I FILM PIÙ BELLI IN TV PER RIVIVERE LA VITA E LA PASSIONE DI GESÙ


Da “Gesù di Nazareth di Zeffirelli” a “L’inchiesta Anno XXXIII” di Giulio Base, da “The Chosen” a “The young Messiah” passando per i classici come “Ben Hur” e “Il re dei re”: ecco una selezione di film e serie, disponibili sulle tv generaliste e sulle piattaforme, che raccontano la Pasqua e il messaggio di Cristo.
Entrare nello spirito della Pasqua attraverso un libro o una serie: l’offerta, soprattutto nelle piattaforme, è tanta. Come orientarsi tra tante pellicole prediligendo quelle di qualità? Immancabile, e sempre apprezzabile Gesù di Nazareth di Franco Zeffirelli (su Tv2000 in prima serata 28-29-30 marzo) uscito in sei puntate in tv nel 1977 e poi riproposto come film ridotto alla durata di 4 ore, ripercorre la vita di Gesù dalla nascita fino alla risurrezione, con grande adesione ai testi evangelici e un cast d’eccezione, da Robert Powell nei panni di Gesù, Olivia Hussey in quello di Maria, e ancora Peter Ustinov (Erode il Grande), Anne Bancroft (Maria Maddalena), Claudia Cardinale (l’adultera), Valentina Cortese (Erodiade), Laurence Olivier (Nicodemo), Renato Rascel (il cieco nato), Rod Steiger (Ponzio Pilato), Anthony Quinn (Caifa)..
Sempre su TYv2000 domenica 31 marzo in prima serata Il Risorto, un film del 2016 diretto da Kevin Reynolds con Joseph Fiennes nei panni di Clavio, un tribuno militare romano di alto rango a cui a Ponzio Pilato ha ordinato di assicurarsi che i seguaci i di Gesù non rubino il suo corpo e in seguito dichiarino la sua risurrezione. Entrare in contatto prima con gli apostoli o e poi con Gesù stesso, farà vacillare le convinzioni di Clavio fino alla sua conversione.
Per chi ama rivedere un classico Hollywoodiano, sabato su Rete 4 alle 21,25 viene riproposto Il re dei re, del 1961, di Nicholas Ray. La vita di Gesù è al centro della serie di Netflix in otto puntate The Chosen.
A carattere religioso, ma non legata espressamente alla settimana santa, la nuova docu-serie in tre episodi disponibili da mercoledì 27 sempre su Netflix, Testament: La storia di Mosè, che ripercorre con interventi di teologi ed esperti di storia l’incredibile vita di Mosè da principe a profeta.

Su Sky segnaliamo The Young messiah, dal romanzo di Anne Rice, una pellicola del 2016 che ripercorre l’infanzia di Gesù. A 7 anni il futuro Messia lascia l’Egitto per tornare a Nazareth dove scopre le sue vere origini: e La passione di Cristo, la controversa opera di Mel Gibson, con Jim Caviezel e Monica Bellucci, che racconta le ultime dodici ore della vita di Gesù. Dalla preghiera nell’Orto degli Ulivi alla Crocifissione.

Tra i film più belli della storia del cinema che hanno raccontato la passione di Gesù ricordiamo Ben Hur, Il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini e Jesus Christ superstar, che sono disponibili a pagamento su diverse piattaforme.
Su Rai play tre i film che segnaliamo:

L’inchiesta anno Domini XXXIII, regia di Giulio Base, del 2006, con Penelope Cruz e Daniele Liotti, L’imperatore Tiberio, turbato da dicerie e fenomeni astrologici, richiama dall’esilio l’investigatore Tito Valerio Tauro e gli affida il compito di scoprire la verità sulla morte di Gesù di Nazareth, un predicatore galileo il cui cadavere sembra misteriosamente scomparso.

