Anticipazione «Un film sulla ricerca di Gesù nel mondo. E Papa Francesco interpreterà se stesso»

È previsto nei primi mesi del 2016 in Italia l’inizio delle riprese del film Beyond the Sun, una storia di avventura per famiglie, in cui i bambini provenienti da culture diverse emulano gli apostoli alla ricerca di Gesù nel mondo che li circonda.

Il film, con la sceneggiatura di Graciela Rodriguez, sarà «edificante – spiega una nota stampa – ed è destinato ad impegnarsi spiritualmente e incoraggiare il pubblico di tutte le età a trasmettere le parole di Gesù, di comprenderle e indurre a vivere una vita migliore, facendo buone scelte e aiutando gli altri».

Andrea Iervolino e Monika Bacardi, co-fondatori di Ambi Pictures, finanzieranno e produrranno l’intero film. Co-produttori saranno la Rodriguez e Gabriel Leybu. I profitti di Beyond the Sun, annuncia sempre la nota stampa, saranno devoluti a due associazioni di beneficenza argentine – El Almendro e Los Hogares de Cristo – che «supportano il messaggio sociale e spirituale di papa Francesco».

La nota aggiunge che sarà consulente dell’opera monsignor Eduardo Garcia, e che l’idea del film sarebbe nata dallo stesso pontefice che avrebbe chiesto ai filmmaker di realizzare un film per i bambini che comunicasse il messaggio di Gesù. Secondo i produttori poi, che hanno allegato al comunicato alcune foto di un’udienza privata con lui, papa Francesco avrebbe dato la propria disponibilità a interpretare se stesso nel film. Eventualità, quest’ultima, che non ha trovato conferma dalle fonti vaticane interpellate da Avvenire.

Spettacoli. Cinema. Zalone sbanca tutti i record alla prima

Che l’attesa del film delle feste di Checco Zalone fosse alta, lo si sapeva, ma che addirittura sfiorasse i 7 milioni di euro di incassi e il milione di biglietti venduti, raddoppianndo il record precedente, ha lasciato tutti di stucco, a partire da Giampaolo Letta, ad del distributore Medusa, che si dice «quasi senza parole» e Pietro Valsecchi, produttore di “Quo vado?0148 che parla di «un risultato al di là di ogni immaginazione. Un’iniezione di fiducia per il cinema italiano». Infatti la commedia di Checco Zalone (alias Luca Medici), che è anche sceneggiatore, autore soggetto e delle musiche e regista della pellicola insieme a Gennaro Nunziante, ha incassato il primo gennaio 6.852.291 euro, visto da 932.423 spettatori per un totale di 6.857.044 euro nelle 1078 sale monitorate da Cinetel. Ed è probabile che abbia incassato anche di più, contando che le sale in cui è stato distribuito da Medusa sono ben 1300 (400 in più di “Star Wars – Il riveglio della Forza”). Insommma, l’aria svagata del pugliese Checco raggiunge il miglior incasso nelle prime 24 ore, doppiando il record precedente di “Harry Potter e i doni della morte – parte II” (3,2 milioni), “Spiderman”(2,8 milioni) e l’ultimo “Star Wars” (1,8 milioni).

Ma cosa spiega il successo irrefrenabile della comicità “politicamente scorretta” di Zalone? Innanzitutto la mancanza quasi totale di concorrenza, considerando l’uscita postnatalizia per evitare lo scontro con “Star Wars”, che ormai ha compiuto la sua “mission” commerciale totalizzando nelle ultime due settimane oltre 20 milioni di euro lasciando le briciole ai concorrenti. Ma soprattutto la grande voglia di serenità e di fare in santa pace due risate, che le famiglie italiane sentono in questo inizio d’anno asfissiato dallo smog e attanagliato dagli allarmi terrorismo.

