«Il Concilio, un già e non ancora»

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Per i suoi primi novant’anni, che compie martedì prossimo, non ha previsto niente di particola­re. «La festa l’abbiamo fatta, per i cin­quant’anni di episcopato, lo scorso 4 ottobre a Bologna e il 6 ottobre ad I­vrea ». Monsignor Luigi Bettazzi, ve­scovo emerito di Ivrea, storico presi­dente di Pax Christi (il suo impegno di «costruttore di pace» è al centro del re­cente volume di Alberto Vitali, Luigi Bettazzi, Paoline, 158 pagine, 15 euro), ha una vitalità invidiabile. «Dal set­tembre 2012, ho già tenuto 189 confe­renze sul Concilio. La centonovante­sima prossimamente in Lombardia». Ha viaggiato in Italia, ma anche in Al­bania, Georgia, Germania e Tanzania. «Se mi chiamano – spiega – è per sen­tire una parola d’incoraggiamento al­l’accoglienza del Concilio».

Don Luigi, in famiglia eravate sette fratelli, cosa impensabile oggi. Quan­to ha inciso in lei il fatto di vivere in una famiglia numerosa?
«Eravamo in tanti, ma quella di avere tanti figli fu una delle grazie che mia madre chiese prima di sposarsi. Io? Forse ho imparato a essere sottomes­so ». Sottomesso lei? Sta scherzando… «No, ho sempre chiesto il permesso prima di fare qualche cosa. Anche per la famosa assemblea sul Vietnam, nel 1973. E quando con altri volevamo proporci come ostaggi alla Br in cam­bio di Aldo Moro, ci fu proibito, e non facemmo nulla».
Intanto a 40 anni era già vescovo. Dif­ficile che accada oggi, quando un qua­rantenne viene guardato come fosse ancora un “bambino”.
«Vescovo ausiliare a Bologna. Sotto­messo, sia pure con un uomo mite e timido come il cardinale Lercaro…».
E giovanissimo partecipò al Concilio.
Siamo rimasti in molti pochi in Italia (gli altri sono i cardinali Angelini e Ca­nestri, i vescovi Leonardo e Nicolosi più l’allora abate di San Paolo Fuori le Mura, Franzoni) e 32 in tutto il mon­do, i dati sono aggiornati a fine mar­zo. Ne muoiono una ventina all’anno, di “reduci”…».
Che cosa è stato sicuramente realiz­zato, del Concilio, e che cosa invece resta da fare?
«Il Concilio è un “già e non ancora”. Ad esempio, la Parola di Dio si legge di più, ma non è ancora fondamentale nella vita di tanti cristiani. La liturgia è più partecipata ma tutt’altro che compiuta. La collegialità è cresciuta ma non abbastanza, e i fedeli laici con­tano ancora pochissimo. Certo, è un segnale positivo il gruppo di otto car­dinali che papa Francesco ha voluto accanto a sé».
Lei è uno dei tanti mancini costretto a scrivere e a stare a tavola usando la destra. C’è qualcos’altro che fu “co­stretto” a fare di malavoglia?
«Il vescovo! Quando Lercaro me lo chiese, obiettai che avevo scarsa e­sperienza pastorale, ero un insegnan­te, solo per poco tempo parroco. “Pos­so rifiutare?”, domandai. “Solo in due casi potresti – replicò Lercaro – se hai ammazzato qualcuno o hai dei figli”. E io: “Quanto tempo mi dà?”. Finii con l’accettare».
Nella Chiesa lei è stato protagonista di confronti molto franchi, a volte per­fino aspri. Ne ricorda uno tutto som­mato finito bene, tra fratelli, di idee diverse ma che si stimano?
«Da presidente di Pax Christi assume­vo posizioni “insolite”. Sul Vietnam. O sull’obiezione di coscienza: era il 1971 e mi guardavano come un marziano. Adesso è data per scontata. Sulla Let­tera a Berlinguer , il patriarca Luciani scrisse cose severe. Ci “chiarimmo” quasi casualmente, incrociandoci al­la stazione di Terontola alla volta di As­sisi. Accettò di fare il viaggio con me in seconda classe, e mi chiese di “non tur­bare la fede della gente”».
Lei è uno dei firmatari della “Lettera dei 500 padri”, pochi giorni prima del­la chiusura del Concilio, in cui assu­mevate impegni molto rigorosi, tutti nel segno della povertà. Papa France­sco sta facendo molte cose simili…
«Fa quello che faceva a Buenos Aires. Spero vivamente che il suo stile si diffonda. D’altronde l’ha detto: quel che deve fare lo farà in fretta, subito. E quando sentirà le forze venir meno, sono convinto che anche lui lascerà il posto a un altro».
Di che cosa la Chiesa cattolica do­vrebbe liberarsi?
«Dovrebbe modificare la sua struttu­ra, e mi sembra che proprio questo ab­bia chiesto Francesco. Ad esempio, se il presidente della Cei non è scelto dai vescovi ma dal Papa, è solo al Papa che dovrà rispondere, e a quel punto il dia­logo e il confronto potrebbero anche diventare difficili. Non è colpa di nes­suno, sia chiaro. È lo statuto da modi­ficare. Poi c’è ancora troppo clericali­smo. E se lo scrive perfino Sviderco­schi nel suo recente Il ritorno dei cle­rici… Infine i movimenti: molto effi­caci, dovrebbero insieme sforzarsi di aprirsi».
E dove la Chiesa dovrebbe indirizza­re innanzitutto le proprie energie?
«In questo momento, contro la corru­zione! Lo hanno ricordato anche il Pa­pa e Bagnasco. Peggio d’ogni peccato, essa rovina l’anima e il tessuto socia­le. Se non la estirpi, sarà impossibile costruire la solidarietà, che per me è il vero principio non negoziabile, sul quale si fondano la tutela della vita e la promozione della famiglia e del la­voro ».
Giochiamo con la fantasia. Quale pro­posta voterebbe con entusiasmo a un’assemblea della Cei?
«Qualsiasi proposta contribuisse a da­re più spazio e rilievo alla collabora­zione dei laici, a ogni livello, compre­si i giovani. Non basta dir loro che co­sa devono fare, occorre saper cogliere le spinte di rinnovamento che sorgo­no dal popolo di Dio. Noi pastori ab­biamo l’ultima parola; ma sarà l’ulti­ma se ce ne saranno state altre prima».
C’è qualcosa che non rifarebbe?
«Ho sempre rimpianto di non essere partito missionario. E poi avrei voluto potermi impegnare di più in parroc­chia ».
E qualcosa di cui invece va partico­larmente orgoglioso?
«Fui così ingenuo da accettare la no­mina a presidente di Pax Christi. Pri­ma di me avevano rifiutato in cinque. Ma ciò che più mi ha riempito il cuo­re sono le parole degli alcuni che mi hanno detto: “La ringrazio perché se sono ancora nella Chiesa è per lei”».
Per che cosa le piacerebbe essere ri­cordato?
«Per la fede nel Signore, l’amore alla Chiesa e la fiducia negli uomini di buo­na volontà».
Umberto Folena – avvenire.it

