Clima. L’estate durerà fino a sei mesi. Milano sarà calda come il Texas

Scienziati concordi sulla previsione di inverni ridotti e più miti, aumento di ondate di calore, alluvioni ed eventi estremi. Con conseguenze importanti su agricoltura e salute
L'estate durerà fino a sei mesi. Milano sarà calda come il Texas

Ansa

da Avvenire

Quest’anno l’estate è arrivata a maggio. Il mese che normalmente corona la primavera è stato il quinto più caldo in assoluto a livello europeo e il secondo maggio più caldo a livello nazionale dopo quello del 2003. E se poi ci concentriamo su Nord e Centro Italia, il maggio 2022 è stato il più caldo di sempre (circa due gradi in più della media). Per questo, senza scomodare le temperature di giugno o le ondate di calore provocate dagli anticicloni africani di luglio, non sembra fantascienza la previsione di uno studio cinese, curato da esperti del clima: entro il 2100, in tutto l’emisfero boreale, l’estate durerà sei mesi e l’inverno meno di sessanta giorni.

La previsione, chiaramente, ci riguarda da vicino. Non solo perché viviamo nell’emisfero settentrionale ma soprattutto perché in Italia la temperatura cresce più del doppio della media mondiale: dal 1880 ad oggi l’aumento è stato di 2,4 gradi contro una media mondiale che sfiora 1 grado. Il titolo dello studio cinese sulle stagioni del futuro inquadra sia la conseguenza che la causa: ‘ Changing Lengths of the Four Seasons by Global Warming’ (‘Cambiamento della durata delle quattro stagioni a causa del riscaldamento globale’). «Le estati stanno diventando più lunghe e più calde, mentre gli inverni sono più brevi e più caldi a causa del riscaldamento globale’» riassume Yuping Guan, autore principale dello studio, pubblicato sul sito di AGU (Advancing Earth and Space Science). È questo ancora una volta il punto da sottolineare: le cose andranno così, ma se non si applicheranno politiche di mitigazione climatica efficaci questa variazione stagionale potrebbe divenire ancora più intensa.

Se qualcuno tra gli scettici e i negazionisti del clima cominciasse ad avanzare perplessità, lo stesso report scientifico ricorda come fino agli anni ’50 nell’emisfero settentrionale le quattro stagioni si susseguivano secondo uno schema prevedibile e abbastanza uniforme. I ricercatori hanno utilizzato i dati climatici giornalieri dal 1952 al 2011 per misurare i cambiamenti nella durata e nell’inizio delle quattro stagioni nell’emisfero boreale. È emerso che, in media, in questi sessant’anni l’estate è cresciuta da 78 a 95 giorni, mentre l’inverno si è ridotto da 76 a 73 giorni. Anche la primavera e l’autunno si sono ridotti rispettivamente da 124 a 115 giorni e da 87 a 82 giorni. Sembrano variazioni di poco conto, eppure incidono moltissimo e portano a risultati incontrovertibili e di cui in qualche modo noi italiani ci siamo resi conto: la primavera e l’estate iniziano prima, mentre l’autunno e l’inverno iniziano più tardi.

E non è un caso che all’ombra del Belpaese questa tendenza sia sempre più evidente: i cambiamenti stagionali più rilevanti nell’emisfero si sono registrati nella regione mediterranea (oltre che nell’altopiano tibetano). «Mai come in questi ultimi mesi una serie quasi infinita di eventi purtroppo anche tragici ha reso evidente a tutti che siamo entrati nella nuova normalità dell’epoca del climate change – spiega Andrea Barbabella, coordinatore di Italy for Climate della Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile –. In realtà il mutamento è più profondo, strutturale, e lo studio citato si concentra su un aspetto particolarmente importante, quello delle stagioni, che non sono una convenzione da calendario ma una caratteristica di una determinata area climatica, alla quale ci siamo adattati noi e i nostri modelli di produzione alimentare».

Quali sono gli effetti di un’estate prolungata? Innanzitutto, eventi atmosferici estremi più frequenti: ondate di calore, incendi, alluvioni. D’altro canto, inverni più caldi e brevi creano instabilità, ondate di freddo e tempeste invernali che secondo i ricercatori sono la spiegazione di fenomeni meteorologici rari come le tempeste di neve avvenute recentemente in Texas e Israele. È chiaro poi che questo cambiamento stagionale comporta impatti di vasta portata sull’agricoltura e sulla salute umana. Già possiamo vedere come le piante nascono e fioriscono in tempi differenti rispetto al passato e che gli uc- celli stanno modificando gli schemi migratori: succede anche perché le fonti tradizionali di cibo di volatili e animali in generale sono minacciate, così come i loro habitat. Facile immaginare gli effetti sull’agricoltura, che in parte stiamo già vivendo con la gravissima siccità che ha colpito il Nord Italia e in particolare il Po. «Nel nostro emisfero – prosegue Barbabella – l’estate si è certamente allungata ma è anche cambiata, e questo già oggi impatta pesantemente in particolare sul settore della produzione alimentare. Ad esempio cambiando i tempi delle produzioni, mandando a maturazione gli stessi frutti nello stesso momento in regioni diverse, quando prima invece queste produzioni potevano essere differenziate anche nei tempi». E un caldo più intenso e prolungato durante l’anno significa più pollini che causano allergie, la crescita di zanzare, spesso portatrici di malattie, e di malori dovuti al calore.

