ARTE E SACRO L’energia della sintesi: solo così l’altare è unico

Identificare il termine sintesi con una categoria statica è un rischio agevolato dalla nostra tentazione di individuare dei punti fermi cui ancorarci per limitare le fatiche derivanti dalla gestione del libero arbitrio. Questa interpretazione dà corpo al fatidico e del tutto ipotetico punto d’arrivo di composizione ordinata e riassuntiva della complessità, di cui la sintesi rappresenta l’agognato packaging finale. Ho fatto una sintesi, cioè sono riuscito a trovare una ridefinizione compressa e schematica di istanze articolate e dispersive, non di rado confliggenti, che impedivano un prodotto finito e soprattutto contingentabile. Che siano pensiero, forme, gesti o eventi non importa, il meccanismo è identico.

Questa, ne sono convinto, è l’accezione più diffusa della sintesi.

Io la penso in modo del tutto opposto. Quel prodotto finito, quella idea di risoluzione che finalmente se ne sta buona lì in un angolo, non è sintesi. È un surrogato che confonde la riflessione per un comodino abbastanza stabile per appoggiarci le cose. Un artefatto che mi riporta in modo preciso dentro le tematiche dell’arte e del sacro, in cui spesso assistiamo a esercizi di stile venduti per significato, del tutto intercambiabili con un qualsiasi tipo di arredo, da supermercato o design non fa differenza. Inutile dichiarare concetti di ogni sorta quando la forma proposta come sintesi è in realtà l’assemblaggio di un armamentario privo di spinta vitale.

Sintesi è tutt’altro. Sintesi è il concretizzarsi più radicale di una dinamica generativa caratterizzata da un costante flusso reciproco di espansione eccentrica e condensazione concentrica. È espansiva in quanto produce nuove entità a partire da elementi preesistenti e la complicità di eventuali catalizzatori. Attraverso il processo di sintesi l’esistente si espande in forme nuove e al tempo stesso profondamente legate a ciò che le precede, da cui traggono nutrimento ma, elemento fondamenta-le, da cui si differenziano in modo definitivo. La sintesi in questa accezione ha un valore quasi magico, sempre stupefacente e destabilizzante; basti pensare a fenomeni come la fotosintesi clorofilliana che, utilizzando prodotti di scarto dell’uomo come l’anidride carbonica, genera il proprio nutrimento restituendo ossigeno, prezioso per proprio per l’uomo. Il dato della circolarità è chiaro, come anche quello della trasformazione continua. L’aspetto concentrico della sintesi non si deve intendere come riduttivo e semplificativo. È una sorta di fusione che sacrifica elementi corollari. Questo è già evidente nella accezione hegeliana in cui la sintesi che segue a tesi e antitesi consiste in un superamento che risolve le opposizioni generando una terza entità: non una replicazione delle due precedenti né la loro pedissequa somma algebrica. L’unità formale che deriva da questo processo è dialogica, dinamica, evolutiva: mai statica.

Tornando al sacro, se anche tutti i percorsi formali e simbolici che lo caratterizzano dovrebbero essere permeati da una elaborazione simbolica di questo tipo, ve ne è uno che riassume in sé tutte le tematiche al riguardo. Neanche a dirlo, questo è l’altare, della cui fecondità non finisco mai di stupirmi.

L’altare è la rappresentazione fenomenologica perfetta della sintesi. O così, perlomeno, dovrebbe essere. In realtà molto spesso viene confuso con una stagnazione monolitica o disgregata che di sintetico, dialogico, vitale, non ha nulla. Mi trovo a confrontarmi spesso con una mentalità secondo cui l’altare, che significa fede, che significa idea di relazione con il significato, dovrebbe essere la monade risolutiva e impenetrabile in cui trionfa quella che chiamerei fede dal carattere euclideo, una fede rigorosamente ortogonale e profondamente immobile. È sorprendente trovarsi a discutere nel 2021 di concetti di statica che forse non erano presi come assoluti neanche da un Neanderthal. Oggi abbiamo la fisica quantistica, le matematiche non euclidee da almeno un paio di secoli di svolta gaussiana, abbiamo in definitiva la perfetta constatazione di come stasi e stabilità siano termini dinamici. Eppure, niente. La tentazione di fissare ogni cosa secondo parametri del tutto soggettivi e funzionali a una esistenza da non mettere mai in discussione, soprattutto nelle proprie acquisizioni di posizione, impedisce di comprendere e accettare lo stesso concetto di dinamica, trasformando l’idea di altare in un evento irreale, distante, sostanzialmente antiumano. Di fatto ideologico, di quella idea di cui si nutre con voracità la mentalità accademica.

