Vocazione all’infelicità. Kierkegaard e il suo rapporto conflittuale con il mondo

Luplau Janssen «Kierkegaard allo scrittoio» (XIX secolo)

Fin dall’infanzia Soren Kierkegaard — come egli stesso annotò nel suo Diario — fu afflitto da «un’orribile malinconia» che cercò in ogni modo di occultare attraverso, per dirla con Pavese, il mestiere di vivere, portando sulle spalle il peso dell’esistenza sfoggiando, suo malgrado, «un amabile sorriso». Una malinconia nutrita di lungimiranza e saggezza, espressa nella celebre frase: «La vita va vissuta solo guardando avanti, ma può essere compresa solo guardando indietro».

A tale spleen baudelariano si legava un carattere solitario e scontroso, come sottolineò la giornalista svedese Federica Bremer, che ebbe modo di conoscerlo dopo che le fu accordata un’intervista. «Era così irritabile — raccontò — da montare su tutte le furie se il sole non mandava i raggi come diceva lui». Ma il filosofo danese, considerato il punto d’avvio dell’esistenzialismo, era anche dotato di una pungente ironia, che investiva indiscriminatamente anche personaggi illustri, per giunta considerati “intoccabili” all’epoca. Nel farsi beffe addirittura di Friedrich Schelling (uno dei tre esponenti dell’idealismo tedesco insieme a Fichte e a Hegel), in una lettera al fratello, a proposito delle lezioni tenute dal collega all’università di Berlino, così scrive: «Schelling chiacchiera senza alcun ritegno. Io sono troppo vecchio per ascoltare le sue lezioni, lui troppo vecchio per tenerle».

Senza scomodare i massimi sistemi di un pensiero filosofico complesso e articolato — che ancora oggi, nonostante l’analisi di molti studiosi, rimane aperto a diverse interpretazioni — Clare Carlisle, lettrice di filosofia e teologia presso il King’s College di Londra, riesce a cogliere alcuni nevralgici quanto semplici aspetti di «ordinaria quotidianità» del filosofo, illuminandone non solo la personalità ma rivelando le scaturigini e le motivazioni sottese alla sua concezione della vita e del mondo: questa “impresa” viene affidata al libro Philosopher of the Heart. Tre Restless Life of Soren Kierkegard (London, Allen Lane, 2020, pagine 368, sterline 25). Attraverso uno stile al contempo elegante e colloquiale, Carlisle (di notevole livello anche i suoi studi sul filosofo olandese Baruch Spinoza, antesignano dell’Illuminismo e della moderna esegesi biblica) pone un forte accento sul versante umano del filosofo, per spiegare il sofferto rapporto che ebbe con il mondo esterno, sentendosi egli impacciato nello stabilire con gli altri un legame che fosse nutrito di fiducia e di sereno abbandono. Come scrive Adam Kirsch in un articolo pubblicato di recente sul «New Yorker», l’infelicità divenne ben presto per Kierkegaard «non una condizione, ma una vocazione». Finì in sostanza per crogiolarsi, in una sorta di compiaciuto vittimismo, in uno stato di dissociazione dalla realtà esterna che di fatto bandiva ogni forma di reazione attiva a un’insofferenza e a un torpore che rischiavano di compromettere la forza del suo pensiero. In merito si sviluppa spontaneo un parallelo con Leopardi: più si ritraeva in sé stesso, in uno sdegnoso atto di sfida al mondo, più la filosofia di vita del poeta di Recanati si caricava di un afflato e di un vigore capaci di trasformare dall’interno quella società sentita come ostile.

Passava ore e ore Kierkegaard nel suo studio, chino su quei fogli che egli — come scrive nel Diario — «imbrattava di appunti contorti e di annotazioni distorte»: eppure il suo isolamento non si tradusse in un distacco dal mondo. Al contrario, il suo cogitare servì da leva per «scoperchiare pentole e per aprire armadi» in cui erano segretamente custoditi alcuni polverosi enigmi dell’universo.

Nel contestare Hegel, il quale riconduceva l’esistenza ad una unità sistemica sovraindividuale, Kierkegaard sosteneva che l’esistenza è «sempre e solo del singolo». E nel rimproverare gli intellettuali per la mancanza di coerenza tra parola e azione, esprimeva la sua «incondizionata ammirazione» per tre figure, Cristo, Socrate e Pascal, il cui esempio di vita, al contrario, aveva incarnato perfettamente la coerenza tra atto pensato e atto compiuto. Come ricorda l’autrice, l’«angoscia» del filosofo consiste principalmente in quel senso di inadeguatezza che nasce dall’impossibilità dell’uomo di essere autosufficiente senza Dio. Da un lato, dunque, il pensiero di Kierkegaard stabilisce il primato dell’individualità, la quale è insofferente di ogni forma di sovrastruttura che ne andrebbe a ledere l’originalità e l’esclusività; dall’altro, lo stesso pensiero giudica irrinunciabile il rapporto dell’individuo con Dio, un rapporto che informa di sé la corrente esistenzialista, declinata nelle sue diverse espressioni ed elaborazioni. Kierkegaard stimava l’individuo, ma non gli individui. A tal proposito, a mo’ di sentenza inappellabile, scrisse: «Il singolo sa, la folla è ignorante». Nel criticare la folla il filosofo, sul filo di una spiazzante ironia, si lamentava non solo di non essere compreso — evidenzia Carlisle — ma anche di essere incompreso non nel modo giusto. Successivamente Oscar Wilde avrebbe ripreso tale rilievo coniando il celebre aforisma: «Vivo nel terrore di non essere incompreso». Nel celebrare invece l’individuo, Kierkegaard dichiarava: «Non c’è nulla che spaventi più l’uomo che prendere coscienza dell’immensità di cosa è capace di fare e diventare».

di Gabriele Nicolò / Osservatore Romano

Cristianesimo e nuova post-modernità

di: Michele Lasala (a cura)

cristianesimo oggi

Michele Lasala intervista Francesco Postorino sul cristianesimo nel contesto attuale di una nuova post-modernità. Postorino ha approfondito le sue ricerche presso l’Università Paris 1-Sorbonne e si occupa di neoidealismo italiano ed europeo e di socialismo liberale. Tra le pubblicazioni recenti: Carlo Antoni. Un filosofo liberista (pref. di Serge Audier), Rubbettino; Democrazia in Lessico Crociano, La Scuola di Pitagora; Bobbio et le marxisme, Droit&Philosophie.

Benedetto Croce, nell’articolo Perché non possiamo non dirci cristiani, del 1942, scriveva che il cristianesimo è stata la più grande rivoluzione che l’umanità abbia mai compiuto, e questo perché ha spalancato all’uomo l’universo della sua interiorità. Questa rivoluzione, per Croce, operò nel centro dell’anima e nella coscienza morale. Io credo che, oggi più che mai, quell’articolo possa – e debba – essere riletto e rimeditato, se consideriamo il fatto che proprio la sfera dell’interiorità è messa in pericolo (Lasala).

  • Sei d’accordo?

Quel saggio ospita una sincera e intelligente adesione al profilo culturale dell’Occidente, e non ne nascondo l’importanza; ma quelle parole non scendono in basso, non sfiorano l’altrove, non si pronunciano sul senso della cristianità, perché si rivolgono più all’intelletto o al consueto rumore della polemica che al cuore. Non dimentichiamo che, per Croce, la storia che accade è l’Assoluto, o Dio.

Per un cristiano, al contrario, la storia è la mia occasione di pronunciare il “sì” a un volto sospeso tra il tempo e l’eterno, e che mi permette di incontrare il tu. Anzi, non sono io che incontro il secondo pronome, ma Cristo che riposa in me, che urla, piange e sorride in me.

Io non sono più io, ma divento Cristo fa. Ecco perché ha ragione il teologo Karl Rahner quando dice che il cristiano del futuro o è un mistico oppure non è niente. Avere Cristo dentro non significa mostrarsi “posseduti” o indiavolati, anche perché la tua umanità non si sposta di una virgola. Ma l’amore che senti acquista una maggiore consapevolezza, la tua coscienza preferisce viaggiare negli spazi non monopolizzati dal criticismo kantiano, e la tua fragilità ha un nome e un impulso di speranza.

  • Cos’è, in breve, il cristianesimo?

Una relazione di amore con chi mi ha donato una Parola eterna e, con essa, mi permette di visitare gli occhi e la biografia del mio prossimo. Una relazione verticale e orizzontale che si nutre di tensioni, di scarto, di buio, di crisi, di intervalli che soffiano luce inedita nella storia. Una relazione che vuole la vita e rifiuta l’incubo di una morte infinita. Una relazione guidata dall’impossibile e che situa al centro il Cristo fa.

Il Cristo dentro è un Cristo in uscita. Non vi è contraddizione. Il Cristo dentro risponde alla dolce dialettica che impegna il mio nuovo io in un continuo combattimento fra la mia naturale volontà e il disegno dell’amore, fra l’egocentrismo e lo svuotamento di sé per… Cristo in uscita, infatti, significa che, appena lo tocco, non vedo l’ora di consegnarlo alle tue miserie. Ecco perché non può esistere un Cristo dentro senza un Cristo in uscita. Il Cristo dentro è già un Gesù che fugge da ogni pericolosa staticità o dal cosiddetto “demone del Mezzogiorno”. Ma Cristo in uscita non vuol dire Cristo fuori.

