FILOSOFIA Vico più attuale di Hobbes per ritrovare la “polis”

Due volumi analizzano il pensiero politico degli autori e le sue ricadute nel Novecento. Dall’inglese sono venuti i nazionalismi, i totalitarismi e l’idea di guerra di tutti contro tutti. Mentre il napoletano invita a riscoprire l’eredità religiosa

di GIUSEPPE BONVEGNA

Parlare del pensiero politico di Thomas Hobbes potrebbe sembrare quasi scontato oggi, quando l’Europa si trova di nuovo in guerra per la prima volta dai tempi della fine della Seconda Guerra Mondiale: dato che Hobbes è stato il pensatore moderno che ha teorizzato la guerra di tutti contro tutti come aspetto costitutivo della natura umana e l’autorità politica come finalizzata esclusivamente a evitare la guerra e a garantire la pace.

Eppure, il lavoro su >> Hobbes nel Novecento, mandato in stampa quest’anno dall’Istituto per gli studi filosofici di Napoli (a cura di Guido Frilli, pagine 247, euro 23,00), acquista un suo peso specifico se messo a confronto con un’altra operazione simile che Mimesis ha voluto dedicare a un altro autore moderno, successivo a Hobbes, che riveste anche lui un’importanza capitale per la nostra coscienza politica: Giambattista Vico.

Quello che infatti Hobbes, alla metà del Seicento, aveva pensato riguardo alla natura umana e all’autorità politica sarebbe stato solo in minima in parte ripetuto da Vico un secolo dopo, in pieno illuminismo: la natura umana, per Vico, è anche polemos, ma soprattutto polis raggiungibile però, a differenza della città hobbesiana e illuminista, non solo (e non tanto) con mezzi umani ( >>> Polis e polemos. Giambattista Vico e il pensiero politico, a cura di Gennaro Maria Barbuto e Giovanni Scarpato, pagine 360, euro 28,00).

 

Il pensatore napoletano opponeva a Hobbes (e a Cartesio) una visione premoderna «lontana dai sogni sull’età dell’oro e dai vagheggiamenti utopistici» del pensatore inglese che di lì a pochi anni si sarebbero ritrovati e perfezionati in Jean-Jacques Rousseau. Convinto che l’ordine del mondo non derivasse dalla coscienza umana, ma andasse cercato attraverso una Scienza Nuova che individuasse un’altra origine, Vico aveva incontrato la tradizione religiosa, sulla base della quale «il bestione errante » cominciò a uscire dal caos, dando avvio alla storia intesa come Provvidenza: vale a dire cammino non sempre consapevole (ma chiaro nella propria finalità) attraverso il quale l’umanità si protende alla conservazione della vita attraverso il recupero delle Forme ideali nel tempo.

La polis è il momento in cui si realizza la sintesi tra ideale e temporale e Vico, per questo, fu l’iniziatore della filosofia della prassi all’interno del pensiero moderno. Egli intendeva tuttavia la prassi come il tentativo non di rivoluzionare il mondo a partire da un’idea della mente, ma di recuperare un ideale trascendente che non ci appartiene e la cui ricerca dà inevitabilmente luogo a una crisi del pensiero: proprio quando l’ideale sembra essere raggiunto, esso non si lascia catturare e quindi un ciclo della storia si conclude, come se l’umanità, non avendo più ragioni per continuare a perfezionarsi, senta il bisogno di tornare all’immaginazione per salvarsi da quella ‘barbarie della riflessione’ che è l’eccesso di riflessività.

Per questo sguardo rivolto più all’indietro che in avanti, Vico restava una voce inascoltata nell’epoca dell’illuminismo. I filosofi dell’Encyclopédie avrebbero invece fatto della negazione hobbesiana di Dio in nome del pensiero astratto la base di quel progressismo concretizzatosi prima nella Rivoluzione francese e nel nazionalismo ottocentesco e poi nelle rivoluzioni politiche del Novecento (nazionalsocialismo, fascismo e comunismo): le quali si sarebbero presto sviluppate in regimi totalitari, mutuando dal nazionalismo, come ha messo in luce Hannah Arendt nelle Origini del totalitarismo (1951), aspetti importanti come l’antisemitismo. Ma voce, quella di Vico, forse ancora più attuale, rispetto alla hobbesiana, nel nostro tempo: mentre infatti ‘non possiamo non dirci hobbesiani’, perché domina ancora il Leviatano di Hobbes nella prospettiva nazionalista, rivoluzionaria e totalitaria in forme che si estendono (a diversa intensità) dall’Atlantico al Mar Cinese (passando per gli Urali) e che contemplano tutte la guerra come mezzo di risoluzione dei conflitti internazionali, non è inutile riscoprire i fondamenti di un mondo diverso e che abbiamo perduto.

