Reggio Emilia. Nelle marionette l’uomo di oggi ritrova il gioco. Ma anche la gnosi

Quella del burattinaio è una figura che viene da lontano: gli antichi automi e la Commedia dell’arte. Palazzo Magnani ne indaga i rapporti con le avangiuardie
L'ingresso di Palazzo Magnani a Reggio Emilia /

L’ingresso di Palazzo Magnani a Reggio Emilia / – Foto di Alessandro Meloni

avvenire.it

Otello Sarzi aveva una faccia da burattinaio buono, un vecchio signore dalla lunga barba bianca, ma che nella sua storia fece entrare anche la militanza antifascista. Reggio gli aveva reso omaggio nel 2022 per in centenario della nascita, ma ora ha allestito una rassegna che incorona l’arte di Sarzi con le opere dei maggiori artisti del Novecento che si sono misurati con la marionetta. Era il burattinaio che muoveva le storie per bambini e per adulti di un teatro popolare del quale, come scrisse mezzo secolo fa Gianni Rodari nel suo libro più ricco di idee, Grammatica della fantasia, Sarzi resisteva a tener desta la tradizione. Anzi, Rodari chiedeva: «Chi, a parte Otello Sarzi e pochi intimi?».

Un’arte rara e, secondo alcuni, desueta quella delle marionette, a cui Palazzo Magnani, fino al 17 marzo, dedica una rassegna che lega il mondo dell’infanzia e le avanguardie. In realtà, i burattini sono una volgarizzazione di una delle più straordinarie creazioni nate dalla predisposizione umana al simulacro. S’intrecciano e, anzi, in qualche modo hanno un loro sviluppo nelle figure della Commedia dell’arte, ma la loro storia comincia molto prima e si dirama molto dopo, nelle diverse invenzioni della scienza moderna, tant’è che James Bradburne già direttore del Museo di Brera, si spinge fino alle recentissime discussioni che mettono in gioco l’etica davanti all’Intelligenza Artificiale e «ci costringono a riconsiderare la misura nella quale anche noi possiamo essere considerati delle marionette mosse da fili, poteri o programmi invisibili».

La mostra offre molti materiali tipici della storia che burattini e marionette hanno scritto in rapporto alla nostra umanità. Da Pulcinella a Pinocchio, “il” burattino italiano per eccellenza, il teatro degli attori e quello dei simulacri si sono scambiati le parti: ancora Bradburne nota che gli inizi del Novecento segnano una trasformazione del concetto di “infanzia” sul piano del diritto e della cultura. Ed è vero, ma gli studi sulla condizione del bambino in questo passaggio della modernità, la nuova centralità dell’infanzia nella costruzione sociale, parallela all’emancipazione delle donne, non deve far dimenticare che alla fine dell’Ottocento e ai primi del Novecento il bambino è ancora un oggetto perturbante a cui vengono addossate colpe che relativizzano quelle dell’adulto. Questo sfondo che conserva una sua opacità, s’impregna di quei valori perturbanti di cui è portatore il bambino (a suo modo, una marionetta in carne e ossa, che l’adulto può manipolare perché «altamente influenzabile»). Ma, è sempre Bradburne che scrive, «il gioco creativo stesso dei bambini era una fonte estetica d’ispirazione per gli artisti che piuttosto che liquidare le marionette e i burattini come semplici giochi infantili, compresero il potenziale delle figure per immaginare un mondo migliore»: così forse lo vedeva Picasso nelle scenografie per il balletto Parade dove i costumi di scena e i personaggi raffigurati – nel contrasto fra il sipario dominato da Pegaso e il costume di scena del Cavallo –, hanno una chiara derivazione dalle fantasie infantili che diventano il fluido vitale di un’estetica cubistizzante e quasi fiabesca, ma sono anche un modo di abitare lo spazio; così si può dire per il Pupazzo bianco di Depero, la Scimmia e il Selvaggio Rosso, ovvero gli allestimenti per Strawinsky, e così via con i topi bianchi e i gatti neri, la gallina o il serpente.

Enrico Prampolini, ‘Dieci burattini futuristi’ (1922)
Enrico Prampolini, “Dieci burattini futuristi” (1922) – .