Un’estate lunga sei mesi significa una vita diversa rispetto a quella che conosciamo. Non dobbiamo temerla, ma adattarci e nel frattempo frenare un’ulteriore accelerazione dell’effetto serra che possa innescare dinami- che climatiche più pesanti. C’è il presente, dove già possiamo prevedere come sarà il clima in grandi città del mondo entro il 2050: secondo un altro studio scientifico del 2019, tra trent’anni il clima di Milano sarà come quello attuale di Austin (Texas), quello di Roma sarà come quello odierno di Smirne ( Turchia), quindi il clima di Londra sarà simile a Barcellona, quello di Mosca a Sofia e quello di Stoccolma a Budapest. In generale, circa l’80% tra le 520 metropoli più importanti del mondo tenderà ad assumere il clima delle grandi città a mille chilometri di distanza verso sud.

Questo è ciò che succederà, dato che alcuni effetti del riscaldamento globale sono ormai inarrestabili. «Un altro aspetto importante che lo studio sulle stagioni evidenzia è quello della irreversibilità del cambiamento in corso. In una recente conferenza stampa dell’Organizzazione meteorologica mondiale, il messaggio è stato forte e chiaro: le ondate di calore sono più frequenti e lo diventeranno ancora di più nei prossimi anni, la tendenza negativa del clima continuerà fino ad almeno il 2060 anche se avremo successo con le misure di mitigazione », conclude Barbabella. E se invece la comunità internazionale, l’economia globale e tutti coloro che possono intervenire per frenare sul tema non incidessero in modo positivo nel prossimo futuro? In questi giorni, è stato pubblicato un altro studio firmato da oltre 11mila scienziati di 153 Paesi diversi (figurano anche 250 italiani) che analizza gli effetti dei cambiamenti climatici. L’analisi punta ad evidenziare come un ulteriore aggravamento del riscaldamento globale condannerà l’umanità a «sofferenze indicibili», sempre che non sia fatto nulla per contenere le emissioni di anidride carbonica e degli altri gas serra.

Non bisogna drammatizzare il problema del surriscaldamento globale, ma intervenire per frenarlo. Abbiamo risorse e tecnologie sufficienti per agire subito. Basta volerlo e inquadrare la questione come centrale per la nostra sopravvivenza. D’altro canto, un sondaggio recentissimo mostra come gli italiani siano tra i più preoccupati a livello europeo per i danni causati dal cambiamento climatico: un promemoria per i partiti in lizza alle prossime elezioni politiche. E i sintomi nazionali di questa sfida epocale, dalla Marmolada alla siccità del Po, sono ormai evidenti a tutti. Tra questi rientra a pieno titolo anche la previsione di un’estate lunga sei mesi: è necessario agire quanto prima, affinché la stagione più dolce non diventi quella più minacciosa.

«Il momento di agire è ora». Rapporto Onu sul cambiamento climatico

«Il momento di agire è ora». Rapporto Onu sul cambiamento climatico

L’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), l’organismo delle Nazioni Unite per la valutazione della scienza relativa ai cambiamenti climatici, ha pubblicato il 4 aprile il terzo volume (WG3) del Sesto Rapporto di Valutazione dell’IPCC.

Il bilancio è in qualche modo positivo considerando che, si legge nel comunicato, «nel periodo 2010-2019 le emissioni medie annue di gas serra a livello globale erano ai livelli più alti della storia dell’umanità, ma il loro tasso di crescita è rallentato»; e che «dal 2010, ci sono state riduzioni significative – fino all’85% – nei costi dell’energia solare, dell’energia eolica e delle batterie. Una gamma crescente di politiche e leggi ha migliorato l’efficienza energetica, ridotto i tassi di deforestazione e accelerato la diffusione delle energie rinnovabili». Con l’avvertimento, però, che «senza un’immediata e profonda riduzione delle emissioni in tutti i settori, l’obiettivo di limitare il riscaldamento globale a 1,5°C è fuori portata».

