Pasqua: un mondo finisce, un mondo comincia: è la via del Risorto

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Tra i giorni che concludono la vicenda terrena di Gesù di Nazareth e quelli che frantumano il sepolcro, varcando nel mistero il limite umano — il limite più duro, ossia la morte — giace lo smarrimento dei discepoli: smarrimento umanissimo e doloroso di fronte alla tragedia accaduta al maestro, smarrimento umanissimo e stupito davanti a un annuncio di resurrezione. È lo smarrimento di qualcosa che finisce e insieme è lo smarrimento di qualcosa che inizia: che questo generi turbamento, incredulità, confusione, nella tensione tra tristezza e gioia, per noi uomini di questo tempo è molto comprensibile, perché stiamo attraversando uno scorcio della storia che molto condivide con quella manciata di giorni che vanno dall’ultima cena di Gesù alla parola che afferma: Cristo è risorto. Se abbiamo il coraggio dello sguardo, la forza di andare oltre le apparenze, non possiamo che sentirci solidali con i discepoli persi tra il venir meno del vecchio e il sorgere del nuovo; perché spesso anche noi viviamo uno smarrimento simile a quello di Pietro, Giovanni, Tommaso, Maria di Magdala (e anche della Madre): un mondo sta finendo o è già finito, una stagione si va esaurendo e qualcosa di nuovo e inaudito comincia a farsi strada. Modi di vivere la vita, di condurre l’esistenza, anche di intendere, incarnare e comunicare la fede sono ora inesorabilmente al tramonto. Forse questo non piacerà, certamente procurerà dolore e tristezza, alimenterà paura e perfino angoscia: sentimenti compagni a quelli avvertiti dai discepoli che ben altre aspettative, ben altre idee avevano sul Nazareno, il quale non poche volte — ricorda il vangelo — erano stati rimproverati perché non capivano che la strada del maestro era diversa da quella che loro desideravano. Essi (penso soprattutto a Pietro) avevano una loro idea di salvezza, una loro idea di Dio. Ma i giorni della Passione videro il naufragare di quelle attese, di quelle convinzioni. Qualcosa di umano e di vecchio andava morendo. Ma quella non fu l’ultima parola, perché Dio, dentro quel fallimento, nel fondo dell’abisso, nella forza di un’offerta gratuita, tracciò la via di una nuova vita, di una vita risorta. Nella storia del mondo, nella storia di ogni persona, non sono poche le morti e le risurrezioni: ma dall’alba di quel giorno questa diviene pure la legge del Regno.

Ugualmente oggi, in questo tratto del tempo che abitiamo, c’è un’epoca che muore e c’è un’epoca che nasce, di cui non capiamo bene i tratti, i caratteri, il bene e il male. O forse sappiamo cogliere solo il male, solo ciò che non corrisponde al nostro immaginario, alle nostre aspettative, alla nostra idea di tempo visitato da Dio. Ma la forza della Pasqua di Gesù è quella di una vita che prosegue, di una custodia di Dio che permane e che, in ciò, è capace di diffondere speranza. Non speranza a basso prezzo, non speranza di superficie: ma speranza profonda, vera, radicata in ciò che prima è accaduto ed è morto e che ora rinasce, in forme nuove e sorprendenti; gli evangelisti lo annotano più volte nei racconti pasquali: nessuno dei discepoli riconobbe Gesù, segno che egli aveva forme nuove, insolite per loro che pure lo avevano conosciuto molto bene e per questo dovettero fare uno sforzo di lettura, uno sforzo di comprensione, cercando qualcosa che fosse solo per ognuno di essi.

Mi colpisce che il Risorto abbia un modo unico e una parola differente per ogni discepolo: spinge Maria di Magdala e l’altra Maria ad andare al sepolcro e mentre esse tornano si fa loro incontro, nel giardino; spinge Giovanni e Pietro ad uscire dalla sala della paura e arrivare fino alla tomba, per trovarla vuota, ma per andare poi lui stesso dentro quella medesima stanza chiusa; trova due discepoli a sette miglia da Gerusalemme, lungo la via per Emmaus e si fa loro accanto; si fa toccare da Tommaso; si fa trovare su una spiaggia da alcuni discepoli, tra cui Pietro. Ci sono modi misteriosi e diversi, ma sempre generativi, attraverso cui il Risorto incontra i suoi discepoli: non un modo solo, un momento solo, una parola sola e unica per tutto, sempre, ovunque. Parole personali in tempi e luoghi personali; parole diverse in tempi e luoghi diversi. Per generare il nuovo, per ripartire, per rifondare una vita servono parole accostate a vite singole, strade uniche, annunci singolari, nei luoghi e nei momenti più fecondi per ognuno.
C’è una delicatezza tenerissima nel Risorto, che si accosta, si rivela nella ricchezza di ogni vita e può così, anche nel pronunciare ogni nome, trarre fuori dai sepolcri che ognuno deposita sul fondo di sé.

«Con l’immenso amore che provi per te stesso — mi pare di leggere in Gesù — ama tuo fratello, che è uguale a te, ma che non sei tu; riconoscerai in lui un fratello, ma quello che vi accomuna è il sangue di Dio stesso, vostro padre. Ritengo che questo sia il senso del Vangelo e la grande rivelazione del Cristo, il vero trasmutatore dei valori»: così scriveva Antonio Machado a Miguel de Unamuno, il 16 gennaio 1918, in una lettera che è un tassello ricchissimo nel rapporto tra i due grandi pensatori spagnoli. E subito Machado aggiungeva: «L’amore fraterno ci fa uscire dalla nostra solitudine e ci conduce a Dio. Quando riconosco che c’è un altro io, che non coincide con me stesso né è opera mia, mi rendo conto che Dio esiste e che devo credere in Lui come a un padre». Ci sono fratelli e sorelle con propri io, con proprie vite: in tanta ricchezza, in tanta particolarità giunge il Risorto, che fa nascere fratellanza nel rispetto di ogni identità, di ogni storia, di ogni ripartenza: Cristo è vivo, Cristo è capace di generare vita, di morire e risorgere, accostandosi, facendosi incontrare, facendosi vedere a singoli volti di uomini e donne.

Questa è la dinamica del Regno che crediamo diventi, da quel «mattino del primo giorno dopo il sabato» anche la dinamica della storia. È il primo giorno che nasce da un sabato, che nasce da un tempo che c’è stato e che però si è concluso; ora comincia il nuovo. Su questo possiamo continuare a fondare il nostro sguardo buono sull’oggi e sul domani; sperare nel futuro; avere fiducia che il mondo è già salvato; non farci travolgere dalla paura che il nuovo può suscitare, sia esso nelle grandi arcate delle epoche quanto nelle piccole vite; non temere l’alba di un tempo dove ci sarà una fede diversa, un modo diverso di viverla, ma che sarà sempre cristocentrica, perché fondata sull’annuncio che il Cristo è risorto: la legge della vita è veramente la legge della vita e non della morte.

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