Estate. Il mare di tutti, anche di chi ha la Sla. Così si riaccende la voglia di vivere

Patrizia è affetta da sclerosi multipla, grazie all’associazione salentina Sunrise onlus, a distanza di 15 anni dall’ultima vol ta, è tornata in acqua
Il mare è di tutti. Volontari di Sunrise in azione con i loro amici

Il mare è di tutti. Volontari di Sunrise in azione con i loro amici – Collaboratori

Avvenire

Patrizia vive a Bari ed è affetta da sclerosi multipla. Il mare lo vede tutti i giorni, ma solo dalla finestra. Grazie all’associazione salentina Sunrise onlus, a distanza di 15 anni dall’ultima volta, è tornata in acqua. Qualche minuto a contatto con le onde e corpo e spirito sono rinati: «Non ci sono parole per descrivere la mia felicità» sono le uniche parole che riesce a pronunciare, ma è l’emozione sul suo viso a dire tutto.

Se il mare in estate è la meta della vacanza per moltissimi, per le persone con disabilità come Patrizia è quasi sempre inaccessibile. Ma le barriere sono fuori, l’acqua marina per natura apre le sue acque a tutti e può diventare anche terapeuica. Sono proprio questi i due ingredienti alla base del progetto “Mare di tutti” che Sunrise onlus realizza da luglio a settembre al Lido Coiba a San Foca, nel comune pugliese di Melendugno: «Facciamo una cosa molto semplice, portiamo in spiaggia le persone con disabilità e patologie neurologiche. Stando insieme agli altri, a tutti gli altri, dai bambini che giocano agli adulti che leggono sotto l’ombrellone, tutti quanti superano le barriere culturali che ancora oggi imponiamo culturalmente e socialmente ai disabili. Ostacoli che solo in rarissime eccezioni le persone con Sla, la sclerosi laterale amiotrofica, con sclerosi multipla o con patologie neurologiche sanno di poter superare» spiega la presidente dell’associazione Maria De Giovanni, affetta lei stessa da sclerosi multipla.

Il progetto è iniziato gratuitamente cinque anni fa per alcune decine di persone, «ma è rimasto gratuito anche lo scorso anno, quando abbiamo avuto gente che arrivava da Roma, Torino e Milano per un totale di 500 partecipanti» aggiunge De Giovanni. “Mare di tutti” affronta la sfida dell’inclusione sociale portando persone con disabilità in acqua, ma ricorre alle onde salate dell’Adriatico anche per curare le patologie: «Da luogo “proibito” e irraggiungibile il mare è diventato lo spazio accogliente per la talassoterapia, che consiste in una fisioterapia effettuata direttamente in acqua, con il supporto di attrezzature specifiche per persone disabili e l’assistenza di fisiatri, fisioterapisti, cardiologi, psicologi, infermieri e volontari che si sono formati nell’approccio e nella gestione delle malattie neurologiche» spiega la presidente di Sunrise.

Questa esperienza è attiva sei giorni su sette nel lido di San Foca che è stato negli anni appositamente attrezzato con passerelle che arrivano fino al mare e carrozzine sulle quali sono state montate ruote in plastica per facilitarne lo scorrimento sul bagnasciuga e il galleggiamento in acqua. «Per diffondere questo messaggio inclusivo e queste pratiche terapeutiche, da fine luglio fino a settembre una volta alla settimana portiamo “Mare di tutti” in una diversa spiaggia del Salento, che viene opportunamente preparata per essere senza barriere per chiunque», racconta Maria De Giovanni che per questo progetto ha ricevuto l’encomio dal ministero della Salute e dal presidente della Repubblica è stata insignita del titolo di Ufficiale della Repubblica «per la sua instancabile attività di volontariato».

