Massari sul Parco Innovazione: “Attrarre nuovi servizi, residenze e facoltà universitarie”

REGGIO EMILIA – Il candidato sindaco del centro sinistra, Marco Massari, interviene sul futuro del Parco Innovazione. “Ho partecipato sabato all’inaugurazione della riqualificazione dell’ex Mangimificio Caffarri in Via Gioia, ultimo in ordine di tempo di una serie di eventi che hanno avuto il merito di mettere in evidenza il lavoro svolto sul Parco Innovazione alle ex Officine Reggiane. Un progetto che ritengo di grande valore, quello alle ex Reggiane. In questi dieci anni si sono insediate nuove imprese, laboratori, la prima comunità energetica e il IV polo universitario sul digitale che contribuirà a sviluppare nuove competenze per il territorio, a partire da Ottobre, con oltre 2.000 studenti.

“E’ una grande opportunità – prosegue Massari – Possiamo attrarre l’insediamento di altre nuove imprese ad alta capacità di innovazione e sviluppare ulteriormente le vocazioni dell’Università proprio nelle aree della transizione energetica, digitale e della conoscenza. Portare laboratori, imprese, ricercatori e professionisti significa portare anche nuovi servizi e residenze per le persone e le aziende che qui lavorano. Significa rendere sempre più vivo un grande quadrante della nostra città.

La nuova sede della Pallacanestro Reggiana e il recupero di un capannone da destinare in maniera permanente ad eventi e spettacoli sono due esempi concreti già in cantiere ma si stanno progettando anche altri interventi di recupero degli spazi. Sono progetti e obiettivi che il gruppo di lavoro sul programma sta affrontando con serietà e di cui stiamo già ragionando insieme a tutta la coalizione che sosterrà la mia candidatura a sindaco, nell’ottica di massima condivisione dell’impegno che ci aspetta. Un impegno che ci prendiamo volentieri, nell’ottica di valorizzare ulteriormente un grande intervento di rigenerazione che sempre più dovrà essere volano per sviluppo economico, cultura, educazione, coesione sociale, sicurezza e socialità”.

laliberta.info

Pd vuole evitare di finire come i socialisti francesi

La sconfitta elettorale del 25 settembre ha convinto il segretario dem Enrico Letta ad annunciare un passo indietro e ad avviare una vera rifondazione, a cominciare dal nome del partito

pd evitare declino socialisti francesi

AGI – La sconfitta del Partito Democratico alle elezioni politiche e il percorso che ora intraprende con il congresso chiamato a riformare il partito dalle fondamenta ricorda, per certi versi, la parabola del Partito Socialista francese, che negli ultimi anni ha vissuto una crisi gravissima fino a diventare quasi inesistente. Una parabola che i dem nostrani vogliono a tutti i costi scongiuare.

Fondato nel 1969 dalla fusione tra la Sezione Francese dell’Internazionale Operaia (Sfio) nata nel 1905 con la leadership di Jean Jaures, e alcuni movimenti socialisti, ha subito diverse scissioni, tra cui la più recente del Partito di Sinistra (Fronte di Sinistra, oggi La France Insoumise di Jean-Luc Melenchon).

Il partito socialista francese è sempre stato organizzato in correnti, che nel corso degli anni sono state all’origine delle scissioni. Il declino del partito, iniziato alcuni anni fa, è stato preceduto da un periodo di incertezza negli anni Novanta, precisamente dopo la vittoria alle elezioni politiche del 1997 grazie alla quale Lionel Jospin si guadagnò la nomina a primo ministro dall’allora presidente gollista Jacques Chirac (dando il via alla terza coabitazione della Quinta Repubblica).

A guidare il partito, nel novembre dello stesso anno, fu scelto Francois Hollande, eletto segretario con il 91% dei voti contro il 9% ottenuto da Melenchon. Sono stati anni in cui il partito è profondamente cambiato, in particolare a partire dal congresso tenuto a Le Mans nel 2005, nel quale si approvò un’ampia ristrutturazione che comprendeva, per esempio, la parità fra uomini e donne nelle candidature per le elezioni legislative del 2007.

