A un anno dalla presa del potere dei talebani a Kabul Batool Haidari, attivista rigugiata in Italia, racconta all’AGI la condizione delle donne nel Paese

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AGI – “Per noi donne e ragazze dell’Afghanistan, quel 15/16 agosto 2021 rappresenta il giorno della nostra morte collettiva. In una sola notte sono stati cancellati 20 anni delle nostre battaglie per la libertà, per il diritto allo studio, al lavoro, per il diritto alla vita. Tutte le nostre speranze per il futuro sono svanite in un istante”.
È con queste parole che Batool Haidari – psicologa, docente universitaria, madre di due figlie ed attivista afghana rifugiata in Italia – racconta all’AGI della triste ricorrenza del ritorno dei talebani al potere a Kabul.
Nelle scorse ore, dalla capitale afghana sono giunte notizie drammatiche di manifestazioni di donne contro i talebani, represse con la forza. “Lì a Kabul a protestare c’erano le mie amiche, colleghe. Per fortuna nessuna di loro è rimasta ferita. A combattere c’erano solo donne e nemmeno un uomo, vergognoso!”.

In Afghanistan, dopo un anno di dominio dei talebani la vita quotidiana delle ragazze e delle donne afghane è totalmente avvolta nel buio, come il colore nero che i talebani le obbligano ad indossare. Batool è rimasta in contatto stretto con parenti, amiche, colleghe che non hanno avuto, come lei, l’opportunità di fuggire dal ‘carcere’ afghano, facendosi la loro portavoce e portando avanti la battaglia per i loro diritti anche dall’Italia.

“In Afghanistan donne e ragazze sono private dai diritti umani più fondamentali, di cui ogni essere umano dovrebbe invece godere. Non possono uscire di casa senza un uomo, ma se sono madri oppure professoresse, proprio per il fatto di essere donne devono essere accompagnate da un uomo, anche se fosse da un bambino piccolo”. continua la dottoranda in psicologia con alle spalle una lunga esperienza in psicologia clinica e counseling.
“Le afghane non hanno il diritto di studiare, di lavorare, di indossare vestiti colorati. Non hanno il diritto di vivere e, secondo i talebani, portano gli uomini sulla cattiva strada”, prosegue Batool, 37 anni, nota in patria per le sue battaglie contro la pedofilia, per i diritti delle famiglie Lgbtq, oltre ad aver lavorato in un ospedale per la salute mentale a Kabul e denunciato in TV e sulla stampa i diritti calpestati.

Da un anno a questa parte, il suo bagaglio umano e professionale si è arricchito da una nuova esperienza di vita, molto complessa da gestire: minacciata dai talebani è dovuta scappare dalla sua terra per salvare la sua vita e quella delle figlie ancora piccole.

“Siamo un gruppo di donne afghane istruite e molto attive socialmente ed è grazie a una nota giornalista italiana, Maria Grazia Mazzola, che abbiamo raggiunto l’Italia, salvandoci la vita. Qui siamo state sostenute dai servizi dalla chiesa cattolica e protestante ed è anche grazie a loro che oggi viviamo in pace”, sottolinea l’attivista afghana, grata anche a tutte quelle organizzazioni dei diritti umani e a quanti stanno cercando di salvare le vite di ragazze e donne afghane.

Anche ora, che vive al sicuro in Italia, Batool continua a combattere per tutte le sue ‘sorelle’ rimaste in patria.
“Noi attiviste, ai quattro angoli del pianeta, non permetteremo mai che vengano dimenticate, pertanto siamo sempre in contatto con loro, scriviamo di loro, allertiamo i media, partecipiamo a proteste. Soprattutto cerchiamo di dar loro speranza e forza per vivere e continuare a resistere”, dice con determinazione la rifugiata afghana, da Amburgo dove ha preso parte a una manifestazione.

Concretamente significa anche fare rete, mettendoci in contatto in Europa e altrove con tutte quelle realtà in prima linea nei corridoi umanitari – in Italia ad esempio la comunità di Sant’Egidio – per riuscire a far uscire dall’Afghanistan ma anche dai vicini Pakistan e Iran tutte quelle donne attiviste, giornaliste o con altri ruoli sensibili per i quali sono in pericolo di vita. Ad aver tanto bisogno di aiuto, però, sono anche quelle ragazze – come sue figlie – quelle donne e madri che da un anno sono rifugiate in Italia e in altri Paesi d’asilo.

“Le mie figlie hanno ancora paura dell’Afghanistan poiché quando sono entrati sul territorio, i talebani hanno annunciato di voler far sposare le ragazze di più di 13 anni con gli uomini con i quali combattevano e questo ha generato panico e paura in tutte quelle famiglie con figlie”, ricorda ancora Batool, da madre ancor prima che da psicologa.

“Alle ragazze è stato subito vietato andare semplicemente a scuola e continuare a studiare. Le mie figlie guardano a quei giorni come a un incubo e, ancora oggi, non si sentono psicologicamente al sicuro” testimonia l’attivista, autrice di quattro libri pubblicati in Afghanistan. In merito al percorso di accoglienza dei rifugiati afghani in Italia, ringrazia tutte quelle realtà che hanno cercato di salvare le loro vite e le persone che le hanno accolte: un sostegno fondamentale proprio perché “la sopravvivenza stessa è una battaglia”.

Tuttavia per Batool non mancano le criticità verso un sistema di accoglienza “carente e di un livello molto basso”.

In effetti a un anno dalla caduta dell’Afghanistan, “i rifugiati afghani in Italia – molti dei quali sono colti, hanno un elevato livello di studi e una solida professione alle spalle – sono ancora in uno stato di shock mentale e psicologico, sono depressi e infelici per l’assenza di prospettiva futura in questo Paese”.

“Le organizzazioni che li hanno aiutati e li stanno aiutando non prestano attenzione allo loro stato mentale e soprattutto non tengono conto delle condizioni in cui hanno dovuto lasciare la loro terra – evidenzia Batool – costretti da un giorno all’altro ad abbandonare la propria vita, il lavoro, il futuro e spesso anche parte della propria famiglia”.

In chiave costruttiva, la psicologa afghana suggerisce alle organizzazioni ed istituzioni italiane di “prestare maggiore attenzione e provare più empatia” nei confronti di questi rifugiati oltre a lasciargli “più tempo per adattarsi ad un sistema, ad un contesto di vita molto diversi”: solo così “potranno diventare un capitale umano importante per l’Italia, essendo per giunta qualificati”, altrimenti sarà un’occasione persa.
Al momento, il futuro del popolo afghano è all’insegna della “disperazione, proprio per l’assenza di un domani luminoso” prospetta Batool. Negativa la ‘pagella’ della docente afghana nei confronti della comunità internazionale e di quanti per anni hanno lavorato in Afghanistan.

“Si considerano essi stessi amici del popolo afghano ma non ci fidiamo di loro perché oltre ad aver organizzato riunioni, non hanno fatto nulla per cambiare davvero la situazione del nostro Paese e ci hanno profondamente delusi” denuncia la fonte, argomentando che “non hanno visto nei talebani un pericolo per loro stessi, fregandosene. Hanno lasciato l’Afghanistan, abbandonando il suo popolo in brutte condizioni economiche e in condizioni di totale insicurezza”.

Da donna afghana, combattiva e attenta osservatrice dell’anima, Batool riconosce che “l’essere umano vive di speranze, pertanto anche se siamo davvero disperati, per andare avanti dobbiamo autoconvincerci che alla fine andrà tutto bene”.