Almeno per incamminarsi, dopo il disincanto weberiano del mondo e la conseguente definizione dello Stato come comunità di uomini che pretende ‘il monopolio dell’uso legittimo della forza fisica’, verso un salutare re-incanto che possa includere, vichianamente, anche un recupero della tradizione religiosa e del suo rapporto con una polis non totalitaria.

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La filosofia? Nacque a Creta nel 2000 a.C.

Per spiegare l’apparente illogicità del titolo del suo ultimo libro, La filosofia prima della filosofia (Scholé, pagine 198, euro 22,00), Luca Grecchi, docente presso l’Università degli studi di Milano-Bicocca, fa ricorso proprio alla filosofia, e precisamente a quella di Aristotele, il pensatore greco vissuto nel IV secolo a.C. Questi elaborò due fondamentali categorie, l’atto e la potenza, che permettono di spiegare e comprendere i modi in cui può presentarsi un ente. A tale riguardo, un esempio semplice è dato dalla gallina e dall’uovo.

Quest’ultimo rappresenta la potenza destinata a diventare una gallina, ovvero un atto, un ente pienamente realizzato. Lo stesso esempio lo possiamo estendere alla ghianda (potenza) e alla quercia (atto). Come trasferire tutto questo alla storia della filosofia? Secondo Grecchi, prima del VII secolo a.C. non esisteva la filosofia in atto, ma quella in potenza sì. Ciò che chiamiamo filosofia, la cui storia siamo soliti far cominciare nel VIIVI a.C. secolo con Talete che si interroga sull’arché (principio) dell’universo, sarebbe la filosofia in atto, quella che giungerà a completa maturazione con Platone e Aristotele. Dunque – spiega l’autore – esiste una filosofia prima della filosofia, una filosofia in potenza, il cui inizio può essere collocato nel XX secolo a.C. all’epoca della civiltà palaziale cretese, e che si prolungherà fino ai Presocratici, che i nostri manuali scolastici indicano come i primi pensatori greci.

Dunque diventa non soltanto possibile ma anche importante il tentativo di ricostruire la storia della filosofia in potenza, quella che, a giudizio di Grecchi, mise le sue radici nella Creta dei primi Palazzi e si sviluppò successivamente, sino a rendersi chiaramente visibile al tempo delle poleis, le famose cittàstato che caratterizzarono un’epoca gloriosa della storia greca. Appurata l’esistenza di questo percorso, l’autore si impegna a identificarne gli snodi principali e a delinearne le caratteristiche più rilevanti, e il libro accompagna il lettore all’incontro con la civiltà cretese e con quella micenea, per poi giungere sino alla fondazione delle poleis in Magna Grecia e in Sicilia e alla nascita della filosofia che lì ebbe luogo. Si tratta di un cammino, durato lunghi secoli, di cui Grecchi avverte tutto il fascino, senza che ciò gli impedisca di affermare che il compito che si è prefisso presenta un alto tasso di discrezionalità. Ma discrezionalità non significa spalancare le porte alla fantasia: non a caso, nell’Introduzione, Daniela Lefèvre Novaro, docente di Archeologia greca all’Università di Strasburgo, scrive: «Immaginare che la filosofia nasca nella raffinata Creta palaziale, la prima civiltà europea che inventò diverse forme di scrittura, è verosimile… In definitiva non possiamo che sottoscrivere la proposta di Luca Grecchi di instaurare un dialogo fruttuoso tra filosofia, storia e archeologia alla ricerca delle origini della filosofia greca tra la Creta minoica e le poleis magno greche e siceliote, auspicando che questa ricerca possa dare origine ad un ampio dibattito sulle radici della

philosophia ».