Barabba, del 2012, regia di Roger Young, con Billy Zane, Cristiana Capotondi, Filippo Nigro, Anna Valle, Hristo Shopov. Barabba è un malfattore, condannato a un’esistenza bruta di violenza e sopruso. L’amore di una donna e l’incontro con gli Zeloti, col loro impegno politico, aprono ai suoi occhi un orizzonte nuovo e gli insegnano un nuovo rispetto di sé. Fino al momento in cui il suo destino incrocia quello di Gesù.
Jesus, del 1999, regia di Roger Young, con Jeremy Sisto, Jacqueline Bisset, Armin Mueller-Stahl, Luca Zingaretti, Elena Sofia Ricci, Stefania Rocca, Gabriella Pession, Luca Barbareschi, Claudio Amendola, Gary Oldman. La vita di Gesù raccontata nella sua piena umanità, dagli anni della formazione all’esperienza delle tentazioni di satana quando il nazareno capisce fino in fondo l’importanza della sua Missione. Un Uomo che vive rivelando il messaggio del Padre e che affronta il sacrificio della crocifissione accogliendo la Sua volontà per la salvezza del mondo.
Famiglia Cristiana

Una fiction su Gesù, in sette «stagioni», al momento ancora alla terza. Dal 4 marzo 2024 saranno trasmesse le prime due stagioni su TV2000

di: Elisa Mascellani

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Una fiction su Gesù, in sette «stagioni», al momento ancora alla terza. Dal 4 marzo 2024 saranno trasmesse le prime due stagioni su TV2000.

A meno di non essere contrari per ragioni di principio (e c’è qualcuno che lo è), è una notizia già di per sé interessante. Ancor di più sapere che è già un successo mondiale, con oltre 200 milioni di spettatori e 770 milioni di visualizzazioni. Ciò significa che, dal punto di vista dello spettacolo, «funziona», e anche questo è per alcuni fonte di sospetto.

Libero accesso

Escludiamo, per cominciare, che sia una furba operazione di marketing intesa a sfruttare un soggetto che in un modo o nell’altro fa sempre audience. La produzione americana (piattaforma dedicata Angel Studios) non si appoggia a nessun colosso holliwoodiano e l’accesso alla serie è sempre free.

Netflix ha ospitato per un certo periodo la prima stagione, ma poi ha mollato l’osso, dato che si può vedere tutto senza piattaforme a pagamento, semplicemente scaricando una app gratuita.

L’impresa, inoltre, è stata finanziata tramite un crowdfunding di eccezionale successo (dieci milioni di dollari raccolti solo per la prima serie), proprio per evitare vincoli e veti di natura commerciale o ideologica. Aggiungiamo che non c’è pubblicità e solo si trova l’offerta di piccolo merchandising legata alla fiction (magliette e oggettistica varia col logo della serie).

Eliminate le fonti di sospetto che possono derivare dai perversi meccanismi del finanziamento e della distribuzione (primo elemento positivo), un secondo elemento positivo è la collaborazione tra evangelici (il regista Dallas Jenkins appartiene alla chiesa evangelica) e cattolici con la consulenza di ebrei e mormoni. Questo fatto ha già del miracoloso.

Aspetti positivi

La serie è fatta tecnicamente bene e può piacere a molti, anche se non tutte le puntate sono allo stesso modo avvincenti e ben riuscite sul piano narrativo.

La figura di Gesù è una bella figura: non troppo ieratico, ma sempre composto, misurato, capace di ironia, simpatico senza essere piacione, senza aureola ma senza chitarra e jeans strappati, insomma. L’attore che lo interpreta, Jonhatan Roumie, di confessione cattolica, madre irlandese e padre egiziano, ha un volto non convenzionale, molto espressivo, capace di comunicazione intensa anche senza parola. Gesù pronuncia sempre alla lettera le parole presenti nei lòghia evangelici, mentre nelle altre circostanze ricostruite nella fiction naturalmente non è così, ma sempre le sue parole sono aderenti al significato del messaggio evangelico.

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Tutte le vicende rappresentate sono tratte dalla narrazione evangelica, anche se è ovvio che gli elementi di contesto narrativo sono fiction: in una rappresentazione i personaggi e il contesto devono essere caratterizzati, mentre il racconto evangelico non ha questo intento.

Va però detto che la caratterizzazione dei personaggi è fatta con discrezione e credibilità, senza troppe concessioni al romanzesco e nessuna provocazione. La Samaritana al pozzo, per fare un esempio di facile controversia, è accompagnata nella rappresentazione prima e dopo l’incontro con Gesù con scene di fantasia, ma i suoi atti e la sua figura rimangono coerenti con la ricerca insoddisfatta prima e la gioia dell’incontro poi.