  • Qual è la differenza?

Il Cristo in uscita si accende quando irrompe il Cristo dentro. Se io ho Lui e sento il profumo della croce, faccio fare l’amore a Gesù con te in questo preciso istante, dove il tempo ignora le regole del Chronos di Anassimandro e predilige la fame del Kairos.

L’irruzione del Cristo

Il Cristo fuori, invece, è un Cristo che non dimora nel mio essere, un Cristo esterno e occasionale, un grande Ente che non comunica, un quadro mai esplorato. Il Cristo dentro e in uscita vince il mondo attraverso l’inedito del Cristo fa; mentre il Cristo fuori soccombe alla normativa/mondo.

  • Il Cristo fa è la replica migliore alla società materialista e capitalistica di oggi?

Il Cristo fa vince il mondo attraverso me. Il mondo è l’insieme dei miei puntini neri e vecchi che annebbiano il secondo sguardo e mi inchiodano nell’odio e nella logica-mondo che mi vuole lupo di mio fratello, tiranno e princeps per qualche dollaro in più. Il Cristo fa mi rende mistico della quotidianità, cioè una persona continuamente rinnovata, non perché io abbia meriti, talenti o perché sono bello e sapiente, ma in quanto Lui dimora nel mio spazio segreto e sconfigge i prodotti della terra intonando la bellezza e l’odore della verità. Oggi devo far fare a Cristo quel che io, nella mia debolezza hobbesiana, non posso fare. Ma non basta dirlo!

Credo che questo sia il tempo dell’azione/più. Non l’azione ordinaria di chi gode della serenità che non tocca, ma l’azione che fa un secondo evento e libera…, quella che mi permette di muovermi con Lui e verso di te. Se la mia parola è più lunga del mio sentire, torno al punto di partenza e sposo nell’estrinseco la cristianità, tifando ad oltranza per riti e folklore.

  • Quindi, mi sembra di capire, vi sono due tipi di cristianesimo?

La differenza, a mio parere, risiede fra il “mistico della quotidianità” e il “cristiano moderato”. Il primo, che prima annunciavo, non è un alieno, uno strano che parla con Dio dalla mattina alla sera, fa rosari sotto la doccia e magari elude l’incontro normale con i suoi simili.

Il “mistico” di oggi è chi ha vinto la sua ombra o il delirio di onnipotenza, e si veste del “Figlio dell’uomo”. Il mistico mangia, scherza e lavora come chiunque altro, solo che il suo io cede il posto a Cristo. E chi ha Cristo dentro non si arrabbia, non scambia il suo viso con una maschera pronta alla guerra, alle crociate, ai fondamentalismi della spada, dell’oratoria o degli stupidi scambi social.

cristianesimo oggi

Chi ha Cristo dentro non vuole vincere, non vuole arrivare primo, non rinforza la sua immagine, non si colloca al centro, non si diverte con le armi dell’individualismo proprietario, non confonde la Parola eterna con proposizioni di odio e di vendetta, proprio perché anela al Cristo in uscita e alla trasmissione imperfetta del mistero.

Nessuno è Gesù, nessuno dunque è perfetto! Nella direzione mistica, infatti, si incammina chi avverte in sé la sfida tra la sua volontà e quella di Cristo: più mi arrendo al suo messaggio (Cristo fa) e più mi affaccio al senso cristiano. Certo, ciascuno di noi naviga nelle notti del tormento a volte senza neppure un salvagente che dia sostegno. Ci si sente soli, delusi, abbandonati, non si sente più il brivido, il mistero assume le sembianze di un castigo, la Provvidenza diviene un nome appiccicato al buio che non guarisce. Nessuna preghiera consola. Nessun atto illumina. E la nostra notte rischia di intercettare il nichilismo di tutti i tempi.

Poi accadono strani velocismi: in un attimo parcheggi la croce fuori casa, dove nessuno può vederla, l’attimo dopo cerchi la luce e ti senti finalmente a disagio con il linguaggio/mondo. Questi sono, appunto, i combattimenti che non terminano mai. Nessuno è Dio! Nessuno sa davvero! Oggi è notte (l’oggi dell’uomo), oggi è mattino (l’oggi di Dio).

Il mistico contemporaneo non è una persona sicura, certissima di tutto e del suo manifestarsi. Egli deve fare i conti con il teatro della post-modernità e accarezza la vittoria sul mondo quando il suo urlo esistenzialistico, ai confini del disincanto, apre le porte all’altrove e dice “mi fido!”.

Il mistico

Vi è, però, un’altra direzione, quella del cristiano moderato, cerimoniale o seduto, che legge Dio come un Ente fra altri enti, ovvero un mio aggiornamento del curriculum esistenziale. Un Dio che vien tirato in ballo solo al momento del bisogno. Un Dio/imprenditore che deve darmi qualcosa, altrimenti non lo riconosco.

Un Dio che ci fa paura. Un Dio/Faraone che ci castiga se sbagliamo o ci premia perché siamo stati gentili in qualche frammento della nostra giornata. Tutti noi cadiamo in questa “orchestrazione religiosa”, me per primo, e spesso non ci rendiamo conto di quel Dio/amore, annunciato nella prima Lettera di Giovanni, che può essere amato e sentito nel profondo solo dal mistico.

  • Chi può essere il mistico oggi?

Chiunque! Il “mistico della quotidianità” è pronto a morire per non far morire Dio. Può scivolare, ma poi si rialza più “sconfitto” di prima. Il mistico perde per premiare te, si abbandona per non abbandonare, si fa “pennellino” per dipingere il volto di Gesù nelle anime che lo inseguono, com’è accaduto alla splendida Teresina di Lisieux. Vive in società e può essere un medico, un ingegnere, un filosofo, un carpentiere, un contadino, un politico (es. Giorgio La Pira), un sacerdote o una suora (es. suor Clare Crockett), solo che agisce con un secondo sguardo e il cuore rinnovato. Gesù dentro, inoltre, non anticipa solo il Gesù in uscita, ma anche il Gesù in mezzo.

  • Una terza dimensione?

Quando te lo consegno impazientemente (Cristo in uscita), si introduce nel senza-tempo uno spazio (Gesù in mezzo) che fotografa lo stupore di una relazione orizzontale fra l’io rinnovato (Gesù dentro-in uscita) e il tu che domanda. Il Gesù in mezzo, dunque, è il respiro-madre che unisce e divide due anime. Senza Gesù in mezzo io non posso conoscere i tuoi luoghi, la tua essenza, la tua paura, il tuo sogno, il tuo desiderio di amare e farti amare. Così le nostre umanità restituiscono alla Verità il suo pane.

Gesù dentro-in uscita e il Gesù in mezzo suonano come infinita prerogativa del mistico contemporaneo, di chi sconfigge la logica/mondo con una tripartizione che ha un solo significato, un solo nome, un solo volto.

È importante insistere sul fatto che il mistico odierno non è un cristiano esagerato, ortodosso, fazioso o post-umano. Ma è il vero cristiano! L’alternativa è il “cristiano soft” incatenato alle prigioni del mondo, schiavo del successo, del protagonismo mediatico e della volontà di potenza. Chi sente il Vangelo fino alle radici è un mistico!

  • Tornando alla prima questione, ti chiedo perché non possiamo non dirci cristiani. A mio modo di vedere, il cristianesimo è talmente radicato nella nostra cultura a tal punto che negarlo significherebbe anche negare Dante, Michelangelo, Raffaello, Manzoni… la nostra storia e la nostra civiltà.

Non sono d’accordo con un’asserzione che rivendica titoli di appropriazione e identità. Il piano ermeneutico di discussione deve essere un altro per un credente. Tertulliano ricorda che non si nasce cristiani, ma si diventa.

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Preferisco di gran lunga la definizione (non definizione) di Romano Guardini, il quale sostiene che sarebbe addirittura più giusto dire, fino all’ultimo momento, “vorrei diventare cristiano!”. Ciò indica la verità in fieri che viene assaggiata da chi si converte ogni giorno al grido inesauribile dell’ora nona.

Il cristianesimo è un’offerta che il mio intrinseco può accogliere oppure no. Bisogna restare in questo aut-aut: una scelta che può trasformare il mio istante. Devo decidermi se inseguire la “morte di Gesù” oppure la “morte di Dio”.

A proposito di “morte di Dio”, il XX sec. è stato contrassegnato dal nichilismo, quel senso del nulla che ancora oggi pervade le nostre vite con le sue fitte ombre. Già Nietzsche sul finire dell’Ottocento ne La gaia scienza, in un ormai noto aforisma, faceva urlare a un folle, in pieno giorno e al mercato, proprio che Dio era morto. E questo perché gli uomini della modernità hanno via via distrutto i fatti della metafisica e li hanno sostituiti con le interpretazioni, e la verità è risultata così un grande inganno.

Noi, uomini contemporanei, oramai diamo per assodato che non vi sono certezze assolute e che soprattutto non c’è nulla oltre l’esperienza mondana. Ma la cosa più terrificante è che questo nulla non spaventa più. Non è più vissuto come un dramma. Anzi si potrebbe perfino dire che gli uomini vivano in un costante divertissement di pascaliana memoria e, ubriacati dalle distrazioni mondane, più che vivere, si lasciano vivere (Lasala).