Ma ecco che l’avanguardia e l’immaginazione satirica ispirano il pezzo più bello della mostra, i Dieci burattini futuristi, riuniti su una piattaforma circolare che ruota, con le figure di diversa altezza con le caricature di Vittorio Emanuele III, Giolitti e Mussolini, Gabriele d’Annunzio e Saverio Nitti e don Sturzo, ma anche personificazioni del fascismo, del Mondo di allora, del Diavolo (forse il comunismo), cui s’aggiunge un’attrice all’epoca di grande nome, Dina Galli – l’opera, che in origine doveva avere dodici personaggi, prese forma nella collaborazione di Prampolini col Cabaret del Diavolo di Gino Gori, un ritrovo romano che veniva pubblicizzato come fantastico, geniale, intellettuale, aristocratico, mondano nei primi decenni del secolo. Fino a un paio d’anni fa questo teatrino figurava anonimo e portava la data 1922, ma grazie a una fotografia che mostra Gori e questi fantocci, Nicoletta Boschiero ha potuto attribuirne definitivamente la paternità a Enrico Prampolini. In quest’opera avanguardia e teatro di figura convivono sotto una duplice valenza artistica e politica, come fu anche per le marionette d’artista russe, quando Lenin intuì che potevano servire all’alfabetizzazione dei futuri uomini sovietici.

Sul versante astratto ed esoterico che rivive nelle esperienze del Cabaret Voltaire, di Sophie Täuber-Arp e Paul Klee al Bauhaus, e, in particolare, col geniale allievo di Oskar Schlemmer – l’autore del Balletto Triadico e riscopritore del classico di Kleist sul Teatro delle marionette – ossia Andor Weininger, il quale realizzò forme astratte colorate che stavano sulla scena sostituendo gli attori in carne e ossa, il Mechanische Buhnen-Revue che rifiutava ogni elemento naturalistico (il nuovo orizzonte del Teatro di marionette è infatti inseparabile dall’esperienza della Grande Guerra dove i giovani europei tornavano alle loro case, molti di loro feriti o mutilati. Il burattino con i suoi arti slegati e mossi da fili era anche l’immagine di un uomo a cui avessero reciso i tendini, in cui tanti forse si rispecchiavano: così potè sembrare il manichino di Carrà e De Chirico).

La persistenza del teatro di marionette giavanesi e le ricerche simboliche e orientaleggianti del burattinaio viennese Richard Teschner, che si formò all’accademia d’arte di Praga, ricreano il dualismo insito nella figura del burattino, in un legame che dal XII secolo arriva fino all’età moderna e contemporanea aprendo lo sguardo a due “prototipi” che, peraltro, trovano poco spazio nella mostra reggiana: il precedente degli automi arabi del XII secolo, di cui ci sono giunte varie documentazioni e che legano il tema della meraviglia alla scienza grazie agli “ingegnosi meccanismi” semoventi che anticipano di secoli la gnosi sepolta negli automi moderni degli inventori settecenteschi; e l’altro tema, quasi ignorato dalla mostra, del Golem che collega il burattinaio di marionette all’uomo che, nell’antica leggenda ebraica, sfida Dio, plasma un uomo artificiale dal fango ma cade sotto le more divine che puniscono l’hybris umana. 

A Palazzo Barberini torna la magnificenza di Urbano VIII


Il battesimo di Cristo sulle rive del Giordano. Costantino che combatte il leone. E l’inizio del proprio pontificato. “Per capire Urbano VIII e la sua ambizione, basterebbe guardare questi tre arazzi”. Sotto la spettacolare volta affrescata da Pietro da Cortona, in una delle infilate più magnificenti dei palazzi romani e davanti a quei tre pezzi eccezionalmente riuniti, insieme ai loro cartoni di preparazione, il rettore dell’Università di Vienna Sebastian Schütze racconta come il Papa allestì questa sala, accostando la storia della propria vita a quella di Cristo e dell’imperatore Costantino. Ed è proprio in occasione dei quattrocento anni dall’elezione al soglio pontificio di Maffeo Vincenzo Barberini che le Gallerie nazionali di arte antica celebrano il “padrone di casa” con “L’immagine sovrana. Urbano VIII e i Barberini”, grande mostra a cura di Maurizia Cicconi, Flaminia Gennari Santori e Sebastian Schütze, dal 18 marzo al 30 luglio a Palazzo Barberini, dedicata al letterato e poeta, destinato a diventare il più grande Papa committente-mecenate del Seicento.