In quel momento entrarono nel partito nuovi membri che ne modificarono la pelle. Tutti questi cambiamenti rafforzarono Segolene Royal, che fu poi candidata dal partito alle elezioni presidenziali del 2007.

La sua sconfitta contro Nicolas Sarkozy spinse il partito, e la sinistra più in generale, a mettersi in questione. Esponenti storici come Laurent Fabius e Dominique Strauss-Kahn chiesero una rifondazione sulla base del pensiero socialista.

Nel 2008 Martine Aubry fu eletta segretaria battendo Royal per una manciata di voti. Lo stesso anno, al Congresso di Reims, Melenchon e alcuni altri componenti dell’ala sinistra lasciarono il partito per fondare il Partito di Sinistra. Nonostante questo, le elezioni del 2012 andarono molto bene: sia le presidenziali, vinte da Francois Hollande, che le politiche del mese successivo. Ma da quel momento iniziò una fase negativa che culminò con la sconfitta storica della sinistra alle elezioni municipali del 2014.

Il partito si lacerò con distanze sempre più incolambili fra l’ala “destra”, definita più frequentemente “social-liberale” e rappresentata da esponenti quali Manuel Valls, diventato poi premier, o Gerard Collomb. A questo gruppo faceva da contraltare un’ala sinistra, guidata da Benoit Hammon e Emmanuel Maurel.

Numerose decisioni prese da Hollande durante la sua permanenza all’Eliseo, come quella di nominare Valls primo ministro, furono ampiamente considerate come la causa del tracollo del partito. Alle elezioni legislative del 2017 lo schiaffo fu tremendo: il partito, dopo 5 anni al governo, portò solo 31 deputati nella nuova Assemblea Nazionale.

Emmanuel Macron, lanciato in politica da Hollande, prese la maggioranza assoluta dei seggi con il partito che ha fondato nel 2016, la Republique en Marche. Da quel momento i socialisti sono praticamente scomparsi dalla scena politica: alle europee del 2019 il partito ottiene il 6,19%, ovvero il risultato più basso della sua storia.

Alle elezioni presidenziali del 2022 la sua candidata Anne Hidalgo, sindaca di Parigi, ha ottenuto l’1,75% dei voti al primo turno. Il funerale dei socialisti, praticamente. Alle elezioni politiche due mesi dopo, il partito, che correva all’interno della coalizione Nupes, guidata da Melenchon, ha ottenuto 31 deputati sui 577 totali dell’Assemblea Nazionale.

Elezioni. il Pd approva le liste dei candidati. Letta: “Ho chiesto molti sacrifici”

Letta capolista in Lombardia e Veneto. Cottarelli corre a Milano. C’è il virologo Crisanti in Europa
il Pd approva le liste dei candidati. Letta: "Ho chiesto molti sacrifici"

La Direzione nazionale ha approvato la Delibera per votazione delle liste del Partito Democratico per le elezioni politiche 2022 con 3 contrari e 5 astenuti. Trattative serrate nella serata di ieri. Si è trattato comunque di turbolenze fisiologiche, legate alle riduzione del numero dei parlamentari e all’inserimento nelle liste di esponenti che arrivano dalla coalizione. I problemi hanno riguardato soprattutto i parlamentari uscenti, legati a una gestione passata: in mezzo, infatti, ci sono 4 anni e 2 segretari.

Il segretario del Partito democratico Enrico Letta sarà capolista alla Camera in Lombardia e Veneto. Carlo Cottarelli sarà invece candidato capolista per il Senato a Milano. Il microbiologo Andrea Crisanti sarà capolista in Europa. Ci sono poi 4 giovani under 35 capolista: Rachele Scarpa, Cristina Cerroni, Raffaele La Regina, Marco Sarracino.

“Avrei voluto ricandidare tutti i parlamentari uscenti. Impossibile per il taglio di parlamentari ma anche per esigenza di rinnovamento”, aveva detto il segretario del Partito democratico Enrico Letta ieri sera nel suo discorso alla direzione nazionale del Pd. “Ho chiesto personalmente sacrifici ad alcuni. Mi è pesato tantissimo. 4 anni fa il metodo di chi faceva le liste era: faccio tutto da solo. Io ho cercato di comporre un equilibrio. Rispetto dei territori tra i criteri fondanti delle scelte”, ha aggiunto il leader dem. “Termino questo esercizio con un profondo peso sul cuore per i tanti no che ho dovuto dire. Peso politico e umano. Ma la politica è questo: assumere la responsabilità”. “Potevo imporre persone ‘mie’ ma non l’ho fatto perché il Partito è comunità”. I

l segretario ha sottolineato che “la parità di genere è stata rispettata nelle liste”. Quindi ha ringraziato “quanti spontaneamente hanno fatto un passo indietro comprendendo l’esigenza di rinnovamento”.