Nei Four Quartets del 1959, il poeta T.S. Eliot ci ricorda che: « […] i capitani, i grandi banchieri, gli eminenti letterati, i generosi mecenati dell’arte, gli statisti e i sovrani, distinti impiegati statali, presidenti di molti comitati, industriali e piccoli mediatori, tutti vanno verso il buio […] e noi insieme a loro».

Con la morte di Dio, del resto, muoiono le condizioni storiche e trascendentali dell’uomo-cielo, di colui che può vivere partendo dal linguaggio misterioso della morte di Cristo. Vorrei riprendere la battuta finale e provocatoria della risposta precedente.

Gesù che muore

Occorre scegliere tra la “morte di Gesù” e la “morte di Dio”. La morte di Gesù è l’inizio della seconda vita, il gusto di una seconda possibilità che finalmente posso sperimentare, il desiderio di decentrarmi, di annullarmi con il sorriso di nessun tempo, la scelta di rivivere i chiodi perché Lui l’ha fatto per me senza che io glielo chiedessi, la strada che conduce alla tua porta, la voglia di scendere con spregiudicatezza in te, come Gesù ha fatto con la samaritana.

Gesù, infatti, detesta il politicamente corretto, non è un formalista o un uomo dalle buone maniere. No! Lui entra a gamba tesa e scava nelle ferite più profonde. Non dà soluzioni, ma sta con me. Il suo sentirsi abbandonato nell’ora nona è il mio sentirmi abbandonato, il mio smarrirmi nelle peripezie del silenzio e dell’angoscia. Lui lo sapeva, per questo urla l’abbandono. Non tradisce, e ci invita a mostrarlo agli altri e vuole che altri lo mostrino nuovamente a me, con Lui che gioca in mezzo tra le mie inquietudini e le tue domande.

La morte di Dio, invece, è un deserto senza acqua né meta, il buio che inizia già in questa vita. La morte di Dio è l’estinzione dello spazio entro il quale posso affidarmi alla luce inedita. Quando Dio muore, realizzo una nuova crocifissione di Gesù – che non è la “morte di Gesù” nel senso spiegato prima – e faccio resuscitare le ambizioni di un superuomo che riposa nel mio istinto di sopraffazione. Se Cristo vince il mondo con la sua morte, con la morte di Dio/Padre subentra, al contrario, quell’Übermensch che attende il momento propizio per vincere nel mondo.

La morte di Gesù indica lo spegnimento del mio volerti dominare, e mi suggerisce con amore l’Amore dell’inaudito. Io posso morire per te e ridurmi a un niente, poiché Lui si è ridotto a niente. E solo un niente può finalmente incontrare l’essenza del tu.

Con la morte di Dio, per converso, io posso ucciderti, comprarti, oppure abbandonarti ai margini del dolore più oscuro, o ancora potrei dirti che pregherò per te e che ti affido alla Provvidenza, mentre al contempo non ti sento, non ti guardo, non ci sei, non hai un volto, dato che ho eliminato il volto della Verità dal mio cuore. In fondo, basta un attimo per passare dalla morte di Gesù alla morte di Dio, cioè dalla luce alle tenebre, dalla Verità alla menzogna.

  • Se ho ben capito, la morte di Gesù, che distingui dalla morte di Dio, è la Verità senza tempo, il mistero che oggi fa fatica ad emergere. Non ti sembra che, oltre alla morte di Dio, segno dei tempi, si possa a buon diritto parlare anche di “morte dell’uomo”?

Oggi la morte di Dio tende a scavalcare la morte di Gesù in modo scioccante. Uno scandalo che rischia di trionfare sullo scandalo del crocifisso. Anche se è bene insistere, secondo me, sulle lotte interiori e provare a far poca sociologia. Oggi – l’avverbio adottato dodici volte nel Vangelo di Luca – devo impiegare la scelta fra due morti incompatibili: la morte di Gesù mi permette di spegnere la sete di dominio e mi offre un’altra sete tutta da sperimentare; la morte di Dio mi fa bere la stessa acqua della finitudine, intristisce il mio cuore e mi lancia alla ricerca di un dio al minuscolo che fabbrico con mano rozza o intelletto “sapiente”.

La morte di Gesù invoca la morte (positiva) dell’uomo, quella che agogna lo spettacolo dell’infinito; la morte di Dio corteggia la morte (negativa) dell’uomo, quella che mi fa esibire i muscoli e lottare contro di te nel mio oggi, per poi consegnarmi a una disperazione perpetua e senza voce.

Il “fanciullo” di Nietzsche si è aggiudicato la partita a scapito del “cammello” e del “leone”. La sua innocenza deresponsabilizzante è pronta a esprimere un “sì” potentissimo alla terra e a un eterno ritorno dell’uguale nulla. Il nichilista che ha ucciso Dio è un fanciullo che accade nell’insensato e ride di ogni cosa, soprattutto della morte di Gesù.

In nome della laicità – e, se vogliamo, anche a causa di questa “innocenza deresponsabilizzante” –, si è arrivati a togliere i crocifissi dalle aule scolastiche. Nella nostra epoca ognuno deve sentirsi libero di professare o non professare una religione. La questione però è ancora più complessa, perché togliere il crocifisso non è un atto di libertà, bensì un’azione violenta contro la nostra stessa cultura, contro il significato del messaggio di Cristo, che è universale proprio perché smuove lo spirito dell’uomo.

Negare il cristianesimo è negare il principio su cui esso si fonda: «ama il prossimo tuo come te stesso». Non vedere il volto di Gesù è non vedere il volto dell’uomo; e il volto dell’altro, inteso come apertura e come infinito (Lévinas) non desta più in noi nessun interesse. Non sentiamo più alcuna responsabilità nei suoi confronti e siamo diventati sordi all’appello della sua presenza. Non siamo più in grado di compiere una rivoluzione simile a quella che compì Cristo quando «vide» Zaccheo in mezzo alla folla e lo chiamò per nome (Lasala).

  • Fu la prima volta che quell’usuraio si vide nella sua dignità di uomo. Tu come interpreti questo nostro rifiuto del volto di Gesù?

Vi è nell’aria molta stanchezza e disincanto. Il vento che «soffia dove vuole» fa i conti con il vento dell’indifferenza che spara contro l’impossibile. Perché la fede in Gesù è l’occasione dell’impossibile. Le nostre categorie, l’appercezione kantiana, le nostre abitudini non possono contenere il suo mistero. Ecco perché preferiamo condannarlo di nuovo con Pilato, piuttosto che amarlo.

Disincanto

Il mondo suggerisce il possibile e noi gli crediamo. Gesù ci esorta all’impossibile e pertanto lo respingiamo.

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Ci fidiamo del primo battito, del primo compromesso, della prima risposta. Non ci fidiamo della possibilità dell’impossibile: la raffigurazione di un castello interiore ed esteriore (come hanno detto due mistiche), nel quale l’impossibile diviene vita.

E questo impossibile che diviene vita, in effetti, può soltanto accadere se l’uomo comincia a guardare dentro di sé, riscoprendo quella umanità o quella spiritualità che ha purtroppo dimenticato proprio con il suo “sì” alla terra. Ma non quella umanità o “autenticità” di cui parlava Heidegger, che si risolve nell’angosciante nulla, bensì quella che invece si rivela essere – come sosteneva Luigi Stefanini – imago Dei: immagine di Dio (o il “Cristo dentro”, come dici tu) in quanto creata da Dio.

Solo così l’uomo non potrà più essere inteso come un «essere-per-la-morte», ma come un essere per la vita, per l’amore e per l’altro. Insomma, un’apertura sull’impossibile che rifiuta l’accettazione del limite – e della morte – quale unica dimensione possibile per l’esistenza. E, in un certo senso, quella bella frase di Guardini che tu prima ricordavi si accorda con la posizione di Stefanini, perché in fondo voler diventare cristiano significa voler scoprire, giorno dopo giorno, quel Dio che è già dentro di noi, in un percorso che è sì interiore ma capace allo stesso tempo di spianare la strada verso la “possibilità dell’impossibile”, creando un ponte tra me e te al di là di ogni indifferenza. Un percorso che, a ben guardare, richiama anche le riflessioni della Stein sul valore della persona.

Ma il dramma del nostro tempo pare essere l’agnosticismo. Si tende a credere soltanto a ciò che è possibile attestare, verificare. Se c’è un altrove oltre l’esperienza non è dato conoscere. Se c’è un Dio o un Principio al di là dell’accadere non è questione di cui ci si debba preoccupare. Viviamo in una sorta di gaio “non so”, perché l’ignoto non è più motivo di interrogazione (Lasala).

  • Come interpretare questo nostro agnosticismo che si sottrae alle domande più radicali?

L’agnosticismo è la religione della prudenza. Se io non so, se non riesco a vederti, a toccarti, a intercettare le tue smorfie, i tuoi rimproveri, la tua approvazione o la tua stretta di mano, come potrei convincermi della tua esistenza? Comprendo le ragioni dell’agnostico. Anch’io la pensavo così, e i miei volumi precedenti – specie l’ultimo del 2018, dal titolo L’altro Croce. Un dialogo con i suoi interpreti – si cullavano sull’importanza del Sollen kantiano o di quello “azionista” enunciato nel secolo scorso, insomma sul perfetto “dover essere” dagli accenti cosmopolitici che non può coincidere con la grigia contingenza (mondo/storia), elogiata in vario modo dalle correnti filosofiche dello storicismo.