Un’occasione unica, non solo per ammirare capolavori che tornano qui dopo oltre un secolo, ma anche per capire come Urbano VIII e la sua famiglia utilizzarono la potenza dell’arte per consolidare il proprio potere e fare propaganda politica. Durante il suo pontificato (il più lungo e rappresentativo del XVII secolo, dal 1623 al 1644), per intenderci, Urbano VIII promosse imprese colossali, come il baldacchino di San Pietro di Gian Lorenzo Bernini. Ed è con i Barberini che nacque il barocco a Roma. In mostra oggi, 88 opere in più di mille metri quadri di allestimento, con 70 prestiti da 40 istituzioni internazionali e collezioni private, dagli Uffizi al Louvre e il Met, solo per citarne alcuni. “E’ il progetto espositivo più ambizioso mai realizzato e prodotto dalle Gallerie, frutto di oltre tre anni di lavoro – racconta la direttrice Gennari Sartori – Dagli spazi per le mostre temporanee” si sale su fino “ai grandi saloni” ultima tappa del “percorso di recupero di tutti gli ambienti del palazzo precedentemente occupati dal Circolo Ufficiali delle Forze Armate”. Un viaggio che mette insieme Caravaggio, Bernini e i Carracci, ma anche gli scritti di Galileo Galilei e le poesie dello stesso Urbano VIII, dalla sua incredibile biblioteca di oltre 4 mila volumi. Per la prima volta tornano qui la Morte di Germanico di Nicolas Poussin, “che fino a oggi ha lasciato Minneapolis solo per una mostra al Louvre”, ricorda Schütze, e l’Allegoria dell’Italia di Valentin de Boulogne. E poi il Ritratto di Taddeo Barberini di Andrea Sacchi e quello del padre Carlo di Francesco Mochi; il Pan attribuito ad Antonio da Sangallo.

Restaurati per l’occasione, ecco poi i grandi dipinti che Andrea Camassei dedicò a La strage dei Niobidi e Il riposo di Diana, restaurati per l’occasione. “In mostra – racconta Schütze – non sono solo le opere, ma il palazzo stesso, la bellissima facciata, gli scaloni, il giardino di quella che era la sontuosa residenza di famiglia. Un modo per rivivere la Roma barberiniana, proprio nel fulcro della vita culturale e artistica di quegli anni”. In dodici sezioni, come spiega la curatrice Cicconi, “raccontiamo come i Barberini controllarono tutti gli aspetti della cultura”, ma anche “il rapporto con la città, inizialmente di grande amore ma finito con i romani che alla morte del Papa correvano in Campidoglio per distruggerne la statua”. “L’occasione dei 400 anni era imperdibile – commenta il Direttore Generale dei musei del Mic, Massimo Osanna – ma la mostra è importante anche per capire quanto i nostri musei siano sempre più luoghi di ricerca”.

ansa.it

Carpaccio torna a Venezia, ‘Dipinti e disegni’ a Palazzo Ducale. In mostra fino al 18 giugno


VENEZIA – La maestria di Vittore Carpaccio fa ritorno a Palazzo Ducale con la mostra monografica “Vittore Carpaccio. Dipinti e disegni, allestita nell’Appartamento del Doge di palazzo Ducale, visitabile fino al 18 giugno prossimo.

La mostra è organizzata da Fondazione Musei Civici e dal Comune di Venezia in collaborazione con la National Gallery of Art di Washington, ed è a cura di Peter Humfrey, con Andrea Bellieni e Gretchen Hirschauer. Alla presentazione hanno partecipato la presidente della Fondazione Musei Civici di Venezia Mariacristina Gribaudi, il sindaco Luigi Brugnaro, il sottosegretario alla Cultura Vittorio Sgarbi.
La monografica inaugurata oggi propone 70 opere, di cui 42 dipinti e 28 disegni, sei dei quali sono recto/verso. Sono state riunite soprattutto opere oggi in musei e collezioni internazionali, oppure in chiese degli antichi territori della Serenissima, dalla Lombardia all’Istria e alla Dalmazia, nell’ottica di illustrare la varietà e l’altezza della pittura di Carpaccio, seguendone anche l’evoluzione.
“Questa mostra – ha sottolineato Bellieni nella presentazione – riporta a Venezia tantissime opere di Carpaccio disperse nel mondo. E’ una mostra che intende restituire Carpaccio in una dimensione che non è soltanto quella nota a tutti del grande racconto storico, del grande scenografo, del grande regista della Venezia del 1400 ma anche il pittore alto, spirituale, che ha una profondità di interpretazione assolutamente originale e propria. Quindi un Carpaccio non soltanto decorativo, che si ferma alla narrazione, ma un pittore di una profondità non certamente inferiore a quella degli altri grandi pittori suoi contemporanei”.
All’interno del percorso espositivo vi è un’opportunità unica, quella di ammirare, finalmente riunite, le due parti di una scena compiuta ed unitaria, ma separate in circostanze sconosciute verso la fine del Settecento. Si tratta delle “Due dame” del Museo Correr di Venezia, e de “La caccia in Laguna”, oggi al Getty Museum di Malibu. Carpaccio le aveva raffigurate entrambe su quella che, in origine, quasi certamente era un’anta di porta a soffietto.
“Mi sento molto legato a questo artista di cui ho fatto diverse monografie – ha detto Sgarbi – e ritengo che fare una mostra su Carpaccio sia un impegno che lega in modo definitivo lo Stato e il Comune di Venezia. Sarà una mostra della città di Venezia, perché il primo pittore di città è proprio Carpaccio: vede nelle meraviglie di arte orientale e bizantina un mondo che non esiste, che è un sogno, il sogno di Venezia. Ma allo stesso tempo è Venezia, lo si scorge dalle barche, dai ponti, dai fondali dei dipinti”.