Insomma, Zalone, mettendo alla berlina i cliché dell’italiano medio e restando fedele film dopo film alla sua maschera, quella del ragazzo del Sud piuttosto ingenuo, dagli obiettivi limitati, il cui massimo sogno è quello del posto fisso, ma in fondo di buon cuore, ha fatto ancora centro. Qui, in più, il comico pugliese allarga i suoi orizzonti mettendo a confronto il nostro modo di essere, coi nostri difetti ma anche coi nostri pregi, con quello di paesi stranieri del Nord e del Sud del mondo. La sua è una escalation esponenziale: Zalone con il primo film “Cado dalle nubi” nel 2009 aveva realizzato oltre 14.000.000 di euro, nel 2011, con “Che bella giornata” oltre 43.000.000 di euro e con “Sole a catinelle” nel 2013 il più alto incasso della storia per un film italiano con oltre 52.000.000 di euro al boxoffice. Le premesse per un altro record storico ci sono tutte.

avvenire

Sono disponibili on line sul sito del Sir le videorecensioni, preparate dall’Acec sui Film Festival Cinema Venezia

cinema.film

Sono disponibili on line sul sito del Sir (clicca qui) le videorecensioni, preparate dall’Acec (Associazione cattolica esercenti cinema, guidata da don Adriano Bianchi, www.saledellacomunita.it), sui film presentati alla 71ª Mostra internazionale d’arte cinematografica in corso a Venezia (dal 27 agosto a 6 settembre). “Le videorecensioni vogliono essere un servizio a tutto il mondo cattolico: siamo infatti convinti che il cinema sia in grado d’intercettare il vissuto della società contemporanea con le sue domande di senso”, spiega al Sir Francesco Giraldo, segretario generale dell’Acec, precisando che l’associazione è presente in questi giorni a Venezia assieme alle altre quattro d’ispirazione cristiana (Ancci – Associazione nazionale circoli cinematografici italiani, Cgs – Cinecircoli giovanili socioculturali, Cinit – Cineforum italiano, Csc – Centro studi cinematografici) “in rappresentanza delle sale della comunità e dei circoli di cultura cinematografica che si trovano in tutt’Italia”.

Sono oltre 300 gli accreditati alle proiezioni provenienti dalle sale della comunità e dai circoli Ancci, Cgs, Cinit e Csc, mentre, presso lo stand delle associazioni, è allestito un angolo libreria e si trova la redazione di Filmcronache che, guidata da Paolo Perrone, realizza video e recensioni dei film in Mostra in diretta dal festival. “Le sale della comunità si pongono sul versante della domanda, interfacciandosi con i problemi della società contemporanea”, rimarca Giraldo, vedendo uno “stretto legame” tra la sala della comunità e il tempio e auspicando la loro presenza in ogni parrocchia, perché “è vano dare risposte senza sollecitare domande”. Sono già on line le prime due videorecensioni di “Birdman (or the unexpected virtue of ignorance)” di Alejandro González Iñárritu e “The look of silence” di Joshua Oppenheimer.

agensir

Un «andare» cristiano

di DONATELLA FERRARIO

Si intitola Un giorno devi andare l’ultimo film del regista Giorgio Diritti. Un’altra sofisticata pellicola che racconta il cammino interiore che una giovane donna, colpita da un enorme dolore, compie alla ricerca di sé stessa. Un «andare» fiducioso ma senza garanzie di approdo. Esattamente come il percorso della fede.

Nelle immagini, alcuni fotogrammi della pellicola girata tra il Brasile e il Trentino.

Nelle immagini, alcuni fotogrammi della pellicola girata tra il Brasile e il Trentino.

