Riunione online di 190 case. Monache di clausura ma collegate in Rete

In Occasione della Giornata Pro orantibus un incontro online ha riunito i monasteri italiani di clausura
Un momento di preghiera in musica all'interno di un monastero di clausura

Un momento di preghiera in musica all’interno di un monastero di clausura

Avvenire

Essere pietre vive nell’edificazione della Chiesa, camminare insieme, mettersi in ascolto dello Spirito Santo per essere profezia della sinodalità. Questo l’itinerario che la vita contemplativa è chiamata a seguire oggi, un percorso che si alimenta attraverso una formazione umana e carismatica, che si nutre in primo luogo della testimonianza personale, della crescita in una vita veramente evangelica; un cammino in cui il servizio dell’autorità consiste nel far crescere l’altro e la sinodalità è uno stile comunitario di vita.

È quanto ha sottolineato monsignor José Rodríguez Carballo, arcivescovo segretario del Dicastero per la vita consacrata nel corso di un incontro online, organizzato dal Segretariato assistenza monache e dal suddetto Dicastero in occasione della Giornata Pro Orantibus, cui hanno partecipato 190 monasteri.

L’accento è posto sulla sinodalità, sull’impegno ad ascoltarsi reciprocamente, a lasciarsi interrogare dalla parola dell’altro e dell’altra condividendone gioie e preoccupazioni.

La vita contemplativa, infatti, è chiamata ad un ascolto profondo della realtà per essere risposta all’oggi della chiesa e del mondo. «Nella semplicità della vita, la presenza contemplativa raffigura visibilmente la meta verso cui cammina tutta la chiesa. Essa avanza sulle strade dell’umanità e del tempo con lo sguardo fisso al Signore», ha sottolineato sr Giuseppina Fragasso, vicepresidente del Segretariato assistenza monache nel corso del suo intervento. Le comunità contemplative sono poste come città sul monte, come lucerne che illuminano. Stanno sul monte, un luogo abitato da chi non passa oltre, da chi è capace di un amore che sa prendersi cura dell’umanità ferita.

«Tutte le forme di vita consacrata bevono alla fonte della contemplazione. Tra queste forme, la vita totalmente dedicata alla contemplazione è una storia di amore, di un amore appassionato per il Signore e per l’umanità, è dono inestimabile e insindacabile per la chiesa», ha detto citando la costituzione apostolica Vultum Dei Quaerere. Proprio i due recenti documenti della chiesa per la vita contemplativa, Cor orans e Vultum Dei Quaerere, sono stati al centro degli interventi delle presidenti federali.

La loro attuazione sta avviando processi di rinnovamento e aprendo cammini di comunione, incontro e formazione. «Lo Spirito Santo che agisce nella storia, invita a vivere il cambiamento non come un fallimento, ma come un’occasione per mantenere vivo il dono che abbiamo ricevuto», ha commentato madre Maria Amata Laganà, del monastero delle Visitandine di Ortì. I documenti hanno offerto la possibilità di leggere la realtà con uno sguardo di fede che sta aiutando i monasteri a vivere le situazioni di precarietà dando testimonianza di una vera vita contemplativa. «A tempi nuovi non si può rispondere con strumenti vecchi», ha osservato madre Chiara Francesca Lacchini, del Monastero San Romualdo delle clarisse cappuccine. Vultum Dei Quaerereha avviato processi, a partire dalla formazione, evidenziando la necessità di avere consapevolezza di essere popolo di Dio in uscita, chiamato a uscire dai propri schemi, dalla propria mentalità, a lasciarsi formare dallo Spirito Santo, dalla storia. «È un invito a vivere la grande sfida della povertà».

Anche madre Margherita Lanfranchi, priora del Monastero delle Carmelitane Scalze di Venezia, ha sottolineato l’importanza della formazione, attraverso la quale si possono fare scelte comunitarie più responsabili, si è aiutati a leggere i segni dei tempi e a dare risposte adatte. Ha poi espresso gratitudine per i due documenti che stanno fornendo alle contemplative i mezzi per vivere questo periodo di passaggio camminando insieme. «È un cambiamento per la vita – ha detto –. Da sole non abbiamo gli strumenti, insieme possiamo affrontare i problemi, abbiamo la possibilità di condividere, di superare l’isolamento».