Non rinnego il brivido di voler cambiare le cose. Tutt’altro! Ma il principio primo, il fondamento da cui promana ogni possibilità/impossibile non può rinchiudersi in un condizionale privo di calore; altrimenti la rivoluzione non sarà mai autentica, e l’unica che non può fallire è quella del cuore.

  • Il “non so” non può migliorare il mondo?

Al contrario, l’agnosticismo può migliorare il mondo! Il punto è se riesce a vincerlo, e la risposta è no! Per vincere il mondo, serve Cristo, occorre un corpo, una verità che si fa domanda. Solo un volto, infatti, può permettermi di sentire un altro volto.

L’agnosticismo moderno e contemporaneo costituiscono la variante negativa dell’incertezza; la fede cristiana, invece, rappresenta la variante positiva dell’incertezza. Chi ha fede, infatti, non ha alcuna risposta in tasca. Semplicemente si fida. Non può vedere con chiarezza se accende gli occhi dei sensi. Ha fede chi antepone la pazzia di un mistero all’insipida ragionevolezza del mondo.

La differenza fra il credente e chi si muove nel perimetro agnostico è che il primo non sa e tuttavia avanza nell’inesplorato, sente, si sgancia dall’ovvio e guadagna l’impossibile.

L’agnostico si ferma presto, si fida di “se stesso” e del suo irriducibile io. Ma c’è una differenza ancor più sottile: l’agnostico non può amare sul serio il secondo pronome. Non può amare l’altro di un amore inedito e ricco di gratuità. Al massimo lo può tollerare, come insegna la scuola del riformismo laico e illuminista, oppure lo può rispettare. Non va oltre!

Se si opta per l’incertezza negativa (agnosticismo), si accorcia il nostro essere “esigenti” e si è troppo disorientati per costruire ponti fra uomini e donne, anche perché alla prima tempesta esistenziale si cade giù. Il cristiano moderato, cioè chi ha Cristo fuori, è complice di questa linea agnostica che finisce per arrendersi al vocabolario del mondo. Naturalmente, chi gode di una “certezza di Dio” – tipico approccio fondamentalista – vive uno stato di perfetta tranquillità, calma e lungo riposo; di conseguenza, si abbassa il brivido e, al nuovo disturbo, i ponti si traducono in muri col filo spinato.

cristianesimo oggi

Scienza

L’amore cristiano, l’agape, il trascendente che si fa carne può essere scoperto e vivificato solo da chi entra, con i segni dello stupore e di una positiva incertezza, nelle dinamiche del Cristo dentro-in uscita. Se io ti rispetto o ti tollero, non morirò mai per te, perché non ho Lui in me.

Certo, nei labirinti del bellum omnium contra omnes è già qualcosa avviare le pratiche della tolleranza o del rispetto; ma oggi devo scendere nelle vie paradossali e dipingere con il “pennellino” il Cristo fa, situando in mezzo fra due sfumature una croce che unisce nel grido.

Secondo Russell la religione era nata a causa della paura dell’ignoto e dell’occulto; ma questa paura per lui poteva essere rimossa soltanto dalla libertà della ricerca scientifica. Io faccio fatica a credere che la religione nasca dalla paura, né sono convinto che si possa parlare di libertà in relazione alla ricerca scientifica.

Al contrario, la scienza ci costringe, con le sue minuziose analisi, a restare entro gli orizzonti dell’esperienza arrestando così il pensiero. Non permette di pensare una realtà ulteriore rispetto a quella fisica, e ci imprigiona nella gabbia del misurabile. La religione, al contrario, allarga il pensiero e lo apre all’universale. «Le favole del mondo – scriveva Michelangelo – m’ànno tolto il tempo dato a contemplare Iddio» (Lasala).

  • Che importanza può avere oggi la religione, considerando che queste “favole” sono diventate la nostra dimora?

La tecnica imperialistica risponde, in verità, al paradigma religioso. La religione, infatti, è un dogma che ci allontana dall’imprevedibile e dallo stupore di una relazione.

I fanatici della scienza, della tradizione, gli atei del super-materialismo sono religiosi esattamente come quel “cristiano cerimoniale” che abbiamo visto prima: il cristiano senza Cristo ma con un Dio/imprenditore che deve esaudire i miei desideri qui e ora. La religione, in breve, non è la fede. La prima rifiuta l’amore; la seconda si nutre di un incontro ambientato nell’eterno, di uno scambio di verità e di respiri.

  • Come rispondere alle pretese della scienza e della tecnica?

Si risponde alle pretese della scienza non con l’ira del fondamentalismo, cioè con una diversa religione; bensì con gli occhi della fede, gli occhi di Giobbe, occhi umani, semplici e in tensione che, nonostante il male inspiegabile nel qui e le oneste arrabbiature verso Dio durante la notte esistenzialistica, continuano a fidarsi. L’alternativa è una falsa partita a scacchi contro le “serene” manovre del nichilismo.

settimananews

«Quello che è in crisi, sembra, è quel misterioso nesso che unisce il nostro essere alla realtà, qualcosa di tanto profondo e fondamentale da essere il nostro intimo sostentamento».

«Caro Dio – scrive una giovanissima Flannery O’ Connor nel suo Diario di preghiera citato da Vincenzo Rosito nel libro Poeti sociali (Bologna, Edb 2019, pagine 100, euro 9) — dammi un posto, non importa quanto piccolo, ma fammelo conoscere e mantenere. Se io sono quella che deve lavare tutti i giorni il secondo gradino, fammelo sapere, fammelo lavare e lascia che il mio cuore straripi d’amore lavandolo». Tienimi ancorata al presente, al qui e ora, chiede Flannery. Non farmi scappare dalla realtà, rendimi disponibile ad ascoltare quello che mi dice, mantienimi umile in senso letterale, vicina alla terra, legata a quell’humus che nutre ogni creatura vivente.

Tornano in mente le parole profetiche di María Zambrano, che già a partire dagli anni Sessanta del Novecento denunciava con chiarezza in uno dei suoi testi più noti, Verso un sapere dell’anima, le cause dell’anoressia affettiva, sociale e culturale che affligge il mondo occidentale. «Quello che è in crisi, sembra, è quel misterioso nesso che unisce il nostro essere alla realtà, qualcosa di tanto profondo e fondamentale da essere il nostro intimo sostentamento».

Da tempo — nota la filosofa spagnola — siamo ostaggio di una superbia che non riesce più nemmeno a percepire se stessa, effetto collaterale di un razionalismo cristallizzato in dogma. Zambrano attribuisce questo errore di prospettiva, che pretende di definire tutto il reale entro i suoi limiti («Si crede di possedere la totalità, si crede di avere in mano tutto») a quella mancanza di coscienza della dipendenza e del proprio limite che è l’umiltà. Quell’umiltà intellettuale, che, sola, è «compagna di ogni scoperta». Una diagnosi impietosa che, con il passare degli anni ha confermato la sua verità, smascherando un esilio di fatto («il genere umano non può sopportare troppa realtà», scrive Eliot già nel 1935, in Burnt Norton) ignorato, negato, o anche solo camuffato da indifferenza.

Dammi un posto nel mondo, dammi un compito, anche piccolo, ma reale, chiede Flannery a Dio. Massima concretezza, massima apertura al Mistero; altre variazioni sul tema “umiltà”. Compagna di ogni scoperta, la definisce Zambrano; nel caso della scrittrice americana, l’umiltà è stata madre di racconti e romanzi di miracolosa, geniale esattezza, sinceri fino alla crudeltà.

Anche un lavoro umile e ripetitivo come pulire il pavimento di un ospedale può aprire inattesi orizzonti di senso; è successo a Daniele Mencarelli, poeta e romanziere che scrive spesso sul nostro giornale (e che il nostro giornale segue dal 2010, con recensioni, interviste e pubblicazioni di stralci delle sue opere). Un ospedale è una palestra di realtà, un luogo dove, se la mente e il cuore non hanno smesso di parlarsi, si diventa bravi a intercettare gli sguardi, a cogliere al volo piccole e grandi storie nel tempo di un caffè o di una sigaretta fumata in fretta sul balcone aspettando il giro del mattino dei medici, in reparto. La casa degli sguardi (Mondadori 2018) è il titolo dell’ultimo libro di Mencarelli; la cronaca di una rinascita che ha per data di inizio la firma di un contratto di lavoro al Bambino Gesù di Roma, il 3 marzo del 1999.

Se l’immersione nella dura realtà della sofferenza dei bambini è la cura, più difficile è spiegare la malattia degli anni precedenti: «Io non sono malato — scrive Mencarelli — sono vivo oltre misura, come una bestia più consapevole delle altre bestie. Ormai agli uomini non è più permesso interrogarsi, abbracciare fino in fondo l’insensatezza su cui abbiamo costruito certezze assurde. Perché alla vita, al lavoro, al farsi una famiglia, a queste cose bisogna credere, come un soldato alla guerra. Come se non bastasse un niente a far scattare il destino, a far finire tutto. Perché finisce tutto, non rimane niente. È il niente che mi uccide, che mi ha condotto a questo presente vuoto. Dovrei solo smettere di chiedere, cercare, dovrei solo far finta di non cogliere ovunque l’assenza di qualcosa, qualcuno». L’alcol serve solo a far tacere tutte queste domande insopportabili. «Non ricordo nulla. È la frase che mi ripeto tutte le mattine. Non ricordare nulla. È il mio obiettivo della sera (…) Quattro anni sono riuscito a spazzarli via, un passo alla volta spazzerò via tutto».