«Mi ha guardato negli occhi sorridendo, mi ha detto “coraggio”, uno dei suoi saluti abituali, e mi ha abbracciato. Ha infranto subito ogni tipo di barriera strutturale e fisica: il coraggio è una delle cose più belle che puoi donare a una persona, tutti ne abbiamo bisogno. Di coraggio di vivere, certe volte, di coraggio di essere quello che io volevo essere con quest’esperienza: un piccolo seme di riflessione. Lui l’ha sentito e l’ha condiviso». Chi parla è Giorgio Diritti, il regista e anche sceneggiatore, insieme a Fredo Valla e Tania Pedroni, del film Un giorno devi andare, con Jasmine Trinca, presentato in prima mondiale al Sundance Film Festival. Diritti si riferisce a padre Fernando, un missionario gesuita originario delle Canarie che opera in Brasile, a Manaus, dove è in gran parte ambientata la vicenda del film: «Uno degli incontri più belli, un uomo molto semplice, che non ha mai avuto la presunzione di insegnare niente a nessuno: vive il cristianesimo e pensa che il viverlo possa essere un esempio, ma il suo obiettivo non è convertire o “battezzare”». Incontriamo Giorgio Diritti in una giornata limpida di sole, a Bologna, nella sede di Arancia Film. Il regista de Il vento fa il suo giro e de L’uomo che verrà, di cose da dire ne ha tante: «Eccetera, eccetera», ripete spesso nel suo discorrere, e capisci che vorrebbe dire molto di più: un flusso di parole che si ramifica e ti coinvolge con quella che è la sua cifra, l’autenticità. La sua ultima opera, Un giorno devi andare appunto, girato in Brasile e in Trentino, segue il percorso di Augusta (Trinca) che, dopo aver perso il bimbo che aspettava, lascia tutto e cerca di ritrovare sé stessa con un viaggio in Amazzonia – in un alternarsi di speranza e dolore, luce e ombra – prima al fianco di una suora missionaria amica della madre, poi in una favela di Manaus, di cui diviene membro e lievito, finché qualcosa accade e la donna decide di isolarsi, in una totale immersione nella natura. Quale sia poi il suo destino il regista non lo dice espressamente: lo lascia scoprire allo spettatore.

Nelle immagini, alcuni fotogrammi della pellicola girata tra il Brasile e il Trentino.

«Mi auguro che quello che racconto sia un viaggio che possa compiere ogni persona: cerco di toccare temi quali la vita, la priorità delle cose nell’esistenza, anche con uno sguardo verso il cielo, o comunque un interrogarsi rispetto alla dimensione spirituale che è dentro di noi, che rinasce e che viene fuori nella paura e nella voglia di scoprire. Spero che alla fine si senta l’importanza di mettersi in gioco, appunto di andare, dove la parola “andare” riassume forse il significato di non lasciarsi schiacciare dalla malinconia, dal senso di sconfitta, dalla situazione socioeconomica che viviamo, da un’Italia veramente faticosa e imbarazzante, e di ritrovare un percorso personale che ci aiuti a dare spessore alla vita».

Nelle immagini, alcuni fotogrammi della pellicola girata tra il Brasile e il Trentino.

Diritti lo afferma con passione: «La vita è una cosa straordinariamente affascinante e bella e il più grande peccato che possiamo commettere è il non viverla, non rischiare, accettare le regole senza rielaborarle, diventare persone “che svolgono un compito”, quando invece nella vita abbiamo, e lo dico anche laicamente, una vocazione, che però va partecipata, nel creare comunità. Che per chi crede è comunità di figli di Dio, mentre, da un punto di vista laico, è comunità sociale, di fratellanza». L’andare della protagonista del film è in Amazzonia, una terra che non può lasciare indifferenti per la natura, la vastità degli orizzonti, i contrasti: «Credo che il rapporto con l’ambiente e la natura ti svegli, ti prenda per le orecchie – anche se sei stanco, perso, cieco – e ti dica: “Ooohhh? Guarda che c’è qualcosa: senti questi odori, quest’aria!”. E all’improvviso ti accorgi che tu sei lì, che tu sei quello, e nel momento in cui la natura ti affascina e ti percepisci parte di essa, capisci la tua dimensione relativa, quanto sei piccolo, e in questo piccolo ti guardi intorno e senti la voglia di capire, innanzitutto il senso del tuo essere piccolo. Nasce da lì, secondo me, la spiritualità. Tanto più siamo umili e piccoli, tanto più la nostra apertura verso Dio è inevitabile e urgente».