 

Giornata pro orantibus . La preghiera dei monaci e delle monache sostiene il mondo

Tutti noi siamo debitori della preghiera incessante dei monaci e delle monache che in ogni angolo del mondo vivono in clausura. Oggi la Chiesa invita noi a pregare per loro e invita a riflettere sul loro inestimabile valore. La scelta contemplativa non è fuga dalla realtà ma apre all’ingresso del Signore nella storia dell’uomo.

È questo il senso della Giornata pro orantibus che si celebra nella memoria liturgica della presentazione di Maria Santissima al Tempio.

Fu Pio XII a istituirla nell’ormai lontano 1953. Dopo la guerra papa Pacelli aveva infatti sollecitato un’indagine della situazione dei monasteri di clausura nel mondo, che spesso vivevano in situazioni di indigenza e alle prese con le difficoltà del periodo post-bellico.

Tra le varie misure presero vita questa Giornata e il Segretariato assistenza monache (Sam), che opera nell’ambito della Congregazione per gli istituti religiosi e le società di vita apostolica. Il Sam nel 2018 e 2019 aveva organizzato alla Pontificia Università Lateranense un momento di riflessione per contemplative.

Quest’anno ripropone l’appuntamento sotto forma di seminario via web. I partecipanti all’appuntamento online possono oggi seguire la lettura di un messaggio del cardinale João Braz de Aviz e una conferenza dell’arcivescovo José Rodríguez Carballo (rispettivamente prefetto e segretario del dicastero per i religiosi) sul tema “Fratelli tutti e la vita contemplativa”.

Alle 19 su Tv2000, in diretta dal monastero Santa Chiara di Roma, la Messa presieduta dall’arcivescovo Carballo.

Avvenire

La repubblica delle libere monache

di ANNA POZZI foto di BRUNO ZANZOTTERA/PARALLELOZERO

Su quest’isola in mezzo a un lago piemontese, un drappello di giovani benedettine guidato da madre Anna Maria Cànopi dà vita a una comunità monastica in cui le regole di spazio e tempo che dominano fuori sono sovvertite. E, tutte insieme, hanno creato un laboratorio di restauro di tessuti antichi tra i migliori in Italia.

Veduta dell'abbazia Mater Ecclesiae, sull'isola di San Giulio

Veduta dell’abbazia Mater Ecclesiae, sull’isola di San Giulio (foto Bruno Zanzottera).

L’ inverno è la stagione migliore per visitare l’isola di San Giulio. Si rischia di essere soli. E dunque di assaporare a pieno il silenzio e il senso di sospensione dal tempo e dal mondo che caratterizzano questo minuscolo lembo di terra sospeso sul lago d’Orta, in Piemonte. Non ci sono le moltitudini di turisti che invadono nelle giornate soleggiate questa graziosa isola a pochi minuti di barca dalla riva di Orta. Persino un gambero di fiume ha l’audacia di avventurarsi lungo l’unica stradina che ne percorre il perimetro – la via del Silenzio, appunto –, sicuro di non essere disturbato. È mattina presto e la foschia invernale offusca il timido sole, pallido e freddo. Tutto – l’acqua, le brume, la quiete e la solitudine – contribuisce ad accentuare l’atmosfera di mistero e di sacro che avvolge l’isola. E a creare una sorta di timore reverenziale nel varcare la soglia di quello che ne è il cuore segreto: l’abbazia Mater Ecclesiae, monastero di clausura di monache benedettine. Il quale, tuttavia, si rivela ben presto un luogo pulsante di preghiera e di lavoro, di vita comunitaria e di contemplazione. Isolamento, ma non solitudine. È questa la prima sensazione. Silenzio, ma non vuoto. Il tempo e lo spazio vissuti secondo una dimensione diversa da quella del mondo esterno. «Qui il tempo è kairos, non kronos. È tempo di grazia, non cronologico». Madre Anna Maria Cànopi ha lo sguardo fulminante e magnetico, la parola essenziale e diretta. È lei all’origine di questa comunità claustrale. Lei insieme ad altre cinque monache benedettine, che nel 1973 approdarono sull’isola provenienti dall’abbazia di Viboldone, in provincia di Milano.