Domande ostinate, incalzanti, che diventano canto, se lasciate fluire liberamente. «Undici Ottobre Novantadue — è l’incipit del bellissimo poemetto Storia d’amore (Lietocolle 2015) — sedici gli anni appena scoppiati / mille i cazzotti mille i baci /strappati dalle labbra di un paese /sgranato passo dopo passo, / senza mai soddisfarla veramente / questa fame infelice / questo desiderio cane di carne e vita / di voglie ubriache sempre in festa. / Non arriverà il sonno ma una perdita di sensi / un corpo sfinito che s’arrende / a qualcosa dentro di feroce».

Nella fedeltà al proprio compito («La scrittura è una richiesta d’ascolto. Per me è una specie di comandamento» dice Mencarelli) la realtà torna a parlare; non solo le occasioni speciali o i fatti memorabili, anche le cose che incrociamo ogni giorno lungo la strada verso casa. «La luce sul capannone — scrive Umberto Fiori, un altro poeta che ha trovato nella capacità di farsi interpellare da tutto ciò che incontra la sua cifra comunicativa più autentica — / le due finestre murate / e il fosso, lì sotto, e i platani, / hanno ragione. / Guardi, e ti chiedi / come sia possibile / imparare da loro».

L’umiltà è capace di generare meraviglie. «Non conosciamo mai la nostra altezza / (ora a parlare è la folgorante semplicità di Emily Dickinson) finché non siamo chiamati ad alzarci. / E se siamo fedeli al nostro compito / arriva al cielo la nostra statura. / L’eroismo che allora recitiamo / sarebbe quotidiano / se noi stessi non c’incurvassimo di cubiti / per paura di essere dei re».

di Silvia Guidi in Osservatore Romano

Filosofia. L’ossessione per Dio dell’ateo Cioran

Un libro dell’amico Gabriel Liiceanu indaga la vita e l’intensa, disperata ricerca teologica dell’intellettuale romeno

L’ossessione per Dio dell'ateo Cioran

«Aiutami, Signore, a esaurire il disgusto e la pietà per me stesso, a non sentirne più l’infinito orrore!»; «In me tutto va a finire in preghiera e in bestemmia, tutto diventa invocazione e rifiuto»; «Al colmo dei miei dubbi mi serve un’ombra d’assoluto, un po’ di Dio»; «Chi pregare in fondo a questo universo appassito? »; «Dio, il grande estraneo»: sono solo alcuni delle migliaia di abbaglianti aforismi che Cioran ha dedicato alla questione Dio. Anticristiano e in genere nemico delle religioni rivelate, affascinato dal buddhismo e innamorato della mistica, lo scrittore romeno Emil Cioran (1911 – 1995) non ha mai cessato lungo la sua esistenza di cimentarsi e tormentarsi, non tanto attorno all’esistenza di Dio, ma sulla sua assenza. Costretto a rinunciare a credere in Dio per mancanza di fede, lui che era figlio di un pope ortodosso, che in Romania aveva respirato un humus popolare intensamente cristiano e che sin da giovane aveva rigettato quel mondo in cui non si ritrovava, in realtà non è mai guarito da questa ferita. E ha continuato perennemente a invocarlo o a scagliarsi contro di lui. Lo testimonia un volume dell’amico e allievo Gabriel Liiceanu: Emil Cioran. Itinerari di una vita (Mimesis, pagine 152, euro 15,00), un omaggio da parte del fondatore della casa editrice Humanitas, che in Romania ha pubblicato tutte le opere di Cioran. Il libro ne ricostruisce la vita, a partire dall’infanzia trascorsa nel villaggio di Rasinari (l’unico periodo definito davvero felice) fino al trasferimento per motivi di studio a Sibiu e poi a Bucarest, sinché nel 1937 il giovane professore di filosofia riesce a ottenere una borsa di studio a Parigi, ove rimarrà fino alla morte. In appendice c’è anche il testo dell’ultima intervista filmata, realizzata dallo stesso Liiceanu nel 1990 (oltre che un dialogo con la moglie Simone Boué), ed è qui che a più riprese torna sul tema del credere: «È una questione molto delicata, perché in realtà ho cercato di credere: ho letto tutti i mistici, di cui ammiravo lo stile e il contenuto. Ma poi ho capito che mi stavo illudendo, che non ero fatto per la fede. È una fatalità, non posso salvarmi malgré moi. Non ci riesco». Molti l’hanno definito «ateologo » o «teologo del Nulla», riprendendo lo schema della teologia negativa propria dei grandi mistici. E in effetti per lui «Dio è l’espressione positiva del nulla», come ha scritto e detto in diverse occasioni. Da quando nel 1934 pubblica in Romania Al culmine della disperazione, Cioran s’inerpica sui sentieri di una filosofia dell’esistenza che abbandona tutti i sistemi assoluti, una filosofia che non può essere mai disgiunta dalla perenne ricerca di sé. Gli anni universitari a Bucarest sono consacrati, oltre che ai grandi pensatori tedeschi come Kant e Hegel, alla lettura delle opere di Nietzsche, Simmel, Schopenhauer, Šestov e Bergson, a cui dedica la tesi di laurea nel 1932. E a poco a poco emerge la sua ritrosia verso i formalismi che non hanno implicazioni con la vita concreta, e la scrittura diventa una sorta di terapia. Alle letture filosofiche si aggiungono quelle dei mistici come Teresa d’Ávila e Meister Eckhart, oltre che dei grandi scrittori come Shakespeare e Dostoevskij, che non abbandonerà mai. Scrive in una frase lapidaria nei suoi Quaderni pubblicati postumi: «Sono un miscredente che legge soltanto pensatori religiosi. Il motivo profondo è che solo loro hanno affrontato certi abissi. I ‘laici’ vi sono refrattari o inadatti». In realtà a chi scrive stupisce anche che ben pochi scrittori o teologi cristiani abbiano indagato la sua figura e il suo pensiero, spesso snobbandolo o inquadrandolo come ‘nichilista’ tout court, senza comprendere la sostanza dell’inquietudine estrema che l’animava. E sarebbe anche interessante ricostruire i suoi rapporti con personaggi come Gabriel Marcel, il filosofo esistenzialista cristiano con cui fu amico, o con Paul Tillich, il teologo protestante che incontrò più volte. Come risulta dal volume di Liiceanu, ricchissimo di apparato fotografico, Cioran amava moltissimo Simone Weil e Paul Claudel per la loro capacità di indagare la sofferenza umana, provava simpatia per Romano Guardini di cui condivideva la teoria sulla malinconia, mentre non si trovava per nulla in sintonia con Teilhard de Chardin, accusato (troppo facilmente in realtà) di eccessivo ottimismo sul destino dell’umanità. Giudizi per niente entusiastici riserva poi a Sartre e Camus e persino a Mircea Eliade: «Per lui la religione era un oggetto, e non una lotta… diciamo… con Dio. Secondo me, Eliade non è mai stato un uomo religioso. Altrimenti non si sarebbe occupato di tutti quegli dèi. Chi possiede una sensibilità religiosa non passa la vita a elencare le divinità, facendone un inventario. Non riesco a immaginare un erudito in preghiera». Ma nel libro viene a galla pure l’ossessione per la morte di Emil Cioran, che negli ultimi anni, colpito dal morbo di Alzheimer, ha subìto quell’ottenebramento della coscienza che mai avrebbe voluto che la sorte gli riservasse, assillato com’era dalla lucidità della sua coscienza. «La coscienza è molto più della scheggia, è il pugnale della carne», si legge inL’inconveniente di essere nati, in Italia pubblicato da Adelphi come quasi tutte le sue opere. Ancora, la sua sconfinata devozione verso la musica, per lui vera unica prova dell’esistenza di Dio. Per questo giudicava vani i tentativi dei teologi: che senso ha, diceva, cercare le prove della sua esistenza? Non è sufficiente ascoltare Bach?

in Avvenire

Studiare la Filosofia a scuola aiuterà i lavoratori del futuro

In un mondo altamente tecnologico a cui siamo destinati nei prossimi anni, il ragionamento potrebbe essere l’unica differenziazione fra uomo e macchine.

Lo ha capito anche il presidente della Repubblica irlandese, Michael Higgins, che si è posto la domanda “come deve cambiare l’istruzione in previsione futura e cosa serve davvero ai ragazzi e alle ragazze di oggi, per diventare gli uomini e le donne di domani?”. La soluzione sarebbe quella di puntare sulla Filosofia, già dall’età di dodici anni.

Come riporta Il Sole24 Ore, pare che l’iniziativa sia nata dopo un dibattito sul tema della perdita di posti di lavoro e dei cambiamenti in atto nella società irlandese. Così, dallo scorso settembre, la filosofia, in Irlanda, è entrata a far parte dell’elenco delle materie “irrinunciabili”. E già è in discussione la sua introduzione nelle scuole elementari.

