ieri, nell’udienza generale. «Oggi si parla spesso di geopolitica, ma purtroppo la logica dominante è quella delle strategie degli Stati più potenti per affermare i propri interessi estendendo l’area di influenza economica, ideologica o militare: lo stiamo vedendo con la guerra», «e non solo da una parte, anche da altre», ha detto il pontefice.

«Dopo la seconda guerra mondiale si è tentato di porre le basi di una nuova storia di pace, ma purtroppo non impariamo, è andata avanti la vecchia storia di grandi potenze concorrenti. E, nell’attuale guerra in Ucraina, assistiamo all’impotenza delle Organizzazioni delle Nazioni unite». 

Agli orrori della guerra non si risponde con la guerra

Oggi, sul sito del magistrato Domenico Gallo

«La guerra è un assassinio di massa, la più grande disgrazia della nostra cultura; […] garantire la pace mondiale dev’essere il nostro principale obiettivo politico, un obiettivo molto più importante della scelta tra democrazia e dittatura, o tra capitalismo e socialismo».

Così si esprimeva Hans Kelsen nella prefazione al suo libro Peace Through Law, scritto nel 1944.

Le immagini e le notizie che ci giungono da Bucha, da Borodyanka, da Irpin, al di là dell’orrore, ci confermano ancora una volta la verità di questo assioma. In questo contesto di assassinio di massa, esistono degli episodi ancora più oltraggiosi che offendono la coscienza dell’umanità intera, oggi Bucha e altri luoghi in Ucraina, ieri My Lay in Vietnam (16 marzo 1968). Ora come allora centinaia di persone innocenti, compresi i bambini e le donne sono state, torturate, stuprate ed uccise. Ha scritto il direttore dell’Avvenire (5 aprile) «Impariamolo una volta per tutte: i corpi straziati di Bucha non sono un’eccezione atroce, sono il volto e il corpo della guerra, Questa è il mostro, e quella è la ferocia. Sempre».

La guerra, ogni guerra scatena sempre una vertigine di atrocità che l’esile barriera del diritto bellico umanitario non riesce a contenere e le atrocità – sia pure con gradi differenti – riguardano tutte le parti coinvolte in questa procedura di assassinio di massa. Ci è stato insegnato che se il diritto internazionale è il punto di evanescenza del diritto pubblico, il diritto bellico è il punto di evanescenza del diritto internazionale (Antonio Cassese). E tuttavia in un’epoca in cui era ancora viva la speranza di costruire un ordine internazionale pacifico, è stato concepito il disegno di una Corte penale internazionale, con lo scopo di rafforzare quelle norme del diritto internazionale che, da Norimberga in poi, interdicono quelle atrocità che turbano profondamente la coscienza dell’umanità (il genocidio, i crimini di guerra e quelli contro l’umanità). Lo Statuto della Corte penale internazionale (CPI) non a caso fu firmato a Roma il 17 luglio del 1998 perché all’epoca l’Italia era ancora capace di iniziative autonome nel campo della politica internazionale. Il Trattato è entrato in vigore il primo luglio del 2002, ma non vi hanno aderito gli USA, la Russia, la Cina, la Turchia, Israele, cioè i paesi più a rischio di incorrere nelle sanzioni della Corte. A differenza di altri Paesi, gli Stati Uniti non si sono limitati a non aderire al Trattato, ma si sono attivati per boicottare l’attività della Corte penale internazionale con atti improntati a crescente ostilità nei confronti della CPI, e diretti a interferire con la piena operatività dei suoi organi, a partire dall’ufficio del Procuratore, o a indebolire il sistema di cooperazione tra Stati previsto dalla parte IX dello Statuto di Roma. Tutto ciò al fine di impedire che la Corte giudicasse gli eventuali crimini dalle forze armate americane in Afganistan e quelli commessi da Israele a Gaza.

A questo punto è importante che in Ucraina intervenga un organo di giustizia imparziale come la CPI che conduca sul campo le indagini appropriate per accertare i crimini internazionali, da chiunque commessi, e le responsabilità individuali dei loro autori. L’intervento di una giurisdizione internazionale è indispensabile per evitare che la reazione a questi orrori alimenti vendette o punizioni collettive. A questo riguardo le esternazioni di Biden che qualifica Putin come criminale di guerra e chiede che venga condotto dinanzi ad un Tribunale internazionale non agevolano il lavoro della Corte perché così facendo tolgono autorevolezza agli organi della giustizia internazionale, trasformandoli in meri strumenti dell’offensiva di una parte politica contro un’altra parte. Se gli USA volessero veramente valorizzare la giustizia internazionale per prima cosa dovrebbero ratificare lo Statuto di Roma della CPI, invece che boicottarne l’attività.