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Creta: Cnosso

Filosofia per la vita di ogni giorno

Tra i grandi eventi che l’Italia ospiterà nei prossimi anni, ce n’è uno di cui si parla poco. Ci riferiamo al 25° Congresso mondiale di filosofia, che la città di Roma accoglierà nell’estate del 2024 e il cui programma principale è stato messo a punto proprio in questi giorni. Forse se ne parla poco perché ci appare lontano, o forse la filosofia non desta più l’interesse di un tempo. Eppure, si tratta della maggior opportunità di riflettere pubblicamente sul futuro delle società europee nella storia recente del nostro Paese. Un Congresso mondiale non è né un festival, né un convegno accademico. In esso non si parla solo di filosofia. Esso riunisce invece figure della cultura di tutte le aree del pianeta per interrogarsi sul destino sociale, economico, politico, tecnologico e culturale del mondo di oggi. In Italia, e più in generale in Europa, questa funzione critica della filosofia è in parte andata perduta. Proprio nella situazione di crisi che stiamo attraversando, però, è più che mai necessario capire quali possano essere i modelli di sviluppo delle nostre società. Ci andiamo ormai rendendo conto che la lunga emergenza legata alla pandemia non è solo una crisi sanitaria. Il mondo di prima, con il suo stile di vita, le abitudini, anche la leggerezza che ci ha spesso accompagnato, non tornerà più. Forse stiamo realizzando di aver vissuto per troppo tempo in una bolla di relativo benessere, e ci chiediamo cosa ci attende e cosa attende i nostri figli. Il timore, che temo sia fondato, è che le diseguaglianze economiche e sociali crescano in misura drammatica e, con esse, il processo di polarizzazione già in corso su scala planetaria. Da tempo vediamo – e spesso abbiamo scelto di non vedere – gli effetti di questa polarizzazione, di questa esclusione. Li osserviamo nelle periferie delle megalopoli contemporanee, nelle zone rurali più disagiate del pianeta, nelle innumerevoli bidonville che costellano il nostro mondo ma anche nel Mediterraneo ridotto a cimitero di donne, uomini e bambini, nelle migliaia di esseri umani di ogni genere ed età accampati nel gelo dei confini europei, la cui umanità viene costantemente violata dall’indifferenza, dall’apatia con cui le nostre società continuano a far finta di non vedere, di non sapere. Riflettere su quest’umanità, anzi su questa disuma- nità che è anche la nostra, non è un vuoto, retorico esercizio di morale. Si tratta invece di indagarne le ragioni profonde, anche chiedendosi se questo destino di esclusione, a lungo considerato estraneo all’occidente, non stia già investendo anche le nostre società, mettendole di fronte non a una pur grave crisi economica ma a un ben più drammatico rischio sistemico di asservimento economico e, in prospettiva, di subalternità civile. È proprio per comprendere in profondità la portata di queste trasformazioni, e per non ritrovarsi ad accettarle passivamente, che occorre calare la riflessione filosofica nella concreta realtà sociale e storica del nostro tempo. Non illudiamoci di farlo da soli. Per affrontare i principali nodi sociali, etici, politici, spirituali e religiosi del mondo di oggi, il pensiero deve aprirsi a idee e sistemi di valori di ogni regione del mondo, mettere a confronto sensibilità religiose e spirituali diverse, accettare insomma, anzi decidere di rendersi consapevolmente vulnerabile ai punti di vista degli altri: abbandonando l’idea di un immaginario primato dell’occidente e impegnandosi invece a conoscere meglio le altre tradizioni di cultura. Per questo il Congresso mondiale di Roma sarà davvero un grande evento. Intellettuali del mondo intero discuteranno, anzi stanno già discutendo, di relazioni interculturali e interreligiose, di diseguaglianze sociali ed economiche, di democrazia, di accesso all’educazione, di sostenibilità, biodiversità, fratellanza e accoglienza, di problemi legati alla crescente longevità… Eventi di questa portata consentono, come ha mostrato in altro ambito l’Expo di Milano, di ridisegnare il luogo che li ospita. Il Congresso mondiale si iscrive in questo processo di ripensamento, di “ricostruzione” di un tessuto sociale, che in questo caso non investirà uno spazio urbano e architettonico ma il vasto spazio intellettuale nel quale l’umanità dovrà pensare se stessa, al di là delle barriere, dei muri e dei confini che si è essa stessa data.

Quest’impegno è destinato in primo luogo alle generazioni più giovani. Fare il nostro mestiere di filosofi, di educatori, significa in primo luogo aver presente il senso che le culture delle diverse aree del mondo hanno attribuito al processo di civilizzazione e di formazione della persona: un’azione plastica su noi stessi che ci aiuti ad aprirci allo straniero, a capire e accettare nel nostro mondo lo strano, l’anormale, così da espandere i confini della nostra esperienza e accrescere la nostra capacità di comprendere la realtà. In mancanza di tale disposizione a cambiare, a convertirsi, in mancanza di questa generosità o carità che non è un mero valore morale ma un fondamentale dispositivo di comprensione del mondo, nessuna interazione sarà possibile: si avranno allora conflitti di vissuti, di sistemi etici, di civiltà. La duplice via della mente e del cuore, che i filosofi medievali chiamavano itinerarium e gli autori cinesi dao, esprime questa funzione educatrice della filosofia in quanto esercizio che insegna a superare la propria finitudine e a vivere nel mondo attraverso una soggettività più vasta del nostro io particolare. Nell’incontro con studiose e studiosi affermati, e ancor più con coetanei di altre regioni del mondo, studentesse e studenti di differenti età potranno confrontarsi con idee, punti di vista e stili di pensiero spesso lontanissimi dai loro: abituandosi a considerare sempre più il mondo intero come casa propria, ad abitarlo comprendendo le ragioni degli altri, i loro punti di vista, le tradizioni, i costumi. Mai come oggi la combinazione di competenze tecniche e formazione umanistica appare determinante per assicurare piena e informata libertà di scelta, piena cittadinanza, alle nostre figlie e ai nostri figli.