Il laboratorio di restauro

Il laboratorio di restauro (foto Bruno Zanzottera)..

Oggi le monache sono più di settanta. Ma altre sono presenti nel priorato Regina Pacis a Saint- Oyen in Valle d’Aosta, in un altro priorato a Fossano e in un’abbazia a Ferrara, tutti monasteri che dipendono da San Giulio. Recentemente si è aggiunta anche una nuova fondazione in Romania. E, così, complessivamente, le monache sono più di cento, più le postulanti; senza parlare della lunga lista d’attesa di coloro che vorrebbero entrare in monastero. Una vera esplosione di vocazioni. E la maggior parte sono giovani, con studi superiori o universitari. Una presenza discreta e silenziosa, ma al contempo dinamica e vivace. In un’epoca di crisi di vocazioni, un luminoso esempio in controtendenza. Sull’isola del lago d’Orta, le benedettine si sono inserite nel solco di una Chiesa antichissima, che risale proprio a san Giulio, instancabile viaggiatore ed evangelizzatore greco. Originario dell’isola di Egina, terminò il suo lungo peregrinare insieme al fratello Giuliano attorno al 390 su quest’altra isola, che appunto ha preso il suo nome, sul piccolo lago d’Orta. Storia e leggenda si intrecciano e si confondono. Narrano che il santo la raggiunse navigando sul suo mantello; qui trovò draghi e serpenti, simboli del paganesimo, che combatté e sconfisse, per poi edificare una piccola chiesa – la centesima e ultima della sua vita – dedicata ai dodici Apostoli, probabilmente su un sito paleocristiano. E qui nacque, nel 962, anche l’abate riformatore Guglielmo da Volpiano, raffigurato nell’ambone dell’antica basilica; scolpito in marmo serpentino grigioverde di Oira, è uno dei capolavori della scultura romanica lombarda del XII secolo. Ma non è il solo tesoro di questo luogo. L’altro, appunto, è la presenza viva e dinamica del monastero Mater Ecclesiae, che ha preso il posto dell’ex seminario diocesano di Novara, un enorme casermone che occupa quasi tutta l’isola. E che un po’ alla volta è stato ristrutturato e abitato dalle monache. Come in un gioco di scatole cinesi, un tesoro ne racchiude un altro. All’interno del monastero, infatti, le claustrali hanno dato vita a un laboratorio di tessuti antichi come ce ne sono pochi in Italia. Un luogo di eccellenza, dove si realizzano opere di altissima precisione e maestria: il lavoro che si fonde con la spiritualità al fine di glorificare Dio in tutto. «La preghiera e il lavoro. L’una insieme all’altro, inseparabili», precisa madre Anna Maria. «Il lavoro è preghiera, la preghiera è lavoro: la preghiera dà impulso e consacra la giornata di lavoro. Portiamo la preghiera nelle attività manuali affinché queste siano preziose non solo da un punto di vista materiale, ma anche spirituale. Il nostro lavoro non è solo arte. Ha anche intrinsecamente un valore religioso».

Primo piano di madre Cànopi

Primo piano di madre Cànopi (foto Bruno Zanzottera).

Madre Cànopi è una donna minuta, energica e diretta; comunica immediatamente una forte personalità. Profonda conoscitrice della letteratura patristica, è scrittrice feconda di molti libri di spiritualità cristiana e monastica; inoltre, ha collaborato all’edizione della Bibbia Cei e alle edizioni dei nuovi Messali e Lezionari. Suo è anche il testo della Via Crucis di Giovanni Paolo II al Colosseo nel 1993. E sue le parole che servono per capire. Innanzitutto il senso di questa vita, apparentemente così priva di senso, se paragonata alle regole dominanti del mondo. Silenzio, preghiera e isolamento contrapposti al chiassoso scorrere di vite caotiche, vissute sulla superficie fluida del mero apparire. Una routine senza imprevisti che diventa rito e certezza contro la fretta di una società che corre senza punti di riferimento.