 

Il Concilio Vaticano II visto attraverso le quattro Costituzioni che ne sono scaturite

Sarà un itinerario di formazione per laici, in quattro tappe, per far conoscere i contenuti del Concilio Vaticano II e in particolare delle quattro Costituzioni. Tutto ciò, in occasione del 50° anno di indizione del Concilio e durante l’Anno della fede.

Obiettivo del percorso non dovrebbe essere solo conoscere cosa ha detto il Concilio, ma anche perché l’ha detto, quali esigenze hanno motivato certe scelte, se sono valide ancor oggi e in che modo il Concilio può essere attualizzato.

Destinatari dell’iniziativa sono tutte le persone interessate, ma soprattutto coloro che non hanno vissuto il periodo in cui il Concilio si è svolto e quello immediatamente successivo (quindi prevalentemente i giovani e i giovani adulti, ma senza preclusioni per nessuno).

C’era anche, all’inizio, l’intenzione di preparare l’avvio del percorso con un incontro propedeutico, in cui illustrare i protagonisti e le motivazioni che hanno portato al Vaticano II. Ma il calendario non permette una quinta data. Si pensa quindi di realizzare uno spot video da far girare, con informazioni, spezzoni di filmati dell’epoca, interviste flash a giovani d’oggi eccetera, in modo da creare informazione e anche curiosità: insomma, una specie di “trailer” del corso.

Quanto alle modalità di svolgimento degli incontri, si intende riproporre uno schema che ha dimostrato di essere efficace in occasione degli incontri di formazione effettuati gli scorsi anni dai giovani di Azione Cattolica (Acg), in cinque momenti:

1.    un video iniziale di provocazione, nella forma di interviste a persone comuni, da cui possa emergere se e come il Concilio e la sua applicazione abbia influito sulla vita di tutti i giorni. Non potendo fare domande dirette (tipo: cosa pensi della “Gaudium et Spes”?), dovremo chiedere cose molto più semplici, tipo: pensi che la Chiesa sia vicina al mondo di oggi? Oppure: cosa capisci o non capisci della liturgia? E simili;

2.    l’intervento del relatore, sulla Costituzione conciliare oggetto della serata, sarà nella forma di risposte ad alcune domande fatte, a mo’ di intervista, da uno o due giovani. A tale scopo i relatori dovranno fornire in anticipo i punti salienti che vorranno trattare, in modo da trarne le domande per l’intervista: si dovrà infatti necessariamente circoscrivere le tematiche delle singole Costituzioni agli aspetti che oggi più interessano;

3.    uno stacco costituito da un video o un pezzo musicale che illustri il momento storico e le immediate conseguenze delle Costituzioni all’epoca del Concilio (vari filmati sono già a disposizione);

4.    un’eventuale testimonianza (a seconda delle serate), che illustri le applicazioni odierne del testo conciliare ed eventualmente anche ciò che non è stato compreso e applicato;

5.    un breve intervento conclusivo del relatore.