“E’ stato un lavoro faticoso, ci sono sempre troppe esclusioni… ma credo siano liste competitive e per fare un buon risultato”, ha commentato alle telecamere Andrea Orlando lasciando il Nazareno dopo la Direzione del Pd.

Avvenire

Intervista. Parisi sferza il Pd: «Troppi errori»

Il professor Arturo Parisi, uno dei fondatori dell'Ulivo assieme a Romano Prodi

«E’ una campagna brevissima. Troppo breve. E non penso ai giorni di legge. Eguali nel tempo. Parlo del tempo necessario ai partiti per formulare proposte meditate, e agli elettori per evitare una scelta immatura… Troppo breve per consentire nella politica incontri duraturi, soprattutto se nuovi, e un confronto fecondo, ma purtroppo lunga a sufficienza per anticipare lo scontro che in autunno ci aspetta nella società». Arturo Parisi ci “regala” subito una riflessione cruda sull’Italia che corre verso il voto. «Vedo un quadro terribile. Il caro vita, i costi dell’energia… Le questioni economiche e sociali esploderanno», avverte il fondatore dell’Ulivo. Sul banco degli imputati ci sono le scelte della politica. Anche quelle del “suo” Pd. Sfidiamo Parisi: molti scommettono sulla vittoria del centrodestra. «Non basta sommare appartenenze di partito o abitudini di voto. Questo è un Paese dove un cittadino su due si muove tra una sigla, un’altra sigla e l’astensione. Un Paese più che frammentato, polverizzato al punto da portare il partito di turno dalla soglia della sopravvivenza fino alla testa della classifica, per poi rifarlo implodere con la stessa velocità con la quale era esploso». Parole ancora severe. Dove è evidente il riferimento a Matteo Renzi, a Giuseppe Conte, a Matteo Salvini. E dietro le quali si agita un avvertimento a Giorgia Meloni.

I veti di Bruxelles e del centrosinistra freneranno la corsa di Meloni?

Lasciamo da parte i presunti veti. Nel caso, per principio inaccettabili. Se nell’azione di governo sono di ostacolo, nella raccolta dei consensi possono tramutarsi in un vantaggio. E poi è difficile non riconoscere a Meloni la spinta che le viene da una condotta coerente in una legislatura nella quale più o meno tutti sono riusciti ad allearsi, volta a volta, con tutti. Di certo Meloni ha galoppato ed è cresciuta quanto è cresciuto il suo partito. Ma una cosa è essere a capo di un partito, un’altra essere riconosciuta leader incontrastata del proprio campo, un’altra ancora – in una democrazia pluralista – conquistare e soprattutto mantenere la guida di un intero Paese.

Esiste un tema legato a Giorgia Meloni e al “rischio fascismo”?

Ritrovare i democratici uniti a cantare “Bella Ciao”, il canto della libertà che interpella oramai tutti i cuori attraversando e superando i confini di parte, sarebbe come riconoscere la più cocente delle nostre sconfitte. Che i tre quarti di secolo che ci separano dal ’45 sono passati invano. Con l’aiuto di democratici di molte, diverse, e spesso opposte provenienze siamo venuti a capo di ben altri pericoli. Son sicuro che anche questa volta ce la faremmo.

Che effetto le fa vedere Berlusconi pronto a candidarsi ancora? E sentirlo dire che se passasse il presidenzialismo Mattarella dovrebbe dimettersi?

Un miracolo. Il più grande venditore del mondo forse sarebbe riuscito a rifilare, almeno a quelli della mia età, anche l’illusione di una eterna giovinezza. Poi basta una frase come quella sul capo dello Stato per far capire, all’improvviso, che anche il suo tempo è passato. È stata una provocazione senza senso: una banalità dal punto di vista istituzionale e, dunque, una stupidaggine da quello politico.