Il regista Giorgio Diritti in una favela di Manaus durante le riprese di Un giorno devi

Il regista Giorgio Diritti in una favela di Manaus durante le riprese di Un giorno devi
andare
(foto A. DI LORENZO).

Enoi che viviamo in una dimensione frenetica, lontana dallo spettacolo della natura, come possiamo fare? «Bisogna avere il coraggio di andare: andare a passeggio, anche in città, piuttosto che stare davanti alla televisione. Credo che le persone siano spesso angosciate proprio perché non hanno la forza di uscire dalla “scatola” in cui vivono: gli è stato dato uno schema, il consumismo, il grande mostro che ci suggerisce sempre come dobbiamo essere e cosa dobbiamo fare, ma gran parte di questi suggerimenti creano un senso di frustrazione, non ci sentiamo fighi e giusti se non possediamo certe cose… Ma poi non siamo felici lo stesso. Allora credo che, citando Dostoevskij, solo la bellezza ci salverà, quella che io chiamo anche natura, cioè il rapporto con l’autenticità di ciò che siamo, la scommessa e la possibilità di sopravvivenza dell’uomo sulla terra. I villaggi indios che ho visitato in fondo sono sintesi, attraverso le loro difficoltà, di una vita in cui le priorità sono chiare. Gli affetti, il mangiare, il vestire: avere il giusto, il necessario. Tutto il Sud del mondo ci dà questa indicazione ma noi spesso non la accogliamo: in ogni minuto della nostra quotidianità abbiamo un messaggio pubblicitario alla radio, alla televisione, su internet, che ci dice devi essere così, prendi questo, prendi quest’altro. Dobbiamo spogliarci un po’ di queste cose, penso».

In queste immagini: alcune scene del film Un giorno devi andare, con la giovane protagonista Jasmine Trinca (foto C. IANNONE).

In queste immagini: alcune scene del film Un giorno devi andare, con la giovane protagonista Jasmine Trinca (foto C. IANNONE).

La protagonista del film a un certo punto subisce un altro dolore grande e si isola: «La dimensione dell’abbandono, dello scoramento e dell’isolamento è un’altra tappa fondamentale per ritrovare se stessi. La meditazione è una cosa di cui c’è bisogno. È un altro modo per aprirsi e per far sì che le cose vengano a galla. C’è anche un’elaborazione del dolore nell’isolamento. Augusta prova il dolore dello smarrimento: non è un dolore diretto a lei, ma a questa gente già così povera, ridotta a condizioni di vita minimali, su cui si abbatte una tragedia. Il fatto che succeda anche questo è una violenza interrogativa, in un certo senso, e ti viene voglia di gridare a Dio “perché tutto questo?”. Di fronte a tutti i bambini che muoiono ogni giorno ti rimane quel dubbio del perché. Se tu vai in un ospedale oncologico e vedi i bambini, hai voglia ad avere fede e Spirito Santo che ti aiutano. Poi io, in un mio personale percorso, paradossalmente penso di poter dire che proprio la relatività del tempo della vita e la nostra condizione esistenziale diano una plausibilità molto più ampia a una possibilità dell’aldilà, nel senso che tanto più sentiamo che questa cosa è relativa nella durata, tanto più è perché probabilmente c’è un altro Altrove, insomma. Facendo un paragone molto banale è come essere all’antipasto: sai che ci sarà qualcosa d’altro. Se mi portano solo una carota e mi hanno invitato a pranzo, penso che mi aspetti qualcos’altro. Almeno mi viene istintivamente questo desiderio, questa tensione».

Il regista Giorgio Diritti (foto A. DI LORENZO).

Il regista Giorgio Diritti (foto A. DI LORENZO).

