Lo scandalo delle euromazzette

Ma quali Stati Uniti d’Europa. Quale solidarietà, sussidiarietà, economia sociale di mercato.

Quale affermazione dei diritti umani, quale tutela dello stato di diritto. Eccoci di nuovo qui a dubitare, noi europeisti convinti che ci sentiamo cittadini in Italia come a Parigi o a Berlino, a Madrid come ad Amsterdam.

Eccoci di fronte alla terribile tentazione di dare degli utopisti a Spinelli, a Rossi, a Colorni. Di pensare che in fondo De Gasperi, Schuman e Adenauer fossero poco più che dei visionari. E però – ce lo ripetiamo per non cedere allo sconforto – quell’utopia, quella visione, hanno dato all’Europa unita una stabilità che non aveva mai conosciuto e, con essa, un lungo periodo di pace, ora minacciata proprio ai confini dell’odierna Unione dalla sciagurata guerra d’Ucraina scatenata in quest’ultima e tragica fase dall’autocrate Putin. Altri autocrati, ad altre latitudini, avrebbero invece dato origine a suon di quattrini alla valanga che rischia di travolgere nella vergogna tutto ciò che in oltre 70 anni di cammino l’Europa unita ha costruito nella vita di intere generazioni, inclusa la più giovane. Europei di nascita, sono ragazze e ragazzi che non hanno mai conosciuto monete diverse dall’euro e sono abituati a circolare da un Paese all’altro senza restrizioni. Tutti, loro e chi prima di loro ha creduto nella patria comune europea, messi a dura prova dalle notizie che giungono da Bruxelles e che, purtroppo, investono in buona parte degli italiani.

Il principio di non colpevolezza è sacro, sancito dalla stessa Ue e recepito dagli ordinamenti degli Stati membri. Ma certo da questa vicenda, seppure protetta dal riserbo degli inquirenti belgi, sono già emerse evidenze che non possono essere ignorate, a cominciare dai sacchi gonfi di contanti, dai soldi sequestrati nelle abitazioni private, dalle prese di distanza di chi parla apertamente di «uno schifo».

Impossibile non farsi prendere almeno un po’ dallo sconforto, soprattutto a causa della spiacevole ma persistente sensazione che sia solo l’inizio di qualcosa di gigantesco e di molto maleodorante. A noi, in effetti, le cronache degli ultimi giorni potrebbero facilmente riportare alla mente quelle dei primi anni Novanta: l’esplosione di Mani Pulite, la fine di un’epoca. Per il momento l’Eurotangentopoli ha coinvolto pesantemente il gruppo dei Socialisti e Democratici, ma fanno bene tutti gli altri (euroscettici compresi) a non attaccare, proprio perché il peggio potrebbe ancora arrivare. Speriamo di no, speriamo si tratti al massimo di pochi, isolati e deprecabili episodi. Anche perché, per riprendere il parallelo con la storia nazionale, Tangentopoli rase al suolo le “case”, i partiti, di quasi tutte le principali culture politiche e sono trent’anni che il sistema politico italiano non trova pace e, di fatto, non riesce a rimettere insieme i frantumi di quella deflagrazione.

È per questo che non bisogna ripetere, ora, l’errore che si fece allora: la pulizia deve essere fatta prima di tutto dall’interno, dalle istituzioni europee, senza timidezze, con rapidità e inflessibilità. Neanche per un momento si può dare spazio all’idea che i Palazzi di Bruxelles e di Strasburgo si siano trasformati in sedi di consorterie dalle porte girevoli, dove chi esce al termine del proprio mandato vi rientra da faccendiere al soldo di interessi non sempre trasparenti. Altrimenti, il contraccolpo potrebbe risultare devastante, roba da far impallidire la crisi del debito sovrano del 2010-2011, in termini di credibilità e di autorevolezza. Crisi sventata dall’allora presidente della Bce Mario Draghi e poi sbiadita, nell’immaginario collettivo, nel buio pesto della pandemia da Covid, quando con il Recovery Plan l’Ue ha saputo ritrovare le ragioni di solidarietà che le hanno dato origine. Ora serve un altro scatto di reni, perché il pericolo è di natura diversa ma altrettanto grande. Non si deve rischiare che l’Europa unita, capace di reagire agli attentati terroristici dei nemici della democrazia e della libertà, di sopravvivere alle speculazioni degli squali della finanza, cada vittima del più moderno dei cavalli di Troia: il vil denaro.