Pensi alle ultime scelte di Enrico Letta: ha sbagliato o no?

Solo la sera del voto si potrà rispondere. Quella di Letta è una scelta. Una scelta chiara, legittima e coraggiosa. Quella che Bettini ha definito una «scelta unitaria fino al punto di rischiare l’autolesionismo». Tenere insieme il Pd, la cui unità è messa a durissima prova sui tavoli delle candidature. Ma ancor prima del partito tenere insieme la sinistra, quella interna ed esterna al Pd, senza alcuna esclusione né distinzione tra i sostenitori e gli oppositori di Draghi. Tenerla insieme tutta e, intorno ad essa, aggregare tutte le voci possibili, dai Radicali ai cattolici di Demos, con l’obiettivo primario di contrastare il pericolo rappresentato dalla destra. Naturalmente, è appena il caso di dirlo, all’infuori di Conte e di Renzi, il più recente e il più antico degli avversari del suo partito.

Lei che cosa avrebbe fatto?

Una volta aperta la crisi a seguito del contrasto tra sostenitori e oppositori dell’azione di Draghi, io avrei lavorato ad una coalizione che unisse tutti e solo i difensori del governo. Tutti e solo. Ma il segretario è lui. È giusto che sia lui a scegliere la meta e a indicare la strada.

I 5 stelle sono davvero finiti?

Venti giorni fa li avrei detti in gravissima difficoltà. L’approfondimento della rottura con Letta e la discesa in campo di Grillo, che sul limite dei due mandati ha preso una decisione che a Conte non sarebbe riuscita, hanno offerto al Movimento l’identità che avevano smarrito. Quella populista delle origini, non certo quella progressista cantata dal Pd con l’illusione di egemonizzare così gli “antichi barbari”.

Renzi e Calenda presentano il Terzo polo.

L’assetto bipolare presente li esclude e loro giocano in difesa. Ma nella democrazia maggioritaria che affida agli elettori la decisione sulla direzione del governo, quella per cui mi sono sempre speso, già dire terzo e non invece nuovo polo significa evocare il ritorno a un tempo che speravo superato. Diciamo che la sola presenza sulla scena di un Terzo polo, incarnato per di più da esponenti che in passato avevano difeso un’altra idea di democrazia, sta da sola a dimostrare il fallimento di una fase della Repubblica più che ad annunciarne un’altra.
Come valuta l’operato del governo Draghi?

Di Draghi possiamo dire che aveva aperto la speranza di un’Italia finalmente ammessa al tavolo delle decisioni che nel mondo contano, certo per l’autorevolezza della guida, ma soprattutto perché era messa al servizio di scelte adottate nella consapevolezza delle compatibilità interne ed internazionali.

Per Renzi e Calenda un voto senza vincitori potrebbe mantenerlo a Palazzo Chigi.

Già il fatto che sia cullata e diffusa la speranza di un voto nullo è la prova della crisi della nostra democrazia. La sfiducia in noi stessi e la resa all’idea di un commissariamento eterno del Paese.

Vede un rischio astensionismo legato a un Paese distante dalla politica?
Uno spettacolo inguardabile. Basta leggere i giornali, soprattutto quelli locali, che da giorni danno conto delle resse e delle risse per decidere non quelli che saranno i candidati, ma quelli che saranno gli eletti lasciando alla campagna elettorale e al voto finale solo la decisione su quanti toccheranno ad un partito e quanti a un altro.

Avvenire

Verso il voto. Calenda strappa col Pd. Letta: così aiuta la destra

A pochi giorni dal patto firmato, il leader di Azione ha fatto retromarcia. Il movito: gli accordi che Letta ha stretto sia con Sinistra Italiana e Verdi sia con Luigi Di Maio e Bruno Tabacci

Calenda strappa col Pd. Letta: così aiuta la destra

Fotogramma

Carlo Calenda rompe l’intesa con Enrico Letta e scatena l’ira dei dem. Il fronte progressista messo pazientemente insieme dal segretario Pd per sfidare FdI, Lega e Fi ha perso un pezzo, quello di centro, che era stato il più corteggiato, il più difficile da convincere. A pochi giorni dal patto firmato, il leader di Azione ha fatto retromarcia.