La fede di Giorgio Diritti va nella direzione indicata da Cristo, che è andato tra gli umili e gli ultimi. «Sono in cammino», dice. «Ogni tanto dubito e la paura e il deserto arrivano: ma credo che sia bello nella vita essere in cammino. Quello che sento un po’ con disagio è quando incontro persone che sono o totalmente chiuse o totalmente sicure. Sono convinto che ci debba essere un percorso di movimento nella fede, che non può essere statica, deve essere ricca di pensiero, di contraddizione, di disagio. Non è mai tranquilla, ma questo è il suo bello. Peraltro, quando ho pensato al film, una delle attenzioni che ho cercato di avere era di posizionarmi un po’ sul confine, non andando né di qua né di là: vicino a quel momento in cui una persona che non crede comunque ha, dai segni della vita, dei momenti in cui dubita, e vicino al credente che, in certi momenti della vita, si trova in situazioni in cui la sua fede o crolla o addirittura svanisce. Rispetto alla Chiesa cosiddetta ufficiale sono dell’idea che ci sia davvero da fare un bagno di umiltà e povertà: la sensazione è quella, che si debba trovare di nuovo l’autenticità. E invece si costruiscono le barricate su temi e valori che non c’entrano niente. Spesso si sentono dichiarazioni che danno delle legnate e definiscono dogmi delle cose che poi, dopo, uno cerca sul Vangelo da tutte le parti e non trova. Quindi questo mi interroga e mi fa anche dire: cerchiamo di essere attenti e di aiutare le persone a ritrovare il senso vero del loro percorso». «Nel film cerco di rappresentare due Chiese, una che riprende la logica figlia del “colonialismo dell’uomo bianco”: ci sono delle persone in gambissima e altre che, pur essendo in gamba, non si rendono conto che quanto stanno facendo è fuori dal rapporto autentico di valorizzazione ed evangelizzazione, diventa una colonizzazione dell’uomo bianco che con la croce in mano sappiamo quanti disastri ha fatto e continua a fare. Con la scusa della croce – mamma mia! – abbiamo veramente violentato il mondo, e in questo, purtroppo, la Chiesa ha sovente accettato il rifiuto ai compromessi difficili: per fortuna nella storia della Chiesa ci sono anche san Francesco, madre Teresa di Calcutta, padre Alex Zanotelli, don Ciotti, eccetera, persone che, al di là delle logiche strutturali, hanno ben chiaro e tengono ben diretta la nave verso la dimensione della semplicità, dell’umiltà, cioè verso il Vangelo. A me il Vangelo sembra la più straordinaria opportunità di riflessione per capire la vita, ed è anche straordinariamente semplice l’approccio con cui seguirlo. Troppo spesso mi sembra che nel mondo della Chiesa le regole, la morale, gli obblighi siano pesanti».

foto A. NOVELLI

foto A. NOVELLI

Il cattolico Giorgio Diritti come ha accolto le dimissioni di Benedetto XVI? «All’inizio mi ha provocato un senso di disagio: mi sembrava fuori dalla logica delle cose e per certi aspetti questa sensazione un po’ persiste dentro di me. Ma contemporaneamente mi sembra un segno interessante perché sento forte in lui una motivazione di umiltà, che è l’umiltà di un uomo che rispetto a qualche cosa che gli è stato dato da Dio ne riconosce il valore e, insieme, riconosce il suo limite, che può essere fisico ma può essere anche pastorale di fronte alla necessità di dare una svolta alla Chiesa, per responsabilizzarla, per darle un’energia maggiore. Se si guarda la cosa da questo punto di vista, è un segno molto importante. In fondo il più grande gesto di umiltà che può fare un uomo è quando, sentendosi totalmente smarrito, si rivolge a Dio e dice “ho bisogno del Tuo aiuto”. In questo, dunque, lo trovo cristiano nel senso più bello del termine: ci deve insegnare qualcosa. Così come ho amato straordinariamente l’ultima parte del pontificato di Wojtyla, che era l’icona del dolore e della sofferenza e ha dato dignità enorme a una dimensione che invece il mondo attuale tende a nascondere, cancellare, colpevolizzare. Una dignità che dovremmo ritrovare nella malattia, che è vissuta sempre con vergogna, e invece dovrebbe essere vissuta come occasione di vicinanza».