Il giorno prescelto per il “Mare di tutti (versione itinerante)” è il sabato e il pulmino dell’associazione passa a prendere chi non può spostarsi in autonomia: come Maurizio, che è stato il primo paziente delle nuove tappe itineranti al lido salentino di San Cataldo: «Veniamo da due anni di “isolamento nell’isolamento” per via delle le maggiori limitazioni subite in conseguenza della pandemia da chi come me ha la sclerosi o patologie neurologiche limitanti. Una situazione che però conoscevo già da 35 anni: tanto è passato dall’ultima volta che sono entrato in mare, nonostante ci viva a pochi metri. Essere di nuovo immerso nell’acqua è una sensazione che fa bene al mio corpo e alla mia anima e mi sento come tutti gli altri, parte di questo mare, che – conclude Maurizio – con la sua immensità, ci ricorda che può essere di tutti, senza barriere».

Giornata mondiale, con la «Carta» delle associazioni DISARMARE LA BUROCRAZIA DIRITTO DI NOI MALATI DI SLA

Se leggo la «Carta dei diritti delle persone affette da Sla» – diffusa dalle associazioni che si occupano di noi malati e delle nostre famiglie in occasione della «Giornata mondiale sulla Sla» di domani –, mi viene un po’ da piangere. Lo dico, credetemi, in tutta sincerità, non esagero. La Sla, a me, è stata diagnosticata il 20 marzo del 2017, e ormai sono – credo – in quello che si può definire l’ultimo stadio della malattia. Immobilizzato a letto, attaccato via tracheostomia al respiratore (con un altro di riserva nel caso si dovesse guastare), nutrito attraverso un buco che mi entra direttamente in pancia, non parlo più, posso usare il computer e scrivere grazie a un puntatore ottico che mi è stato regalato da amici, e sono bisognoso di assistenza continua. ‘Ultimo stadio’ non significa che muoio domani, così come sto potrei in teoria durare qualche anno: significa solo che ho sceso tutti i principali gradini di questa inesorabile patologia degenerativa. Non una bella esperienza. Ed è proprio l’aver percorso tutta questa strada tribolata a farmi dire che, quando leggo la «Carta dei diritti» di cui sopra, mi viene un po’ da piangere. Non parlo tanto della parte medica: già il fatto che per la Sla non c’è cura, e che alla fine il nostro è solo un vivere con le dita incrociate sperando che un giorno la ricerca ci dia la ‘bella notizia’, credo che dica tutto. Ci trasciniamo da un controllo all’altro sperando di non essere troppo peggiorati, inseguendo tutte le sperimentazioni possibili e immaginabi-li, spesso purtroppo truffe ben organizzate.

Quella che fa davvero piangere è la parte che riguarda l’assistenza, a noi e alle nostre famiglie, sulle cui spalle ricade tutto. E la cosa paradossale è che più peggiori, più avresti bisogno di assistenza, più il servizio pubblico ti abbandona al tuo destino.

Siamo ostaggi – noi e le nostre famiglie – di una burocrazia capace di essere assassina, tanto è capace di essere esasperante con le sue lentezze, i rinvii continui, i ‘vedremo’ e i ‘provvederemo quanto prima’. Una burocrazia che non sa, o finge di non sapere, che noi malati di Sla non abbiamo tempo di aspettare, che la degenerazione di questa ma-lattia è talmente rapida che tra una settimana quello che ti ho chiesto oggi potrebbe già non servirmi più, e che quando finalmente ti dà quello che è un tuo sacrosanto diritto lo fa quasi con condiscendenza. Una burocrazia che risparmia sulla nostra pelle, salvo poi distribuire ai suoi dirigenti premi di produzione sulla base proprio di quei risparmi. Che blocca i fondi per i caregiver, ossia i nostri familiari che si prendono cura di noi, ed è assolutamente impermeabile al livello di sfinimento a cui giungono mogli, figlie e figli. Una burocrazia che ti seziona e vuole sapere tutto di te, per darti in cambio nulla. Che ti tratta da suddito o, peggio, ti guarda con sospetto, quasi fossi un un ladro, un truffatore, uno che ‘ci prova’.