Dalle esperienze già effettuate si è visto che tale modalità ha molta più presa della classica conferenza frontale, sempre meno apprezzata, soprattutto dai più giovani

Queste le date degli incontri:

•       giovedì 17 gennaio, Sacrosantum Concilium: don Daniele Gianotti e un rappresentante dell’IdML (Istituto diocesano di Musica e Liturgia), per una testimonianza su don Luigi Guglielmi e sulla nascita dell’IdML;

•       giovedì 24 gennaio, Lumen Gentium: don Daniele Moretto e un testimone laico (che faccia qualche collegamento anche alla Apostolicam Actuositatem, sull’apostolato dei laici, appunto);

•       martedì 29 gennaio, Dei Verbum: la biblista Giovanna Bondavalli;

•       martedì 5 febbraio, Gaudium et Spes: la teologa Manuela Terribile.

Gli incontri si terranno all’Oratorio Don Bosco di via Adua (Santa Croce, Reggio Emilia), con inizio alle 21.

                                                                                                                 Alberto Saccani

diocesi.re.it

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Il concilio ecumenico Vaticano II. Per la sua corretta ermeneutica

Marchetto Agostino – Il Concilio Ecumenico Vaticano II. Per una sua corretta ermeneutica

Il Concilio Ecumenico Vaticano II. Per una sua corretta ermeneutica Titolo Il Concilio Ecumenico Vaticano II. Per una sua corretta ermeneutica
Autore Marchetto Agostino
Prezzo
Sconto 15%
€ 29,75   Spedizioni gratuite in Italia
(Prezzo di copertina € 35,00 Risparmio € 5,25)

Raccolte dalla Libreria Editrice Vaticana 28 recensioni ad altrettante pubblicazioni uscite tra il 1998 e il 2011

 

A Roma, nella Sala Pietro da Cortona del Campidoglio, nel pomeriggio di mercoledì 7 novembre viene presentato il libro dell’arcivescovo Agostino Marchetto Il concilio ecumenico Vaticano II. Per la sua corretta ermeneutica (Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2012, pagine 386, euro 35). Coordinati dal direttore del nostro giornale intervengono il cardinale Agostino Vallini, vicario generale per la diocesi di Roma, Andrea Riccardi, ministro italiano per la Cooperazione internazionale e l’integrazione e il cardinale Raffaele Farina, bibliotecario emerito di Santa Romana Chiesa.
Il Papa nel Natale del suo primo anno di pontificato, il 22 dicembre 2005, ha rivolto alla Curia Romana, radunata come ogni anno per gli auguri in occasione del Santo Natale, un discorso, che faceva un bilancio dell’anno trascorso; l’ultimo punto toccato è stato quello del concilio. La struttura del volume di Marchetto segue il discorso del Santo Padre distribuendo il materiale raccolto, partendo da una distinzione tra recezione ed ermeneutica e dividendo le opinioni correnti, esaminate nelle recensioni, in tre categorie: ermeneutica della rottura, ermeneutica della rottura intesa in senso tradizionalistico e ermeneutica della continuità o, più precisamente, come si esprime il Santo Padre, ermeneutica della riforma, del rinnovamento nella continuità.Il dibattito sull’ermeneutica del concilio Vaticano ii è stato un tema centrale non solo per la comprensione del concilio ma per la sua stessa ricostruzione storica; questo dibattito è nato quando ancora doveva concludersi e si è venuto sviluppando nel corso degli anni, dando origine a una pluralità di posizioni. Nelle prime cinque parti vengono presentate molte delle pubblicazioni sul concilio di questi ultimi anni: dagli atti del convegno internazionale di Salamanca sulla ricezione e comunione delle Chiese del 1996, pubblicati dalla Editrice Dehoniane di Bologna nel 1998, fino a un volume di Brunero Gherardini del 2009, Concilio Vaticano II. Un discorso da fare. In questo vasto orizzonte, sempre descritto con appassionata e lucida acribia critica, ampio spazio è dedicato alla “scuola di Bologna”, della quale si mette bene in luce il tentativo di egemonizzare la ricostruzione storica e l’interpretazione del concilio, come appare evidente, tra l’altro, nella pubblicazione del volume Chi ha paura del Vaticano ii?, curato da Alberto Melloni e Giuseppe Ruggieri; per Marchetto questo volume, già nel titolo, “mette gli oppositori alla cosiddetta scuola di Bologna (e alleati) nella categoria dei paurosi che certo bella non è”. Proprio le pagine dedicate a questo volumetto, già pubblicate nella rivista Archivum Historiae Conciliorum, mostrano i limiti dell’ermeneutica della rottura, tanto più alla luce delle numerose fonti e degli studi che in questi anni hanno aperto nuove prospettive alla conoscenza del Vaticano II.