Danilo Paolini

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POLITICA La lista dei ministri del governo Meloni

La presidente di FdI ha accettato senza riserve l’incarico di formare il governo. Tajani agli Esteri, Giorgetti all’Economia, Salvini alle Infrastrutture, all’Interno Piantedosi

governo consultazioni centrodestra al colle

AGI – La leader di FdI Giorgia Meloniha accettato senza riserve l’incarico di formare il governo dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella.

Pochi minuti prima delle 16,30 Giorgia Meloni è giunta nel cortile d’onore del palazzo a bordo di una Cinquecento bianca, accompagnata dalla portavoce e dalla segretaria particolare.

Completo pantalone blu, come stamane, capelli sciolti e cartellina in mano, Giorgia Meloni è salita al piano nobile del Quirinale dove, nello studio alla Vetrata, la attendeva Mattarella affiancato dal Segretario generale Ugo Zampetti e dal consigliere per gli affari costituzionali Daniele Cabras.

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18:10
Mantovano sottosegretario alla Presidenza del Consiglio
18:10
Salvini e Tajani vicepresidenti del Consiglio
18:09
Santanché ministro per il Turismo
18:09
Valditara ministro per l’Istruzione e il Merito
18:08
Zangrillo ministro per l’Ambiente e la sovranità energetica
18:08
Locatelli ministro per le Disabilità
18:07
Abodi ministro dello Sport e per i Giovani
18:07
Fitto ministro degli affari europei e Pnrr
18:06
Musumeci ministro del Mare e del Sud
18:06
Giorgetti ministro delle Imprese e del Made in Italy
18:06
Giorgetti ministro dell’Economia
18:05
Roccella ministro della Famiglia
18:05
Pichetto Fratini ministro della Pubblica Amministrazione
18:04
Ciriani ministro dei raporti con il Parlamento
18:04
Lollobrigida ministro dell’Agricoltura
18:03
Salvini ministro delle Infrastrutture
18:03
Crosetto ministro della Difesa
18:02
Sangiuliano ministro della Cultura
17:58
Nordio ministro della Giustizia
17:57
Tajani ministro degli Esteri
17:57
Casellati ministro per le Riforme
17:56
Roberto Calderoli ministro per gli Affari Regionali e le autonomie 

Elezioni. il Pd approva le liste dei candidati. Letta: “Ho chiesto molti sacrifici”

Letta capolista in Lombardia e Veneto. Cottarelli corre a Milano. C’è il virologo Crisanti in Europa
il Pd approva le liste dei candidati. Letta: "Ho chiesto molti sacrifici"

La Direzione nazionale ha approvato la Delibera per votazione delle liste del Partito Democratico per le elezioni politiche 2022 con 3 contrari e 5 astenuti. Trattative serrate nella serata di ieri. Si è trattato comunque di turbolenze fisiologiche, legate alle riduzione del numero dei parlamentari e all’inserimento nelle liste di esponenti che arrivano dalla coalizione. I problemi hanno riguardato soprattutto i parlamentari uscenti, legati a una gestione passata: in mezzo, infatti, ci sono 4 anni e 2 segretari.

Il segretario del Partito democratico Enrico Letta sarà capolista alla Camera in Lombardia e Veneto. Carlo Cottarelli sarà invece candidato capolista per il Senato a Milano. Il microbiologo Andrea Crisanti sarà capolista in Europa. Ci sono poi 4 giovani under 35 capolista: Rachele Scarpa, Cristina Cerroni, Raffaele La Regina, Marco Sarracino.