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Con la definizione del programma è iniziato il cammino verso il 25° Congresso mondiale di filosofia, che Roma accoglierà nell’estate del 2024 Non è un festival né un convegno, ma riunisce intellettuali di tutto il pianeta per interrogarsi sul futuro sociale, economico, politico, tecnologico e culturale Mai come oggi la combinazione di competenze tecniche e formazione umanistica appare determinante per assicurare piena e informata libertà di scelta, e quindi piena cittadinanza, alle nostre figlie e ai nostri figli

Festivalfilosofia 2021 mette a tema la libertà

EUGENIO GIANNETTA

«Libertà» è il tema della 21ª edizione di Festivalfilosofia , che si terrà da venerdì 17 a domenica 19 settembre in 40 luoghi e tre città: Modena, Carpi e Sassuolo. Saranno quasi 200 gli appuntamenti in programma tra mostre, spettacoli, iniziative per i giovani, cene filosofiche e oltre 45 lectio magistrali, per una manifestazione che nei suoi 20 anni ha superato i due milioni di presenze e continua a proporre voci nuove in un continuo rinnovamento, soprattutto di pensatori internazionali. L’edizione 2021 – studiata per riflettere sul tema della libertà dopo un difficile anno e mezzo di necessarie restrizioni – è stata presentata ieri a Modena in conferenza stampa, anticipando alcuni dei temi: essere liberi e da cosa, dopo aver provato cosa significhi essere privati della libertà individuale, ma anche libertà in un’accezione collettiva, all’interno dei nostri sistemi politici, passando per abitudini e neuroscienze, cercando di capire come possono influire sulla nostra mente e se rischiano di limitare le libertà.

«Ripartiamo dalle 70 mila presenze dello scorso anno – spiega Gian Carlo Muzzarelli, sindaco di Modena – mettendo in moto la città. Si parlerà di libertà economica, di temi relativi la tutela sanitaria, internet, le libertà individuali. La libertà è una conquista, non cade dal cielo». All’intervento del sindaco sono seguite le parole di Michelina Borsari, membro del Comitato scientifico del Consorzio per il Festivalfilosofia: «La sospensione di alcune libertà individuali è come se avesse irritato un nervo sopito. Abbiamo messo in atto una gerarchia di valori, subordinando – giustamente – la libertà alla salute. Tra i temi che affronteremo anche il concetto di decisione: dalla modernità in poi siamo stati costretti a prendere decisioni in continuazione. Tra le sfide che la filosofia deve affrettarsi ad affrontare, nuovi saperi come le scienze, le neuroscienze e le scienze cognitive. I membri di una società non sono liberi quando ciascuno prende le proprie decisioni, ma quando le libertà dell’uno e dell’altro hanno fini solidali. Il mestiere del festival è alzare il livello di consapevolezza».

La scelta del tema della libertà porta a riflettere su parole di senso comune, cercando di fornire un inventario sul presente e declinando il tema alla luce dell’esperienza sociale e politica. Tra i blocchi tematici che saranno affrontati anche il libero arbitrio, l’addomesticamento, l’abitudine, ma anche il capitalismo digitale: macchine, algoritmi, entità che influenzano la nostra scelta e che, come spiega Barbara Carnevali, membro del Comitato scientifico, danno la sensazione di un «eccesso apparente di libertà che può trasformarsi nell’effetto contrario». A dare una visione a tutto tondo del programma è Daniele Francesconi, direttore del festival: «La questione dell’abitudine, che affronteremo, è per molti versi anche la questione di come riappropriarsi di queste forme di cultura dopo un’interruzione come quella vissuta. Tra gli ospiti, farà il suo esordio Luciano Floridi e interverrà, tra gli altri, Maurizio Ferraris». A concludere gli interventi è Massimo Cacciari, sul concetto di maschera sociale e sincerità: «Non si nasce liberi. La libertà si costruisce e lo si fa sulla base di potenti condizionamenti. La nostra libertà e le scelte che compiamo sono in continua costruzione».