(©L’Osservatore Romano 8 novembre 2012)

Concilio e modernità: un libro interessante

Zanchi Giuliano – Prove tecniche di manutenzione umana. Sul futuro del Cristianesimo

(scheda online >>>)

Prove tecniche di manutenzione umana. Sul futuro del Cristianesimo Titolo Prove tecniche di manutenzione umana. Sul futuro del Cristianesimo
Autore Zanchi Giuliano
Prezzo € 13,00
Dati 2012, 106 p., brossura

di Lucetta Scaraffia

La nostra è la prima civiltà “in cui l’essere umano cerca il modo di costruirsi con le sue stesse mani e alla luce della sua smisurata coscienza di sé”, la prima epoca che ha rinunciato “a pensare a un fondamento delle cose”. Tanto che l’atteggiamento di “sapiente e amorevole indagine del presente”, che è stato il cuore dell’eredità conciliare, sembra divenuto impossibile, se non addirittura inutile. Ma il credente, come scrive con forza Giuliano Zanchi nel suo libro Prove tecniche di manutenzione umana. Sul futuro del cristianesimo (Vita e Pensiero), sa che per restare umano non deve separarsi dalla storia. Perché “è perdendo il senso della fraternità che si esce, nello stesso istante, dal perimetro della fede e dal vocabolario della speranza”. Proprio con l’intenzione di servire la speranza, Zanchi esplora questo terreno, partendo da una riflessione sui tempi presenti, per arrivare a proposte concrete in vista di un nuovo radicamento cristiano. Cominciando con il denunciare una crisi della ragione che, partita con l’ambizioso obiettivo di abbattere la frontiera impenetrabile delle verità metafisiche, si limita oggi a divenire strumento per razionalizzare, in modo apparentemente efficace, il funzionamento delle grandi strutture della vita. Tecnica, mercato e democrazia – basi della cultura postmoderna – procedono così con le caratteristiche di una rete avvolgente, chiedendo ai singoli di trasformare in scelta personale quella che invece è una necessità imposta dal sistema. Il segreto per mettere in atto questo meccanismo è la trasfigurazione di ogni bisogno in desiderio, così che possiamo dire con Bauman che “la nostra società dei consumi è forse l’unica società nella storia dell’umanità che promette la felicità nella vita terrena, cioè la felicità qui e ora”. Apparteniamo, infatti, alla prima civiltà che prova a vivere senza l’immaginazione di un futuro.
Da questo nascono gravi problemi nella costruzione dell’identità, che – si predica – deve essere scelta liberamente per “essere se stessi”. Dimenticando che l'”essere se stessi” è il frutto di un dono all’interno di relazioni, più che il prodotto di un arbitrio fra scelte equivalenti. Ai cristiani Zanchi chiede di intervenire con amore per la storia di tutti, un amore che “assume anzitutto la forma dell’intelligenza necessaria a conoscere realmente il proprio mondo”. Intelligenza trovata nel concilio, ma poi perduta poco dopo nella tempesta del Sessantotto, quando “l’istituzione ecclesiastica si trovava nuovamente in polemica con il mondo. La storia era già andata “oltre” quella modernità con la quale il cristianesimo pensava di essersi finalmente riconciliato”. Questa frattura con la storia è stata risolta, di fatto, con un patteggiamento individuale – come dimostra clamorosamente il caso della morale sessuale – lasciando così nella solitudine del singolo il faticoso lavoro di elaborazione antropologica tra la fede ricevuta e la propria cultura vitale. Ma non basta. Perché, se guardiamo alla storia della Chiesa, la vera santità riformatrice è nata solo “quando qualche discepolo del Regno, sentendosi frutto del proprio mondo, lo ha amato con fedeltà radicale”. Dovremmo pertanto imparare ad amare radicalmente questo nostro tempo impegnato in “prove tecniche di manutenzione umana”, che è anzitutto ristrutturazione fisiologica dell’autorappresentazione dell’essere umano. Saremo così pronti a vivere l’esperienza decisiva di ripensare la lingua dell’annuncio cristiano. Non solo nello stile della comunicazione, ma in una rinnovata eloquenza che sappia riappropriarsi instancabilmente del senso di una rivelazione mai posseduta una volta per tutte. Per offrire segni credibili di speranza – scrive Zanchi – l’istituzione ecclesiastica deve quindi sapere dare prove autentiche “della dimestichezza ad attraversare con perfetta dignità umana anche gli sfuggenti sentieri dell’incertezza, della complessità, persino del dramma”.

(©L’Osservatore Romano 31 ottobre 2012)

In arrivo un “docufilm” sul Concilio Vaticano II

Realizzato dal Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali e da Micromegas, comprende immagini di repertorio ed interviste a cardinali e vescovi di tutto il mondo sull’attualità dell’evento e sul suo recepimento nella Chiesa

di Luca Marcolivio

CITTA’ DEL VATICANO, lunedì, 17 settembre 2012 (ZENIT.org) – Alla vigilia del 50° anniversario dell’avvio del Concilio Vaticano II, il Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali, in collaborazione con Micromegas Comunicazione, ha lanciato un docufilm sul tema, che sarà presto diffuso dalle televisioni di tutto il mondo.