Usi e costumi dell’epoca sono ricostruiti con sostanziale fedeltà e accuratezza, con qualche incongruenza che vedremo.

La colonna sonora e la grafica sono pregevoli: molto bella la sigla iniziale e discreta la presenza musicale nel corso della narrazione.

Prospettiva

Il pregio maggiore però è un altro, e cioè che il punto di vista della narrazione è quello di coloro che incontrano Gesù di volta e l’effetto su di loro del suo messaggio: si scava nelle loro aspirazioni e frustrazioni, si osserva come le loro debolezze vengono accolte da Gesù e come la loro vita ne viene trasformata.

Non c’è il racconto biografico della vita di Gesù, e infatti la narrazione comincia con l’inizio della sua vita pubblica, con qualche flashback sull’infanzia e sull’antica storia di Israele (per altro ben fatti).

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Questa prospettiva suggerisce una riflessione sulle vicende di chi anche oggi viene in contatto col vangelo: il tormento della ricerca in Nicodemo (che alla fine non riesce a prendere una decisione radicale); la nevrosi di Matteo il pubblicano, salvato dalla marginalità in cui è confinato e profondamente capito e amato da Gesù; l’impulsività di Simone, da tutti ritenuto inaffidabile e da Gesù incaricato di essere responsabile degli altri (e, a modo suo, lo diventa); la dedizione di Maria di Magdala che, liberata dai sette demoni, deve tutto a Gesù e solo teme che il suo affetto possa essere mal interpretato dagli altri (ma di questo Gesù non ha paura!); e Maria, la madre e discepola, la quale parla e agisce con spontanea disinvoltura (il che non è ovvio).

Quanto detto fin qui basterebbe, a nostro avviso, a fare di The Chosen un’impresa apprezzabile.

Aspetti di limite

Dimenticatevi una lettura storico-critica dei vangeli. Tutto è preso letteralmente: dai miracoli (anche se non si indulge a rappresentazioni strabilianti e non ci sono effetti speciali) alla consapevolezza di sé che Gesù manifesta fin dall’inizio, con una pre-scienza e un’onniscienza a volte un po’ fastidiose (conosce la sua missione e l’evoluzione della sua storia, conosce da prima le persone che incontra…), alla stessa origine degli scritti evangelici (Matteo, Marco, Luca e Giovanni sono rappresentati, in un flashforward, mentre scrivono di loro pugno la narrazione degli eventi, dopo la Pasqua, e addirittura prendono appunti mentre si trovano con Gesù).

Insomma, il cosiddetto «filtro post-pasquale» (cioè la reinterpretazione che gli evangelisti danno della vicenda di Gesù a partire dagli eventi della Pasqua) è mantenuto pienamente. Non era pensabile diversamente, del resto, considerando i soggetti che hanno partecipato all’impresa.

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Qualcuno ha eccepito riguardo le presenze femminili tra i discepoli di Gesù, ritenendole concessioni al femminismo contemporaneo, ma è certo, in realtà, che ci fossero donne al seguito di Gesù e che la loro presenza è stata successivamente occultata o ridimensionata da una mentalità patriarcale.

Un discorso in parte analogo può valere per la presenza di personaggi variamente coloured: non è impensabile che nella Palestina del tempo ci fossero anche degli africani, ma in ogni caso non è una presenza disturbante, se viene a significare l’universalità dell’annuncio evangelico.

Piuttosto, sul piano della ricostruzione storica, troviamo eccessivamente caricata la presenza dei Romani, che rappresentano il potere: si capisce che il loro ruolo sia importante in una fiction, ma nella realtà dei fatti i Romani non solo non si occupavano di quisquilie (come invece risulta da molti episodi), ma nemmeno circolavano sempre con l’elmo in testa, tutta l’armatura e il mantello rosso, anche se è molto scenografico (e di gusto maledettamente americano).

Anche i Farisei rappresentano, narratologicamente, gli antagonisti e la loro presenza di «cattivi» potrebbe sembrare caricata. Tuttavia nei vangeli i Farisei risultano i peggiori nemici di Gesù, con poche eccezioni che pure sono presenti: c’è il perverso Samuele, ma c’è anche Nicodemo, che cerca la verità.