Il processo sintetico di cui l’altare dovrebbe essere simbolo è la dinamica stessa del percorso liturgico, architettonico e assembleare della chiesa. Voglio spingermi oltre in questo parallelo tra sintesi e altare. Entrambi non sono monadi, ma non basta. Allo stesso modo non sono organismi analitici, articolati in contrappunti il cui dinamismo disarticola l’unitarietà che dovrebbe caratterizzarli. Sintesi-altare non sono sinonimi di semplicità, stasi, giustapposizioni analitiche. Sono un processo sempre misterioso che fa della complessità il corpo unico di un evento originale.

In questi mesi sto lavorando al disegno di un altare che appare sbilanciato ma in realtà è perfettamente solido, centrato, simmetrico. La struttura è ottenuta dalla trasformazione dell’impianto della chiesa per il quale è pensato (un edificio che si presenta come cubo ruotato di 45 gradi) attraverso una torsione che arriva al quadrato “risolto” della mensa che abbraccia l’ara. Una forma fluida, complessa: sintetica. Questo rappresenta perfettamente quella che definisco “solidità dinamica”. Un altare assolutamente stabile anche se girandogli intorno sembra quasi sbilanciarsi? Ma se il “succo” della cristianità non fosse sbilanciato verso di noi, per noi sarebbe come morto.

La sintesi e l’altare, quindi, portano con sé anche un aspetto di meraviglia. Pur generati inevitabilente all’interno di un contesto, non provengono da un metodo applicato in maniera meccanica. Ogni sintesi, così come ogni altare, ha il suo metodo specifico, non ripetibile, prezioso. Ogni sintesi, così come ogni altare, deve portare in sé il più grande dono e la più grande responsabilità che abbiamo in eredità dalla nostra storia e nella nostra storia. Quel dono è l’identità, la nostra, non quella di altri, lo scrigno dove possiamo raccogliere tutti i tesori e tutte le nefandezze possibili a seconda della sintesi che operiamo sulla nostra giornata. Quella che ha un inizio e che non avrà più fine.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Sintesi non è riduzione, ma il concretizzarsi radicale di un processo fluido e generativo L’altare è la dinamica stessa del percorso liturgico e architettonico della chiesa. Entrambi sono un processo misterioso che fa della complessità il corpo di un evento originale

Raul Gabriel, progetto di altare / Courtesy dell’artista

Architettura: Fondazione Frate Sole, decretati i vincitori della IX edizione del Premio per progetti di chiese di culto cristiano. Cerimonia il 2 ottobre

Si terrà sabato 2 ottobre, a Pavia, la premiazione dei progetti vincitori della IX edizione del Premio europeo di architettura sacra promosso dalla Fondazione Frate Sole. Oggi sono stati diffusi i nomi dei premiati, individuati dalla Giuria riunitasi a partire dal 18 giugno scorso. “La Giuria – si legge in una nota –, attraverso successive selezioni, ha potuto esprimere una graduatoria condivisa; si segnala che, oltre al progetto vincitore e a quelli menzionati oggetto di una articolata valutazione, altri progetti con motivi di interesse sono stati considerati ma non hanno proseguito l’iter in virtù di una non condivisa valutazione della Giuria”.
Il primo premio è stato attribuito a Francesco Menegato per la tesi di laurea “Abitare la soglia. La liminalità dello spazio sacro nel progetto della nuova chiesa di S. Giovanni Battista in località Pile (L’Aquila) – Italia”. Menzioni sono assegnate a Lorenzo Del Mastio per la tesi di laurea “Una cella modellata dalla luce. La nuova cappella della beata Vergine Maria Immacolata del Galluzzo, Galluzzo (Firenze) – Italia”, a Maria Giada Di Baldassarre per la tesi di master “Post earthquake community. Una nuova cappella devozionale dedicata alla Santa Vergine Maria a Visso (Macerata) – Italia” e a Federica Frino per la tesi di laurea “La nuova chiesa di San Tommaso a Pontedera (Pisa) – Italia”.