Potrei raccontare decine di episodi tratti dalla mia esperienza personale, e altrettanti dai moltissimi malati con cui sono in contatto e che, con me, oltre alla malattia condividono questo crudele Calvario. Dirò solo che la mia ultima frontiera si sta combattendo sul fronte dell’assistenza notturna, che mi viene negata ancora e ancora. A farlo è lo stesso ufficio che ha riconosciuto che ho bisogno di dodici ore di assistenza diurna, quasi che di notte io non debba essere guardato a vista come di giorno (e in effetti lo fa mia moglie). Dopo settimane e settimane di insistenze da parte di mia moglie, finalmente un giorno la responsabile dell’Unità operativa complessa-Percorsi della Asl Rm1 è venuta per valutare se le mie condizioni fossero tali da giustificare un’assistenza anche notturna, e – bontà sua – ha riconosciuto che ‘sì, in effetti…’. Nulla, tuttavia, si è smosso di un millimetro. L’unica cosa che è successa è che con tutto comodo, dopo oltre due settimane dalla valutazione, s’è svolta una ‘riunione apicale’ – bel nome, vero? – tra Asl e Municipio per vedere se e come sarebbe possibile reperire i fondi necessari… Peccato che non abbiamo chiesto soldi, ma solo assistenza notturna, unica cosa che serve alla mia sicurezza.

Ecco, nella Giornata mondiale della Sla pensiamo anche a queste cose.

Testimonianza. «Vi racconto la Sla. Non mi rassegno e vivo col sorriso»

Valerio Picheca parla per suo papà, Luigi, seguendo il movimento dei suoi occhi su una lavagna di plexiglass

Valerio Picheca parla per suo papà, Luigi, seguendo il movimento dei suoi occhi su una lavagna di plexiglass

Ma che avrà sempre da sorridere? E perché dal suo letto mi fissa arguto, quasi ironico? Quando vai a conoscere una persona che è malata di Sla da 13 anni, immobile nel corpo con la sola eccezione delle palpebre, tutto ti aspetti tranne che di essere tu quello a disagio sotto lo sguardo enigmatico che sembra metterti alla prova. Ma presto ti accorgi che Luigi Picheca sereno lo è davvero e se ha gli occhi così vivi è perché sono il solo varco attraverso il quale riversa il suo ricco mondo interiore. Il silenzio della stanza è rotto solo dall’affanno cadenzato della macchina che respira per lui nella tracheotomia, eppure nulla appare triste, persino le piantane ai lati del letto grondano flebo e tubicini, ma anche sciarpe della Juve e gadget di amici tifosi. Nella cornice dorata sulla parete la foto del Papa: «Sua Santità Francesco imparte di cuore la Benedizione apostolica a Luigi Picheca in occasione del 60° compleanno…».

Qui il tempo sembra scorrere in modo diverso, forse a causa di quel tonfo ansante che ogni tot secondi spinge l’aria nei polmoni e così scandisce giorni e notte, sempre uguale da anni, come un metronomo. Ma è di nuovo Luigi a rompere il ghiaccio: «Benvenuta, collega». In realtà le sue parole le pronuncia il figlio Valerio, che le legge seguendo le sue pupille su una tavoletta in plexiglass con su scritte le lettere… «Ci esercitiamo da dieci anni», spiega il padre, che ha già notato lo stupore. «Ormai anche gli infermieri e la badante sono velocissimi a leggere il mio sguardo», aggiunge ancora, con la voce di Valerio.

Colleghi, già: perché dal 2014, in occasione dei Mondiali di calcio in Brasile, ha iniziato a scrivere per il quotidiano online Il Dialogo di Monza, sottotitolo La provocazione del bene, testata dedicata alle buone notizie, e l’Ordine dei giornalisti gli ha consegnato la tessera di pubblicista. Ma nella vita precedente Luigi Picheca, 63 anni, lavorava come chimico in un’industria, un sogno realizzato.

«Nel 2004 ho festeggiato i 50 anni senza immaginare che quello sarebbe stato l’ultimo anno di vita normale – racconta –. Mi sentivo un leone, praticavo gli sport che mi piacevano, facevo ciò che volevo e non mi rendevo conto di essere fortunato… Poi un braccio che non risponde più, la visita neurologica, i sospetti, la diagnosi: ero condannato alla Sla, malattia a me sconosciuta fino ad allora, e la mia vita prendeva una direzione spaventosa. Più che disperazione era angoscia, paura di fronte all’imprevisto e a un futuro breve e terribile», che man mano gli rubava uno per uno tutti i movimenti volontari.