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FILOSOFIA Jullien e l’incontro con l’altro, costitutivo del nostro essere

Esiste ancora l’Occidente inteso come coscienza di una non totale coincidenza della propria identità con quella degli altri. Siamo infatti eredi di una tradizione di pensiero che, grazie a Platone, Aristotele ed Agostino, ha sempre sostenuto che per conoscere sé stessi bisogna conoscere anche l’altro: e che l’amore di sé, se non diventa amore di Dio, scade nel narcisismo e nei suoi molteplici camuffamenti, i quali possono sussistere (e fare danni) anche quando includono forme di relazione e comunicazione reciproca. Parigi permane quindi nel suo ruolo di centro irradiante di una proposta che nel XIII secolo l’aveva resa, nelle aule della Sorbona, la nuova Atene cristiana. Proposta che oggi continua a farsi sentire, ad esempio, tra le recenti pagine di François Jullien, docente all’Université Paris VII-Denis Diderot della capitale francese, pubblicate quest’anno in Italia da Fel- trinelli: L’apparizione dell’altro. Lo scarto e l’incontro (pagine 176, euro 18,00). Quando scrive che «si esiste solo in quanto si può incontrare: se smetto di incontrare, la mia vita si esaurisce». L’incontro con l’altro non è l’incidente di percorso di una vita che dovrebbe magicamente compiersi da sola, ma fa parte della nostra natura: per trovare l’altro basta quindi essere disponibili ad aprire un varco in ciò che troppo superficialmente consideriamo banale e familiare e iniziare a vederlo nella sua vera identità. Per conoscere l’identità dell’altro devo aprire la mia: e viceversa, l’altro deve aprire la propria, se vuole conoscere la mia identità. Parigi e Roma non sono antagoniste, perché l’Illuminismo europeo solo nelle sue correnti più radicali ha corroso la coscienza classico-cristiana dell’altro. Dove, infatti, l’illuminismo non ha rifiutato la radice cristiana (Montesquieu), ha teorizzato il governo rappresentativo della legge attraverso le istituzioni parlamentari modellate sul precedente costituzionalismo inglese, le quali, a loro volta, affondavano le radici almeno nella medioevale Magna Charta del 1215 e nella filosofia politica francescana inglese del XIV secolo (Guglielmo di Occam). La domanda che quindi non possiamo fare a meno di porci, sulla scia di Jürgen Habermas (che ormai dall’inizio del nuovo millennio guarda con favore alla tesi delle radici cristiane dell’Europa), è quanto l’identità cristiana costituisca quella condizione senza della quale non può esserci autentico pensiero della differenza, ma si torna all’anima anti-cristiana dell’illuminismo: il sogno di paradisi terrestri inesistenti o la teoria della democrazia diretta degli eguali di Rousseau, poi tradotta in pratica da Robespierre, Lenin, Mao Tze Tung e Stalin attraverso la dittatura totalitaria del partito prima giacobino e poi comunista.

Una situazione che Paul Ricoeur, nell’ultimo decennio del Novecento, chiamava «pluralismo cattivo », nel quale le differenze diventano indifferenti. Vengono cioè promosse, ma fino al punto di essere rese forzosamente uguali l’una all’altra oppure (e forse anche peggio) a sé stessi: facendo intravedere l’ombra inconfessabile del pensiero unico o, come avrebbe detto Platone, della tirannide.

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FILOSOFIA. Balsamo e la bellezza: una lingua da parlare

Avvenire

Per quanto citata sino a sfiorare l’abuso, l’espressione «La bellezza salverà il mondo», che Fedor Dostoevskij mette in bocca al principe Miškin, il protagonista del celebre romanzo L’idiota, conserva una sua straordinaria potenza, forse anche perché si ricollega a una tradizione assai lunga e feconda, all’origine della quale possiamo collocare Platone, che, nel Fedro, asserisce che fra tutte le sostanze perfette soltanto alla bellezza «toccò il privilegio d’essere la più evidente e la più amabile ». Su questa linea si pone Beatrice Balsamo, della quale è stato da poco pubblicato il denso volume intitolato proprio Nella Bellezza. Quando la parola manca che viene presentato domani, sabato 28 novembre alle ore 19, a Verona, nell’ambito del Festival della Dottrina sociale.