Agensir

Architettura / Gli architetti: mettete più alberi nei vostri OSPEDALI

«Più che edifici: città nella città». Così descrive gli ospedali Stefano Capolongo, che nel Politecnico di Milano si occupa di Progettazione delle strutture sanitariee da anni dirige su questo tema un Master coordinato anche con le Università Statale e Cattolica. «Gli ospedali sono strutture di altissima complessità, in cui coesistono le attività più diverse: residenze, luoghi di commercio, settore terziario, impiantistica… ».

Basti ricordare che non chiudono mai, sono aperti 24 ore al giorno e dispongono di macchinari sofisticati e in continua evoluzione, per le terapie come per la gestione delle condizioni ambientali. Utilizzano farmaci di diversa provenienza che vanno acquistati, conservati, opportunamente utilizzati. Come gli alberghi, hanno cucine, sale da pranzo, letti, lavanderie ecc. Vi opera una popolazione di medici, infermieri e altro personale addetto alla manutenzione (dalla disinfezione dei locali all’efficienza delle apparecchiature), alla gestione dei servizi, stagisti, studenti… E gli utenti possono presentare i problemi più diversi, di carattere fisico e psichico.

«Come luogo protesico, l’ospedale dev’essere tale da sopperire a carenze o menomazioni di ogni tipo, fisico o psichico, momentanee o permanenti – spiega Capolongo –. Così che il malato si trovi in condizioni di sicurezza, che la sofferenza sia alleviata e ogni persona sia posta nelle condizioni psicofisiche più adatte a recuperare al meglio la salute, ovvero quell’insieme di benessere fisico, psichico, sociale».

L’architettura non è estranea a questo compito. E in questi anni recenti si è dimostrato come essenziale sia che allo spazio costruito si associ il verde. La presenza di piante ha una tale influenza sulle condizioni del malato che si è sviluppata l’approccio chiamato «giardino terapeutico» (healing garden). L’idea fu proposta per la prima volta nel 1984, in un articolo pubblicato sulla rivista “Science” da Roger Ulrich, attualmente docente di architettura al Centro per la ricerca sugli edifici per la salute della Chalmers University di Göteborg (Svezia), ritenuto il massimo esperto in materia. L’articolo si intitolava La vista dalla finestra può influire sulla guarigione dopo un intervento chirurgico. Ulrich ha riferito che l’idea per la ricerca compiuta derivò dalla sua esperienza personale: da ragazzo soffrì per una nefrite che lo costrinse a lunghi periodi di degenza a letto. Durante i quali si sentì sostenuto soprattutto dal fatto di poter guardare dalla finestra le fronde di un abete.

Ricerche successive compiute in molti Paesi hanno dimostrato che l’effetto curativo della visione delle piante vale per tutti. «Ha preso piede anche l’ortoterapia, ovvero il giardinaggio per scopi terapeutici. Con diverse specializzazioni: per esempio per i malati del morbo di Alzheimer vi sono i giardini aromatici, perché in loro la percezione olfattiva è la meno colpita». Come sostiene Mary Jo Kreitzer, medico dell’università del Minnesota, «l’aspetto più importante nei giardini terapeutici è che vi siano piante vere, e fiori, magari anche dell’acqua tranquilla. La presenza di statue o di altri artefatti non porta effetti benefici simili a quelli che provengono dalla natura». La Kreitzer spiega inoltre che le piante e gioiosi gorgoglii d’acqua sono utili per isolare i luoghi di degenza dai rumori tipici della città: anche questi infatti hanno un effetto negativo sulle condizione psichiche delle persone.

I giardini curativi si vanno diffondendo: è usuale che i nuovi ospedali siano dotati di piante, sia all’esterno, sia all’interno. In quest’ultimo caso con grandi serre, in cui si possa passeggiare. E quelli già esistenti cercano di dotarsene. Qualche esempio: il nuovo ospedale di Biella (progetto “Una 2 architetti associati”) dispone di un tetto completamente a verde ed è strutturato in modo tale da favorire la vista sulle vicine montagne. AMilano l’Istituto dei Tumori si è dotato di un tetto verde. In Svizzera lo studio di Silvia Gmür (specializzato in progetti ospedalieri) sta realizzando il nuovo nosocomio civico di Soletta, con una struttura in pianta a forma di “L” disposta attorno al luogo ove sorgeva il vecchio ospedale: questo sarà abbattuto e al suo posto vi sarà un ampio giardino.