Facile e comprensibilissima la rinuncia. «Se non che prima delle risposte delle cliniche svizzere è arrivata la risposta dal Cielo», ovvero un pneumologo che in pochi minuti gli ha cambiato alcuni parametri errati e Luigi ha ricominciato a respirare bene. «Questo dice quanto è importante la cura, nelle nostre condizioni. So cosa si pensa, che è meglio morire piuttosto che vivere come me, invece adesso dico che la vita non si deve scartare così facilmente, la ricchezza di emozioni che ci regala va vissuta fino all’ultimo istante». La svolta è stata l’approdo alla Rsd (Residenza sanitaria disabili) “San Pietro” di Monza dieci anni fa, «esattamente il 3 luglio 2008». È l’unica struttura in Italia del tutto dedicata ai malati di Sla e in stato vegetativo, con il personale interamente specializzato nel trattamento di questi pazienti. «Qui non ero più arrabbiato con il mondo, ho cominciato ad accettare la mia nuova esperienza di vita e ho constatato che il corpo umano è in grado di adeguarsi alle nuove condizioni, facendoci scoprire risorse inimmaginabili in noi stessi».

Una certezza che Luigi vuole mettere a disposizione di chi si trova di fronte alla sua stessa agghiacciante paura: «Già prima ero volontario nella Protezione Civile, ora per gli altri posso fare molto di più, posso indicare la speranza a chi è sul baratro e rischia di perderla». Lui ha le carte in regola per farlo, ha visto morire attorno a sé le persone che non potevano accettare di vivere attaccate a un ventilatore e nutrirsi con il tubicino della Peg direttamente nello stomaco: «È stata durissima anche per me, arrivato qui pesavo 48 chili ed ero sfinito, ma poi pensavo ai tanti bambini che nascono già malati, io in fondo per 50 anni ero stato fortunato, non potevo comportarmi da vigliacco».

Proprio da questi pensieri si è aperta un varco la fede dimenticata da anni, «oggi la mia grande forza», e la passione di scrivere, «di far conoscere il nostro mondo ricco di idee e dignità, ma troppo sconosciuto». Il peggior fraintendimento è la compassione, «io sono felice e non ho un attimo di noia, qui alla “San Pietro” sono risorto con nuova linfa, perché vivere una malattia con l’aiuto di persone competenti e positive ti fare stare bene e tuveramente puoi amare la vita. Questa oggi è casa mia».

È qui nella cappella della Rsd che è venuta a sposarsi sua figlia Federica. E in fondo è grazie alla Sla che Luigi ha anche risposato sua moglie: «Eravamo separati da 11 anni, ma la malattia ci ha fatti ritrovare. Anzi trovare per davvero». Oggi è lei la più veloce con la tavoletta trasparente e la prima a cogliere i suoi desideri. «Papà talvolta ha nostalgia dei sapori – interviene il figlio, e questa volta parla per sé – così mia madre gli diluisce qualche goccia di caffè sulla lingua, o attraverso la Peg gli dà i centrifugati fatti in casa… un po’ di aroma arriva».

In un libro di riflessioni, Orizzonti imprevisti. Scritti con SLAncio Luigi va anche oltre: «Oggi mi sento più appagato di quando ero sano, e sono anche migliore, perché adesso so capire quanto valgono le persone che si muovono intorno a me e mi donano un amore che pochi sanno apprezzare pienamente».

