Vocazione all’infelicità. Kierkegaard e il suo rapporto conflittuale con il mondo

Luplau Janssen «Kierkegaard allo scrittoio» (XIX secolo)

Fin dall’infanzia Soren Kierkegaard — come egli stesso annotò nel suo Diario — fu afflitto da «un’orribile malinconia» che cercò in ogni modo di occultare attraverso, per dirla con Pavese, il mestiere di vivere, portando sulle spalle il peso dell’esistenza sfoggiando, suo malgrado, «un amabile sorriso». Una malinconia nutrita di lungimiranza e saggezza, espressa nella celebre frase: «La vita va vissuta solo guardando avanti, ma può essere compresa solo guardando indietro».

A tale spleen baudelariano si legava un carattere solitario e scontroso, come sottolineò la giornalista svedese Federica Bremer, che ebbe modo di conoscerlo dopo che le fu accordata un’intervista. «Era così irritabile — raccontò — da montare su tutte le furie se il sole non mandava i raggi come diceva lui». Ma il filosofo danese, considerato il punto d’avvio dell’esistenzialismo, era anche dotato di una pungente ironia, che investiva indiscriminatamente anche personaggi illustri, per giunta considerati “intoccabili” all’epoca. Nel farsi beffe addirittura di Friedrich Schelling (uno dei tre esponenti dell’idealismo tedesco insieme a Fichte e a Hegel), in una lettera al fratello, a proposito delle lezioni tenute dal collega all’università di Berlino, così scrive: «Schelling chiacchiera senza alcun ritegno. Io sono troppo vecchio per ascoltare le sue lezioni, lui troppo vecchio per tenerle».

Senza scomodare i massimi sistemi di un pensiero filosofico complesso e articolato — che ancora oggi, nonostante l’analisi di molti studiosi, rimane aperto a diverse interpretazioni — Clare Carlisle, lettrice di filosofia e teologia presso il King’s College di Londra, riesce a cogliere alcuni nevralgici quanto semplici aspetti di «ordinaria quotidianità» del filosofo, illuminandone non solo la personalità ma rivelando le scaturigini e le motivazioni sottese alla sua concezione della vita e del mondo: questa “impresa” viene affidata al libro Philosopher of the Heart. Tre Restless Life of Soren Kierkegard (London, Allen Lane, 2020, pagine 368, sterline 25). Attraverso uno stile al contempo elegante e colloquiale, Carlisle (di notevole livello anche i suoi studi sul filosofo olandese Baruch Spinoza, antesignano dell’Illuminismo e della moderna esegesi biblica) pone un forte accento sul versante umano del filosofo, per spiegare il sofferto rapporto che ebbe con il mondo esterno, sentendosi egli impacciato nello stabilire con gli altri un legame che fosse nutrito di fiducia e di sereno abbandono. Come scrive Adam Kirsch in un articolo pubblicato di recente sul «New Yorker», l’infelicità divenne ben presto per Kierkegaard «non una condizione, ma una vocazione». Finì in sostanza per crogiolarsi, in una sorta di compiaciuto vittimismo, in uno stato di dissociazione dalla realtà esterna che di fatto bandiva ogni forma di reazione attiva a un’insofferenza e a un torpore che rischiavano di compromettere la forza del suo pensiero. In merito si sviluppa spontaneo un parallelo con Leopardi: più si ritraeva in sé stesso, in uno sdegnoso atto di sfida al mondo, più la filosofia di vita del poeta di Recanati si caricava di un afflato e di un vigore capaci di trasformare dall’interno quella società sentita come ostile.

Passava ore e ore Kierkegaard nel suo studio, chino su quei fogli che egli — come scrive nel Diario — «imbrattava di appunti contorti e di annotazioni distorte»: eppure il suo isolamento non si tradusse in un distacco dal mondo. Al contrario, il suo cogitare servì da leva per «scoperchiare pentole e per aprire armadi» in cui erano segretamente custoditi alcuni polverosi enigmi dell’universo.

Nel contestare Hegel, il quale riconduceva l’esistenza ad una unità sistemica sovraindividuale, Kierkegaard sosteneva che l’esistenza è «sempre e solo del singolo». E nel rimproverare gli intellettuali per la mancanza di coerenza tra parola e azione, esprimeva la sua «incondizionata ammirazione» per tre figure, Cristo, Socrate e Pascal, il cui esempio di vita, al contrario, aveva incarnato perfettamente la coerenza tra atto pensato e atto compiuto. Come ricorda l’autrice, l’«angoscia» del filosofo consiste principalmente in quel senso di inadeguatezza che nasce dall’impossibilità dell’uomo di essere autosufficiente senza Dio. Da un lato, dunque, il pensiero di Kierkegaard stabilisce il primato dell’individualità, la quale è insofferente di ogni forma di sovrastruttura che ne andrebbe a ledere l’originalità e l’esclusività; dall’altro, lo stesso pensiero giudica irrinunciabile il rapporto dell’individuo con Dio, un rapporto che informa di sé la corrente esistenzialista, declinata nelle sue diverse espressioni ed elaborazioni. Kierkegaard stimava l’individuo, ma non gli individui. A tal proposito, a mo’ di sentenza inappellabile, scrisse: «Il singolo sa, la folla è ignorante». Nel criticare la folla il filosofo, sul filo di una spiazzante ironia, si lamentava non solo di non essere compreso — evidenzia Carlisle — ma anche di essere incompreso non nel modo giusto. Successivamente Oscar Wilde avrebbe ripreso tale rilievo coniando il celebre aforisma: «Vivo nel terrore di non essere incompreso». Nel celebrare invece l’individuo, Kierkegaard dichiarava: «Non c’è nulla che spaventi più l’uomo che prendere coscienza dell’immensità di cosa è capace di fare e diventare».

di Gabriele Nicolò / Osservatore Romano