La prima sottolineatura la merita il titolo del libro, per il fatto che in esso il termine ‘bellezza’ risulta scritto con la lettera maiuscola. Si tratta di un particolare apparentemente trascurabile ma, in realtà, assai significativo perché fa subito comprendere che l’autrice vuole condurre il lettore verso uno spazio che va oltre la dimensione meramente materiale. Non casualmente, il primo capitolo viene dedicato a un’attenta critica della mentalità, assai diffusa, di coloro che pensano che l’imperativo a cui obbedire sia «Godi, soddisfati», mentre, al contrario, il consiglio migliore è del tutto differente e indica all’uomo una strada ben diversa: «Odi, pensa».

Beatrice Balsamo è convinta che spesso oggi si faccia un uso sciatto e inconsapevole della parola, a volte persino manipolatorio: ciò comporta la perdita di senso. Di fronte a questo fenomeno pericoloso e distruttivo (del quale ancora una volta fu perfettamente consapevole Platone) esiste comunque una via d’uscita, quella della “Bellezza condivisa”. Scrive l’autrice: «La Bellezza, con la sua forza unificante, è pensiero trasformativo verso una ricomposizione dell’esperienza. È rinascita, ma pure giustizia. È funzione vitale, risveglia e approfondisce il senso della vastità e della pienezza che ci riguardano, è giudizio e critica, è capacità di scelta. È slancio, modo di operare, in qualche modo ‘opera d’arte’ sulla materia vivente, è gesto di vita luminoso».

Il campo su cui si gioca la partita decisiva per affermare il valore e il primato della Bellezza è dunque quello della parola. Se la partita sarà vinta, il futuro avrà meno ombre: «Il linguaggio della Bellezza, infatti – afferma con passione la Balsamo – è il linguaggio dell’ascolto integrante, il linguaggio che originariamente è gesto di me attraverso e attraversante l’altro, atto di continua reinvenzione del mondo e di costruzione dell’umanità. La Bellezza è svelatezza e cura».

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Beatrice Balsamo

Nella Bellezza

Quando la parola manca

Mursia. Pagine 142. Euro 16,00

«Così la filosofia ha riscoperto la realtà»


Realtà

«L’antirealismo era mosso spesso da ragioni intellettuali e politiche, però ha esaurito la sua forza propulsiva e spesso porta a risultati, teorici e pratici, che molti ritengono inaccettabili»

Mario De Caro

Mario De Caro

Avvenire

Da Bentornata realtà, antologia da lei curata nel 2012, a semplicemente Realtà di oggi, una agile monografia che non ha bisogno nemmeno di un sottotitolo. Il realismo è dunque tornato protagonista in filosofia e sulla scena culturale? E che cosa significa questo?

Nell’ultimo paio di decenni il tema della realtà è tornato al centro del dibattito filosofico da cui, per varie ragioni, era stato estromesso nel secolo scorso – risponde Mario De Caro, filosofo con cattedra a Roma Tre e alla Tufts University di Boston, esecutore letterario del grande pensatore americano Hilary Putnam e autore dell’appena pubblicato Realtà ( Bollati Boringhieri, pagine 126, euro 13,00) –. Un fattore fondamentale di quella estromissione fu la cosiddetta “svolta linguistica”, che accomunò il mondo analitico (da Frege e Russell sino a Dummett e Davidson) e quello continentale (con lo strutturalismo, ma in un certo senso anche con Heidegger, il quale con audace metafora georgica aveva proclamato che il linguaggio è “il pastore dell’essere”). Se il punto di partenza dell’indagine filosofica è il linguaggio, la questione della realtà arriva molto dopo – se arriva affatto. Un’altra ragione, parzialmente indipendente, dell’oblio filosofico in cui la realtà cadde per parecchi decenni fu l’avversione verso la metafisica di molti filosofi del secolo scorso: e, di nuovo, ciò avvenne sia in ambito analitico (si pensi al positivismo logico o alla tradizione legata alle Ricerche filosofiche di Wittgenstein, via via sino a Rorty) sia in quello continentale (con il postmoderno, il decostruzionismo, il pensiero debole). Oggi però, appunto, nelle discussioni filosofiche la realtà è tornata in pompa magna: e ciò soprattutto perché l’antirealismo – che pur era mosso spesso da nobili ragioni intellettuali e politiche – ha esaurito la sua forza propulsiva e spesso porta a risultati, teorici e pratici, che molti ritengono inaccettabili.

Viene da chiedersi che cosa sostengono gli anti–realisti e chi sono.