“Avrei voluto ricandidare tutti i parlamentari uscenti. Impossibile per il taglio di parlamentari ma anche per esigenza di rinnovamento”, aveva detto il segretario del Partito democratico Enrico Letta ieri sera nel suo discorso alla direzione nazionale del Pd. “Ho chiesto personalmente sacrifici ad alcuni. Mi è pesato tantissimo. 4 anni fa il metodo di chi faceva le liste era: faccio tutto da solo. Io ho cercato di comporre un equilibrio. Rispetto dei territori tra i criteri fondanti delle scelte”, ha aggiunto il leader dem. “Termino questo esercizio con un profondo peso sul cuore per i tanti no che ho dovuto dire. Peso politico e umano. Ma la politica è questo: assumere la responsabilità”. “Potevo imporre persone ‘mie’ ma non l’ho fatto perché il Partito è comunità”. I

l segretario ha sottolineato che “la parità di genere è stata rispettata nelle liste”. Quindi ha ringraziato “quanti spontaneamente hanno fatto un passo indietro comprendendo l’esigenza di rinnovamento”.

“E’ stato un lavoro faticoso, ci sono sempre troppe esclusioni… ma credo siano liste competitive e per fare un buon risultato”, ha commentato alle telecamere Andrea Orlando lasciando il Nazareno dopo la Direzione del Pd.

Avvenire

Grave portare il Quirinale nella contesa. Gli autogol pesano tanto

Entrato in sordina, un po’ troppo, il tema delle riforme costituzionali rischia di diventare dirompente in una campagna elettorale già accesissima. I toni del dibattito sulla proposta di elezione diretta del capo dello Stato – posta dall’alleanza di centrodestra al terzo dei 15 punti del programma – sono stati subito segnati dal ritrovato vizio di fondo del dopo-Draghi: il muro contro muro tra forze politiche e coalizioni risospinte a fronteggiarsi a suon di proposte inconciliabili tra loro e, a volte, anche con il buon senso. È venuta a mancare, insomma, qualunque attitudine al dialogo, cioè la premessa stessa di una riforma delle regole del gioco, che sono di tutti e non strumento di una sola parte.

 

Il presidenzialismo è un modello come altri, c’è chi lo avversa convintamente e chi ne ha fatto la sua bandiera. Entrando nel merito per un attimo, si può ricordare che esiste una diffusa opinione fra gli studiosi che vede più compatibile con lo schema parlamentare una rafforzamento dei poteri del presidente del Consiglio. Un cancellierato alla tedesca, ad esempio, ma si tratta di opinioni e, qui e ora, non è questo il tema. Il tema è il metodo. La forma è sostanza, come si sa. Le forze politiche si contendono il controllo dei due rami del Parlamento e una legge elettorale criticata da tutti, ma da tutti voluta o quantomeno accettata, consentirà forse alla coalizione più forte – se conquistasse tutti i collegi uninominali – di dominare il prossimo Parlamento. E di fare di forza anche una riforma costituzionale di grave impatto come quella di stabilire l’elezione diretta del Capo dello Stato. Non più garante, ma leader.

È uno scenario realistico? Meglio essere prudenti. In Italia, negli ultimi anni abbiamo assistito a impressionanti fluttuazioni nella distribuzione dei consensi. In astratto, tuttavia, anche per la grande frammentazione con cui si va al voto (almeno quattro poli) non si può escludere che una coalizione , cioè il centrodestra, superi da sola il 50% dei consensi, soglia che secondo gli esperti avvicinerebbe all’ipotesi di utilizzo pieno della “torsione maggioritaria” che la legge a base proporzionale in vigore consente. Anche alla luce degli ultimi due precedenti (altrettante riforme costituzionali votate in Parlamento e bocciate dal popolo nel referendum confermativo), è necessario interrogarsi ora su che cosa accadrebbe se uno schieramento scegliesse la strada della riforma “a strappo”, cioè senza dialogo.

La brusca sortita di Silvio Berlusconi che ha posto il problema della permanenza del presidente Mattarella al Quirinale in caso di riforma in senso presidenziale, ha registrato un fiume di critiche, ma ha avuto il merito, almeno, di mettere il dito nella piaga. Il progetto è nudo: conquistare e sfrattare. Non è facile, ma concepibile. E poiché vengono messi in questione i poteri del supremo garante della Costituzione, possibile che nessuno si sia chiesto nulla sulle condizioni di imbarazzo in cui si andrebbe a collocare un capo dello Stato che meno di 6 mesi fa ha accettato su richiesta amplissima (popolare, prima che partitica) di tornare sui propri passi e di acconsentire alla rielezione? All’atto di accettare, contro il suo stesso parere, Mattarella aveva spronato le forze politiche ad alimentare il dialogo sulle riforme offrendo sé stesso come riferimento stabile in nome della sua riconosciuta imparzialità. E se la Costituzione indica in sette anni il mandato presidenziale è per fare in modo che esso possa dispiegare i suoi poteri nell’arco di legislature differenti, anche segnate da diverse maggioranze. E il nuovo settennato di Mattarella è in grado di interagire con ben tre legislature, una intera più altre due nel loro scorcio finale e iniziale.