“È una delle decisioni più sofferte – ha detto – ma non intendo andare avanti con questa alleanza” ha detto Calenda. A fargli cambiare idea, ha spiegato, è stata l’aggiunta dei “pezzi stonati”, cioè gli accordi che Letta ha stretto sia con Sinistra Italiana e Verdi sia con Luigi Di Maio e Bruno Tabacci.

Una giustificazione che ha fatto infuriare il Pd: “Onore è rispettare la parola data. Il resto è populismo d’élite”. Perché – ricordano i dem – quando è stato siglato quell’accordo con Azione, era inteso che ci sarebbero stati patti anche con le altre forze.

Per Calenda, però, la coalizione del Pd “è fatta per perdere. C’era l’opportunità di farne una per vincere. La scelta è stata del Pd, sono deluso”. La risposta di Letta è stata lapidaria: “Da tutto quel che ha detto, mi pare che l’unico alleato possibile per Calenda sia Calenda. Se lo accetta. Noi andiamo avanti nell’interesse dell’Italia”.

L’annuncio di Calenda è arrivato domenica in tv, a In Mezz’Ora, dopo ore di un insolito silenzio social, che ha lasciato in sospeso i potenziali alleati, reduci dagli accordi firmati il giorno precedente. Letta ha lavorato per mesi a un fronte che fosse il più largo possibile, con l’obiettivo di giocare la difficile partita del 25 settembre, di contrastare un centrodestra dato come favorito nei sondaggi e che si presenterà unito, con una legge elettorale che premia le alleanze.

Il nuovo quadro delle coalizioni

Il quadro delle coalizioni al centro e a sinistra è stato stravolto. Di nuovo e in poche ore. Calenda correrà da solo, a meno che non trovi un’intesa con Matteo Renzi, al lavoro sul Terzo Polo con le liste civiche dell’ex sindaco di ParmaFederico Pizzarotti. Il Pd andrà avanti con Verdi-Si e Impegno civico di Di Maio e Tabacci. Anche con Più Europa,che è federata con Azione ma conferma l’accordo con il Pd.

“C’è grande sorpresa per la decisione unilaterale presa da Calenda – ha detto il deputato e presidente di +Europa, Riccardo Magi – Noi continuiamo a dare una valutazione positiva al patto col Pd”. Nonostante le spinte di Sinistra italiana, sembra escluso un ritorno di fiamma fra Pd e M5s. “È stato Conte a far cadere il governo Draghi – ha detto Letta – È stata un’enorme responsabilità e per noi, questo è un fatto conclusivo”. Anche il presidente Cinque stelle sembra aver chiuso la porta: “A Enrico rivolgo un consiglio non richiesto: offri pure i collegiche si sono liberati a Di Maio, Tabacci e agli altri alleati.Questo disastro politico mi sembra lontano anni luce dal progetto riformistico realizzato durante il Conte II”. Letta su Calenda: “Che promesse può fare agli italiani se sanno che già con gli alleatiha rotto la parola data? Con questa legge elettorale gli italiani dovranno scegliere se essere governati da Meloni, dalle destre o da noi, questa scelta è netta e Calenda ha deciso di aiutare la destra, facendo quello che ha fatto”.

Avvenire

L’inchiesta. Fondazione Open, indagini chiuse: Renzi, Lotti e Boschi fra i 15 indagati

La procura di Firenze ipotizza il finanziamento illecito ai partiti: 3,5 milioni di euro transitati dall’ente verso la corrente renziana. L’avvocato del leader di Iv: «Ora la palla passa alle difese».
Matteo Renzi con Marco Carrai nel 2014

Matteo Renzi con Marco Carrai nel 2014 – Archivio Ansa

Con 15 avvisi di chiusura delle indagini (11 consegnati a persone fisiche e 4 ad altrettante società), firmati dal procuratore aggiunto Luca Turco e dal sostituto Antonio Anastasi, la Procura di Firenze ha chiuso l’inchiesta per finanziamento illecito ai partiti sulla fondazione Open. Secondo i pm, la fondazione avrebbe funzionato come una sorta di articolazione di partito, mettendo in cassa elargizioni per milioni di euro, poi in parte destinati a finanziare la carriera politica dell’allora esponente del Pd (oggi leader di Italia Viva) Matteo Renzi e della corrente renziana.