foto C. IANNONE

foto C. IANNONE

Donatella Ferrario – jesus aprile 2013

CINEMA D’AUTORE Tornatore insegue Hitchcock

Un film sofisticato per raccontare l’intreccio tra amore e arte, solitudine e mistero. Conclusa con Baaria l’esplorazione cinematografica della sua Sicilia, abbandonata la pellicola per il digitale, Giuseppe Tornatore guarda all’Europa e firma un thriller senza morti né detective, La migliore offerta, dove la suspance che accompagna lo spettatore per due ore è il frutto di un intreccio preciso e avvincente affidato all’interpretazione di uno straordinario Geoffrey Rush, affiancato da Sylvia Hoeks, Jimi Sturgess e Donald Sutherland.

Prodotto da Arturo Paglia e Isabella Cocuzza per Paco Cinematografica e distribuito da Warner il 1° gennaio, il film conta sulla colonna sonora di Ennio Morricone che ha cominciato a lavorare sulle musiche prima che Tornatore girasse. Della storia diremo pochissimo, per non rovinarvi la sorpresa. Basta sapere che il protagonista è uno stimato esperto d’arte e battitore d’asta, Virgil Oldman, che per tutta la vita ha tenuto a distanza di sicurezza i sentimenti e la stessa superficie del mondo isolandosi attraverso un paio di guanti. La sua vita cambia quando una giovane donna, Claire, gli chiede di valutare il patrimonio di famiglia. Furioso per i continui mancati incontri con la ragazza, con la quale parla solo al telefono, Virgil scopre che Claire soffre di una grave forma di agorafobia e da oltre dieci anni non abbandona il suo appartamento. Come Virgil, anche lei è prigioniera di un’ossessione che la separa dal resto dell’umanità. Tra i due nasce un legame che Virgil non ha mai vissuto nella sua vita, ma le cose prenderanno una piega imprevista.

Riflettendo sul rapporto tra realtà e finzione, vero e falso (una delle frasi chiave del film è «Anche in un falso d’arte c’è qualcosa di vero»), Tornatore declina in maniera diversa dai suoi film precedenti temi a lui cari come la solitudine dei personaggi, la memoria e anche il cinema («Tutto può essere finzione, anche l’amore e la follia» dice Sutherland in una scena). «Il titolo – dice Tornatore – mi ha dato modo di pensare al valore che si attribuisce alle cose.

La migliore offerta è quella più alta come nel mondo dell’arte, dove il prezzo di alcuni oggetti non è sempre stabilito dall’inizio, oppure quello più basso come nelle gare d’appalto?».

In collegamento da Melbourne, dove è impegnato a teatro, Rush offre la propria chiave di lettura del film («Un dialogo tra la vecchia Europa e la nuova»), e dice di Tornatore: «Mi è capitato raramente di leggere una sceneggiatura così ben scritta, dove i personaggi sono perfettamente delineati. Ho amato questo film sin dall’inizio e con Giuseppe abbiamo lavorato per definire nel dettaglio i gesti e le espressioni di Virgil. È incredibile come Tornatore abbia in mente cosa voglia ottenere da ogni singola inquadratura: oggetti, movimenti, musica devono collimare alla perfezione».

E Tornatore: «Il film racconta una storia con una complessità per certi versi non narrabile, una piccola sfida per un film che nasce dalle ceneri di due idee diverse, fuse in un lavoro di artigianato cinematografico che rivela una vera e propria gioia della narrazione». E a proposito del forte calo degli incassi nel periodo natalizio, il regista commenta: «Senza dubbio la crisi economica incide sul botteghino, e la pirateria è un cancro, ma il problema sta anche nella mancanza di varietà nel linguaggio narrativo. Sarebbe bello poter offrire allo spettatore tanti generi e linguaggi: epica, storia, drammi, commedie, azione, avventura. Sarebbe poi auspicabile una minore separazione tra cinema popolare e d’autore. Un film che sappia coniugare la leggerezza con una riflessione su temi importanti può essere cinema d’autore capace di raggiungere il grande pubblico».