«Siamo a un bivio. Le decisioni che prendiamo ora possono assicurare un futuro vivibile. Abbiamo gli strumenti, le conoscenze e le competenze necessari per limitare il riscaldamento», ha detto il presidente dell’IPCC Hoesung Lee. «Sono incoraggiato dall’azione climatica intrapresa in molti paesi. Ci sono politiche, regolamenti e strumenti di mercato che si stanno dimostrando efficaci. Questi, se estesi e applicati in modo più ampio ed equo, possono favorire una profonda riduzione delle emissioni e stimolare l’innovazione».

In tutti i settori esistono soluzioni che possono almeno dimezzare le emissioni entro il 2030 Limitare il riscaldamento globale richiederà importanti transizioni nel settore energetico. Ciò comporterà una sostanziale riduzione dell’uso dei combustibili fossili, una diffusa elettrificazione, una migliore efficienza energetica e l’uso di sistemi di alimentazione alternativi (come quelli basati sull’idrogeno).

«Avere operative e funzionanti le giuste politiche, le infrastrutture e le tecnologie per consentire cambiamenti nei nostri stili di vita e nei nostri comportamenti – ha detto il co-presidente del gruppo di lavoro III dell’IPCC, Priyadarshi Shukla – può portare a una riduzione del 40-70% delle emissioni di gas serra entro il 2050. Questo offre un significativo potenziale non sfruttato (…). L’evidenza scientifica mostra anche che questi cambiamenti negli stili di vita possono migliorare la nostra salute e il nostro benessere».

Le città e altre aree urbane – si afferma nel comunicato – «offrono opportunità significative per la riduzione delle emissioni, che può essere conseguita attraverso un minore consumo di energia (ad esempio creando città compatte e percorribili a piedi), l’elettrificazione dei trasporti in combinazione con fonti energetiche a basse emissioni, e un maggiore assorbimento e stoccaggio del carbonio utilizzando soluzioni naturali. Esistono opzioni per città già consolidate, per città in rapida crescita e per città nuove». Per esempio, rileva il co-presidente del gruppo di lavoro III dell’IPCC, Jim Skea, «vediamo esempi di edifici a energia zero o a emissioni zero in quasi tutti i tipi di clima». Ne consegue che «l’azione di questo decennio è fondamentale per sfruttare il potenziale di mitigazione degli edifici», a condizione tuttavia di un uso più efficiente dei materiali, il riutilizzo e il riciclo dei prodotti e la riduzione al minimo dei rifiuti.

«Negli scenari che abbiamo valutato», sostengono nel comunicato gli autori del Rapporto, «limitare il riscaldamento a circa 1,5°C richiede che le emissioni globali di gas serra raggiungano il loro picco, al più tardi, nel 2025 per poi ridursi del 43% entro il 2030; allo stesso tempo, anche il metano dovrebbe essere ridotto di circa un terzo. Anche se faremo questo, è quasi inevitabile che supereremo temporaneamente tale limite di temperatura, ma potremmo ritornare al di sotto di esso entro la fine del secolo».

Il momento «è ora o mai più, se vogliamo limitare il riscaldamento globale a 1,5°C», ha detto Skea, «senza una riduzione immediata e profonda delle emissioni in tutti i settori, sarà impossibile».

Adista

Ambiente. Il clima cambia il profilo delle Alpi

Ritiro dei ghiacciai e frane: le nostre montagne sono sempre più fragili e instabili a causa della crisi climatica e del surriscaldamento globale
Il ghiacciaio dell'Adamello, il più esteso d'Italia, si è ritirato di circa 10-12 metri dal 2016 ad oggi

Il ghiacciaio dell’Adamello, il più esteso d’Italia, si è ritirato di circa 10-12 metri dal 2016 ad oggi – Legambiente