La diffusione inizierà proprio l’11 ottobre prossimo, data di inizio dell’Anno della Fede e cinquantennale dell’assise conciliare. Il documentario, girato in HD, è della durata complessiva di 12 ore ed intende ricostruire il clima storico, teologico, culturale ed emotivo di un evento che ha segnato profondamente non solo la storia della Chiesa ma di tutto il mondo contemporaneo.

Le immagini di repertorio del docufilm attingono a piene mani alla Filmoteca vaticana, che dispone di circa 200 ore di filmati originali che precedono l’apertura del Concilio.

“Inizialmente la tentazione è stata quella di realizzare un prodotto ‘autocelebrativo’, selezionando i momenti salienti del materiale della Filmoteca”, ha spiegato stamattina monsignor Claudio Maria Celli, Presidente del Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali, durante la conferenza stampa di presentazione del docufilm.

“Abbiamo voluto, tuttavia – ha proseguito il presule – arricchire il documentario con interviste a cardinali, patriarchi e vescovi di tutto il mondo. L’intento è quello di vedere come era stato recepito il Concilio Vaticano II anche in Africa, in America Latina, nelle Chiese orientali: sono stati gli stessi porporati ad indicare le chiavi di lettura dei documenti più importanti del Concilio, offrendo così uno spaccato culturale ecclesiale molto ricco”.

Sono in totale 14 gli alti prelati intervistati per il docufilm; tra questi il cardinale Walter Kasper, presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani, il cardinale Antonio Cañizares, Prefetto della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, il cardinale Donald Wuerl, arcivescovo di Washington, il cardinale Andrè Vingt-Trois, arcivescovo di Parigi, monsignor Béchara Pierre Raï, patriarca di Antiochia dei Maroniti, monsignor Loris Capovilla, già segretario particolare di papa Giovanni XXIII.

Non si tratterà “esclusivamente di immagini – ha proseguito mons. Celli -. Il nostro obiettivo è quello di raccontare la storia del Concilio a chi non l’ha vissuta, farne percepire la ricchezza a chi non era presente o lo conosce troppo poco”.

Una delle immagini che colpiranno di più il pubblico sarà quella dell’intervento al Concilio di un giovane Karol Wojtyla: “È suggestivo ascoltare la sua voce, quando interviene in latino durante una delle sessioni”, ha commentato mons. Celli.

Come spiegato da Erminio Fragassa, presidente ed amministratore delegato di Micromegas, l’opera è stata realizzata nell’arco di circa un anno, cui si aggiungono due mesi di post-produzione, con il contributo di un team di circa 50 persone.

Il set è stato allestito ad hoc presso i Micromegas Studios di Roma, con riprese ed immagini dei luoghi più significativi del Vaticano, dall’Archivio Segreto alla Biblioteca Apostolica, dalla Basilica di San Pietro alla Cappella Sistina, dalle Stanze di Raffaello alle Grotte Vaticane.

Secondo quanto riferito da monsignor Celli, il docufilm sarà trasmesso dalla RAI in due puntate di un’ora e 50 minuti (la prima l’11 ottobre, la seconda in data da definire); in considerazione della notevole durata, solo una parte del filmato sarà riprodotta sulla prima rete nazionale.

Il passo successivo sarà la riproduzione in DVD, in 4 o 5 volumi, “confezionati” a seconda delle esigenze delle Chiese locali e delle Conferenze Episcopali.

L’opera sarà introdotta dalla giornalista di Rainews Vania De Luca, mentre le varie sezioni di approfondimento sono affidate al teologo Marco Vergottini, professore presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale.

A breve il Pontificio Consiglio per le Comunicazioni Sociali avvierà contatti con le principali emittenti televisive mondiali – europee e statunitensi in particolare – per la distribuzione del docufilm, di cui è in corso la traduzione in tutte le principali lingue.

Una proiezione speciale avverrà durante il Sinodo dei Vescovi sulla Nuova Evangelizzazione (7-28 ottobre 2012), alla presenza dei padri sinodali.