Alessandra De Luca

I film per ragazzi salvano il Natale

A Natale, si sa, tutti possono trovare al cinema un film a­datto ai propri gusti. Ecco dunque una panoramica sull’offerta dei giorni di festa, con un’avvertenza: il meglio arriverà solo a gennaio.

PER I PICCOLI
Dalla Disney arriva un film sulla crisi d’identità di un personaggio di un videogame anni Ottanta, Ralph Spaccatutto , che stanco di fare il cat­tivo ed essere odiato da tutti, decide di diventare un eroe e si mette in cerca dell’occasione giusta attraver­sando i mondi degli altri videogio­chi. Coloratissimo, veloce e rumoro­so proprio come un gioco elettroni­co, il cartoon 3D è un divertente road movie nell’universo del virtua­le, ma alla fine i temi sono quelli di sempre: l’amicizia, la lealtà, il biso­gno di riscatto e di amore. Da non perdere Ernest e Celestine , dei fran­cesi Benjamin Renner, Vincent Patar e Stéphane Aubier, sceneggiato da Daniel Pennac a partire dai libri per l’infanzia di Gabrielle Vincent. Dol­cissimo con i suoi disegni pastello, il film racconta dell’amicizia tra un or­so musicista e una topolina pittrice, e dell’incontro di due mondi assai diversi, capaci di trovare, grazie a queste due poetiche creature, un punto di contatto. Ma nelle sale ci sono ancora Le cinque leggende con Babbo Natale e amici contro l’Uomo nero e Sammy 2 sulle avventure del- la tartarughina acquatica in 3D.

LE COMMEDIE
Ambientato a Sorrento e dintorni, dalle parti della Grecia di Mamma mia! , Love is all you need della dane­se Susanne Bier è la storia della rina­scita di una donna che in lotta con­tro il cancro e tradita dal marito ri­scopre di nuovo l’amore. La regista gioca con gli stereotipi ‘pizza e man­dolino’, ma costruisce una comme­dia romantica tutt’altro che sconta­ta. Parolacce e banalità regnano so­vrane in I 2 soliti idioti con la coppia Mandelli-Biggio nei panni dei perso­naggi che li hanno resi famosi, ma il panorama della comicità natalizia non brilla neppure con Tutto tutto niente niente con Albanese, Colpi di fulmine, ovvero il neo cinepanetto­ne di De Sica, Il peggior Natale della mia vita , Una famiglia perfetta.

NATALE D’AUTORE
A partire dal romanzo di Yann Mar­tel, Vita di Pi di Ang Lee ci offre uno spettacolare apologo sulla forza del­la fede, il mistero del creato e la cre­scita spirituale al cospetto della maestosità dell’universo. Protagoni­sti un diciassettenne e una tigre del bengala che per sopravvivere devo­no imparare a convivere su una bar­ca alla deriva nell’oceano per 227 giorni. Il naufragio diventa così la metafora della ricerca umana della salvezza. Arriva sugli schermi anche La regola del silenzio , nono film di­retto da Robert Redford che nel film è un affermato avvocato, ma un tem­po membro dei Weather Under­ground, gruppo terroristico che negli anni Settanta rapinò una banca se­minando morti e feriti. Riflettendo sul senso di alcune scelte di vita, il regista rende anche omaggio al cine­ma della New Hollywood di qua­rant’anni fa. Nonostante sia un film di animazione, l’irriverente comme­dia noir La bottega dei suicidi di Pa­trice Leconte, in arrivo il 28 dicem­bre, non è adatto ai bambini per il tema affrontato che hanno determi­nato il divieto ai minori di 18 anni. Nel film infatti la famiglia Tuvache, padre, madre e due figli adolescenti, dispensa morte ai tanti concittadini depressi. Le cose cambiano però quando in famiglia arriva il terzoge­nito Alan, inspiegabilmente ‘mala­to’ di gioia di vivere. Nelle sale nata­lizie troverete però anche Lo Hobbit – Un viaggio inaspettato di Peter Jackson, La parte degli angeli di Ken Loach sul riscatto di un gruppo di di­soccupati, e Moonrise Kingdom di Wes Anderson sulla fuga d’amore di due bambini.