Un gambero d'acqua dolce "a spasso" sulla via del Silenzio.

Un gambero d’acqua dolce “a spasso” sulla via del Silenzio (foto Bruno Zanzottera).

«Tra rito e routine, la differenza sta nella disposizione interiore», spiega la badessa. «La nostra vita è al cospetto del mistero di Cristo. È scandita dalla sua presenza. La notte è l’attesa della sua venuta; l’alba è Gesù, sole di giustizia, che nasce. E così via, per tutta la giornata. Nulla deve distoglierci dalla presenza di Cristo. Per questo cerchiamo di coltivare e amare il silenzio. “Per Te il silenzio è lode”, dice un salmo, e la lode è un suono che non fa rumore. Il silenzio è la sobrietà massima della parola. Sobrietà che è anche una delle caratteristiche essenziali di tutta la nostra vita monastica. Quando si entra in monastero ci si spoglia di tutto. Non c’è nulla di superfluo. Il nostro è un modo di vita dignitoso, nell’ordine, nell’armonia e nell’essenzialità. Questo crea i presupposti anche per uno spazio interiore disposto ad accogliere la presenza di Cristo». Uno spazio in cui non c’è posto per l’orologio, ma per il tempo vissuto al ritmo della preghiera. Nel linguaggio delle monache non si usa dire l’ora, ma ci si riferisce alle scadenze sempre uguali del Mattutino piuttosto che delle Lodi, dei Vespri serali o del Silentium Magnum, il Grande Silenzio notturno.

Una delle monache del laboratorio di restauro al lavoro su un prezioso arazzo

Una delle monache del laboratorio di restauro al lavoro su un prezioso arazzo (foto Bruno Zanzottera).

Tutto il resto avviene prima o dopo questi punti fermi e imprescindibili. Uno spazio in cui apparentemente regnano regole ferree e tutto parla di obbedienza, ma dove, secondo madre Anna Maria, c’è un posto grande e irrinunciabile per la libertà. Ecco un’altra parola sorprendente in un luogo di clausura: «Libertà e bellezza fanno parte della scelta monastica », sostiene la badessa, «proprio perché la nostra vita è stata donata. Ma donare la vita a Dio significa riceverla. Vita autentica. In spirito e verità».

Suor Lucia (a destra) insieme a una giovane religiosa del laboratorio

Suor Lucia (a destra) insieme a una giovane religiosa del laboratorio
(foto Bruno Zanzottera).

È la bellezza interiore di una vita totalmente donata. Ma è anche la bellezza concreta, fatta di materia e di colori, maneggiata con tocco sapiente, come quella dei tessuti antichi del laboratorio di restauro. Pure questo è uno spazio unico, speciale. È stato ricavato nella parte più antica del monastero, dopo un attento restauro. L’ampio salone è illuminato dalla luce del lago che filtra attraverso le grandi vetrate. Alcune monache lavorano chine sui tessuti: sono impegnate a recuperare le parti rovinate o andate perdute in un’atmosfera di silenzio e concentrazione. Sono lavori estremamente meticolosi, su stoffe che rappresentano pezzi di storia. Tessuti secolari, in gran parte di uso liturgico, con immagini sacre e decorazioni preziose. Ci sono pianete di vescovi del 1500 e del 1600, un tessuto con croci di Malta del 1600, bandiere delle Società di mutuo soccorso e stendardi del 1700, veli da calice della stessa epoca, così come il prezioso manto di una statua della Vergine.

Una monaca al lavoro su un'icona

Una monaca al lavoro su un’icona (foto Bruno Zanzottera).

«All’inizio», racconta suor Lucia, che è all’origine di questo laboratorio, di cui è ancora l’anima e l’animatrice appassionata, «c’era la necessità di contribuire al mantenimento del monastero che stava crescendo rapidamente, ma anche il desiderio di valorizzare le capacità e i talenti delle giovani che entravano nella comunità. Questo, nel rispetto della nostra vocazione monastica e contemplativa». Tutto è cominciato nel 1984, quando suor Lucia, insieme ad altre cinque monache, ha frequentato un corso tenuto dal personale dell’Opificio di pietre dure di Firenze. «Non potendo noi uscire dalla clausura, sono venuti loro da noi», ricorda la monaca.