Invece, il dialogo per le riforme è saltato. E ora si rischia di trascinare nella mischia elettorale anche la figura del ‘garante’ che questo dialogo ha cercato di favorire. E dire che le esperienze dello stesso Silvio Berusconi (in accoppiata con Umberto Bossi) e di Matteo Renzi indurrebbero a più miti consigli. Pensare di fare le riforme istituzionali da Palazzo Chigi, facendo leva su una maggioranza concepita per governare e non per dettare le regole a tutti gli altri, può mettere in crisi non solo ambiziosi progetti di governo, ma anche le traiettorie personali. Statisti e aspiranti tali ci pensino bene. Gli autogol pesano sempre tanto.

Avvenire

Intervista. Parisi sferza il Pd: «Troppi errori»

Il professor Arturo Parisi, uno dei fondatori dell'Ulivo assieme a Romano Prodi

«E’ una campagna brevissima. Troppo breve. E non penso ai giorni di legge. Eguali nel tempo. Parlo del tempo necessario ai partiti per formulare proposte meditate, e agli elettori per evitare una scelta immatura… Troppo breve per consentire nella politica incontri duraturi, soprattutto se nuovi, e un confronto fecondo, ma purtroppo lunga a sufficienza per anticipare lo scontro che in autunno ci aspetta nella società». Arturo Parisi ci “regala” subito una riflessione cruda sull’Italia che corre verso il voto. «Vedo un quadro terribile. Il caro vita, i costi dell’energia… Le questioni economiche e sociali esploderanno», avverte il fondatore dell’Ulivo. Sul banco degli imputati ci sono le scelte della politica. Anche quelle del “suo” Pd. Sfidiamo Parisi: molti scommettono sulla vittoria del centrodestra. «Non basta sommare appartenenze di partito o abitudini di voto. Questo è un Paese dove un cittadino su due si muove tra una sigla, un’altra sigla e l’astensione. Un Paese più che frammentato, polverizzato al punto da portare il partito di turno dalla soglia della sopravvivenza fino alla testa della classifica, per poi rifarlo implodere con la stessa velocità con la quale era esploso». Parole ancora severe. Dove è evidente il riferimento a Matteo Renzi, a Giuseppe Conte, a Matteo Salvini. E dietro le quali si agita un avvertimento a Giorgia Meloni.

I veti di Bruxelles e del centrosinistra freneranno la corsa di Meloni?

Lasciamo da parte i presunti veti. Nel caso, per principio inaccettabili. Se nell’azione di governo sono di ostacolo, nella raccolta dei consensi possono tramutarsi in un vantaggio. E poi è difficile non riconoscere a Meloni la spinta che le viene da una condotta coerente in una legislatura nella quale più o meno tutti sono riusciti ad allearsi, volta a volta, con tutti. Di certo Meloni ha galoppato ed è cresciuta quanto è cresciuto il suo partito. Ma una cosa è essere a capo di un partito, un’altra essere riconosciuta leader incontrastata del proprio campo, un’altra ancora – in una democrazia pluralista – conquistare e soprattutto mantenere la guida di un intero Paese.

Esiste un tema legato a Giorgia Meloni e al “rischio fascismo”?

Ritrovare i democratici uniti a cantare “Bella Ciao”, il canto della libertà che interpella oramai tutti i cuori attraversando e superando i confini di parte, sarebbe come riconoscere la più cocente delle nostre sconfitte. Che i tre quarti di secolo che ci separano dal ’45 sono passati invano. Con l’aiuto di democratici di molte, diverse, e spesso opposte provenienze siamo venuti a capo di ben altri pericoli. Son sicuro che anche questa volta ce la faremmo.