 

“Cosa sono i sogni?” “Chi sono io?” “Cosa è il destino?”: non è mai troppo presto per porsi domande importanti e con lo studio della filosofia i bambini possono essere invitati a riflettere e a confrontarsi, in maniera diretta, su questioni tipiche della discussione filosofica.

Nella Filosofia, dunque, si potrebbe rintracciare uno strumento valido di ragionamento che sin dai primi anni di scuola potrebbe rappresentare il valore aggiunto alle professioni del futuro.

Quindi, concetti come la vita, la gioia, l’amore, la tristezza, la diversità, la pace, la speranza, il tempo, lo spazio, il futuro possono diventare tema di dibattito e confronto e, grazie alla mediazione dell’esperto, diverranno parte del bagaglio di esperienza di ciascun alunno.

L’esempio irlandese potrebbe essere l’inizio della riscossa della filosofia, per troppo tempo marchiata come disciplina inutile, ed invece nel giro di in poco tempo, potrebbe diventate il valore aggiunto per i lavoratori del futuro.

In Italia, però, non  stiamo a guardare: dal 2015 è nata un’associazione culturale FilosofiaCoiBambini, che si occupa di diffondere e custodire il metodo educativo originale di approccio “filosofico” all’istruzione, sin dalla scuola dell’infanzia.

Il progetto, di origine pesarese, è oggi una realtà nazionale che vanta un numero crescente di scuole dell’infanzia e primariache già adottano la sperimentazione (più di 30 Istituti Scolastici in Italia ed Europa solo alla fine del 2015).
La filosofia, come ritengono i creatori del progetto, insegna ai bambini ad utilizzare il controfattuale, allenando così, la loro capacità di immaginare mondi possibili e di trovare soluzioni a problemi concreti e astratti.

tecnicadellascuola.it

Il filosofo Spaemann: senza fini che vita è?

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Andrea Galli – avvenire

«Fini naturali. Storia & riscoperta del pensiero teleologico» il saggio di Robert Spaemann edito da Ares (pagine 464, euro 19,50) viene presentato oggi a Roma, nell’aula magna Giovanni Paolo II della Pontificia Università della Santa Croce (piazza Sant’Apollinare, 49), alle ore 17. Sarà l’occasione per riflettere sull’intero percorso di studio del grande filosofo tedesco. Apre l’incontro il cardinale Camillo Ruini, cui seguiranno il rettore monsignor Luis Romera, i sociologi Sergio Belardinelli e Leonardo Allodi, mentre le conclusioni saranno dello stesso Spaemann.

«Nichilismo: manca il fine; manca la risposta al perché». Il famoso frammento che Friedrich Nietzsche scriveva sul finire dell’800 fotografava il disorientamento di fronte a un mondo in cui venivano meno i valori tradizionali, tra cui, in filosofia, la caduta verticale del finalismo o teleologia, per usare il termine introdotto oltre un secolo prima da Christian Wolff. L’idea per cui nella comprensione del mondo abbiamo bisogno non solo della dinamica causa-effetto, ma anche della domanda sul fine per cui qualcosa viene fatto o è considerato buono. Nel ’900 si è intonato da più parti il de profundis per la teleologia, con un azzardo che più passa il tempo, più si rivela tale. A dimostrare come e perché sia avvenuto l’oscuramento della teleologia, a partire dal tardo medioevo, e come sia possibile oggi un suo recupero, aveva dedicato un corso universitario tra il 1976 e il 1977 Robert Spaemann. Da quelle lezioni, trascritte dall’allievo Reinhard Löw e poi rielaborate, uscì nel 1981 il libro Die Frage Wozu (La questione del perché), che in una nuova edizione del 2005 ha preso il titolo di Natürliche Ziele (Fini naturali, che esce a giorni in libreria per le edizioni Ares. Si tratta di un’opera poderosa per ampiezza dell’analisi storica, da Platone all’epistemologia della scienza contemporanea, e per acribia polemica. Sicuramente il capolavoro di Spaemann, oggi il maggior filosofo cattolico di lingua tedesca, anche se la definizione non gli piace. Preferisce definirsi un filosofo che contemporaneamente è cattolico.

Coetaneo del Papa, per la cronaca, è nato da genitori convertiti : il padre, rimasto vedovo, fu anche ordinato sacerdote.
Professore, cos’è in pillole la teleologia?
«Con teleologia intendiamo l’interpretazione dei processi dal punto di vista della loro finalità. Quando uno entra in un ristorante e ci si chiede il perché, la risposta è: per mangiare qualcosa. C’è naturalmente anche una spiegazione intermedia di tipo materiale, di cui si è occupato già Socrate. Alla domanda rivolta a Socrate sul perché non evade dal carcere, la sua riposta è: perché le mie gambe non si muovono oltre. La risposta al perché non si muovono oltre è: perché io voglio rimanere qui. In questo caso la spiegazione scientifica sarebbe invece la descrizione della contrazione dei muscoli: solo la metà della realtà».
Allargare il nostro concetto di ragione. È un richiamo che Benedetto XVI ha fatto diverse volte, in primis nel discorso di Ratisbona del 2006. Il recupero della teleologia è una via per questo obiettivo?
«Io non direi che la teleologia è la via e l’allargamento della ragione è il fine. Piuttosto che questo allargamento ha come conseguenza la riabilitazione della riflessione teleologica. Alla domanda perché uno entra in un ristorante, non è solo ragionevole rispondere perché le sue gambe lo portano lì, ma anche affermare che ciò avviene perché c’è un fine: mangiare qualcosa. È ragionevole prendere atto di ciò e del fatto che, limitandosi alla causalità, non si ha una descrizione completa della reale».
Quali sono oggi gli ostacoli per questa riabilitazione?
«Dietro alla negazione della teleologia c’è stato e c’è ancora l’interesse al dominio della natura. La riflessione teleologica permette di capire i fenomeni, l’osservazione e lo studio della causalità dei fenomeni conferisce invece il potere di manipolarli. Francis Bacon l’ha espresso in modo efficace: “L’osservazione dei processi naturali sotto l’aspetto del loro orientamento a un fine è sterile, è come una giovane vergine votata a Dio: essa non genera nulla”. O si pensi a Thomas Hobbes, secondo cui conoscere una cosa significa “immaginare cosa possiamo farne, una volta che la possediamo”. Oggi comunque la riscoperta della teleologia è già in atto. I biologi hanno cercato a lungo di farne a meno, ma non ce l’hanno fatta. Così hanno introdotto un altro concetto, la teleonomia, un surrogato della teleologia, con cui si indicano processi che si svolgono come se avessero un fine, ma che in realtà obbediscono solo a una causalità meccanica. Per il biologo la teleologia, ha scritto John B.S. Haldane, “è come un’amante, non può vivere senza di lei, ma non vuole essere visto in pubblico con lei”».
Sempre sul versante della biologia, ha fatto rumore negli ultimi anni la critica alla all’evoluzionismo di matrice darwiniana in nome di un “intelligent design”. Considera anche questo un contributo al recupero della teleologia?
«Penso che la teoria dell’intelligent design – che parla di un progettista al di fuori del mondo – abbia messo in luce una paura che riguarda anche chi è ostile alla teleologia: la paura di Dio. La fede in Dio non è il presupposto della conoscenza di processi teleologici – che può avvenire con mezzi di ragione naturali – semmai è la sua conseguenza. Quando si ha paura di questa conseguenza, cioè di Dio, ci si rifugia spesso in soluzioni fantastiche e irragionevoli. È comunque una paura infondata. Il creatore risiede al di fuori dei processi della creazione. È come se dovessimo analizzare un film sulle vicende dell’umanità. All’origine del film deve esserci sicuramente un proiettore: senza di lui, scompare anche il film. Ma il proiettore non “entra” nelle varie scene. Chi guarda il film può riconoscere dei validi motivi per ipotizzare che ci sia un proiettore alla sua origine, ma non vi s’imbatte direttamente. Così come il fisico non si imbatte direttamente in Dio. Solamente quando parla del Big Bang, lo scienziato si trova di fronte un muro: su cosa ci sia oltre non può dire nulla. Il credente può invece fornire una spiegazione, il che fa dire che le ambizioni della ragione vengono rafforzate dal collegamento con la fede».
Perché la lingua, come lei sostiene in “Fini Naturali”, è un baluardo della teleologia?
«Perché essa è il medium nel quale appare primariamente il significato e nel quale i fatti, in modo irriducibile, non si presentano semplicemente come tali, ma significano qualcosa, stanno come simboli per qualcosa che presuppone un destinatario, qualcuno in grado di comprenderli. Ogni biologo che scrive un libro, non può spiegare la scrittura del libro in modo causale-meccanico. Discutendo una volta con un biologo a Tubinga, dopo la sua relazione ho detto che a noi non interessava capire i processi neuronali sottostanti il suo intervento, ma capire se quello che aveva detto era giusto o no. La lingua non può essere abolita e il suo carattere teleologico neppure. Nietzsche lo aveva compreso e aveva ammesso che, quando un uomo si impegola nel parlare e nell’argomentare, è spacciato: perché “la lingua contiene, fossilizzati, gli errori fondamentali della ragione”».

Filosofia contro tecnocrazia

È forse oggi il pensatore più autorevole sulla scena internazionale. E il suo libro appena tradotto – La filosofia nell’età della scienza (a cura e con un’introduzione di Mario De Caro e David Macarthur), il Mulino, pp. 334, euro 32 – fornisce un ritratto a tutto tondo dei multiformi interessi filosofici di Hilary Putnam.