Al senatore Renzi e ai deputati Maria Elena Boschi (Iv) e Luca Lotti (Pd) viene contestato il reato di finanziamento illecito ai partiti. Secondo l’accusa, tra il 2014 e il 2018, i tre avrebbero ricevuto attraverso la Fondazione, in violazione della normativa sul finanziamento ai partiti, oltre 3 milioni e mezzo di euro per la loro attività politica e per le necessità della corrente renziana del Partito democratico. «Era ora. Fino a oggi ha lavorato la procura, ora la palla passa alle difese», è l’asciutto commento dell’avvocato Federico Bagattini, uno dei legali di Renzi, a proposito dell’arrivo dell’avviso di conclusione delle indagini.

Fra gli indagati, sempre per finanziamento illecito, figurano l’ex presidente di Open Alberto Bianchi e Marco Carrai, imprenditore esperto di cybersecurity e componente del Consiglio direttivo di Open. Ad altri indagati, a vario titolo, vengono contestati, oltre al finanziamento illecito, i reati di corruzione, riciclaggio, traffico di influenze.

Una volta chiuse le indagini, toccherà alla procura decidere se richiedere al tribunale di Firenze, per tutti o per alcuni indagati, il rinvio al giudizio o se optare per la richiesta di archiviazione. Ieri, intanto, per la terza volta, il tribunale del Riesame di Firenze ha confermato il sequestro dei documenti di Marco Carrai, eseguito nel novembre 2019.

Avvenire

La legge di bilancio dietro la crisi (e le tre strade del Pd)

Pubblichiamo questa riflessione di Giorgio Tonini, consigliere provinciale a Trento e presidente del gruppo del Partito Democratico del Trentino. Senatore dal 2001 al 2018, Tonini è stato vicepresidente del gruppo del Partito democratico in Senato, presidente della Commissione Bilancio e membro della segreteria nazionale del Pd.

E’ stato presidente nazionale della Fuci, sindacalista della Cisl, coordinatore politico dei Cristiano sociali e dirigente dei Democratici di Sinistra.

Il suo articolo, comparso sul sito di Libertà Eguale, un’associazione di cultura politica nata nel 1999 per opera di riformisti provenienti dalle più diverse esperienze nell’ambito del centrosinistra italiano.

La decisione di Matteo Salvini di porre fine, dopo appena un anno e mezzo, all’esperienza di governo della Lega col Movimento Cinquestelle, ha aperto davanti all’Italia uno dei passaggi più drammatici della sua storia. La ragione alla base della decisione del leader della Lega è chiara come il sole e non ha nulla a che vedere con l’alta velocità ferroviaria. La mozione grillina sulla Torino-Lione, bocciata in Senato, era inoffensiva e rappresentava nei fatti una resa di Di Maio e compagni al partito trasversale e largamente maggioritario a favore del tav.

Salvini non vuole assumersi la responsabilità della prossima legge di bilancio

No, la verità è un’altra: Salvini ha aperto la crisi perché non vuole e non può assumersi la responsabilità della prossima legge di bilancio. Come deve avergli spiegato il fido Giorgetti, che non a caso è stato il primo a parlare di crisi di governo, la legge di bilancio è strutturalmente incompatibile con l’escalation di promesse della quale il leader leghista si è reso protagonista negli ultimi mesi. Dunque Salvini si è trovato dinanzi ad una scelta ineludibile: o fare la legge di bilancio, o continuare con la sua propaganda. E ha scelto la propaganda.

Non si tratta di dietrologia maliziosa, ma di aritmetica elementare. In un contesto economico in bilico tra stagnazione e recessione, la prossima legge di bilancio deve trovare, solo per il 2020, 23 miliardi per evitare che scatti la clausola di salvaguardia dell’aumento delle aliquote IVA. Un punto e mezzo di pil solo per cominciare. Con altre spese obbligatorie si sale subito a 30. Poi arriva il conto delle promesse ripetute in tutte le piazze (e le spiagge) d’Italia: a cominciare dalla “flat tax” e dalla “pensionabilità” del bonus Renzi (i famosi 80 euro). Mal contati fanno quasi 50 miliardi. Salvini vorrebbe finanziarli in deficit, ma Giorgetti gli ha spiegato che l’Europa non ce lo permetterebbe mai. E se anche lo facesse, sarebbero i mercati a punirci, facendo salire lo spread a livelli insostenibili.