In motoscafo verso l'isola di San Giulio

In motoscafo verso l’isola di San Giulio (foto Bruno Zanzottera).

Si tratta di insegnanti di grande competenza, tra i migliori in Italia, provenienti da uno degli istituti più importanti al mondo nel campo del restauro, con una tradizione di quasi cinque secoli. Una collaborazione che continua e che ha fatto sì che il laboratorio di San Giulio diventasse nel tempo uno dei punti di riferimento per il restauro di tessuti di grande pregio. Oggi, sotto la supervisione della Sovrintendenza delle Belle Arti, vengono trattati, in particolar modo, arredi sacri, vesti liturgiche, arazzi e stendardi. Che spesso arrivano in pessime condizioni e riacquistano, dopo un lavoro paziente e scrupoloso, nuova vita. Vi lavorano una decina di monache, ciascuna con la propria specializzazione. Una è laureata in biologia ed è una specie di alchimista: nel suo laboratorio crea letteralmente i colori e tinge tessuti e filati. Un’altra è architetto: studia e riproduce su carta le trame e gli orditi, oltre ai moduli decorativi. Un’altra ancora si occupa della pulitura dei tessuti e dei ricami, un lavoro che richiede infinita pazienza e molta delicatezza. Soprattutto, tanto tempo: «Ciascuna di noi lavora con impegno e solerzia. Ma certamente la dimensione temporale in questo tipo di lavoro è quasi sacra. Non per niente è un’attività molto vicina alla preghiera, che ben si armonizza con la nostra scelta di vita claustrale, una vita donata a Dio, che si traduce anche nei gesti quotidiani del nostro lavoro di restauro».

Il delicato lavoro di riparazione di un antico arazzo

Il delicato lavoro di riparazione di un antico arazzo (foto Bruno Zanzottera).

È quanto si percepisce anche nel laboratorio di icone, che rappresenta una delle principali attività del monastero insieme al restauro, anche se le monache si dedicano pure al ricamo di paramenti liturgici, alla tessitura e alla produzione di artigianato vario, oltre a lavori di scrittura, traduzione e stampa di opuscoli e sussidi. Situato all’altro lato del monastero e dell’isola, il laboratorio è stato ricavato in ambienti ampi e luminosi, con grandi finestre che lasciano entrare scorci di lago e di montagna.

La veduta del lago da una delle porte-finestre dell'abbazia Mater Ecclesiae

La veduta del lago da una delle porte-finestre dell’abbazia Mater Ecclesiae (foto Bruno Zanzottera).

«L’icona è tanto più riuscita quanto più l’animo è docile alla preghiera», spiegano gentili e sorridenti le due monache che vi lavorano. Anche in questo caso ci vuole molto “mestiere”, abilità e pazienza. I lunghi e laboriosi procedimenti che portano alla realizzazione di queste opere d’arte sono altrettante preghiere rivolte a Colui che ispira il loro essere lì.

Giovane monaca mentre ripara un prezioso tessuto nel laboratorio del convento

Giovane monaca mentre ripara un prezioso tessuto nel laboratorio del convento (foto Bruno Zanzottera).

«Ci inseriamo nel solco di una tradizione molto antica», dicono, «introducendo inevitabilmente elementi specifici della nostra personalità. Una personalità che – può sembrare paradossale – ritroviamo in maniera più vera attraverso l’obbedienza, che ci rende autenticamente libere». Ecco che ritornano i temi cari a madre Anna Maria: libertà e bellezza. Questioni che balzano su continuamente, visitando questo monastero, dove si armonizzano antiche tradizioni e competenze moderne, spiritualità e operosità, silenzio e armonia. E dove si capiscono meglio le parole della badessa: «Tutti coloro che sono assetati di bellezza e d’infinito, vi potranno trovare la patria del loro cuore».

L'interno del monastero

L’interno del monastero (foto Bruno Zanzottera)..

Anna Pozzi

jesus gennaio 2013