La nuova evangelizzazione è iniziata col concilio Vaticano II

“La nuova evangelizzazione è iniziata proprio con il concilio, che il beato Giovanni XXIII vedeva come una nuova Pentecoste che avrebbe fatto fiorire la Chiesa nella sua interiore ricchezza e nel suo estendersi maternamente verso tutti i campi dell’umana attività”. Lo ha affermato Benedetto XVI ricevendo in udienza giovedì mattina, 20 settembre, un gruppo di presuli partecipanti al convegno promosso dalle Congregazioni per i Vescovi e per le Chiese Orientali.
Per il Papa “gli effetti di quella nuova Pentecoste, nonostante le difficoltà dei tempi, si sono prolungati, raggiungendo la vita della Chiesa in ogni sua espressione: da quella istituzionale a quella spirituale, dalla partecipazione dei fedeli laici nella Chiesa alla fioritura carismatica e di santità”. Un rinnovamento che è stato possibile grazie all’impegno di tanti “vescovi, sacerdoti, consacrati e laici, che hanno reso bello il volto della Chiesa nel nostro tempo”.
Questa “eredità” è affidata oggi a tutta la Chiesa: l’evangelizzazione infatti – ha spiegato il Pontefice – “non è opera di alcuni specialisti, ma dell’intero popolo di Dio, sotto la guida dei pastori”. Ai quali spetta in particolare il compito di presentare “i contenuti essenziali della fede, in forma sistematica e organica, per rispondere anche agli interrogativi che pone il nostro mondo tecnologico e globalizzato”. Una missione che esige dai vescovi “l’esempio di una vita vissuta nell’abbandono fiducioso in Dio”, perché – ha ricordato il Papa – “non si può essere al servizio degli uomini, senza essere prima servi di Dio”.

(©L’Osservatore Romano 21 settembre 2012)