Di fronte allo sdegno e all’emozione suscitata dalla diffusione dei filmati e delle informazioni sulle atrocità compiute a danno della popolazione ucraina, cresce la richiesta di inviare armamenti sempre più sofisticati e distruttivi per consentire all’Ucraina di resistere a lungo e logorare le forze armate dell’aggressore e cresce la nostra propensione a partecipare – sia pure indirettamente – al conflitto diventando cobelligeranti. Non è questa la strada giusta. In realtà lo sdoganamento del tabù della guerra è la risposta più sbagliata e controproducente che si possa immaginare per reagire agli orrori che sono sotto i nostri occhi. Bisogna rendersi conto che la punizione di questi orrori non si può compiere attraverso la guerra, cioè attraverso un assassinio di massa perché è proprio la guerra che genera i crimini di guerra. Per questo la guerra va fermata subito, non alimentata, altrimenti «ci renderemo colpevoli della moltiplicazione delle tante Bucha, Mariupol, Mykolaiv… della morte di tante altre donne, uomini, bambini… quei bambini che non ci toglieremo mai più dagli occhi. Mai più…» (Anna Falcone). Il fatto che Biden da Varsavia e poi Stoltenberg ci abbiano avvisato che la guerra sarà lunga, lascia chiaramente intendere che gli USA puntano ad alimentare il conflitto e incoraggiano Zelensky a non accettare nessun compromesso che possa porre termine rapidamente alla guerra. Di fronte all’afasia dei leader dei principali Paesi europei, incapaci di dissociarsi da questa corsa al disastro, deve mobilitarsi la società civile, i popoli europei per chiedere la pace e l’immediata fine del conflitto in Ucraina. Un conflitto mondiale, devastante, definitivo è alle porte, solo la forza dei popoli può impedirci di precipitare in questo baratro della Storia.
adista

Cos’è Iskander, il nuovo missile tattico russo

Iskander nuovo missile tattico russo

AGI – Secondo Kiev, a colpire la stazione di Kramatorsk non è stato un missile Tochka-U, come sostenuto da Mosca che attribuisce all’Ucraina la responsabilità della strage, ma un piu’ moderno Iskander. Dopo una fase di sviluppo negli anni ’90, il nuovo sistema tattico russo a corto raggio russo, con una portata fino a 500 chilometri, è entrato in servizio nel 2006 e ha mandato definitivamente in pensione i Tochka nel 2020.

In grado di lanciare missili balistici e da crociera, esiste in tre varianti, l’Iskander-M, destinato all’esclusivo utilizzo militare russo, l’Iskander-K, sistema specifico per il lancio dei missili da crociera R-500, e l’Iskander-E. Quest’ultima versione ha una gittata minore, fino ai 270 chilometri, ed è stata sviluppata per l’esportazione. Finora risulta in dotazione ad Armenia e Algeria ma, tra i potenziali acquirenti che hanno espresso interesse, vi sono Emirati Arabi Uniti, Siria, Iran, Kuwait, Corea del Sud, Malesia e India.

L’esercito russo ha 11 brigate di combattimento con sistemi Iskander-M a partire dal 2019. Una brigata Iskander standard include 12 lanciatori e i relativi veicoli di supporto. Le forze armate di Mosca hanno utilizzato per la prima volta il sistema in combattimento contro la Georgia nel 2008.

A impensierire l’Occidente sono soprattutto le batterie Iskander-M schierate nell’exclave baltica di Kaliningrad, da dove l’arma potrebbe prendere di mira le forze Nato in Polonia, Stati baltici e Svezia. Dopo l’invio di unità a Kaliningrad nel 2013, nel 2015 e nel 2016 in risposta agli schieramenti antiaerei statunitensi nella regione, Mosca ha optato nel 2018 per un dispiegamento permanente a Kaliningrad

Il vescovo. «L’Ucraina attende papa Francesco e prega perché arrivi presto fra noi»

Parla il vescovo Skomarovski che guida la diocesi latina di Lutsk al confine con la Bielorussia. I sotterranei della Cattedrale trasformati in rifugio: «Li apriamo ogni volta se suonano gli allarmi»