Possiamo criticare anche l’eccessiva presenza della scrittura in un contesto culturale prevalentemente ancora orale e aurale: è poco credibile che Gesù avesse bisogno di preparare per iscritto il Discorso della Montagna o che i pescatori e tantomeno le donne avessero accesso alla scrittura.

Su piano più tecnico, da ultimo, è manchevole il doppiaggio: è disponibile in italiano soltanto nelle prime due «stagioni», ma soprattutto la seconda stagione è stata doppiata male, vuoi per fretta vuoi per risparmio. Un peccato.

the chosen

A proposito di linguaggi

La cosa più importante è che il racconto funziona e che il messaggio passa.

Dobbiamo tornare ai cicli di affreschi delle antiche chiese per far conoscere a tutti il racconto biblico. Capita che un bambino di sei anni, nato e cresciuto in Italia, venga al battesimo della sorellina e mi chieda, guardando il crocifisso, quale strano uccello sia: anche da questo abbiamo la misura di quanto sia necessario uscire dal catechismo e dalle omelie per tentare forme nuove di trasmissione di una cultura religiosa di base, anche se si tratta sempre di operazioni delicate.

Oggi i cicli di affreschi sono le fiction, anche le fiction. E pazienza se non tutti sono Giotto o Michelangelo. Un risultato discreto, come questo, è già un’ottima cosa.