La carta d’imbarco del concilio

di LORIS FRANCESCO CAPOVILLA

Anche estrapolandone un brano, è subito chiaro che nel radiomessaggio di Giovanni XXIII c’è dentro tutto: Dio, Divina Rivelazione. obbedienza al Decalogo, studio, lavoro, comunione di intenti, unità e carità. L’una mano trasmette all’altra lo stesso depositum: “Un solo Signore. Una sola fede. Un solo battesimo. Un solo Dio e Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, opera per mezzo di tutti, ed è presente in tutti” (Efesini, 4, 5-6).
L’anno scorso Gesù mi ha fatto incontrare un fratello nato trent’anni dopo di me: teologo, arcivescovo, cardinale. Abbiamo parlato cor ad cor, entrambi prodigiosamente giovani, sereni e fiduciosi, in comunione col Papa, desiderosi di esserlo con tutti i cattolici, con le Chiese ortodosse, con le comunità cristiane variamente denominate, con gli ebrei, con i mussulmani, con i credenti di tutte le religioni “le cui luci di civiltà conservano non indubbie tracce della primitiva divina rivelazione” (Giovanni XXIII, Allocuzione dopo la presentazione dei Ceri, 2 febbraio 1963), e anche con chi non crede o dubita o è distratto. Per noi niente è più doveroso del testimoniare integra fede e proporne la conoscenza con umiltà, mitezza e bontà. Quale gioia mi ha procurato il commento del dotto prelato: “Io mi considero membro del popolo messianico in cammino, come recita il capitolo due della costituzione conciliare Lumen gentium, chiamato a servire l’umanità, mettendo a disposizione tutto ciò che mi è stato dato: fede, cultura, teologia, sacerdozio, cardinalato”.
Naturalmente abbiamo parlato anche di altro. Sì, anche di fedeltà e rinnovamento, di povertà, di sacrificio, di attesa di nuovi cieli e una nuova terra nei quali abita la giustizia (cfr. 2 Pietro, 3, 13). L’arcivescovo aveva con sé alcuni suoi studenti di teologia, splendida promessa di santi preti. Come i discepoli estasiati nell’ascolto del Maestro, trasfigurato come i tre del Tabor e ardente come i due di Emmaus ho pensato alle serene e forti parole del patriarca Athenagoras: “Siamo pochi e siamo moltitudine”. Questo stato d’animo e questo rinnovamento interiore lo dobbiamo alla Chiesa che ha generato ed educato uomini e donne come Angelo Giuseppe Roncalli, e i molti che l’hanno preceduto e gli altri venuti dopo di lui, a iniziare dal venerato Paolo VI.
Papa Giovanni amava ripetere: “Tutto io ho ricevuto dalla Chiesa, voglio dire dalla famiglia, dal mio villaggio nativo, dai seminari di Bergamo e Roma, dal mio vescovo Giacomo Maria Radini Tedeschi, dal cardinale Andrea Carlo Ferrari, da Pio XI, da Pio XII. Tutto, tutto”.
Ora che le spoglie mortali del figlio della campagna bergamasca riposano accanto alla tomba del Pescatore di Galilea; ora che i luoghi legati al suo nome sono meta di pellegrinaggio, tutto appare più chiaro. I suoi primi passi verso la parrocchia e la scuola elementare di Sotto il Monte lo avvezzarono a percorrere strade sassose e disagevoli: vita domestica in un contesto di povertà contenta e benedetta, di obbedienza cordiale e di rinuncia generosa e lo abilitarono ad annunciare al mondo, con naturalezza che non spegne il sorriso sulle labbra, il segreto del vero e duraturo successo. Il servizio della diocesi e del vescovo, del seminario e dell’Azione Cattolica, dei ragazzi d’Italia straziati dalla guerra; l’amicizia coi contadini, gli operai e gli emigranti abbandonati e misconosciuti allora più di oggi, lo resero magnifico nell’esercizio di virtù pastorali, che negli anni di pontificato dissiparono tenebre di incomprensioni e di paure. Il prolungato soggiorno nei Paesi del Medio Oriente e in Francia, le peregrinazioni lungo molte strade d’Europa e d’Africa, gli incontri con genti di diverse civiltà e religioni, con persone non facili a suggestioni religiose e critiche nei confronti del cristianesimo, infusero nuovi motivi alla misericordia che egli sentiva bruciante nel suo petto. Tutto appare ormai disvelato e chiaro. E comprendiamo come, a poco a poco, si fosse liberato da ogni residua scoria di umane imperfezioni, di nulla preoccupato, se non di imitare Gesù Cristo, mite e umile di cuore (cfr. Matteo, 11, 29).
La divina promessa in lui si è compiuta: “Renderò grande il tuo nome, che diverrà una benedizione” (Genesi, 12, 2). Il suo nome è pronunciato con riverenza in tutte le lingue; ed è caro a uomini di ogni Paese, di ogni religione, persino e a volte ancor più a quelli che non credono in Dio Padre e nel Figlio Suo, Redentore del mondo, e forse ne soffrono. La Parola biblica compendia la vita e le opere di Papa Giovanni, la sua morte e la sua sopravvivenza. La grande benedizione rianima e allieta tutti e rende attenti agli insegnamenti di Pacem in terris e del concilio. Il documento magisteriale (l’enciclica) e il momento di grazia (il concilio) scoprono carenze, denunciano ritardi, soprattutto spronano ad assumerne consapevolmente e pienamente le responsabilità individuali. La grande benedizione induce a farci esecutori del magnifico programma che questo Pontefice ha annunciato con tono profetico per convincere gli uomini ad amarsi come fratelli; a sentirsi, nella comunità dei popoli, membri di una stessa famiglia, che ha origine da Dio e a Dio tende; a costruire la casa di tutti su autentici valori umani e sul Vangelo.
Ultima lezione è il suo testamento che Giovanni Paolo II, nel giorno della di lui beatificazione esortava a rimeditare: “Nell’ora dell’addio, o meglio dell’arrivederci, ancora richiamo a tutti ciò che più vale nella vita: Gesù Cristo benedetto, la santa Chiesa, il suo Vangelo e, nel Vangelo, soprattutto il Pater noster, e nello spirito e nel cuore di Gesù e del Vangelo, la verità e la bontà, la bontà mite e benigna, operosa e paziente, invitta e vittoriosa”.
Il Vangelo non inganna e non delude chi osa prendere alla lettera – così fece il santo Pontefice – il discorso della montagna, dalla pratica delle beatitudini alla preghiera che strappa miracoli, dalla carità ardimentosa, che non si arresta dinanzi ad alcun ostacolo, sino alla prudenza più avveduta che costruisce sulla roccia non tanto e non solo per se stessi e per oggi, ma per i figli: cosicché il mondo di domani, lievitato dalla grazia e fecondato dalla sofferenza, sia più giusto, più libero, più umano. L’Anno della fede, che Benedetto XVI avvierà a Loreto nel Santuario dell’Incarnazione del Verbo, sotto lo sguardo dolce della Madre celeste, chiama tutti all’essenziale del messaggio cristiano, finalizzato al bene dell’umanità intera: “Convertitevi e credete al Vangelo” (Marco, 1, 15).
Cinquantun anni or sono, al conchiudersi dei lavori della Commissione centrale per il concilio ecumenico, Giovanni XXIII, a incoraggiamento suo, dei padri e dei consultori, si appropriava dell’ispirato e apostolico grido di sant’Agostino: “”La Chiesa eleva sempre il suo canto. La sua voce è una canora confessione di fede, una devozione piena di autorità, una letizia che nasce dalla libertà” (In Ps. I Enar., PL 14, 963). Essa chiama infatti le creature umane a distaccarsi dalle circostanze presenti e a sollevare in alto la mente e il cuore. Tutto ciò che la Chiesa compie è rivolto a questo fine, sia il nobile splendore del suo insegnamento, sia l’armonia delle sue leggi, sia anche la soavità piena di mestizia della liturgia dei defunti. Non abbiamo timore: le presenti difficoltà non potranno interrompere questo cantico” (Giovanni XXIII, Discorso ai membri della Commissione centrale preparatoria del concilio ecumenico Vaticano II, in occasione della fine dei lavori della seconda sessione, 17 novembre 1961).

(©L’Osservatore Romano 9 settembre 2012)

8 Marzo: Il Concilio fu anche «rosa»

Più che ricordarle, «forse bisogna cominciare a conoscerle»: le tredici laiche che parteciparono come uditrici al Concilio Vaticano II, addirittura più numerose delle suore (dieci), «non sono figure da tappezzeria, ma donne di spessore», evidenzia Cettina Militello, docente alla facoltà teologica del Marianum, dove domani, venerdì 9, e sabato 10 un seminario approfondirà i profili di quattro uditrici: Alda Miceli, Rosemary Goldie, Pilar Bellosillo e Marie-Louise Monnet.