Che effetto le fa vedere Berlusconi pronto a candidarsi ancora? E sentirlo dire che se passasse il presidenzialismo Mattarella dovrebbe dimettersi?

Un miracolo. Il più grande venditore del mondo forse sarebbe riuscito a rifilare, almeno a quelli della mia età, anche l’illusione di una eterna giovinezza. Poi basta una frase come quella sul capo dello Stato per far capire, all’improvviso, che anche il suo tempo è passato. È stata una provocazione senza senso: una banalità dal punto di vista istituzionale e, dunque, una stupidaggine da quello politico.

Pensi alle ultime scelte di Enrico Letta: ha sbagliato o no?

Solo la sera del voto si potrà rispondere. Quella di Letta è una scelta. Una scelta chiara, legittima e coraggiosa. Quella che Bettini ha definito una «scelta unitaria fino al punto di rischiare l’autolesionismo». Tenere insieme il Pd, la cui unità è messa a durissima prova sui tavoli delle candidature. Ma ancor prima del partito tenere insieme la sinistra, quella interna ed esterna al Pd, senza alcuna esclusione né distinzione tra i sostenitori e gli oppositori di Draghi. Tenerla insieme tutta e, intorno ad essa, aggregare tutte le voci possibili, dai Radicali ai cattolici di Demos, con l’obiettivo primario di contrastare il pericolo rappresentato dalla destra. Naturalmente, è appena il caso di dirlo, all’infuori di Conte e di Renzi, il più recente e il più antico degli avversari del suo partito.

Lei che cosa avrebbe fatto?

Una volta aperta la crisi a seguito del contrasto tra sostenitori e oppositori dell’azione di Draghi, io avrei lavorato ad una coalizione che unisse tutti e solo i difensori del governo. Tutti e solo. Ma il segretario è lui. È giusto che sia lui a scegliere la meta e a indicare la strada.

I 5 stelle sono davvero finiti?

Venti giorni fa li avrei detti in gravissima difficoltà. L’approfondimento della rottura con Letta e la discesa in campo di Grillo, che sul limite dei due mandati ha preso una decisione che a Conte non sarebbe riuscita, hanno offerto al Movimento l’identità che avevano smarrito. Quella populista delle origini, non certo quella progressista cantata dal Pd con l’illusione di egemonizzare così gli “antichi barbari”.

Renzi e Calenda presentano il Terzo polo.

L’assetto bipolare presente li esclude e loro giocano in difesa. Ma nella democrazia maggioritaria che affida agli elettori la decisione sulla direzione del governo, quella per cui mi sono sempre speso, già dire terzo e non invece nuovo polo significa evocare il ritorno a un tempo che speravo superato. Diciamo che la sola presenza sulla scena di un Terzo polo, incarnato per di più da esponenti che in passato avevano difeso un’altra idea di democrazia, sta da sola a dimostrare il fallimento di una fase della Repubblica più che ad annunciarne un’altra.
Come valuta l’operato del governo Draghi?

Di Draghi possiamo dire che aveva aperto la speranza di un’Italia finalmente ammessa al tavolo delle decisioni che nel mondo contano, certo per l’autorevolezza della guida, ma soprattutto perché era messa al servizio di scelte adottate nella consapevolezza delle compatibilità interne ed internazionali.

Per Renzi e Calenda un voto senza vincitori potrebbe mantenerlo a Palazzo Chigi.

Già il fatto che sia cullata e diffusa la speranza di un voto nullo è la prova della crisi della nostra democrazia. La sfiducia in noi stessi e la resa all’idea di un commissariamento eterno del Paese.

Vede un rischio astensionismo legato a un Paese distante dalla politica?
Uno spettacolo inguardabile. Basta leggere i giornali, soprattutto quelli locali, che da giorni danno conto delle resse e delle risse per decidere non quelli che saranno i candidati, ma quelli che saranno gli eletti lasciando alla campagna elettorale e al voto finale solo la decisione su quanti toccheranno ad un partito e quanti a un altro.