settimananews.it

Italia. Migliore film su Gesù non è mai stato girato

(Giovanni Maria Vian – Domani) La sceneggiatura di Carl Theodor Dreyer pubblicata da Iperborea. Sono tanti i film su Gesù, spesso suggestivi, alcuni memorabili, ma il più bello è rimasto sulla carta di una sceneggiatura coinvolgente e può essere soltanto immaginato.
A pensarlo e a documentarsi sin dall’inizio degli anni Trenta, poi a scriverlo fu colui che – a ragione – è da molti considerato il regista più grande della storia del cinema, il danese Carl Theodor Dreyer, scomparso settantanovenne nel 1968, quando il progetto sembrava ormai alla vigilia della realizzazione. Dunque, davvero “il film di una vita”, come recita il sottotitolo di Gesù (Iperborea), che pubblica per la prima volta la versione più ampia della sceneggiatura, tradotta in italiano a metà degli anni Sessanta. La storia del testo, curato da Marco Vanelli e con una postfazione di Goffredo Fofi, è tormentata e resta il desiderio di saperne di più. La sceneggiatura fu data a Vanelli dal gesuita Virgilio Fantuzzi, il critico cinematografico della Civiltà Cattolica.
Questi a sua volta aveva avuto il testo dal confratello Carlo Maria Martini al quale «era stato consegnato dalla Rai per un parere di coerenza biblica e di opportunità ecclesiale», parere di cui però non vi è traccia.
Ma come si arrivò a questo punto? L’approdo in Italia, suggerito da amici, dipese dal venir meno della fiducia in un impresario statunitense, Charles Blevins Davis, che Dreyer conobbe nel 1949. Il rapporto però si trascinò per sedici anni perché Davis trattava il regista «come un postulante importuno, rinnovando ogni tanto vaghe promesse». Si tradusse allora dall’inglese la sceneggiatura completa – il cui dattiloscritto con interventi autografi di Dreyer è sul sito dedicato al regista (carlthdreyer) – ma alla Rai se ne parlò soltanto nel 1967, troppo tardi. Già nel 1969 comunque, un anno dopo la morte del regista, Einaudi pubblicò un testo più breve di quello edito dall’attuale curatore, che ha comunque confrontato le due versioni.
Dialogo aspro
Luterano non praticante, Dreyer fu sempre affascinato dalla figura di Gesù: «Credeva in un Dio cosmico, presente nelle cose e in noi, un Dio da raggiungere faticosamente, duramente. Una entità con la quale stabilire un dialogo che si sa a priori contorto, aspro, contraddittorio», raccontò poco dopo la morte del regista il figlio Erik.
Questi sottolineò il «bisogno di religiosità e di spiritualità» del padre che emergeva «da tanti frammenti della sua vita, dalla sua silenziosa lezione morale, dal senso profondo di giustizia da cui era animato, dai rapporti severi che aveva con le persone, da come ama¬va serenamente – da saggio – la vita, da come voleva non andasse sciupata. Dalla concezione quasi monastica che aveva del suo lavoro, dal disprezzo per il denaro, dall’odio per i filistei». Una descrizione che spiega implicitamente le difficoltà trovate nel realizzare i suoi capolavori. Dreyer affrontò il lavoro nel modo più difficile, non scegliendo uno dei quattro vangeli canonici (come Pasolini, che decise di rappresentare il racconto secondo Matteo), ma combinandoli insieme – così avrebbe poi fatto Zeffirelli – in un tessuto attendibile che il regista danese ricostruisce con rigore storico e intuizioni artistiche sorprendenti.
Come l’evangelista Marco, autore del vangelo più breve, e come Giovanni, il testo che più riflette sulla figura di Cristo, la sceneggiatura si apre con il suo battesimo nel Giordano, ignorandone la nascita e i trent’anni vissuti a Nazareth.
Un solo cenno è riservato a uno dei vangeli dell’infanzia. Durante l’entrata trionfale a Gerusalemme – dove Gesù viene accolto come il messia, l’unto di Dio destinato a regnare, pochi giorni prima di venire arrestato e messo a morte – «tre vecchi stanno ai bordi della strada. Potrebbe¬ro essere i “tre saggi d’Oriente”. Quando Gesù li avvicina, si gettano in ginoc¬chio, chinando la testa».
Sono ovviamente i magi, che secondo Matteo, si erano prostrati e avevano adorato il bambino nato a Betlemme.
È una presenza suggestiva, che ricorda quella immaginata di uno dei magi, Baldassare, che figura tra i protagonisti nel famosissimo «racconto del Cristo» portato al cinema da Wyler sulla base del Ben-Hur di Wallace.
Un altro cenno è riservato alla popolarissima leggenda apocrifa della Veronica, la donna che durante la salita di Gesù al Golgota, impietosita, chiede a un soldato: «Guarda com’è sudato. Posso asciugargli il viso?». Il regista commenta: «Poiché la donna ha un aspetto piacevole e benevolo, il soldato acconsente». Nulla di più.
Un lavoro lungo
Lo scenario è infatti quello segnato dall’occupazione romana, paragonata a quella hitleriana dei paesi invasi prima e durante la seconda guerra mondiale, e dal movimento di resistenza degli zeloti che cercano di utilizzare ai loro fini il predicatore di Nazareth e il consenso che riscuote tra il popolo. Su questo sfondo Dreyer intreccia con cura e sapienza la narrazione dei quattro vangeli, e la ravviva evocando diverse parabole. E ci si può solo immaginare come il regista – sicuramente in bianco e nero, come tutti i suoi film dove l’alternanza tra la luce e le tenebre è resa da una fotografia abbagliante – avrebbe rappresentato quanto descrive con asciutta emozione. Come nella chiamata degli apostoli: «Pietro lo guarda sorpreso. Come poteva quest’uo¬mo sapere il suo nome? Sta per chiederlo al fra¬tello, ma Andrea scuote la testa a indicare che non può aiutarlo. In quel momento, Gesù si vol¬ta verso Pietro e tra i due nasce un legame che non si spezzerà mai».
O, ancora, in una scena dove «Pietro s’arrampica per la salita e vede Gesù nella pianura sottostante, inginocchiato e assorto in preghiera. Pietro è profondamente scosso alla vista di Gesù, e una forza interiore sembra tra¬sformare il rozzo pescatore. Una luce interiore illumina l’uomo e riflette la nuova purezza che ha trovato. Avanza ancora brevemente e si distende sull’erba aspettando Gesù». Nella sceneggiatura non vi sono tracce del lavoro preparatorio, ma questo deve essere stato lungo e accuratissimo, perché profonda è la conoscenza dei testi biblici e delle loro interpretazioni più probabili. Gesù era già in uno dei primi film di Dreyer, Pagine dal libro di Satana, del 1921, ed è alla fine del decennio, dopo La passione di Giovanna d’Arco, che il regista inizia a scrivere questa sceneggiatura, mai più abbandonata. Nella sua visione il maestro di Nazareth è un giudeo vicino ai farisei ma la sua predicazione si staglia unica nell’ebraismo del tempo, perché lo rinnova e lo allarga. Soprattutto, lo apre alla considerazione delle donne – che ritornerà nel suo ultimo film, Gertrud – e all’amore dei nemici. Le parabole s’intrecciano al racconto, spiegate meglio che in tanti commenti. Così la parabola della moneta perduta – mai raccontata in un film – che viene collocata dopo la chiamata di Levi e l’incontro di Gesù con altri esattori delle tasse.
Amico dei peccatori
Questa vicinanza ai peccatori stupisce i farisei, che Dreyer considera comunque con simpatia: «Lo scopo di questa parabola è di darci la sensa¬zione di come una piccola moneta sia divenuta il centro di attenzione per il fatto di essere stata persa e ritrovata. Come la donna si rallegrò mol-tissimo del fatto di averla ritrovata, così Gesù si rallegra enormemente per ogni peccatore che torna a lui. E come la donna trovò la moneta nel buio e nello sporco, così Gesù cerca i peccatori nello sporco e nel buio di questo mondo».
Molti sono i miracoli, che il vangelo di Giovanni chiama «segni» e che Dreyer tiene a spiegare sempre come disturbi psichici. Ma nell’episodio della trasfigurazione parlano sorprendentemente sia Mosè – come nella statua di Michelangelo, il cui nome è annotato dal regista – che Elia.
«In verità, tu sei il solo Figlio di Dio, scelto per stabilire il regno di Dio in terra» dice il primo, «e forza ti sarà data per affrontare tutto quello che verrà» aggiunge Elia. E, come la trasfigurazione, viene raccontata senza tentare spiegazioni di tipo razionale la resurrezione di Lazzaro. Consapevole di non poter rappresentare la resurrezione, al centro nel 1955 dello sconvolgente Ordet («La Parola»), Dreyer sceglie di concludere il film con la crocifissione: «Gesù muore, ma con la morte portò a termine l’opera che aveva iniziato in vita. Il suo corpo fu ucciso, ma il suo Spirito viveva. I suoi insegnamenti immortali portarono agli uomini di tutto il mondo la buona novella di amore e di carità preannunciata dagli antichi profeti ebrei». 