L’evento si inserisce nel ciclo di lezioni pubbliche promosso dalla cattedra “Donna e cristianesimo” del “Marianum”, in collaborazione con il Coordinamento teologhe italiane, che ha acceso da tempo i riflettori sulla presenza femminile alla storica assise. Il mese scorso, ricorda la presidente del Cti Marinella Perroni, che domani interverrà al seminario, «ci siamo ritrovate per il secondo anno consecutivo a riflettere sul Concilio, stavolta con un focus sulle consacrate che parteciparono ai lavori. Abbiamo registrato un centinaio di partecipanti: segno che l’argomento continua a suscitare l’interesse delle studiose e delle teologhe, ma non solo». E sulle uditrici uscirà a settembre un volume firmato dalla storica Adriana Valerio.

Durante il Vaticano II, che prese il via nell’ottobre di cinquant’anni or sono, fu Paolo VI – succeduto nel 1963 a Giovanni XXIII – a nominare 23 uditrici: una novità assoluta, un gesto a dir poco profetico. Fra loro, una sola italiana: Alda Miceli, come unica rappresentante degli istituti secolari: era membro delle Missionarie della Regalità di Cristo. Nata nel 1908 a Longobardi, in provincia di Catanzaro, impegnata tra le fila della Gioventù femminile di Azione cattolica, scriverà: «L’esperienza del Concilio, straordinariamente ricca per me, diede al nostro Istituto l’occasione di rivelare questa nostra forma di vita consacrata nel mondo, ancora ignorata dalla maggior parte dei vescovi presenti».

A sintetizzare lo spessore di questa figura, Renata Natili, docente alla Pontificia Università della Santa Croce: Alda, scomparsa a novant’anni, «ha creduto nei segni della storia e li ha cercati con lo slancio della speranza, al di là di tutte le inquietanti vicende di una società in travaglio e di una Chiesa in nuovo dialogo col mondo», sottolinea. Con passione e dinamicità fuori dal comune: animava con impegno «catechesi e alfabetizzazione della gente rurale» in tutta la Calabria, diffondendo l’Azione cattolica. E padre Agostino Gemelli la chiamò a far parte del Consiglio di amministrazione dell’Università Cattolica, dopo la morte di Armida Barelli.

Insomma, l’apparenza inganna: «Vestite di nero e con il velo in testa, le laiche uditrici furono scelte non per rappresentanza, ma per le loro qualifiche e il loro ruolo: erano battagliere, altro che santini», rimarca Cettina Militello, rilevando che appartenenze ecclesiali e personalità «molto diverse fra loro, come emerge dal loro impegno precedente e successivo nella Chiesa, rappresentarono una indubbia ricchezza durante i lavori. Anche se non potevano intervenire nella plenaria, infatti, diedero un ricco contributo nelle commissioni: hanno partecipato, ad esempio, alla stesura della Gaudium et spes».

Citate dai padri e dai periti conciliari nei loro diari, «le uditrici finirono per partecipare a tutti i lavori, senza difficoltà ad indicare che la prassi può superare la prudenza», osserva Natili. Un esito insperato, visto che «le donne, come del resto gli uomini laici, non erano state coinvolte nella consultazione preparatoria del Concilio. Nemmeno le religiose».

La svolta avverrà nel ’64: «Gli inviti per le uditrici partirono il 21 settembre, quando la terza sessione era cominciata da una settimana, e il 25 settembre entrò in San Pietro la prima donna uditrice: Marie-Louise Monnet (1902-1988), fondatrice in Francia dell’ “Action catholique des milieux indépendants”, una sorta di Azione cattolica “specializzata” per determinati ambienti sociali. Nel Discorso di apertura del terzo periodo del Vaticano II, pronunciato il 14 settembre, Paolo VI si era espresso così a riguardo delle uditrici: «Salutiamo gli uditori presenti, di cui conosciamo gli alti sentimenti e i meriti insigni.

Le nostre dilette figlie in Cristo, le donne uditrici, ammesse per la prima volta ad assistere alle assemblee conciliari». Fra loro, Pilar Belosillo (1913-2003), presidente della “World Union of Catholic Women Organisation”. Rosemary Goldie, australiana di origini, classe 1916, scomparsa nel 2010, «si definiva “reliquia del Concilio”: lei e le altre se ne fecero portatrici, con uno stile fatto di mitezza e di dialogo appassionato, mai frettoloso», aggiunge Militello, che conobbe personalmente Rosemary.

Approdata a Roma nel 1952, chiamata a far parte del Comitato permanente per i Congressi internazionali per l’apostolato dei laici (Copecial), Goldie sarà scelta nel ’67 come membro del “Consilium de laicis”, frutto conciliare, di cui sarà sottosegretario per un decennio. L’eredità delle uditrici laiche? Misconosciuta forse, ma sicuramente preziosa: «Ad Alda Miceli e alle donne che le furono compagne, anche se sconosciute alla memoria della storia – assicura la professoressa Natili – dobbiamo tutto quello che siamo».

Laura Badaracchi – avvenire.it