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Il primo articolo della sua raccolta parte dalla domanda sul motivo per cui la necessità stessa della filosofia è diventata problematica. Qual è la sua risposta?
Una ragione, ovviamente, è che la filosofia, a partire dal Medioevo, passando per i grandi razionalisti Cartesio e Leibniz, per arrivare a Spinoza, Kant e Hegel, ha coinciso con l’onto-teologia, ovvero con le “prove” dell’esistenza di Dio e le teorie sulla sua natura. Ma il passaggio alla cultura moderna (almeno in parte) laica non è sufficiente per spiegare l’avvento di uno scetticismo sul ruolo della filosofia e certamente non rende conto del recente (e precipitoso) declino nell’apprezzamento e nel sostegno delle discipline umanistiche. Credo che una spiegazione migliore si trovi in quanto sosteneva Rudolf Carnap, il maggiore dei positivisti logici. Gli sembrava che le controversie in metafisica fossero sterili e inutili, che i concetti usati risultassero vaghi e gli argomenti inconcludenti, soprattutto se paragonati alle scienze empiriche o alle analisi logiche del linguaggio. L’idea che esista un “criterio” dal quale le discussioni sono risolte e che le discussioni sulle quali non c’è possibilità di accordo o che non sono chiaramente “utili” rappresentino una perdita di tempo discende dal progressivo dominio di considerazioni ispirate a profitto e potere. A mio avviso, invece, le questioni esistenziali più importanti – quelle che rendono la vita dotata di senso e la società decente – sono proprio quelle su cui non troveremo un accordo universale. La discussione ha un valore di per sé, quando mira a ciò che è “importante” (e ciò che è importante non coincide con ciò che è “utile”) ed è condotta con intelligenza e sensibilità. La difesa della filosofia, per me, è parte della difesa dell’umanità dalla cieca tecnocrazia.

In questo senso, quali sono oggi l’importanza e il valore della filosofia? Lei parla di “educazione degli adulti”…
Che la filosofia debba provare a educare gli adulti e, in particolare, a insegnare loro a essere adulti era già il messaggio della Repubblica di Platone. Nel dialogo, Trasimaco sostiene che le uniche cose per cui vale la pena di vivere sono il denaro, il potere e la soddisfazione della lussuria; l’articolata replica di Platone è che vi sono molte altre cose per cui vale la pena vivere, oltre ai beni materiali. Credeva che il mondo potesse essere migliorato, così come le persone, con l’uso della ragione, comprese la ragione teoretica e la filosofia pura. Possiamo certamente sviluppare gli argomenti e le teorie di Platone, ma l’importanza e il valore della filosofia stanno proprio qui: nel rendere migliori il mondo e le persone attraverso il ricorso alla ragione, nel senso più ampio.

Lei considera sia l’aspetto morale della filosofia sia quello teoretico. In che rapporto sono uno con l’altro?
L’aspetto morale riguarda il valore in tutte le sue declinazioni: esistenziale, etico, estetico, politico. Quello teoretico ha a che fare con la natura della realtà, in tutti i suoi versanti: fisico, logico, sociale, psicologico… Essi sono intrecciati perché le indicazioni su come dovremmo vivere e su che cosa renda una vita dotata di senso devono basarsi su una prospettiva almeno approssimativamente corretta del modo in cui funzionano il mondo, gli uomini e le istituzioni, se non vogliamo essere preda di pure fantasie. E le teorie sul modo in cui è strutturata la realtà devono possedere le virtù epistemiche della semplicità, del potere esplicativo e della coerenza, cose che chiamo virtù poiché sono una sottospecie di valori.

Tanta parte della sua riflessione è dedicata alla filosofia della scienza, ma tuttavia lei rifiuta lo “scientismo”. Qual è il ruolo della scienza e quali i confini tra scienza, filosofia e pensiero quotidiano?
Non credo nei confini rigidi, anche se vi sono necessariamente specializzazioni nella conoscenza. Il ruolo della scienza empirica è di spiegare i fenomeni osservabili e di fare congetture sui fenomeni attualmente non osservabili. Il ruolo della filosofia della scienza è di cercare di comprendere le implicazioni metafisiche delle attuali teorie scientifiche e in che modo la scienza riesce a spiegare le cose che spiega. Ma i criteri del “successo” nella scienza come nella filosofia sono carichi di valore (“coerenza”, “semplicità”) e alla fine espressi in termini “comuni”. La scienza e la buona filosofia possono portare a un cambiamento nel modo di pensare ordinario, ma in definitiva dipendono da esso.

Molti studiosi ritengono screditata la metafisica. Lei è in profondo disaccordo. In che senso la metafisica è ancora importante per la filosofia?
Io voglio sapere perché, posto che la matematica non è una scienza empirica, contribuisce così tanto al successo della fisica. Voglio sapere come funziona la mente. Voglio sapere in che relazione stanno i giudizi con la conoscenza dei fatti in quanto tali. Queste questioni non sono importanti per la filosofia, esse sono ciò di cui si occupa la filosofia. Perfino i positivisti logici, dopo averla dichiarata insensata, hanno finito con lo scrivere di metafisica.

Lei ha parlato di uno stretto legame tra fatti, teorie e valori. Inoltre, nega che se qualcosa è un “giudizio di valore” debba essere solo soggettivo. Che conseguenze ha tutto ciò nel dibattito pubblico?
È un tema molto complesso. Basti dire che in un mio recentissimo libro, scritto con Vivian Walsh, ho cercato di mostrare che l’idea fin troppo popolare secondo cui i valori non hanno posto nella scienza ha prodotto effetti disastrosi.

La sua idea di progresso in filosofia è che non sia necessario definire una questione una volta per tutte. Ma allora come si capisce di essere sulla buona strada quando si esercita il pensiero?
Il meglio che possiamo fare è provare a rendere più chiaro ed efficace il nostro modo di pensare qui e ora. Se ci sbagliamo, chi verrà dopo di noi correggerà ciò che avremo lasciato in eredità. Ma non tutta la filosofia del passato è andata fuori strada. Trovo sempre tantissima meravigliosa riflessione nei grandi filosofi antichi.

La Bibbia infinita dei filosofi

Nel 1750 a Königsberg, ai confini della Prussia orientale (ora la città, Kaliningrad, è in Russia) il giovanissimo Georg Johann Hamann non voleva essere considerato un filosofo, anzi diceva di non esserlo affatto. Voleva essere uno che legge la Bibbia. Aveva una formazione quasi da autodidatta e studiava le scienze del suo tempo – in particolare quelle storico-filologiche che andavano affermandosi nell’orizzonte illuministico allora nascente e crescente – piegandole alla lettura della Bibbia, fulcro della sua formazione e del suo interesse culturale e intellettuale. Hamann aveva conosciuto le opere dei maggiori autori del tempo e anche di uno studioso torinese che lo aveva molto colpito, il conte Alberto Radicati di Passerano, di cui aveva tradotto dal francese uno strano libro che aveva messo a confronto due grandi religioni, l’induismo e l’islam. Radicati non era un isolato. Aveva affrontato infatti il problema da un punto di vista tipicamente illuministico per mostrare come le rivelazioni religiose, piene di incongruenze, non possano essere prese alla lettera e solo contestualizzandole con l’aiuto del sapere storico-filologico, collocandole nel loro tempo e cercando di capire, di leggere, di interpretarne il contenuto rivelato come documento storico, sarebbe possibile rendere ragione di ciò che è un testo sacro. E ancora: solo così sarebbe possibile far sprigionare dal testo sacro quei valori universali, frutto della ragione, nei quali tutte le religioni trovano un punto di convergenza. L’obiettivo dell’autore era chiaro: aveva applicato le scienze storico-filologiche a due religioni lontane dalla nostra per motivi di prudenza, ma voleva dimostrare la possibilità di una lettura storica di tutti i testi sacri, e quindi anche della Bibbia, per riconsiderarne il contenuto in chiave razionalistica e quindi universale. Poco dopo si sarebbe espresso in un libello anonimo (pure tradotto da Hamann) di dichiarata confutazione, di critica anche violenta del contenuto della rivelazione giudaico-cristiana. Già sospetto di ateismo, questo libro lo avrebbe fatto condannare. Hamann, pur sensibile a questo modo di leggere la Bibbia, non ne era però completamente appagato, denunciava una certa inquietudine, gli sembrava una lettura povera dove non riusciva a trovare, diceva, «Dio che mi parla». E ciò lo lasciava – come lui stesso affermava – in una grande confusione. Era – così scrisse nella autobiografia – un ragazzo «senz’arte né parte», con le idee che gli fiorivano in testa in modo così caotico da sembrare «un giardino non curato da millenni». Quando aveva venticinque anni accadde però un fatto sconcertante, di cui non sappiamo dare una spiegazione. Gli venne affidata una missione delicatissima e importantissima (forse chi suggerì il nome di Hamann fu Kant che ne aveva grande stima) dalla Behrens, una delle più importanti compagnie di navigazione sia del Mar Baltico sia del Mare del Nord, che teneva i contatti tra quelli che allora erano due grandi potenze, la Russia e l’Inghilterra. Russi e inglesi erano sempre in rotta di collisione sui mari del Nord e la compagnia Behrens, che in quel momento doveva trovarsi in difficoltà, affidò a questo giovane una missione diplomatica volta a trovare un equilibrio, un punto di mediazione tra i due colossi. Era probabilmente necessario operare sotto traccia, il che sarebbe stato impossibile per degli ambasciatori. Adeguatamente informato e fornito di credenziali il nostro andò a Londra; della sua attività diplomatica ci resta un solo documento, una relazione preparata per i due ambasciatori, rispettivamente russo e prussiano, uno scritto molto intelligente e acuto che coglie i nodi della situazione. Ciononostante la missione fallì miseramente, tanto che Hamann, finite le credenziali, finiti i soldi, si ritrovò a Londra solo e disperato, non sapendo né dove andare né come tornare a casa. Si rifugiò in una taverna dove trovò una Bibbia e la lesse, come racconta, dal Genesi all’Apocalisse. Era come non avesse mai letto quel libro che era sempre stato al centro del suo interesse. Lui che conosceva la Bibbia così bene, che l’aveva sezionata, analizzata, ispezionata con i metodi e i criteri del sapere storico-filologico, se la trovò davanti ex novo attraverso questa lettura furiosa e allucinata fino a realizzare una vera e propria scoperta senza la quale – afferma – nessun filosofo, nessun sapiente potrà mai ricavare niente dalla lettura della Bibbia, pur disponendo dei più raffinati metodi di indagine. Il punto essenziale, quello che Hamann dice di avere scoperto in quei tre giorni di lettura febbrile, è la convinzione che la Bibbia sia stata scritta per lui, direttamente Johann Georg Hamann ogni libro, ogni verso, ogni punto, ogni racconto per quanto distante, lontano, appartenente a epoche che non sono le nostre e a culture diverse (culture al plurale, gli era ben noto che la Bibbia è un insieme di tanti libri). Solo così la Bibbia gli parlava e rivelava il suo significato e solo così poteva trovare se stesso ovunque nella lettura. Le conseguenze che ne ricavò non hanno significato solo sul piano esistenziale ma sul piano del metodo di lettura e quindi della filosofia che ne deriva.