Perché, sostiene Stefano Capolongo, gli ospedali non possono invecchiare: «Il costo per costruirne uno nuovo equivale a quello per gestirlo un solo anno. Devono essere strutture flessibili, capaci di aggiornarsi. Ma dopo cinquant’anni sono obsoleti. Al punto che per esempio il nuovissimo Martini Hospital di Gröningen in Olanda è stato pensato per essere sostituito tra una cinquantina di anni».

E le vecchie strutture di valore storico? «Com’è accaduto per la Ca’ Granda, l’ospedale costruito a Milano da Filarete a metà del XIV secolo, che resta come sede universitaria, possono cambiare destinazione. Centri di ricerca, luoghi di studio, biblioteche. Ma non luoghi per la terapia». Questi dovranno sempre esser all’avanguardia. E soprattutto pieni di piante che ricreino l’ambiente naturale, quello più consono alla vita.

Avvenire

La Sagrada Familia, una lode a Dio. E un libro di Mons. Ghirelli che spiega come dovrebbero esserlo tutte le chiese

“Una lode a Dio”. Così Benedetto XVI ha definito la Sagrada Familia. Una chiesa monumentale, in costruzione da circa 128 anni, che è sopravvissuta al suo geniale inventore, l’architetto catalano Andoni Gaudì, morto investito da un tram mentre il suo capolavoro era ancora in costruzione. E “una lode  a Dio” devono essere tutte le Chiese. Ci sono dei precisi canoni liturgici da rispettare. E monsignor Tiziano Ghirelli, responsabile dell’ufficio diocesano per i Beni Culturali della diocesi  di Reggio Emilia ha voluto dedicare un intero volume all’analisi degli edifici ecclesiali. Con l’obiettivo – spiega – di “Tentare di capire se e come gli spazi sacri e i loro complementi rispondano alle istanze che, a partire dalla Sacrosanctum Concilium, sono richieste per favorire una ‘actuosa participatio’ dell’intera comunità cristiana al fare liturgico” Il libro, Ierotopi cristiani. Le chiese secondo il magistero, è edito dalla Libreria Editrice Vaticana.

Ghirelli Tiziano – Ierotopi cristiani. Le chiese secondo il magistero>>> scheda online su ibs con il 15% di sconto

Ierotopi cristiani. Le chiese secondo il magistero Titolo

Ierotopi cristiani. Le chiese secondo il magistero

Autore Ghirelli Tiziano
Prezzo
Sconto 15%
€ 93,50   Spedizioni gratuite in Italia
(Prezzo di copertina € 110,00 Risparmio € 16,50)

E il fatto che alla presentazione sia presente anche il cardinal Lluìs Martìnez Sistach, arcivescovo di Barcellona, è significativo. Anche perché la Sagrada Familia, la “prima delle cattedrali gotiche di una nuova era” come amava definirla Gaudì, è un’opera densa, perché piena di simboli. L’esatto contrario di molte cattedrali moderne, spoglie, geometriche, nelle quali a malapena si riconosce l’altare. Tanto che c’è chi ipotizza che è proprio nella freddezza di queste cattedrali, nelle loro spigolature, che un sacerdote può perdere la fede in Dio.

Ghirelli non è un purista dell’arte sacra. Ne è un esempio il controverso restauro della cattedrale di Reggio Emilia – che grande spazio ha nel libro – avvenuto sotto i suoi auspici. Il restauro ha creato molte polemiche sui giornali, a partire proprio dalla foggia della cattedra episcopale di arte povera in legno e ferro dello scultore di Kounellis, smontata per “motivi di spazio” quando a Reggio Emilia si è insediato il vescovo Massimo Camisasca. Una sconfessione per l’opera di restauro, che presentava altre scelte “artistiche” che hanno destato polemica?