Premessa: ogni filosofo serio è realista su alcune questioni e antirealista su altre. Una filosofia integralmente realista sarebbe trivialmente onnivora, priva di ogni punto di vista; mentre una filosofia integralmente antirealista sarebbe l’equivalente filosofico della pagina bianca di Mallarmé. Ciò detto, con il termine “antirealismo” oggi in genere si intendono le concezioni che, da una parte, rifiutano di considerare l’idea della realtà nel suo complesso come una nozione sensata e, dall’altra, non ritengono che la scienza offra un punto di vista rilevante per le discussioni filosofiche. Queste concezioni hanno avuto una funzione propulsiva e antidogmatica, ma oggi tendono a ripetere stancamente tesi sviluppate nel secolo scorso. E questo è il migliore dei casi, perché nel peggiore l’antirealismo produce forme di irrazionalismo francamente velleitarie e talora pericolose. Spesso, per esempio, il negazionismo rispetto alle questioni sanitarie è prodotto da questo humus filosofico.

La posizione realista non mette tutto a posto. Ci sono domande chiave che il libro affronta. Per esempio: meglio affidarsi ai sensi o alla scienza per indagare la realtà? Che dobbiamo fare con le proprietà qualitative – colori, suoni, odori – che Galileo aveva escluso dalla scienza? Le entità collettive, come le multinazionali, per non parlare di quelle non materiali, come i numeri, che statuto hanno? E i giudizi morali su che cosa si basano?

Un momento cruciale per la discussione su quale sia il migliore realismo filosofico si ebbe tra fine Cinquecento e inizio Seicento, quando l’Italia era ancora il centro della cultura europea (bei tempi). Si sviluppò allora una vivacissima discussione tra un partito culturale di matrice aristotelica e uno di matrice platonica (a cui apparteneva Galileo). Quella discussione riguardava il modo in cui si deve intendere l’idea di realtà naturale. Per i platonici il mondo vero era solo quello delle entità matematizzate di cui ci parlava la nuova fisica: un mondo in cui c’era posto per entità inosservabili (come gli atomi) ma non per le cosiddette “qualità secondarie” (colori, odori, sapori) che sono un prodotto della nostra mente. Questa discussione – con i dovuti aggiornamenti – è viva ancora oggi.

E infatti, in realtà – il gioco di parole è voluto – anche oggi esistono diversi realismi. Definiamo in breve quello ordinario e quello scientifico.

Secondo il realismo ordinario (che è erede del partito aristotelico di cui abbiamo parlato) il mondo reale è sostanzialmente quello che esperiamo con la percezione, mentre la scienza naturale – soprattutto quando fa riferimento a entità inosservabili, come i buchi neri e gli atomi – è un utile strumento di previsione, ma non ci parla veramente del mondo così com’è. Questa opinione è propria della fenomenologia a partire da Husserl e di molta parte della filosofia continentale, ma è anche difesa da uno dei maggiori filosofi della scienza contemporanei come Bas van Fraassen. Il realismo scientifico (difeso, per esempio, da Quine e da Searle) assume il punto di vista opposto. Secondo questa concezione, è la scienza naturale a descrivere il mondo così com’è, mentre la percezione ci mostra un mondo che è nulla più di un’approssimazione di quello reale, perché il mondo reale non è colorato, non ha suoni né odori. Inoltre, mentre oggi i realisti ordinari tendono ad accettare come legittime le pretese oggettive della morale (in fondo, noi percepiamo la sofferenza delle persone e per questo sappiamo che dovremmo aiutarle), molti realisti scientifici sono scettici sull’oggettività dei giudizi morali.

Il più nuovo e interessante è il realismo pluralistico (o naturalismo liberalizzato). Come nasce, che cosa sostiene e come può mettere d’accordo (quasi) tutti?

L’idea fondamentale del naturalismo liberalizzato è che tanto il realismo ordinario quanto quello scientifico sono plausibili nelle rispettive tesi positive ma le accompagnano con tesi negative molto recise e unilaterali. Questa duplice unilateralità dipende da una tendenza intellettuale molto diffusa, ma spesso fuorviante: quella alla semplificazione. La realtà però non è semplice, ma estremamente variegata. Assumendo questa prospettiva, il naturalismo liberalizzato è caratterizzato da un costitutivo pluralismo, sia sul piano ontologico sia su quello epistemologico: accetta, cioè, che sia la percezione sia la scienza parlino della realtà. Ovviamente, è una posizione complessa: ma di soluzioni semplici, nella storia del pensiero, ne abbiamo avute sin troppe.