Alla fine ci affida un appello ai “sani”, «di pensare più alla loro vita e non correre dietro alle banalità. La nostra società rincorre i falsi miti della ricchezza, della efficienza, della bellezza, e non ha più tempo per interessarsi a chi è “emarginato”, lo leggo negli occhi di molti che, quando guardano uno di noi, guardano la carrozzina e le nostre infermità, non le persone che si celano in noi…». Anche se, ci scrive in una email il giorno dopo, «del resto purtroppo ero così anch’io prima di vivere questa tragica esperienza… Che però ha il pregio di farci conoscere il bello che c’è in noi».

avvenire

Salute. L’Italia «batte» la Sla: partono i nuovi progetti di ricerca

L'Italia «batte» la Sla: partono i nuovi progetti di ricerca

Abituati come siamo ad avere scarsa fiducia nei possibili risultati della ricerca scientifica italiana, viste le ristrettezze materiali nelle quali abitualmente deve muoversi, desterà certo qualche sorpresa il fatto che sul terreno della Sla, invece, l’Italia è ai vertici mondiali, seconda ai soli Stati Uniti per numero di pubblicazioni scientifiche in una materia tanto complessa e di così rilevante impatto umano e sociale. Il criterio che decide questa particolare classifica la dice lunga sul valore effettivo della ricerca italiana: uno studio arriva infatti sulle pagine delle pubblicazioni alle quali guarda la comunità scientifica internazionale solo se ha superato rigorosi controlli incrociati di ricercatori di tutto il mondo, chiamati a valutare il merito dei risultati senza neppure sapere dove sono stati conseguiti.

L’eccellenza italiana nella ricerca su questa malattia neurodegenerativa che colpisce 10 persone ogni 100mila abitanti, con 6mila malati nel nostro Paese, è emersa nei giorni scorsi in occasione del «Global day» dedicato alla Sla, occasione anche di un incontro di 300 tra malati e famiglie con il Papa in Vaticano, organizzato da Aisla.

Motore del successo scientifico italiano è la Fondazione Arisla (Associazione per la ricerca sulla Sla) che ha appena erogato 832.984 euro per sei nuovi progetti di ricerca selezionati da una commissione scientifica internazionale tra i 143 partecipanti al bando annuale. Il nuovo percorso di ricerca si aggiunge a quelli sin qui sostenuti dalla Fondazione, che dal 2009 a oggi ha erogato 11,4 milioni di euro supportando 68 progetti e oltre 260 ricercatori in Italia. La scalata al ranking mondiale, in particolare negli ultimi cinque anni, è una logica conseguenza.

Il primo passo è conoscere la malattia, seguono quelli di tipo traslazionale, ovvero gli approcci alla terapia sull’uomo. Caratterizzata dalla degenerazione dei motoneuroni – cellule nervose cerebrali e midollo spinale responsabili dei movimenti della muscolatura volontaria – la Sclerosi laterale amiotrofica è un continente da esplorare attraverso la ricerca di base. Cinque dei nuovi progetti italiani sono infatti finalizzati a esplorare i meccanismi che innescano la patologia con strumenti altamente innovativi: il progetto «Tdp-43-Struct» indaga la struttura della proteina Tdp-43, che ha un ruolo centrale nella patologia, per purificarla e standardizzarne la produzione rispondendo alla domanda sul perché i motoneuroni muoiono selettivamente. Sempre per la ricerca di base, il progetto «AxRibAls» indaga la capacità degli assoni, parti filamentose del motoneurone che trasmettono i segnali elettrici, di mantenere le proteine necessarie alla loro funzione e sopravvivenza.

C’è poi il progetto «Irkals», che analizza la funzione di residui di infezioni retrovirali incorporati nel nostro Dna, rilevati in grandi quantità in una parte dei pazienti affetti da Sla. Infine, lo studio «HyperAls» affronta le alterazioni metaboliche di cui sono affetti i malati per correggerle con farmaci già testati in altre patologie.