In una intervista al Sir dello scorso novembre, Ghirelli aveva parlato proprio dei problemi della recezione degli spazi sacri da parte delle persone. “Intorno a noi – aveva detto – si registrano risultati che creano una certa insoddisfazione e in non pochi casi lasciano perlomeno perplessi, soprattutto perché rivelano – contrariamente alle indicazioni date dai vescovi italiani, e non solo – una mancanza di collegamento di competenze. Spesso, infatti, l’architetto e il progettista vengono lasciati soli, perché non c’è una presenza liturgica, oppure c’è l’architetto e il liturgista ma non l’artista. Si fa fatica, insomma, ad andare nella direzione della complementarità dei ruoli, e questo metodo di partecipazione può compromettere i risultati. In positivo, però, tutto ciò può essere uno sprone – sull’esempio di quanto, concretamente, affermava e realizzava Paolo VI – a recuperare lo spirito di quella grande committenza ecclesiale che nei secoli ha fatto della Chiesa una componente essenziale dell’evolversi della storia dell’arte. Il rapporto tra la Chiesa e gli artisti – come si evince dallo splendido discorso pronunciato da papa Montini nel 1964, nella Cappella Sistina – è essenziale, anche per sollecitare gli artisti a produrre opere non da destinare a un museo, ma da inserire e utilizzare in un contesto liturgico”.

Di questo si trova esempio anche nella Sagrada Familia. Ad esempio, Etsuro Sotoo è uno scultore giapponese  che da oltre trent’anni si occupa delle statue dellafacciata della natività della Sagrada Familia, ed è soprattutto membro della Junta Constructora, l’equipe di artisti che in collaborazione con architetti, designer e ingegneri dirige i lavori dell’eterno cantiere modernista, e nel suo piccolo studio non lontano dalla chiesa fa nascere le idee per i modelli che poi verranno consegnati ad assistenti perché li realizzino coprendoli di maiolica in piccole tessere. E il fatto che sia un artista giapponese, contemporaneo, a far parte della Junta fa capire come alcuni concetti riguardanti i rapporti tra la Chiesa e l’arte non sono mutati con la contemporaneità. C’è sempre la necessità di un immaginario che si misuri con l’eternità e la tradizione deve si parlare all’uomo, evolversi, ma deve anche fare i conti con la liturgia.

Lo sa bene Jordi Faulì, da poco nominato architetto della Sagrada Familia. La nomina del quinto architetto capo della celebre cattedrale di Barcellona ancora incompiuta è forse il segnale di come tradizione e modernità vadano di pari passo nella costruzione di questa cattedrale. Come in una cattedrale medioevale, dove nessuno ricorda i nomi dei costruttori,  per essere architetto della Sagrada Familia bisogna dimenticarsi di se stessi e seguire il progetto che un altro ha iniziato. Al contrario della tendenza attuale, purtroppo presente anche all’interno della Chiesa,  dove è l’architetto stella che impone il “suo” stile anche sopra i valori simbolici propri della tradizione cristiana, Jordi Faulí è un architetto che in continuità con quattro generazioni costruisce la Sagrada Familia. Dalla prima pietra posata nel 1882 ad oggi, il progetto di Gaudì è rimasto intatto. E la speranza di Faulì è di terminare la costruzione della cattedrale nel 2026, per celebrare i cento anni della morte di Gaudì.

In una intervista a Radio Vaticana, Faulì stesso ha sottolineato il valore della continuità dell’opera. “E’ molto importante la continuità – ha detto – e il segno della continuità è stato sempre presente nella storia della Sagrada Familia. La stessa continuità che si ha nella costruzione di una qualsiasi cattedrale, dove ammiriamo l’edificio terminato, ma del quale non ci ricordiamo quali siano stati gli architetti, perché questo non è necessario. Qui, nella Sagrada Familia, c’è l’architetto ed è Andoni Gaudì. Dopo la sua morte, c’è sempre stata una continuità con lui su diversi piani: anzitutto la continuità nello studio, nelle indagini e nella fedeltà al progetto di Gaudì. In secondo luogo, la continuità nelle generazioni, nelle persone. Nella Sagrada Familia, hanno sempre lavorato architetti del secolo di Gaudì, architetti ormai di quinta generazione, e la conoscenza è stata trasmessa da una generazione a quella successiva”.