Le bandiere dell'Ucraina vicino a una chiesa

Le bandiere dell’Ucraina vicino a una chiesa – Ansa

Avvenire

Ogni volta che a Lutsk suona l’allarme antiaereo si aprono le porte della Cattedrale dei Santi Pietro e Paolo. «Sono i nostri sacerdoti a farlo. Perché nei sotterranei abbiamo allestito un rifugio che viene messo a disposizione sia di giorno, sia di notte quando partono le sirene. Così chi è nelle vicinanze o abita nel quartiere ha l’opportunità di avere un luogo sicuro in cui ripararsi dagli attacchi», racconta il vescovo di Lutsk, Vitaly Skomarovski. Originario dell’Ucraina, 58 anni, già ausiliare di Kiev-Žytomyr, guida dal 2014 una diocesi di rito latino estesa quanto il Veneto e il Trentino-Alto Adige assieme. Il territorio abbraccia due regioni, quelle di Volyn e Rivne, al confine con la Polonia ma soprattutto della Bielorussia. E la pressione del Paese “alleato” di Mosca si fa sentire. «Dal momento che non sappiamo ancora se le truppe bielorusse prenderanno parte alla guerra, avvertiamo sempre come possibile la minaccia di un’invasione da parte della Bielorussia», afferma il presule. Per adesso le giornate sono segnate dalla paura, anche perché a metà marzo i missili hanno distrutto una base militare della zona. «I raid aerei sono parte del quotidiano – riferisce il vescovo –. Le sirene suonano a ripetizione. Ci sono stati momenti in cui sono scattate anche dieci volte in un giorno. L’allarme può durare un’ora, spesso cinque. E il tempo viene trascorso nei rifugi».

 

La Cattedrale cattolica dei Santi Pietro e Paolo a Lutsk in Ucraina

La Cattedrale cattolica dei Santi Pietro e Paolo a Lutsk in Ucraina – wikipedia.org

 

Qui, nell’Ucraina nord-occidentale, la guerra ha soprattutto il volto dei profughi. «A decine di migliaia sono giunti nella nostra diocesi dagli angoli occupati – dice Skomarovski –. Per questo ogni ucraino, indipendentemente dal luogo in cui si trova, vive sulla propria pelle il conflitto». E la Chiesa cattolica è in prima linea. «Siamo impegnati a tutto campo nell’assistenza ai fratelli e alle sorelle vittime dell’aggressione russa, agli sfollati interni e alle persone rimaste sole. Nei primi giorni di guerra, tantissimi hanno attraversato la nostra area per raggiungere la Polonia. Ma in molti sono rimasti anche qui. Ad oggi solo a Volyn contiamo più di 36mila rifugiati registrati».

 

A Lutsk i sotterranei della Cattedrale trasformati in rifugio antiaereo

A Lutsk i sotterranei della Cattedrale trasformati in rifugio antiaereo – wikipedia.org

 

La storia fa di Lutsk una città contesa su cui Putin ha messo gli occhi. Oggetto nei secoli delle mire delle potenze regionali rivali, dalla Russia alla Polonia, è finita anche sotto il dominio austro-ungarico. «Il passato ci consegna una realtà dove sono presenti molte nazionalità e varie religioni. Per questo la nostra città è stata chiamata la “seconda Roma d’Oriente” – riflette il vescovo –. Tuttavia siamo in tutto e per tutto una comunità ucraina. Non solo. Siamo anche una polis europea sin dal Medioevo. E ora sono proprio i valori europei che difendiamo. Il nostro popolo sta morendo per questo. Lottiamo per il diritto a essere uno Stato europeo libero e democratico di fronte a un nemico che non vuole accettare tutto ciò».

 

Il vescovo di Lutsk, Vitaly Skomarovski

Il vescovo di Lutsk, Vitaly Skomarovski – Avvenire

 

Eccellenza, papa Francesco ha detto che la visita in Ucraina è sul tavolo. Che cosa ne pensa?

Dallo scorso dicembre tutti i cattolici di rito latino del Paese pregano affinché possa concretizzarsi il viaggio di Francesco in Ucraina. Attendiamo davvero con impazienza l’arrivo del Pontefice. Le sue preghiere e il suo sostegno fattivo hanno per noi un valore inestimabile. Ci auguriamo che le nostre preghiere vengano ascoltate. Solo con il soccorso di Dio questa terribile guerra potrà finire e le forze del bene prevalere su quelle del male.