Accanto all’attività della Fondazione Arisla, che fa sapere di «non voler mollare fino a che la malattia non sarà sconfitta», va ricordato un altro percorso italiano di ricerca d’eccellenza: è quello coordinato da Angelo Vescovi, direttore scientifico dell’Irccs «Casa Sollievo della Sofferenza» di San Giovanni Rotondo, che da oltre un decennio indaga la possibilità di cura con le cellule staminali cerebrali, a partire dalla Sclerosi multipla secondaria progressiva. Né va dimenticato il modello di cura del Centro clinico Nemo di Milano, fondato nel 2006, poi esteso a Messina, Arenzano (Genova) e Roma. Perché l’Italia che ricerca e cura sta correndo, ed è bene saperlo per sostenerla.

da Avvenire

Approvata in Italia la prima terapia al mondo contro la Sma

Approvata in Italia la prima terapia al mondo per il trattamento dei pazienti affetti da Atrofia muscolare spinale (Sma), una malattia neuromuscolare genetica rara che colpisce prevalentemente i bambini ed è la principale causa genetica di mortalità infantile. I dati degli studi clinici hanno infatti evidenziato risultati significativi in termini di aumento della sopravvivenza nei bambini affetti da Sma e di raggiungimento di importanti tappe motorie dello sviluppo, come il controllo della testa, la posizione seduta, il gattonamento e il cammino.

Il nuovo farmaco (nusinersen) – al momento disponibile in Stati Uniti, Giappone e alcuni paesi europei – costituisce il primo trattamento per questa malattia approvato in Italia ed è stato esaminato nell’ambito del percorso di approvazione accelerata dell’Agenzia Italiana del Farmaco (Aifa), volto proprio ad accelerare l’accesso ai farmaci che curano le malattie gravi o pericolose per la vita e, in generale, rispondono a bisogni clinici non soddisfatti. Con l’approvazione dell’Aifa, il farmaco sarà ora disponibile per tutti i pazienti italiani affetti da Sma.

“È tempo di festeggiare. L’approvazione italiana di nusinersen segna l’inizio di una nuova era per tutte le famiglie che lottano contro la Sma. I risultati clinici ci fanno ritenere che con il nuovo farmaco, associato a una corretta gestione della malattia, la storia naturale della Sma non sarà più la stessa – commenta Daniela Lauro, presidente nazionale di Famiglie SMA -. I tempi rapidi della distribuzione del farmaco non hanno uguali in Europa e l’Italia rappresenta un caso di eccellenza nel mondo. Nei mesi scorsi il farmaco è stato distribuito in Italia in via compassionevole a circa 130 bambini con la forma più grave di Sma, quella di Tipo 1, e da oggi tutti gli italiani affetti da Sma potranno sottoporsi alla cura”. (ANSA).

La cattedra di Antonio, malato di Sla

di Gerolamo Fazzini | vinonuovo.it
«A tutto possiamo rinunciare fuorché all’amore, quello che ci è dato e quello che siamo in condizione di offrire, fino all’ultimo istante»

Dichiaro subito il mio conflitto di interessi. La persona che vi sto per presentare è colui che ha progettato la nostra nuova casa, dove tra poco io, mia moglie e i miei due figli andremo a vivere, insieme ad altre quattro famiglie.

Antonio Spreafico è un architetto di Lecco, sulla sessantina. Ha un piccolo ma qualificato studio (che ha pure vinto un premio per il design) e ha condotto progetti importanti, fra cui il rifacimento degli interni del nuovo Tribunale della nostra città. Ma è probabilmente nelle realizzazioni “a sfondo sociale” che Antonio ha dato il meglio di sé. Come nel caso della sede degli scout o della “Casa sul pozzo”, un polo di aggregazione culturale e sociale legato alla Comunità di via Gaggio, animata da quel vulcanico e carismatico prete clarettiano che risponde al nome di padre Angelo Cupini.

Se vi voglio parlare in questa sede di Antonio, però, non è per decantarne le doti professionali. Il punto è che da alcuni mesi Antonio ha la SLA. E in questo periodo io, gli amici della futura casa, così come tante altre persone, abbiamo scoperto un’altra persona. Un uomo che ci ha insegnato molto a livello di fede. Ho scritto “insegnato”, ma è una parola sbagliata quando l’ex cathedra ha luogo da una carrozzina. Quella di Antonio è una testimonianza viva, seppur in gran parte silente. La testimonianza di una persona malata che non solo ha imparato a condividere con grandissima dignità la sua sofferenza e fatica (fisica e psicologica), ma che è stato così purificato – meglio: “cartavetrato” – dalla sua esperienza di Dio nella malattia da aver trovato la forza di pronunciare parole fortissime e, al tempo stesso, dolci. Antonio ha avuto, inoltre, il coraggio di farne dono agli altri, in modo tanto umile quanto efficace. Io, che ho avuto la fortuna di ascoltare meditazioni spirituali di sacerdoti preparati e colti, confesso che di rado ho sentito il cuore vibrare con la stessa intensità.

