La carta d’imbarco del concilio

di LORIS FRANCESCO CAPOVILLA

Anche estrapolandone un brano, è subito chiaro che nel radiomessaggio di Giovanni XXIII c’è dentro tutto: Dio, Divina Rivelazione. obbedienza al Decalogo, studio, lavoro, comunione di intenti, unità e carità. L’una mano trasmette all’altra lo stesso depositum: “Un solo Signore. Una sola fede. Un solo battesimo. Un solo Dio e Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, opera per mezzo di tutti, ed è presente in tutti” (Efesini, 4, 5-6).
L’anno scorso Gesù mi ha fatto incontrare un fratello nato trent’anni dopo di me: teologo, arcivescovo, cardinale. Abbiamo parlato cor ad cor, entrambi prodigiosamente giovani, sereni e fiduciosi, in comunione col Papa, desiderosi di esserlo con tutti i cattolici, con le Chiese ortodosse, con le comunità cristiane variamente denominate, con gli ebrei, con i mussulmani, con i credenti di tutte le religioni “le cui luci di civiltà conservano non indubbie tracce della primitiva divina rivelazione” (Giovanni XXIII, Allocuzione dopo la presentazione dei Ceri, 2 febbraio 1963), e anche con chi non crede o dubita o è distratto. Per noi niente è più doveroso del testimoniare integra fede e proporne la conoscenza con umiltà, mitezza e bontà. Quale gioia mi ha procurato il commento del dotto prelato: “Io mi considero membro del popolo messianico in cammino, come recita il capitolo due della costituzione conciliare Lumen gentium, chiamato a servire l’umanità, mettendo a disposizione tutto ciò che mi è stato dato: fede, cultura, teologia, sacerdozio, cardinalato”.
Naturalmente abbiamo parlato anche di altro. Sì, anche di fedeltà e rinnovamento, di povertà, di sacrificio, di attesa di nuovi cieli e una nuova terra nei quali abita la giustizia (cfr. 2 Pietro, 3, 13). L’arcivescovo aveva con sé alcuni suoi studenti di teologia, splendida promessa di santi preti. Come i discepoli estasiati nell’ascolto del Maestro, trasfigurato come i tre del Tabor e ardente come i due di Emmaus ho pensato alle serene e forti parole del patriarca Athenagoras: “Siamo pochi e siamo moltitudine”. Questo stato d’animo e questo rinnovamento interiore lo dobbiamo alla Chiesa che ha generato ed educato uomini e donne come Angelo Giuseppe Roncalli, e i molti che l’hanno preceduto e gli altri venuti dopo di lui, a iniziare dal venerato Paolo VI.
Papa Giovanni amava ripetere: “Tutto io ho ricevuto dalla Chiesa, voglio dire dalla famiglia, dal mio villaggio nativo, dai seminari di Bergamo e Roma, dal mio vescovo Giacomo Maria Radini Tedeschi, dal cardinale Andrea Carlo Ferrari, da Pio XI, da Pio XII. Tutto, tutto”.
Ora che le spoglie mortali del figlio della campagna bergamasca riposano accanto alla tomba del Pescatore di Galilea; ora che i luoghi legati al suo nome sono meta di pellegrinaggio, tutto appare più chiaro. I suoi primi passi verso la parrocchia e la scuola elementare di Sotto il Monte lo avvezzarono a percorrere strade sassose e disagevoli: vita domestica in un contesto di povertà contenta e benedetta, di obbedienza cordiale e di rinuncia generosa e lo abilitarono ad annunciare al mondo, con naturalezza che non spegne il sorriso sulle labbra, il segreto del vero e duraturo successo. Il servizio della diocesi e del vescovo, del seminario e dell’Azione Cattolica, dei ragazzi d’Italia straziati dalla guerra; l’amicizia coi contadini, gli operai e gli emigranti abbandonati e misconosciuti allora più di oggi, lo resero magnifico nell’esercizio di virtù pastorali, che negli anni di pontificato dissiparono tenebre di incomprensioni e di paure. Il prolungato soggiorno nei Paesi del Medio Oriente e in Francia, le peregrinazioni lungo molte strade d’Europa e d’Africa, gli incontri con genti di diverse civiltà e religioni, con persone non facili a suggestioni religiose e critiche nei confronti del cristianesimo, infusero nuovi motivi alla misericordia che egli sentiva bruciante nel suo petto. Tutto appare ormai disvelato e chiaro. E comprendiamo come, a poco a poco, si fosse liberato da ogni residua scoria di umane imperfezioni, di nulla preoccupato, se non di imitare Gesù Cristo, mite e umile di cuore (cfr. Matteo, 11, 29).
