Accostiamoci a una raccolta di semplici e grandi versi del poeta Fuad Rifka, nel giorno che celebra la poesia

Una poesia delle tensioni ricomposte, senza essere negate: è questo il nucleo ˗ estetico e umanissimo ˗ dei versi di Fuad Rifka (1930-2011), poeta libanese di origini siriane, docente accademico a Beirut e traduttore. Una poesia delle tensioni ricomposte, quasi augurio e eredità per quel Libano che di faglie, ferite, cicatrici e cuciture è stato esperimento e profezia, pur nei marosi dolorosi della storia che oggi sembrano negare saldature e riconciliazioni.
La poesia di Rifka – oggi resa parzialmente disponibile in lingua italiana unicamente nel pregevole ed elegante volumetto L’ultima parola sul pane (Animamundi edizioni, Otranto, 2022), grazie alla traduzione di Piero Bruno, Adnan Haydar, Paolo Ruffilli, Aziz Shihab ˗ si nutre di tale humus, calandolo però nella dimensione biografica e autobiografica: così, ad esempio, i suoi componimenti sono attraversati dalla dialettica tra stasi e movimento, tra migrazione e radicamento, nulla negando e nulla nemmeno obliando: «C’è stato un viaggio / tempo fa. / Provviste per la strada erano / il canto dei galli, / gli uccelli delle foschie al tramonto, / i bastoni da viaggio di giorno / e i fuochi accesi la notte» (Tra villaggio e città). Quel viaggio, personale nel tragitto di uscita dalla Siria, universale nell’iter di ognuno, porta con sé la nostalgia del piantarsi, del fermarsi con pace e abbandono: «Che meraviglia piantare radici! Che meraviglia poter restare immobili / come le torri antiche! // Se si potesse infine riposare, / se questi fiumi potessero arrestarsi!» (Inno alla Terra II), così negando almeno l’assenso al panta rei eracliteo.

Quindi un viaggio voluto e al tempo stesso subito, e in questo caso il tentativo da fare è appropriarsene, pur nello smarrimento che può accadere: «Davanti a lui l’Est, / alla sua destra il Sud, / dietro a lui l’Ovest, / a sinistra il Nord. Dove, dunque?» sapendo che il ‘dove’ è però sempre una meta ulteriore, non un ritornare: «Quando il cammino lo avvolge / e il bastone lo accompagna, / come tornare indietro? / L’odore dell’inverno allarma il passero, / rende irrequieti gli alberi» (Inquietudine). Olfatto, vista: il viaggio è concretamente incidente nel corporeo, è fisico – i sensi richiamati continuamente -, accompagnandosi però a squarci metafisi: «Dacci un segno, / Signore. / Un segno solo / e noi verremo» (Il lampo), anche in questo caso ricomponendo il mistero del divino e l’ampia ricchezza del terreno: «C’erano, in principio, gli elementi / e c’era amore. Ed è per questo / che si sono mescolati» (Hiroshima). Soggiace qui la sapienza orientale, l’incrocio di tradizioni culturali e religiose, l’affascinante eredità sufi: «Il riferimento è sempre all’ideale sufi. Il meglio per l’uomo è diventare una roccia pensante. Metaforicamente, s’intende. Il più possibile fermo, saldo, capace di equilibrio, di fedeltà alla vita. Nel lessico sufi, la parola roccia ha solo valenze positive e non negative (parole che il poeta concede in un’intervista a Ottavio Rossani del 2008, che fa da appendice alla silloge). La roccia pensante orientale– che in Pascal diviene ‘canna pensante’ – è ripresa nel dittico La capanna del sufi: essa indica quella serenità, quella posatezza che è un ideale a cui i versi di Rifka rimandano, senza mai negare il peso del vivere, lo scorrere del tempo: «E noi? Tra essere e non essere, / il problema ci brucia nella gola» (Inno alla Terra III).

Il tempo rimane un insondabile avvolgimento entro cui l’uomo avanza, in un tentativo di conciliazione e di accettazione che è misura della sapienza: «Il tempo è un guardiano / di assoluta fedeltà. / Il tempo non si stanca, / né torna indietro / e non invecchia mai», dal momento che l’unica via che rimane all’uomo è abitare il tempo, accettarlo, cercare una convivenza: «Attraverso tutte le età / ogni momento suona / il campanello, / sveglia il corpo / e lo rimette sulla via» (Il tempo). Dunque, testi di rasserenata accoglienza della vita, di simpatia con il creato, come il contadino che alla sera «appoggia la testa sopra al bue / e si addormenta» (Contadino).

Qui, tra questa umanità in viaggio nel tempo, ascolta e scrive il poeta, per tutti: «componiamo per le labbra degli altri / canzoni di conforto, di amore e di avventura» (Hölderlin), rispondendo anche all’ufficio della consolazione, quando si avverte ciò che è pena: «noi siamo, invece una ferita, / siamo dei torrenti / senza letto e foce, / siamo campane al transito del tempo» (Se).

Rifka ci ricorda che marciamo nel tempo del vivere verso una meta, interrogandoci con pazienza («siamo reti sospese / sull’abisso», Domanda), costruendo senso sul quotidiano, come pronunciando un’«ultima parola sul pane», nella speranza buona che un riposo ci sia, nel divino che attende: «come riposa la preghiera / tra le foglie di Dio» (Percorso).