Alessandra De Luca – avvenire.it

Cinema / Audiard: «Il mio film su amore, handicap e sacrificio»

L’amarezza della solitudine. A pochi mesi dalla presentazione al Festival di Cannes arriva nelle sale italiane, dal 4 ottobre, Un sapore di ruggine e ossa, il nuovo film di Jacques Audiard, tratto da due novelle di Craig Davidson. Ali (Mathias Schoenaerts) è un ex pugile senza lavoro. Per vivere e mantenere il figlio di 5 anni si trasferisce a casa della sorella ad Antibes. Lì trova lavoro come buttafuori in una discoteca, dove conoscerà Stéphanie (Marion Cotillard), addestratrice di orche. Un incidente, che segnerà in modo drammatico il corpo di lei, li farà rincontrare. Dopo Il Profeta, il regista Audiard – venuto a Roma a promuovere il film, in cui non mancano sequenze forti e assai crude – torna a raccontare una storia dura, dove il corpo sembra l’unico veicolo di incontro di due solitudini e la violenza la sola via per uscire dalla povertà.

Qual è il vero protagonista del suo film?
Con lo sceneggiatore Thomas Bidegain volevamo raccontare i punti di vista di Ali e Stéphanie, mettendo in primo piano la storia di lei, rimasta senza gambe, dopo un incidente. Scrivendo abbiamo scoperto che il vero eroe del film è Ali, che compie un percorso più lungo e tortuoso. Un sapore di ruggine e ossa è anche un racconto sull’infanzia: per questo il film si apre e si chiude con la figura del figlio.

Nei suoi film i personaggi sembrano essere sempre in lotta con il mondo.
È un tema che considero autobiografico. Ho iniziato come sceneggiatore, un mestiere che ti porta a stare solo. Vivevo quasi una specie di autismo perché provavo un senso di disagio nel vivere in mezzo al mondo. Scegliendo il lavoro di regista sono stato costretto a incontrare almeno tre persone al giorno. Il cinema è capace di diventare la traduzione collettiva delle idee di un singolo.

Come ha scelto un racconto di Craig Davidson?
Avevo terminato Il Profeta, un film sull’isolamento di un uomo, privo di luce e di amore. Cercavo perciò una storia piena di sole e di affetti e l’ho trovata nei racconti di Davidson, uno scrittore ancora sconosciuto. Senza di lui non sarei riuscito a realizzare questo melodramma d’amore.

La paternità sembra generare la consapevolezza dell’amore.
Per me accade il contrario. Ali, dopo aver assunto su di sé il peso della responsabilità e del sacrificio, riesce a dichiarare il suo amore al figlio e alla donna.

Dalla sofferenza nasce la forza in Stéphanie.
L’incidente e il conseguente handicap le rivelano una forza che fino a quel momento negava o non era consapevole. L’esistenza di Stéphanie è come se fosse incompleta: l’handicap riesce a far sbocciare la donna che realmente è.

Che difficoltà avete avuto nel realizzare il film?
In realtà la difficoltà principale è stata dirigere il bambino. Marion Cotillard, per apparire senza gambe, utilizzava calze verdi, che permettono una lavorazione digitale. Le orche sono animali intelligenti e pericolosi: abbiamo chiesto all’attrice di fare un training in un parco acquatico sulla Costa Azzurra. Le orche si sarebbero abituate alla sua presenza e avremmo potuto girare le sequenze.

Le sono arrivate proposte di girare un film in America?
I registi americani sanno rappresentare molto bene il loro Paese. Mi infastidisce il riferimento costante agli Stati Uniti come se dovesse essere un obiettivo ideale per ogni artista. Mi sento ancorato nella realtà sociale europea e non mi interessa lavorare in una realtà che non conosco pienamente. Soffro quando mi dicono: «Bello il tuo film, sembra quasi americano».

Emanuela Genovese