La divina promessa in lui si è compiuta: “Renderò grande il tuo nome, che diverrà una benedizione” (Genesi, 12, 2). Il suo nome è pronunciato con riverenza in tutte le lingue; ed è caro a uomini di ogni Paese, di ogni religione, persino e a volte ancor più a quelli che non credono in Dio Padre e nel Figlio Suo, Redentore del mondo, e forse ne soffrono. La Parola biblica compendia la vita e le opere di Papa Giovanni, la sua morte e la sua sopravvivenza. La grande benedizione rianima e allieta tutti e rende attenti agli insegnamenti di Pacem in terris e del concilio. Il documento magisteriale (l’enciclica) e il momento di grazia (il concilio) scoprono carenze, denunciano ritardi, soprattutto spronano ad assumerne consapevolmente e pienamente le responsabilità individuali. La grande benedizione induce a farci esecutori del magnifico programma che questo Pontefice ha annunciato con tono profetico per convincere gli uomini ad amarsi come fratelli; a sentirsi, nella comunità dei popoli, membri di una stessa famiglia, che ha origine da Dio e a Dio tende; a costruire la casa di tutti su autentici valori umani e sul Vangelo.
Ultima lezione è il suo testamento che Giovanni Paolo II, nel giorno della di lui beatificazione esortava a rimeditare: “Nell’ora dell’addio, o meglio dell’arrivederci, ancora richiamo a tutti ciò che più vale nella vita: Gesù Cristo benedetto, la santa Chiesa, il suo Vangelo e, nel Vangelo, soprattutto il Pater noster, e nello spirito e nel cuore di Gesù e del Vangelo, la verità e la bontà, la bontà mite e benigna, operosa e paziente, invitta e vittoriosa”.
Il Vangelo non inganna e non delude chi osa prendere alla lettera – così fece il santo Pontefice – il discorso della montagna, dalla pratica delle beatitudini alla preghiera che strappa miracoli, dalla carità ardimentosa, che non si arresta dinanzi ad alcun ostacolo, sino alla prudenza più avveduta che costruisce sulla roccia non tanto e non solo per se stessi e per oggi, ma per i figli: cosicché il mondo di domani, lievitato dalla grazia e fecondato dalla sofferenza, sia più giusto, più libero, più umano. L’Anno della fede, che Benedetto XVI avvierà a Loreto nel Santuario dell’Incarnazione del Verbo, sotto lo sguardo dolce della Madre celeste, chiama tutti all’essenziale del messaggio cristiano, finalizzato al bene dell’umanità intera: “Convertitevi e credete al Vangelo” (Marco, 1, 15).
Cinquantun anni or sono, al conchiudersi dei lavori della Commissione centrale per il concilio ecumenico, Giovanni XXIII, a incoraggiamento suo, dei padri e dei consultori, si appropriava dell’ispirato e apostolico grido di sant’Agostino: “”La Chiesa eleva sempre il suo canto. La sua voce è una canora confessione di fede, una devozione piena di autorità, una letizia che nasce dalla libertà” (In Ps. I Enar., PL 14, 963). Essa chiama infatti le creature umane a distaccarsi dalle circostanze presenti e a sollevare in alto la mente e il cuore. Tutto ciò che la Chiesa compie è rivolto a questo fine, sia il nobile splendore del suo insegnamento, sia l’armonia delle sue leggi, sia anche la soavità piena di mestizia della liturgia dei defunti. Non abbiamo timore: le presenti difficoltà non potranno interrompere questo cantico” (Giovanni XXIII, Discorso ai membri della Commissione centrale preparatoria del concilio ecumenico Vaticano II, in occasione della fine dei lavori della seconda sessione, 17 novembre 1961).

(©L’Osservatore Romano 9 settembre 2012)