E ripercorriamola, questa cattedrale, per comprenderne la simbologia. Tre sono i libri dai quali Gaudì ha tratto ispirazione per la sua monumentale opera: il libro della natura, il libro della Sacra Scrittura e il libro della Liturgia. Da lì è partito per il suo intreccio architettonico, unendo realtà del mondo e storia della salvezza. C’è molto di liturgico nell’opera di Gaudì, molta attenzione per il dettaglio sacro, per il modo in cui la narrazione biblica viene resa presente nella liturgia. La Sagrada Familia è una chiesa sorta al centro di un chiostro e concepita come un luogo all’interno di un giardino (il Paradiso terrestre) nel quale Dio e l’uomo possono parlarsi faccia a faccia. Il chiostro non è dentro, come in tutta l’arte cristiana, ma è intorno. E fuori del chiostro, il deserto.

Per Gaudì, anche Barcellona era deserto. Avanti negli anni, si fece “monaco nella città”, con una vita di una semplicità disarmante, in una casetta a ridosso del cantiere. Ma ogni giorno la Sagrada Família cresceva di nuove pietre e lui gridava alla sua città che la nuova creazione è già iniziata, che il deserto inizia a fiorire.

Anche dentro l’edificio sacro, ci sono pietre, alberi e vita umana:  tutta la creazione doveva convergere nella lode divina. Allo stesso tempo, portò fuori i “retabli”, per porre davanti agli uomini il mistero di Dio rivelato nella nascita, passione, morte e resurrezione di Gesù Cristo. In questo modo, attraverso l’arte, Gaudì ha superato la scissione fra coscienza umana e cristiana. Non lo ha fatto con le parole o con la liturgia, lo ha fatto con la regolarità delle pietre.

Il solo vedere a distanza la chiesa dà un forte senso di sacro, come un vero e proprio richiamo. Era nelle intenzioni di Gaudì.  Le torri campanarie sono ciò che impressiona di più e subito chi per la prima volta si accosta alla Sagrada Família. Ce ne sono quattro per ciascuna delle due facciate laterali, In tutto dovranno essere diciotto: altre quattro sulla facciata principale; altre cinque sopra la crociera centrale, con la più alta dedicata a Cristo e le altre agli evangelisti; e infine una sopra l’abside, dedicata alla Madonna. Su ogni torre sono scolpite le parole “Sanctus” e, verso la cima, “Hosanna in excelsis”. Sono le parole del canto che introduce la grande preghiera eucaristica, la liturgia della Chiesa terrena e celeste che si celebra in ogni messa.

Niente manca di senso, nella chiesa progettata da Gaudí. Che avrebbe anche voluto orientare la chiesa verso il sole che sorge. Non gli fu possibile: la Sagrada Família è sorta sull’asse nord-sud. Allora ideò due facciate laterali, quella a oriente dedicata alla Natività e quella a occidente dedicata alla Passione. Se Cristo è il “sole di giustizia” e “il giorno che il Signore ha fatto” (Salmo 118, 24), allora entrare nella basilica e partecipare alla liturgia è vivere “in” questo giorno.

Gaudí, con le due facciate sulla Natività e la Passione, interpreta anche la Chiesa come “passaggio”. Mentre il sole che è Cristo passa attraverso la Sagrada Família da oriente a occidente, dalla nascita alla morte redentrice, la città degli uomini – a cominciare da Barcellona situata prevalentemente a ovest della basilica – è chiamata a fare il cammino inverso, dalla morte alla nuova nascita.

Dalla perdita delle sue radici a nuova nascita nella fede cristiana: è il cammino che dovrebbe fare l’Europa? Forse è dalla simbologia della Sagrada Familia che si può ripartire per riempire di senso lo spazio sacro, e ritornare alle radici della fede. Un percorso che si fa anche attraverso la bellezza. È proprio attraverso la bellezza che si può aiutare la partecipazione dei fedeli. “La bellezza della liturgia – aveva detto Ghirelli – nella sua dimensione terrena, deve essere un riflesso della bellezza perfetta, assoluta, della realtà celeste. Quello che diventa molto rischioso, complicato, è che il concetto di bellezza e la sua attuazione nella pratica è assolutamente soggettivo, perché ciascuno la realizza secondo i propri canoni. Ecco perché è importante avere una forte consapevolezza del proprio limite. Quando Giacobbe, dopo la lotta con l’Angelo, dice ‘è terribile questo luogo’, non fa riferimento a un luogo di minaccia o paura, ma alla consapevolezza di chi si rende conto del suo essere assolutamente impari nei confronti di tanta grandezza”.