La vera storia del Crocifisso di don Camillo

Settant’anni fa usciva il primo film della saga ispirata ai racconti di Giovannino Guareschi diretta dal regista francese Duvivier. Quello utilizzato sul set stava a Cinecittà, ora si trova a Brescello ed è una copia del Cristo custodito nella chiesa di Busseto: «I fedeli vengono qui e si confidano con lui, proprio come nel film», racconta il parroco don Luigi Guglielmoni

in Famiglia Cristiana

Della saga di don Camillo e Peppone si sa molto. Del “Crocifisso parlante” con il quale dialoga il pretone burbero e generoso inventato da Giovannino Guareschi in Mondo piccolo assai meno. Il 15 marzo 1952, settant’anni fa, usciva il primo film della saga che portò al cinema la bellezza di oltre 13 milioni di spettatori, risultando una delle pellicole più viste di tutti i tempi. Un successo che ben presto varcò i confini italiani sbarcando in Francia, Germania, Svezia, Stati Uniti, Inghilterra (dove la voce narrante era quella di Orson Welles) fino ad arrivare al Don Kamiro proiettato nel 1954 in Giappone.

E pensare che nessun regista italiano contattato dalla produzione accettò di girare Don Camillo: troppo controverso in termini politici, troppo rischioso in un periodo dove l’opposizione tra Pci e Democrazia Cristiana era all’apice della tensione. Dissero di no Mario Camerini, Vittorio De Sica, Luigi Zampa e Renato Castellani. Venne sondata anche Hollywood, dove la sceneggiatura fu molto apprezzata. Frank Capra si disse interessato ma era troppo impegnato in quel periodo. La scelta, alla fine, cadde sul francese Julien Duvivier che cambiò in parte la sceneggiatura, scatenando le ire di Guareschi che non era mai soddisfatto di come le sue indicazioni venivano realizzate nelle riprese.

Lo scrittore diceva che «il mio pretone e il mio grosso sindaco li ha creati la Bassa. Io li ho incontrati, li ho presi sottobraccio e li ho fatti camminare su e giù per l’alfabeto». Logico che il film dovesse essere girato nella Bassa parmense, bagnata dal Po e terra di grandi italiani, a cominciare da Giuseppe Verdi. Guareschi volle aprire il suo ristorante proprio accanto alla casa natale del Maestro, a Roncole di Busseto, per poter stare, diceva, “all’ombra di un grande”. Ora è sede dell’Archivio curato con grande dedizione dal figlio Alberto, custode tenero della memoria del padre che riposa nel piccolo cimitero di fronte insieme alla moglie Ennia (la Margherita dei suoi racconti) e la figlia Carlotta (la Pasionaria).