Ebbene, a pochi giorni dalla pubblicazione del Messaggio di Papa Benedetto per la prossima Giornata del malato, voglio offrire ai navigatori di Vino Nuovo un brano della lettera che Antonio ha scritto per Natale ai suoi amici. Ho un debito di gratitudine nei confronti di Antonio; far conoscere la sua storia mi pare un modo per provare a colmarlo.

Ci fosse bisogno di conferme, credo che questo testo le dia: il malato che vive con fede la sua stagione di vulnerabilità, appoggiandosi alla compagnia di Gesù, acquista un’energia nascosta, potente e contagiosa.

Se un giorno mi dovesse capitare di trovarmi in una situazione anche lontanamente simile, vorrei avere la stessa lucidità, forza d’animo e – in ultima analisi – fiducia in Dio che Antonio fa trapelare da queste poche righe, inviate agli amici della “Casa sul pozzo” e lette durante la Messa di Natale.

«Carissimi amici, non so dirvi com’è bello essere qui stasera insieme a voi, esserci anche da lontano: con il pensiero, con la preghiera, con la trepidazione dell’attesa in questa Notte Santa.

Non sarei mai potuto mancare, questa è anche la mia Casa, è il luogo che ha cambiato anche la mia vita. Padre Angelo, che mi ha chiesto questo intervento, ce lo ha ricordato citando San Paolo: siamo qui per l’atto d’amore sublime con il quale Dio si è svuotato delle propria divinità per ridursi alla condizione mortale, facendosi uomo.

Forse, allora, anche voi vi sarete chiesti se gli svuotamenti siano processi sperimentabili da parte nostra, e dove potrebbero condurci. Parlo di caduta di maschere, di rinuncia a tutto fino al raggiungimento di uno stato essenziale e perciò irrinunciabile, da solo in grado di farci vivere, e persino più intensamente.

Ho una piccola testimonianza da darvi, a questo proposito, perché talvolta una malattia mette di fronte proprio a questo: a una forma di svuotamento. Quando il mio corpo ha cominciato poco a poco ad abbandonarmi, quando sono riuscito ad accettarlo consegnandomi con un abbandono senza più resistenze, mi sono ritrovato a dirmi che restava pur sempre qualche pezzo di me ancora in grado di funzionare. In quel momento mi sono reso conto che un uomo riesce a fare a meno di qualsiasi cosa, quasi di qualsiasi cosa. Ora che nulla di me più funziona, se non il cuore e il cervello che il buon Dio ha voluto lasciarmi, ora che questo svuotamento si è compiuto, tutto in me si è ridotto all’essenza.

Qual è questa essenza? A cosa non avrei potuto e saputo rinunciare? Ora lo so, lo vedo con una chiarezza che mai avevo conosciuto. Non avrei potuto rinunciare all’amore di mia moglie e dei miei figli, all’amore degli amici che mi sono a fianco, dunque all’amore e alla tenerezza di tanti di voi. Sono fortunato: questo amore l’ho, e perciò ho tutto ciò che mi serve.

Vorrei dirvelo meglio: di questo amore sono pieno fino all’orlo, al punto che in me ora non ci sarebbe posto per altro. So che vi sembrerà impossibile, ma nulla mi manca di ciò che avevo prima della malattia. Sono in pace. E io stesso, razionalmente, avverto il paradosso di essere arrivato alla gioia attraverso il dolore. Non è necessario, naturalmente, per fortuna non lo è. Ci sono molte altre esperienze della vita che possono condurre nello stesso luogo di pace interiore. Ciò che mi appare indispensabile, invece, è che – con le gambe o no – ciascuno di noi si metta in cammino per quel suo luogo, in una continua ricerca di senso e di verità.