La “doccia gelata” e le tre strade del Pd

Dunque, se non vogliamo uscire dall’euro e dall’Europa, che ci costerebbe come una guerra, c’è una sola via d’uscita dalla trappola populista nella quale Salvini ha cacciato se stesso, la Lega, il governo e l’Italia: andare a votare subito, incassare i risultati, in termini di consenso elettorale, della propaganda di questi mesi e far fare poi, dopo il voto, al paese, con la manovra di bilancio, la doccia gelata del brusco ritorno alla realtà.

La strategia di Salvini ha dunque una sua cinica lucidità. E mette il suo unico vero avversario, il Partito democratico, dinanzi ad una scelta di inedita difficoltà. Il Pd ha davanti a sé tre strade, una più difficile dell’altra, fra le quali scegliere quella da imboccare.

1- Il voto subito

La prima, la più piana e diritta, è quella di accettare la sfida di Salvini e non opporsi quindi all’ipotesi di andare a votare subito, tra ottobre e novembre. La sconfitta sarebbe altamente probabile, ma il Pd si rafforzerebbe come principale partito di opposizione, unica vera alternativa possibile alla Lega. E tuttavia, Salvini si troverebbe la strada spianata, e potrebbe avanzare senza trovare alcuna vera resistenza, verso la conquista non solo di Palazzo Chigi, ma anche del Quirinale. Roma, in asse inedito con Mosca, diverrebbe la capitale dell’antieuropeismo e forse della post-democrazia…

2- Il patto di legislatura

La seconda strada, quella più ripida e tortuosa, ma anche ambiziosa, è rispondere alla sfida di Salvini con il lancio di un patto di legislatura col M5S, fondato su due pilastri: il no all’arroganza cinica del leader leghista, arrivata fino all’invocazione dei “pieni poteri”; e il sì ad una linea di cambiamento coraggioso, ma dialogico e costruttivo, in Europa, linea ben rappresentata dal ministro Moavero e in definitiva seguita anche dal ministro Tria e dallo stesso Conte. Si potrebbe riassumerla nella costruzione di un asse Roma-Parigi, orientato a spingere Berlino su una linea di politica economica più espansiva, anche attraverso l’istituzione, sul modello americano, di nuovi strumenti di governo federale dell’economia, finalizzati a sostenere la crescita e l’occupazione attraverso gli investimenti nelle infrastrutture, nelle politiche ambientali, nella ricerca e nella formazione superiore. Il punto debole di questa seconda strada, apparentemente affascinante, è la scommessa sulla capacità del M5S di compiere un gigantesco salto di qualità. Nonostante il segnale molto positivo giunto da Strasburgo, col voto di fiducia dei grillini alla presidente Ursula von der Leyen, è tutto da vedere che ce ne siano i tempi e le condizioni.

3- Il governo della paura

Il rischio è che la ricerca della seconda strada porti in realtà alla terza, a mio modo di vedere la più pericolosa: un governo della paura, politicamente fragile e che finirebbe per collaborare involontariamente con Salvini, togliendogli le castagne dal fuoco, ossia facendo la manovra, coi relativi costi in termini di impopolarità, e lasciandogli la propaganda. Per poi tornare comunque presto al voto, che il leader leghista affronterebbe nelle condizioni tattiche per lui migliori.

Scegliere quale strada imboccare, per il Pd, è dunque una grande e grave responsabilità. Per poter affrontare un passaggio così difficile, è bene tenere bene a mente un vincolo e un’opportunità. Il vincolo è l’unità e la solidarietà interna al partito. Uniti e solidali possiamo farcela, divisi siamo perduti e con noi è perduto il paese. L’opportunità, o meglio si direbbe la risorsa, è l’equilibrio e la saggezza del presidente Mattarella, attorno al quale il Pd unito farebbe bene a stringersi.

fonte: Adista