La preghiera è la prima arma?

Sicuramente. Con la consacrazione al Cuore Immacolato di Maria che il Papa ha voluto, abbiamo invocato la Vergine perché preservi il nostro popolo e le città dal flagello della guerra e perché faccia germogliare sentimenti di pace in tutta l’umanità. Particolarmente forti sono le preghiere dei nostri bambini che stanno lasciando le loro case a causa dell’occupazione russa, che si nascondono nei rifugi, che sperimentano autentici orrori. Preghiamo con loro affinché ci sia pace nel mondo e nessun ragazzo, donna o uomo del pianeta soffra per un conflitto armato.

 

Alcuni sfollati ucraini davanti alle loro case bombardate

Alcuni sfollati ucraini davanti alle loro case bombardate – Reuters

Papa Francesco ha condannato «l’aggressione inaccettabile» e ha parlato di «strage».

 

L’esercito russo ha trasformato alcune città in cimiteri. Mariupol ne è un esempio. Abbiamo davanti agli occhi i corpi dei nostri connazionali lasciati lungo le strade oppure sepolti nei cortili delle case o nelle fosse comuni. La città intitolata alla Vergine Maria è una valle di lacrime. Quando ci siamo rivolti al Cuore Immacolato di Maria, abbiamo chiesto alla Madre di Dio che illumini anche le menti dei russi.

Il patriarca ortodosso di Mosca, Kirill, ha giustificato l’attacco russo. I cristiani si dividono sulla guerra?

I cristiani ma anche i credenti di altre religioni sono oggi uniti come non mai. Tutti pregano per la pace in Ucraina e nel mondo. Tutti condannano l’aggressione. Nel nostro Paese le fedi si trovano assieme per fronteggiare la medesima calamità e soccorrere la gente. Nelle preghiere comuni chiediamo aiuto per quanti ci difendono anche a costo della vita e invochiamo il Regno dei cieli per coloro che sono morti in questo primo mese di guerra.

 

I profughi in fuga dalle aree dell'Ucraina attaccate dai militari russi

I profughi in fuga dalle aree dell’Ucraina attaccate dai militari russi – Ansa

L’Europa sta facendo giungere ingenti aiuti all’Ucraina. E la Polonia, che dista poco da voi, si è mobilitata.

 

La Polonia ci è accanto, come il mondo intero: di questo siamo sinceramente grati. Il supporto che tocchiamo con mano diventa anche un volano per il morale di quanti hanno perso tutto in un istante. I carichi che entrano nel Paese vengono distribuiti in tutto il territorio. Ma purtroppo ci sono città in cui gli occupanti non consentono di recapitare gli aiuti umanitari: è ancora molto difficile inviare qualcosa a Mariupol. I militari russi sparano sui camion con i beni di prima necessità. Ma noi non ci arrendiamo e continuiamo a lavorare. Nella nostra diocesi la Caritas-Spes di Lutsk è in grado di portare aiuti in numerosi punti caldi del Paese: da Kiev a Kharkiv, fino a Žytomyr.

Il Papa ha fatto appello più volte alla comunità internazionale. La Santa Sede si è proposta come mediatrice tra Ucraina e Russia. Ma i negoziati faticano a decollare.

La guerra non giova a nessuna delle parti in causa. Auspichiamo assieme al mondo intero un cessate il fuoco e una soluzione rapida che ha nei canali diplomatici la via maestra. Sull’esempio di papa Francesco le nostre preghiere sono indirizzate anche alle autorità russe affinché si siedano ai tavoli negoziali. Nonostante oggi siamo impegnati sul campo a difendere la nostra patria, la vera vittoria sarà rappresentata soltanto dalla fine delle ostilità.

Cina accelera su arsenale nucleare su timori conflitto Usa

 © EPA

La Cina sta accelerando l’espansione del suo arsenale nucleare dopo aver rivisto la sua valutazione sulla minaccia posta dagli Stati Uniti.

Lo riferisce il Wall Street Journal citando alcune fonti, secondo le quali la cautela americana in un coinvolgimento diretto nella guerra in Ucraina avrebbe convinto Pechino a dare maggiore enfasi allo sviluppo di armi nucleari come deterrente.

I leader cinesi, precisa il quotidiano, vedono in un forte arsenale nucleare un deterrente per gli Stati Uniti da un coinvolgimento diretto in un potenziale conflitto su Taiwan. (ANSA).