Avvenire

I cattolici e la politica

Su Domani del 4 luglio Marco Damilano ha speso un’attenta ricostruzione di alcuni passaggi della storia dell’impegno politico dei cattolici italiani quale chiave di volta intorno a cui immaginare una resistenza all’implosione del quadro democratico della convivenza fra molti – in primis, nel nostro paese.

Lanciando la suggestione che l’antidoto contro l’uscita della democrazia dalla democrazia starebbe nel raccogliere oggi quanto di meglio seppe fare in altre stagioni, anche non troppo lontane da noi, quella realtà, a dire il vero più complessa e articolata di come la rappresenta Damilano, del cattolicesimo democratico.

La suggestione troverebbe una sua congiuntura favorevole nell’accoppiata della leadership della Chiesa globale e di quella italiana, nelle persone di Francesco e del card. Zuppi neopresidente della CEI. E, forse, qui un primo distinguo sarebbe opportuno: la forma politica di una presenza pubblica dei cattolici sostenuta da papa Francesco è quella dei movimenti popolari, nel contesto di una democrazia inclusiva; d’altro lato, l’humus politico-civile in cui è immersa l’opera del card. Zuppi è quello della Comunità di S. Egidio – l’esperienza di ministro per la cooperazione internazionale di Andrea Riccardi nel governo Monti e la breve stagione del forum di Todi (2011) ne segnano il limite.

In entrambi i casi, si tratta di referenti se non alternativi, quantomeno distanti dalla galassia del cattolicesimo democratico e di quello che di esso rimane in alcune biografie di politici italiani.

Più vicino a esso, e drammaticamente attuale nell’ora presente, è il filone del costituzionalismo politico rappresentato da La Pira, che il card. Bassetti ha cercato di rilanciare, non senza qualche impaccio, attraverso i due convegni sul Mediterraneo di Bari e Firenze.

È qui che viene custodito il primato non concorrenziale, ma armonicamente integrato, dei diritti sociali su quelli individuali – ossia di una democrazia nata per essere costitutivamente e costituzionalmente altro dai totalitarsimi del XX secolo, geneticamente diversa da quella partorita dalle due rivoluzioni del XVIII secolo intrisa di individualismo proprietario ed esaltazione del privato sul bene comune.

Se c’è un germe di resistenza all’implosione della democrazia che sta corrodendo il sistema americano, è in questa tradizione d’oltreoceano del cattolicesimo civile che esso va cercato. Non per ripetere semplicemente la storia, ma per imparare da essa. Un germe che porta in sé una fine cultura della negoziazione fra orizzonti culturali e di militanza diversi tra di loro, che si ritrovarono coesi nella volontà di porre una cesura radicale rispetto alla storia che stava alle loro spalle.

Una cultura politica che si è lentamente sbriciolata insieme allo sgretolamento della cosiddetta Prima Repubblica, e che trovò nell’Ulivo un tentativo di ripresa e attualizzazione in una congiuntura geopolitica inedita – tramontata definitivamente con la fine di quell’esperimento.

Si tratta di un patrimonio che appartiene alla storia di tutto il paese e non solo a un gruppo di rappresentanza particolare. Una storia che è stata sicuramente scritta anche dall’impegno politico, non solitario e non di parte, di molti cattolici e cattoliche. Di cui poi le generazioni seguenti non sono state all’altezza, accomodandosi in un quieto riflusso biografico – convinti, erroneamente, che si trattasse di un meccanismo politico che funzionava da sé. Ma così non era.

Ecco perché la società, di cui i cattolici fanno parte, non è una semplice vittima di una politica autoreferenziale ritenuta distante dall’uomo e dalla donna comune. Davanti alla crisi nostrana della democrazia, la società non è innocente ma coprotagonista di una trasformazione della politica da negoziazione delle conflittualità sociali a specchio narcisistico della loro implementazione istituzionale. A questo si unisce l’incuria nei confronti delle istituzioni ridotte a erogatrici di soddisfazione dei nostri bisogni privati e dei desideri rivendicati come diritti inalienabili. L’esplosione e il tramonto del movimento 5stelle ne è un esempio.

Un dibattito su cattolici e politica è sicuramente doveroso, non fosse altro perché essi hanno contribuito sia a scrivere alcune delle pagine più luminose della nostra democrazia, sia a indebolirne in molti modi gli assi portanti negli ultimi decenni.

