«Quello che è in crisi, sembra, è quel misterioso nesso che unisce il nostro essere alla realtà, qualcosa di tanto profondo e fondamentale da essere il nostro intimo sostentamento».

«Caro Dio – scrive una giovanissima Flannery O’ Connor nel suo Diario di preghiera citato da Vincenzo Rosito nel libro Poeti sociali (Bologna, Edb 2019, pagine 100, euro 9) — dammi un posto, non importa quanto piccolo, ma fammelo conoscere e mantenere. Se io sono quella che deve lavare tutti i giorni il secondo gradino, fammelo sapere, fammelo lavare e lascia che il mio cuore straripi d’amore lavandolo». Tienimi ancorata al presente, al qui e ora, chiede Flannery. Non farmi scappare dalla realtà, rendimi disponibile ad ascoltare quello che mi dice, mantienimi umile in senso letterale, vicina alla terra, legata a quell’humus che nutre ogni creatura vivente.

Tornano in mente le parole profetiche di María Zambrano, che già a partire dagli anni Sessanta del Novecento denunciava con chiarezza in uno dei suoi testi più noti, Verso un sapere dell’anima, le cause dell’anoressia affettiva, sociale e culturale che affligge il mondo occidentale. «Quello che è in crisi, sembra, è quel misterioso nesso che unisce il nostro essere alla realtà, qualcosa di tanto profondo e fondamentale da essere il nostro intimo sostentamento».

Da tempo — nota la filosofa spagnola — siamo ostaggio di una superbia che non riesce più nemmeno a percepire se stessa, effetto collaterale di un razionalismo cristallizzato in dogma. Zambrano attribuisce questo errore di prospettiva, che pretende di definire tutto il reale entro i suoi limiti («Si crede di possedere la totalità, si crede di avere in mano tutto») a quella mancanza di coscienza della dipendenza e del proprio limite che è l’umiltà. Quell’umiltà intellettuale, che, sola, è «compagna di ogni scoperta». Una diagnosi impietosa che, con il passare degli anni ha confermato la sua verità, smascherando un esilio di fatto («il genere umano non può sopportare troppa realtà», scrive Eliot già nel 1935, in Burnt Norton) ignorato, negato, o anche solo camuffato da indifferenza.

Dammi un posto nel mondo, dammi un compito, anche piccolo, ma reale, chiede Flannery a Dio. Massima concretezza, massima apertura al Mistero; altre variazioni sul tema “umiltà”. Compagna di ogni scoperta, la definisce Zambrano; nel caso della scrittrice americana, l’umiltà è stata madre di racconti e romanzi di miracolosa, geniale esattezza, sinceri fino alla crudeltà.

Anche un lavoro umile e ripetitivo come pulire il pavimento di un ospedale può aprire inattesi orizzonti di senso; è successo a Daniele Mencarelli, poeta e romanziere che scrive spesso sul nostro giornale (e che il nostro giornale segue dal 2010, con recensioni, interviste e pubblicazioni di stralci delle sue opere). Un ospedale è una palestra di realtà, un luogo dove, se la mente e il cuore non hanno smesso di parlarsi, si diventa bravi a intercettare gli sguardi, a cogliere al volo piccole e grandi storie nel tempo di un caffè o di una sigaretta fumata in fretta sul balcone aspettando il giro del mattino dei medici, in reparto. La casa degli sguardi (Mondadori 2018) è il titolo dell’ultimo libro di Mencarelli; la cronaca di una rinascita che ha per data di inizio la firma di un contratto di lavoro al Bambino Gesù di Roma, il 3 marzo del 1999.

Se l’immersione nella dura realtà della sofferenza dei bambini è la cura, più difficile è spiegare la malattia degli anni precedenti: «Io non sono malato — scrive Mencarelli — sono vivo oltre misura, come una bestia più consapevole delle altre bestie. Ormai agli uomini non è più permesso interrogarsi, abbracciare fino in fondo l’insensatezza su cui abbiamo costruito certezze assurde. Perché alla vita, al lavoro, al farsi una famiglia, a queste cose bisogna credere, come un soldato alla guerra. Come se non bastasse un niente a far scattare il destino, a far finire tutto. Perché finisce tutto, non rimane niente. È il niente che mi uccide, che mi ha condotto a questo presente vuoto. Dovrei solo smettere di chiedere, cercare, dovrei solo far finta di non cogliere ovunque l’assenza di qualcosa, qualcuno». L’alcol serve solo a far tacere tutte queste domande insopportabili. «Non ricordo nulla. È la frase che mi ripeto tutte le mattine. Non ricordare nulla. È il mio obiettivo della sera (…) Quattro anni sono riuscito a spazzarli via, un passo alla volta spazzerò via tutto».

Domande ostinate, incalzanti, che diventano canto, se lasciate fluire liberamente. «Undici Ottobre Novantadue — è l’incipit del bellissimo poemetto Storia d’amore (Lietocolle 2015) — sedici gli anni appena scoppiati / mille i cazzotti mille i baci /strappati dalle labbra di un paese /sgranato passo dopo passo, / senza mai soddisfarla veramente / questa fame infelice / questo desiderio cane di carne e vita / di voglie ubriache sempre in festa. / Non arriverà il sonno ma una perdita di sensi / un corpo sfinito che s’arrende / a qualcosa dentro di feroce».

Nella fedeltà al proprio compito («La scrittura è una richiesta d’ascolto. Per me è una specie di comandamento» dice Mencarelli) la realtà torna a parlare; non solo le occasioni speciali o i fatti memorabili, anche le cose che incrociamo ogni giorno lungo la strada verso casa. «La luce sul capannone — scrive Umberto Fiori, un altro poeta che ha trovato nella capacità di farsi interpellare da tutto ciò che incontra la sua cifra comunicativa più autentica — / le due finestre murate / e il fosso, lì sotto, e i platani, / hanno ragione. / Guardi, e ti chiedi / come sia possibile / imparare da loro».

L’umiltà è capace di generare meraviglie. «Non conosciamo mai la nostra altezza / (ora a parlare è la folgorante semplicità di Emily Dickinson) finché non siamo chiamati ad alzarci. / E se siamo fedeli al nostro compito / arriva al cielo la nostra statura. / L’eroismo che allora recitiamo / sarebbe quotidiano / se noi stessi non c’incurvassimo di cubiti / per paura di essere dei re».

di Silvia Guidi in Osservatore Romano