Dove girare dunque il film? Julien Duvivier non era convinto dei paesi indicati da Guareschi, come Fontanelle, Roccabianca (dove lo scrittore era nato nel 1908), Polesine, Busseto e decise di far perlustrare il circondario alla ricerca del paese giusto. «Ici, Ici voilà le pays», esclamò entusiasta il regista francese quando vide piazza Matteotti a Brescello, Reggio Emilia, dove è ancora possibile ammirare la campana Sputnik, il carro armato americano e la bicicletta di Don Camillo.

E il celebre Crocifisso che ora si trova nella chiesa ma arriva da Cinecittà come materiale di scena della saga e che qualche anno fa l’allora parroco di Brescello don Evandro Gherardi, ispirandosi proprio ai racconti di Guareschi, decise di portare in processione dal centro del paese fino alle rive del Po per chiedere a Dio la protezione dagli effetti devastanti delle piene del fiume e dalla siccità, un problema che quest’anno è diventato particolarmente drammatico. «Poi», racconta, «l’ho portato in processione, da solo, in una piazza vuota, nella Via Crucis del Venerdì Santo, durante il lockdown del 2020».

Duvivier nel suo peregrinare nella Bassa aveva visto il Crocifisso conservato nella Collegiata di San Bartolomeo a Busseto, la chiesa dove nel 1836 Verdi sposò la sua prima moglie, Margherita Barezzi, e se ne innamorò perché lo trovava perfetto per il film. Perché il Cristo ha la testa lievemente girata sul lato destro, come se stesse interloquendo con don Camillo e volesse voltare la testa quando il prete gli dice qualcosa su cui non è d’accordo, e un corpo longilineo e dalle lunghe braccia sottili, quasi per abbracciare tutti. Oggi svetta nella prima cappella a sinistra risalente al 1642 e restaurata nel 1846. Per questo sul sagrato della chiesa di Busseto ci sono i cartonati di don Camillo, interpretato dal mitico Fernandel, e Peppone, Gino Cervi.

«Si tratta», spiega il parroco di Busseto, don Luigi Guglielmoni, «di un Crocifisso ligneo, di grandi dimensioni, degli inizi del 1400, ottimamente conservato. Forse in origine era il Crocifisso dell’altare maggiore della bella chiesa iniziata nel 1339 per volere del marchese Uberto Pallavicino, poi ampliata e riconosciuta “Collegiata” con Bolla papale del 9 luglio 1436». Davanti all’icona c’è un cartello che spiega cos’ha a che fare con i film su don Camillo e Peppone.

«Il Crocifisso resta lì, in alto e silenzioso, invitando a sostare un momento e ad alzare lo sguardo oltre l’immediato», riflette don Luigi, «Guareschi è stato geniale nel far dialogare il Crocifisso con don Camillo. Ma quel Cristo in croce continua a “parlare” a quanti ogni giorno vengono ad accendere un cero, a consegnargli la propria croce e a cercare speranza».

Per girare il film, Vivier fece scolpire un Crocifisso sul modello di quello di Busseto in legno di cirmolo, un legno leggero perché Fernandel faceva fatica a portare pesi, con le teste di legno intercambiabili a seconda che nel film Gesù dovesse ridere, piangere o arrabbiarsi nei dialoghi con il prete. Finito il film, se ne erano perse le tracce. Poi è stato ritrovato in un magazzino di Cinecittà. I cittadini di Brescello hanno voluto riportarlo nella loro città, dove è stato restaurato e pulito e da cinquant’anni si trova nella chiesa parrocchiale, dove molti vanno a pregare e accendere un cero.

Busseto ha ispirato, Brescello ha conservato. Da oggetto di scena a oggetto di culto e di devozione popolare. Una storia che sarebbe piaciuta a Guareschi al quale San Giovanni XXIII, lettore avidissimo dello scrittore, voleva affidargli di scrivere un commento al Catechismo. Giovannino conobbe di sguincio l’idea papale. E se ne stupì.