Mentre Greta Thunberg si fa fotografare, come ogni venerdì da oltre tre anni a questa parte col cartello in mano “Skolstreik for climate week 173” (sciopero per il clima, 173esima settimana, ndr), i ghiacciai delle nostre montagne si ritirano sempre di più. Le Alpi sono sempre più fragili, vulnerabili e instabili a causa della crisi climatica e del riscaldamento globale. «Due gli indicatori che testimoniano quanto ormai sta accadendo ad alta quota – spiegano da Legambiente – l’aumento ad un ritmo sempre più accelerato della fusione dei ghiacciai che stanno perdendo superficie e spessore. E l’aumento di frane, valanghe di roccia e di ghiaccio dovuto principalmente dalla riduzione dell’estensione e della durata del manto nevoso» denuncia l’associazione ambientalista e il Comitato glaciologico italiano (Cgi).
«La comparazione delle misure della campagna glaciologica sui ghiacciai delle Alpi Occidentali indica che l’annata 2019/2020 è risultata meno sfavorevole di altri anni recenti, ma pur sempre negativa – informano i ricercatori – La tendenza al ritiro frontale segnalata dai monitoraggi degli ultimi decenni è stata accompagnata da veri e propri fenomeni diffusi di collasso delle masse glaciali, anche in settori distanti dalle fronti glaciali». I regressi registrati lungo la fascia orientale delle Alpi sono meno drammatici di quelli del 2019 (quando ad esempio il Ghiacciaio del Gran Paradiso risultava arretrato di 335 metri), ma pur sempre in alcuni casi dell’ordine delle decine di metri (-70 metri al Ghiacciaio Occidentale del Gran Neyron, Gran Paradiso).
Negli ultimi 100 anni i ghiacciai delle Alpi europee hanno perso circa la metà del loro volume. Il 25% della restante quantità si è perso tra il 1975 e il 2000 e il 10-15% nei primi 5 anni del nostro secolo. Preoccupa la situazione delle Alpi del nostro Paese, dove da Ovest a Est si registra un marcato regresso dei dei ghiacciai. La stessa sorte sta toccando anche al Glacionevato del Calderone, sul Gran Sasso, in Abruzzo. Sulle Alpi orientali il massimo ritiro frontale (83,5 metri) si è registrato nel Ghiacciaio di Saldura Meridionale, su quelle centrali si segnala il Ghiacciaio dei Forni la cui fronte è arretrata di oltre 48 metri.
«Le Alpi, e più in generale gli habitat di montagna – dichiara Giorgio Zampetti, direttore generale di Legambiente – subiscono molto prima e maggiormente rispetto ad altri luoghi, gli effetti della crisi climatica, diventando un ambiente sempre più esposto alle sue conseguenze e più fragile. Per questo è fondamentale che si definiscano al più presto adeguate strategie e piani di adattamento al clima su scala regionale e locale, perché non si può perdere più altro tempo. Nel nostro Paese, particolarmente vulnerabile ai fenomeni di instabilità naturale, l’accelerazione del cambiamento climatico rende necessarie ulteriori misure di protezione e adattamento».
«La riduzione dei ghiacciai – aggiunge Vanda Bonardo, responsabile Alpi Legambiente – insieme alla degradazione del permafrost e all’aumento della frequenza delle frane descrivono una crisi già in atto. Si tratta di fenomeni studiati e conosciuti per i quali oggi siamo in possesso di una solida base di dati. Al contempo non mancano le proposte di policy di adattamento di cui siamo promotori su diversi tavoli nazionali. La Strategia Nazionale delle Aree Interne, ad esempio, anche attraverso i fondi europei in arrivo, potrebbe costituire un’occasione imperdibile per costruire soluzioni comuni a problemi ricorrenti, favorendo al contempo paradigmi condivisi».

Avvenire

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Clima: premio Earthshot, Italia vince due categorie su 5

 © EPA
(ANSA) – ROMA, 18 OTT – L’Italia si è aggiudicata ieri sera due categorie su cinque della prima edizione dell’Earthshot Prize, un’iniziativa voluta dal principe William per premiare ogni anno le migliori soluzioni alla crisi climatica.
Finanziato dallo stesso primogenito di Carlo e Diana insieme alla Royal Foundation, il premio assegna un milione di sterline (1,17 milioni di euro) a ciascuna delle cinque categorie (‘Proteggi e ripristina la natura’, ‘Pulisci l’aria’, ‘Rianima gli oceani’, ‘Costruisci un mondo senza rifiuti’ e ‘Ripristina il nostro clima’).
I fondi contribuiranno allo sviluppo dei progetti scelti.
L’Italia è salita sul podio di ‘Costruisci un mondo senza rifiuti’ con la città di Milano e di ‘Ripristina il nostro clima’ con la società Enapter, che ha la sua sede principale a Crespina Lorenzana (Pisa).
Co-fondata da Vaitea Cowan, la Enapter produce generatori di idrogeno modulari ad alta efficienza, una “tecnologia verde” – si legge sul sito web dell’Earthshot Prize – che “potrebbe cambiare il modo in cui alimentiamo il nostro mondo”. Il Comune di Milano è stato premiato per i suoi hub di quartiere creati per contrastare lo spreco di cibo e per dare allo stesso tempo sostegno alle persone in difficoltà.
“Milano è la prima grande città ad applicare una politica contro lo spreco alimentare a livello cittadino che comprenda enti pubblici, banche alimentari, enti di beneficenza, Ong, università e imprese private. E sta funzionando – recita la motivazione del premio -. Oggi la città ha tre Food Waste Hub, ognuno dei quali recupera circa 130 tonnellate di cibo all’anno o 350 kg al giorno, equivalenti a circa 260.000 pasti”.
Il Costa Rica ha vinto il premio nella categoria ‘Proteggi e ripristina la natura’, la società indiana Takachar si è aggiudicata il premio ‘Pulisci l’aria’ e al progetto Coral Vita (Bahamas) per la rigenerazione delle barriere coralline è andato il premio nella categoria ‘Rianima gli oceani’. (ANSA).