Prima conseguenza. Di regola per leggere la Bibbia ci si pone davanti al libro come a un oggetto sul quale esercitare la nostra interpretazione distaccata come fa lo scienziato quando studia una qualsiasi realtà naturale. È un’operazione inutile, ci ricorda Hamann, se non abbiamo il coraggio di rovesciare completamente la prospettiva. E anziché respingere la Bibbia nel passato, trattandola come oggetto, espressione di un’epoca che non è più la nostra, dobbiamo farci noi – ecco il rovesciamento – contemporanei alla Bibbia. “Farci contemporanei”: è la prima volta che nella storia della filosofia emerge questa indicazione. Più tardi Kierkegaard dirà: «Nessuno può leggere il Vangelo se non facendosi contemporaneo al Cristo»; Kierkegaard aveva ripreso quest’idea da Hamann di cui era attento e grande estimatore. Rovesciare il punto di vista, farsi contemporanei al testo non significa retrocedere di duemila anni. Significa strappare, per così dire, la Bibbia al tempo storico e considerarla come lo stesso orizzonte che ci abbraccia, quello dentro il quale noi siamo e quindi come qualche cosa di eterno. Significa portarci all’altezza della Bibbia che è sempre attuale, tanto è vero che così la leggevano i Padri della Chiesa e i mistici medievali, e così possiamo leggerla noi. La prima conseguenza della “scoperta” di Hamann comporta il riconoscimento che nella Bibbia de re nostra agitur, si tratta di noi, anzi si tratta di “di te”, di ciascuno di noi in particolare, il contrario di un noi astratto, dell’essenza umana cara agli illuministi. Ogni singola persona è tenuta a riconoscersi in tutto ciò che lì viene detto. Non siamo mai stati inghiottiti da una balena ma «leggila come se toccasse a te, anzi come se tu lo fossi stato e allora capirai».

Seconda conseguenza. Coloro che ci parlano non sono solo i personaggi della Bibbia, ma gli scrittori della Bibbia e dobbiamo, per quello che sono, soprattutto, prenderli sul serio come persone, impegnate in un vero e proprio dramma religioso e non figure di un teatrino filosofico. Hamann ci avverte – a noi può sembrare una cosa scontata ma non è così – che le parole della Bibbia non sono ipsissima verba Dei, ma espressioni di uomini. E questa è la differenza tra il Corano e la Bibbia. Il Corano si ritiene fatto scendere da Dio stesso parola per parola attraverso l’angelo Gabriele, e perciò di quel testo è possibile solo un’interpretazione assolutamente letterale con tutti i problemi che ne conseguono. La Bibbia no. La Bibbia è opera – dice Hamann – di scrittori. E non sappiamo fino a che punto nei racconti agisca l’imperativo poetico per cui la verità del mito che non è la verità storica è tuttavia la verità. E i personaggi? Ma possiamo davvero farne delle astrazioni o non dobbiamo invece, se la Bibbia è stata scritta per ciascuno di noi, se ciascuno di noi – una volta rovesciata la prospettiva – può portarsi alla sua altezza e riconoscervisi, considerare quei personaggi, attraverso i quali pur Dio ci parla, uomini come noi, con tutti i loro limiti, con tutte le loro miserie, con tutte le loro follie, con tutte le loro perversioni… e prenderli sul serio uno per uno? Non è lecito dissolverli in categorie dello spirito, trasformarli in concetti astratti, in una specie di teatrino filosofico dove a ciascuno è assegnato il compito di rappresentare un’idea da contrapporre a un’altra. Abramo, che ineluttabilmente ci interroga, dal punto di vista umano è un padre criminale. È uno che è pronto a sacrificare suo figlio e a farlo in nome di Dio. Il dramma di Abramo è un vero dramma, da prendere terribilmente sul serio, come se ognuno di noi fosse Abramo. Kierkegaard aveva letto il passo in cui Hamann ci invita ad essere contemporanei non solo del testo ma di Abramo e ad essere pronti a venir messi alla prova come fu messo Abramo con tutto quello che questo significa. Kierkegaard aggiunge, che se c’è una contraddizione da un punto di vista filosofico, l’uomo di fede deve essere pronto a sostenerla e ad affermare due cose antitetiche, che non stanno insieme. Deve avere il coraggio di dire che Abramo è il cavaliere della fede e insieme che Abramo è un delinquente. Dobbiamo leggere la Bibbia filosoficamente ma al di là della filosofia. Se le cose stanno così, se Dio non ha ritenuto di parlare all’uomo faccia a faccia consegnandogli un libro scritto da Lui, ma ha fatto ricorso a musicisti (Davide lo era), a scrittori (i profeti erano soprattutto degli scrittori), agli scribi se questo è il mondo della Bibbia, non dobbiamo temere di sostenerne l’evidenza. La Bibbia è scritta da uomini, è un discorso di uomini per uomini che si sono giovati degli strumenti delle varie arti, della letteratura, della musica, della poesia… Certamente nella Bibbia ebraica non possiamo parlare di immagini ma anche la pittura entrerà prepotentemente nel mondo biblico.

Terza conseguenza. Allora, se la Bibbia è quanto Hamann ci ha testimoniato, dobbiamo avere il coraggio di dire che il canone è aperto, cioè che la Bibbia non finisce, che i libri canonici non sono quelli che vanno dal Genesi all’Apocalisse e basta, dall’Antico al Nuovo Testamento e basta – come è stato stabilito dalle grandi Chiese storiche – ma accettare la possibilità che Dio parli ad ognuno di noi attraverso i suoi poeti, i suoi giullari, i suoi clown in musica, in poesia, in letteratura… magari anche tramite – e lo dice ancora Hamann – musicisti, poeti, scrittori che non sembrano avere nulla di biblico ma nei quali la tradizione (questo è un termine su cui Hamann insiste molto) continua. La Bibbia è un canone aperto. Nessuno ha il diritto di dire: «La Rivelazione è quella e non altra. Il testo sacro – o quell’insieme di testi – e non altri». La Bibbia continua, la Bibbia non è finita con l’Apocalisse. C’è Bibbia, osa dire Hamann, anche in Shakespeare. C’è Bibbia – è più facile dirlo – anche in Dante. E se questo ha un senso noi dovremmo continuare e dire c’è Bibbia anche in Beckett. Harold Bloom ha sviluppato questo tema e ha detto che il canone – in cui si collocano i libri canonici, riconosciuti come rivelati – ha anche un altro valore, per esempio, di ispirazione sotterranea della grande letteratura occidentale quando la letteratura, pur staccata dalla Bibbia, avrebbe continuato, anche talvolta inconsapevolmente, ad ispirarsi ad essa. La vita della Bibbia è al di là della Bibbia, ma è sempre la Bibbia.

LA RIVISTA
Anticipiamo in queste colonne ampi stralci della riflessione pubblicata sull’ultimo numero della rivista “Biblia” (www.biblia.org. ), nella quale Sergio Givone – docente di Estetica all’Università di Firenze – si è riconosciuto esplicitamente nel filosofo lettore, spiegando come ha letto, come ha cercato di leggere, che cosa da queste letture ha ricavato, in sostanza cosa significa per lui la Bibbia sul piano filosofico e non solo
Sergio Givone – avvenire.it