Libro: «Il Dio dei senza Dio»

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14 novembre 2020 – Osservatore Romano

Piuttosto che di essere recensito, il libro di Franz Coriasco, Il Dio dei senza Dio. Riflessioni agnostiche sul più paradossale degli dèi (Cinisello Balsamo, San Paolo, 2020, pagine 224, euro 18) chiede di essere raccontato, perché le vicende di un animo e le esperienze interiori non possono essere passate al vaglio della critica, come accade nel caso di un saggio o di un romanzo. Tanto più se ciò deve avvenire nello spazio, necessariamente limitato, di una recensione. Certo, nel volume sono presenti non poche argomentazioni e affermazioni di carattere teologico e filosofico, ma tutto questo viene filtrato dal protagonista e rielaborato all’interno di un racconto autobiografico, una specie di originale diario intimo. E un diario non è recensibile.

La prima fondamentale informazione che l’autore dà al lettore riguarda il suo ateismo: da trent’anni Franz Coriasco ha perso la fede; non crede più in Dio, ma nello stesso tempo ritiene che il suo confronto con l’Altissimo non sia concluso: per questo motivo si presenta come un agnostico che, pur non credendo, non esclude che Dio possa esistere e, dunque, continua a domandare di Lui, perché questo enigmatico Signore gli si propone come una presenza (o una assenza) problematica. A quale Dio si riferisce Coriasco? A quello, ricordato nei Vangeli di Matteo e di Marco, a cui si rivolge il Crocifisso gridando «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Fu Chiara Lubich a far riflettere a fondo Franz su quell’urlo straziante: anche lei aveva incontrato Gesù abbandonato e ne aveva fatto il centro della propria vita, identificandolo con gli ultimi, i poveri, i senza speranza, con tutto il dolore del mondo; un Gesù da amare, amando gli abbandonati.

Fu, per Coriasco, allora adolescente, una testimonianza decisiva. Ma verso la fine degli anni ’80 del Novecento, la fede svanisce. In quel periodo tanto complicato un evento si impone: l’incontro con Chiara “Luce” Badano, che morirà giovanissima e che nel 2010 è stata elevata agli onori degli altari. Coriasco ha una certezza: «Gesù Abbandonato è stato indubbiamente il Dio di Chiara Luce». Ma la fede non torna. Improvvisamente, nell’oscurità di una vita sempre più cupa e intristita, irrompe l’amore. Franz si sposa, ma dopo poco il matrimonio fallisce e si conclude con il divorzio, che lo lascia nello smarrimento, incapace di trovare alcuna consolazione, neppure in quel “Gesù Abbandonato” che una volta gli era sembrato il rifugio più rassicurante. D’altra parte, in quale altro modo porsi di fronte a un Dio il cui Figlio muore inchiodato a una Croce, sperimentando l’abisso della solitudine e del nulla? Potrebbe essere questo Dio «azzerato» — si chiede ancora Coriasco — a offrire la risposta decisiva?

Ad aiutare Franz nell’ approfondimento di questi temi davvero brucianti fu Giuseppe Zanghì, anima eletta e amico di una vita, che il nostro autore ricorda costantemente con gratitudine: insieme discutono del dolore e dell’amore, dell’uomo e di Dio, della Trinità e del demonio, della fede e dell’ateismo, di tutto ciò che, insomma, interessa drammaticamente Coriasco e che poi è rifluito nel libro, soprattutto nella seconda parte, occupata da quelle «riflessioni agnostiche» che ne caratterizzano il contenuto.

In questo contesto, l’autore colloca varie considerazioni sul ruolo della fede cristiana e della Chiesa, che ai suoi occhi sembrano aver perso lo smalto sanamente provocatorio che dovrebbero contraddistinguerle. La crisi religiosa appare una parte della più generale crisi che sconquassa il mondo e, in particolare, l’Occidente una volta cristiano. Soltanto l’Abbandonato mostra la capacità di non finire travolto dallo sfacelo, che Coriasco giudica imminente.

Su tutto, incombe la tragedia del male che da sempre interroga e angoscia l’umanità e trafigge il cuore dei credenti. Ancora una volta per l’autore la sola presenza plausibile appare quella del Crocifisso, dell’Abbandonato: l’unico cristianesimo in grado di resistere alla tempesta della contemporaneità è quello che ha al centro il Dio che per amore si spoglia di ogni sua prerogativa, quello che Chiara Lubich definiva il Dio degli atei e, dunque, anche il Dio di Franz Coriasco.

Il libro non si conclude con un colpo di scena e l’autore conferma fino all’ultima pagina il proprio agnosticismo. La sua storia e le sue riflessioni, che ho cercato di sintetizzare, offrono infiniti spunti per pensare e meditare. Spero che a Coriasco non dispiacerà se, per concludere questa mia “non-recensione”, mi affido al celebre pensiero di Blaise Pascal in cui Gesù dice all’uomo: «Consolati, tu non mi cercheresti, se non mi avessi già trovato».

di Maurizio Schoepflin