Assumersi la responsabilità per entrambi i fenomeni, senza trovare scuse di comodo, fa parte del dovere civile della fede. Un dovere che bisogna tornare a esercitare imparando dalla storia e approntando nuovi scenari, lasciandosi alle spalle tanto il lobbysmo romano quanto il provincialismo bolognese. Un dovere che ci impedisce di pensarci, come cattolici, sia solitari sia egemoni.

Per immaginare forse anche un ruolo di leadership, ma non a livello di potere di parte, quanto piuttosto di ispirazione e convocazione: di quei pensanti e competenti che possono ritrovarsi nel quadro di quel costituzionalismo politico che è l’asse portante del modello italiano di democrazia.

Come redazione di SettimanaNews ci rendiamo disponibili a sollecitare e ospitare un dibattito di questo genere.

 

Gelo di Conte su Draghi, il governo nel mirino. Conte accusa il premier di aver chiesto a Grillo di rimuoverlo dal M5s

Draghi, ho parlato con Conte, il governo non rischia © ANSA

Alta tensione nel governo.

Conte accusa il premier di aver chiesto a Grillo di rimuoverlo dal M5s (‘un’intromissione grave’), chiede un chiarimento politico e a sera sale al Colle per un colloquio di un’ora con Mattarella.

Draghi smentisce le pressioni sul Movimento, ma deve lasciare in anticipo il vertice Nato di Madrid. Convocato un Cdm sulle misure contro il caro bollette

FRA IL M5S E IL GOVERNO TIRA ARIA DI CRISI
La tensione ha superato i livelli di guardia dopo l’intervista del sociologo Domenico De Masi, che ha riferito una confidenza ricevuta da Beppe Grillo nei suoi tre giorni a Roma: Mario Draghi avrebbe avrebbe chiesto al garante di “rimuovere Giuseppe Conte dal M5s, perché inadeguato”. Non è mai successo, è la smentita di Palazzo Chigi arrivata all’ora di cena, quando ormai il caso era deflagrato, contestualmente alla decisione di Draghi di lasciare in anticipo il vertice Nato di Madrid per rientrare a Roma in serata e partecipare domani – è la versione ufficiale – al Consiglio dei ministri che si occuperà, tra l’altro, della questione bollette. Ma le preoccupazioni del presidente del Consiglio potrebbero riguardare proprio le tensioni con la maggioranza. E non solo quelle con i pentastellati ma anche con la Lega che si è messa di traverso sullo ius scholae e la cannabisIn questo quadro, Giuseppe Conte sale al Colle per rappresentare, a Mattarella, in un incontro durato un’ora, la “gravità” della situazione dopo il colloquio con il premier.

La giornata si è infiammata quando all’ora di pranzo l’ex premier ha accreditato le parole del prof. De Masi, che da tempo segue da vicino il percorso del Movimento ed è amico del garante. Conte si è presentato in sede, davanti alle telecamere, per assicurare che Grillo gli “aveva riferito di queste telefonate” di Draghi, chiarendo di sentirsi “sotto attacco” e denunciando “un intromissione grave”. Un aggettivo usato anche nella tesa telefonata con il premier, impegnato intanto al vertice Nato. “Abbiamo cominciato a chiarirci – ha detto Draghi -, ci risentiamo domani per vederci al più presto. Il governo non rischia”. Un appuntamento fra i due ancora non c’è, e c’è da attendersi un clima tutt’altro che disteso in Consiglio dei ministri. In teoria sembrano esserci tutti gli ingredienti per arrivare a un momento di rottura, a quell’appoggio esterno all’esecutivo chiesto da deputati e senatori grillini in pressing nella tre giorni di incontri organizzati da Grillo. Uno scenario percorribile ma solo se non saranno ascoltate le istanze del Movimento sui temi prioritari, dal superbonus al salario minimo, la predica ribadita più volte da Grillo, che in serata ha lasciato la Capitale, dopo aver cancellato l’ultima riunione con la delegazione pentastellata di governo.