Cosa conta davvero? Cosa tiene insieme e rende belle le nostre vite? Questo percorso di svuotamento non passa necessariamente attraverso privazioni, eventi traumatici, perdite. È fatto di consapevolezza piena. E so che questa consapevolezza, quando verrà, sarà in ciascuno la stessa che mi porto dentro: a tutto possiamo rinunciare fuorché all’amore, quello che ci è dato e quello che siamo in condizione di offrire, fino all’ultimo istante.

Un amore che, per chi crede, discende dall’amore di Dio, che in qualche modo è figlio anche del suo svuotamento, come ne è figlio il Bimbo che ci ha radunati questa notte».

Sport e salute: il morbo del pallone, mistero infinito

Calcio e Sla (Sclerosi laterale amiotrofica) o Morbo di Gehrig, una tragica relazione e un mistero irrisolto. Il mondo del pallone è venuto a conoscenza di questo tandem maligno con la vicenda di Gianluca Signorini e la sua fine prematura (aveva 42 anni) a causa della Sla avvenuta esattamente dieci anni fa: era il 6 novembre del 2002. È con Signorini che ha preso il via anche la nostra inchiesta sulle “morti bianche” del calcio e un filone di questa converge su quello che provocatoriamente abbiamo chiamato il “Morbo del pallone”.

In Italia ci sono circa 6mila malati di Sla, ma l’incidenza del Morbo nel mondo del calcio italiano è quasi 8 volte superiore (oltre 55 morti in una popolazione di 24mila calciatori censiti dal 1971 al 2001). Ma il mondo del calcio e parte della scienza ufficiale continua a negare la relazione. Eppure solo nel Como si sono registrati ben 5 casi di Sla. Il “mistero dei ragazzi del Lago”, titolammo per ricordare vittime note e meno note della formazione lariana. A cominciare dal 38enne italo-brasiliano Albano Canazza, morto di Sla nel 2000 e che giocò in quel Como dei primi anni ’80 insieme al “rosso” Adriano Lombardi, un capitano come Signorini e come lui stroncato dal “Morbo del pallone” a 62 anni, nel 2007.
Più o meno nello stesso periodo è venuto allo scoperto Stefano Borgonovo, che è diventato il simbolo della “resistenza” alla Sla tra i calciatori. Una resistenza strenua alla malattia che Piergiorgio Corno, giocatore nel Como degli anni ’60, porta avanti da quasi vent’anni, accudito dall’affetto dei tre figli e dei cinque nipoti «che l’hanno sempre visto sul letto da malato di Sla», dice sua moglie Mariagrazia con la quale vive nella casa di via Gigi Meroni. E la mitica “farfalla granata” volata via in fretta 35 anni fa, aveva un fratello Celestino, che giocò nel Como e se ne è andato, pure lui a causa della Sla. Una morte poco nota quella del fratello non famoso di Meroni. Così, come ancora tanti sono i casi di giocatori affetti dal Gehrig che non avendo avuto la fortuna e l’onore di calcare i campi della Serie A (come l’ex viola Giancarlo Galdiolo, ultimo caso rilevato), non finiscono quasi mai sulle pagine dei giornali.

In questi dieci anni, con spirito solidale ancor prima che di servizio, abbiamo ripercorso le storie di questi calciatori “speciali” che ci hanno lasciato per colpa del Morbo, come Fabrizio Di Pietropaolo (morto anche lui nel 2002), e Lauro Minghelli. E abbiamo puntualmente cercato di dare “voce” (alcuni di loro parlano solo con il sintetizzatore) a piccoli eroi esemplari del pallone, come Luca Pulino, Maurizio Vasino, Stefano Turchi, Agatino Russo e Sergio Isabella (vedi sotto) che continuano con lo stesso coraggio di Signorini la loro lotta quotidiana alla malattia e non hanno nessuna intenzione di arrendersi alla Sla.

 

Massimiliano Castellani – avvenire.it