ansa.it

La mostra a Verona. Dorazio, trame di colore come architetture

Piero Dorazio, “Balance and counterbalance”, 1965

Piero Dorazio, “Balance and counterbalance”, 1965 – opera esposta nella mostra “La nuova pittura. Opere 1963-1968” a Verona

Scienza cromatica e gesto, tocco e segno che dissestano la geometria (ma non la regola) e rigenerano la memoria dell’arte, in una continuità di ricerca da “Forma 1” in poi, hanno sostanziato prima il lucido richiamo al senso delle avanguardie storiche, poi la vera e propria difesa dell’identità della pittura moderna e della sua autonomia. Parliamo dell’opera di Piero Dorazio (l’«architetto della cromia» secondo la definizione di Marcello Venturoli) la cui pittura va per cicli. Il naturalismo pittorico iniziale della fine degli anni Quaranta del secolo scorso – contrappuntato da opere neoplastiche monocromatiche e rilievi in legno dipinto e plexiglas – via via si frantuma sino quasi alla perdita dell’immagine per diventare, nel 1948, vero astrattismo: colore su colore, gradualità su registri azzurri, verdi, gialli, viola, linee in negativo. Nel 1953, in quello stesso clima in cui nascono i “buchi” di Fontana, le formulazioni di Dorazio spaziano da un rigoroso geometrismo a forme libere e immaginifiche fino a diventare trame e segnare uno dei periodi più pregnanti della carriera dell’artista. Le prime di queste risalgono al 1959. Sono in carboncino su carta dove è più immediato fissare un’idea, perentorie, nerissime su bianco, ma è il colore a prendere il sopravvento e, a partire dal 1963, la struttura reticolare delle trame cede il passo a un nuovo impianto compositivo orchestrato di volta in volta su registri lineari, su campiture a puzzle, su fiammate di colore, sul frammento, sulle compenetrazioni appuntite, sui ritmi ripetuti di segni sinuosi, su fasce che si intersecano. Inizia da qui, per indagare il successivo quinquennio, questa mostra veronese curata da Francesco Tedeschi che, grazie a una trentina di selezionatissime opere, si focalizza su quella che è stata definita la “nuova pittura” di Dorazio. È distribuita tra la Galleria d’Arte Moderna Achille Forti e la Galleria dello Scudo da dove parte il percorso espositivo con Passato e presente, olio su tela del 1963, in cui l’intreccio del segno è superato dalla stesura di fasce policrome a fitta sequenza verticale. E se ancora la struttura reticolare, costituita da lunghe linee sottili, permane in opere come My best (1964) e Percorso male inteso (1965), è evidente come in queste tele si assista a un diradarsi e a un disciplinarsi della trama e all’affiorare di una griglia regolare sovrimpressa ai tracciati diagonali. È ciò che testimoniano due opere entrambe del 1966 che rappresentano due omaggi ad artisti verso i quali Dorazio ha manifestato particolare interesse. Si tratta di Tranart (a Gino Severini) e Ottimismo-pessimismo (a Giacomo Balla) opere che, se da una parte risentono di suggestioni provenienti dalla pittura americana in auge in quegli anni con la quale Dorazio entra in contatto in seguito alla sua permanenza negli Usa dove la sua opera registra prestigiosi riscontri, dall’altra segnalano come la sua ricerca sia il frutto di profondi legami con la storia dell’arte nazionale. Alla Galleria Forti sono due grandi tele ad accogliere il visitatore, entrambe presentate (insieme ad altre che figurano in questa mostra “La nuova pittura. Opere 1963-1968”, fino al 30 aprile) nella sala personale dell’artista alla XXXIII edizione della Biennale di Venezia del 1966: Cercando la Magliana del 1964 e Balance and counterbalance del 1965, opere che segnalano una vocazione architettonica che porta a nuove invenzioni compositive e a una rottura dell’ordine. Ciò per ottenere un equilibrio dinamico e al contempo a rifuggire da ogni irrigidimento, come dimostra l’utilizzo della linea curva e la sua fluidità in opere quali Endless Federico (I) (per Federico Kiesler) del 1965, Tira e molla, del 1966 e Litania, del 1968. © RIPRODUZIONE RISERVATA Verona, Galleria d’Arte Moderna Achille Forti e Galleria dello Scudo Piero Dorazio

avvenire.it