È stanco”, “non sta bene”, sono le voci che hanno accompagnato le ultime ore a Roma del comico genovese, che davanti alle telecamere ha seminato battute criptiche (“Ma cos’è questa cosa di Draghi e Conte”, ha detto nel pomeriggio mentre infuriava la bufera”) e lapidarie risposte, come quella sul limite dei due mandati. Per lui è “un totem”, un “tema identitario”, ha chiarito nel pomeriggio mentre sfumava l’ipotesi di una votazione online degli iscritti, e assieme a questa la deroga a Giancarlo Cancelleri che così ha deciso di tirarsi fuori dalle candidature per le primarie per le Regionali in Sicilia.

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Primo sì allo Ius Scholae, atteso da oltre 1 milione

La Commissione Affari costituzionali della Camera ha dato il via libera alla proposta di legge sulla cittadinanza sulla base dello Ius scholae, votando il mandato al relatore a riferire in Aula.

In base a quanto deciso nell’ultima capigruppo della Camera, il testo approderà nell’Assemblea di Montecitorio nel pomeriggio, con la discussione generale.

La maggioranza si spacca sul voto. La Lega vota contro il testo con Fdi. Per Fi, Annagrazia Calabria ha votato contro e Renata Polverini a favore.

In base a quanto previsto dai Capigruppo della Camera, il 29 giugno si inizierà con la discussione generale. Il testo punta a riconoscere il ruolo della scuola consentendo a quasi un milione di under 18 (nati in Italia o arrivati entro i 12 anni) la possibilità di chiedere la cittadinanza italiana dopo aver frequentato “almeno 5 anni di scuola”. Dare ai ragazzi la cittadinanza anche prima della maggiore età mette d’accordo tutto il centrosinistra (a favore sono M5S e Pd, Leu e Italia Viva) ma potrebbe spaccare il centrodestra.

Se Forza Italia, che ha votato in commissione l’adozione di un testo base, ha una posizione più “dialogante” Lega e Fratelli d’Italia fanno muro: la cittadinanza “non è un biglietto a premi” e “si decide a 18 anni”, ha detto Matteo Salvini mentre per Fdi si tratta di “uno ius soli mascherato”. “Nel testo unico Pd-M5S la manifestazione di volontà è dei genitori stranieri e non dei ragazzi, il minore non è neppure ascoltato o considerato ma diventa uno strumento per un lasciapassare alla cittadinanza facile. E’ uno Ius soli neanche troppo mascherato e l’iniziativa ideologica sullo statuto del comune di Bologna ne è la conferma”, dicono i deputati di Fdi, Emanuele Prisco e Augusta Montaruli. Il riferimento è al consiglio comunale di Bologna che ha modificato il suo Statuto introducendo, appunto, il riconoscimento della cittadinanza onoraria per i minori stranieri. Proprio alla vigilia del voto si è svolto in piazza Capranica, a pochi passi da Montecitorio, un flash mob organizzato dalla Rete per la riforma della cittadinanza: in piazza è stato celebrato un matrimonio tra l’Italia e oltre un milione di giovani ancora senza cittadinanza. Sotto un arco floreale attivisti e attiviste hanno condiviso le promesse nuziali, simbolo delle aspettative di cambiamento in caso di approvazione della Riforma, alla presenza di testimoni come la modella e attivista Bianca Balti, la designer Stella Jean e Alberto Guidetti (Bebo) de lo Stato Sociale. “Italia, promettimi che 877 mila studenti riceveranno la cittadinanza, che mi considererai uguale ai miei compagni, che potrò andare a votare per la prima volta, che potrò indossare la maglia degli azzurri e non dovrò più stare in panchina”, sono alcune tra le promesse espresse dagli attivisti arrivati da tutta l’Italia. Dal canto suo l’assessora alle Politiche Sociali e alla Salute di Roma, Barbara Funari, intervenendo alla manifestazione ha affermato che la Capitale “è pronta a dire sì e a stare dalla parte giusta della storia. Abbiamo tanti bambini e cittadini che sono già romani e aspettano solo il riconoscimento legislativo. Nella Capitale sono più del 13% i minori residenti in attesa della cittadinanza. La norma deve essere approvata al più presto e come Comune ci impegniamo ad applicarla nel modo migliore possibile”.

Ansa