La cattedra di Antonio, malato di Sla

di Gerolamo Fazzini | vinonuovo.it
«A tutto possiamo rinunciare fuorché all’amore, quello che ci è dato e quello che siamo in condizione di offrire, fino all’ultimo istante»

Dichiaro subito il mio conflitto di interessi. La persona che vi sto per presentare è colui che ha progettato la nostra nuova casa, dove tra poco io, mia moglie e i miei due figli andremo a vivere, insieme ad altre quattro famiglie.

Antonio Spreafico è un architetto di Lecco, sulla sessantina. Ha un piccolo ma qualificato studio (che ha pure vinto un premio per il design) e ha condotto progetti importanti, fra cui il rifacimento degli interni del nuovo Tribunale della nostra città. Ma è probabilmente nelle realizzazioni “a sfondo sociale” che Antonio ha dato il meglio di sé. Come nel caso della sede degli scout o della “Casa sul pozzo”, un polo di aggregazione culturale e sociale legato alla Comunità di via Gaggio, animata da quel vulcanico e carismatico prete clarettiano che risponde al nome di padre Angelo Cupini.

Se vi voglio parlare in questa sede di Antonio, però, non è per decantarne le doti professionali. Il punto è che da alcuni mesi Antonio ha la SLA. E in questo periodo io, gli amici della futura casa, così come tante altre persone, abbiamo scoperto un’altra persona. Un uomo che ci ha insegnato molto a livello di fede. Ho scritto “insegnato”, ma è una parola sbagliata quando l’ex cathedra ha luogo da una carrozzina. Quella di Antonio è una testimonianza viva, seppur in gran parte silente. La testimonianza di una persona malata che non solo ha imparato a condividere con grandissima dignità la sua sofferenza e fatica (fisica e psicologica), ma che è stato così purificato – meglio: “cartavetrato” – dalla sua esperienza di Dio nella malattia da aver trovato la forza di pronunciare parole fortissime e, al tempo stesso, dolci. Antonio ha avuto, inoltre, il coraggio di farne dono agli altri, in modo tanto umile quanto efficace. Io, che ho avuto la fortuna di ascoltare meditazioni spirituali di sacerdoti preparati e colti, confesso che di rado ho sentito il cuore vibrare con la stessa intensità.

Ebbene, a pochi giorni dalla pubblicazione del Messaggio di Papa Benedetto per la prossima Giornata del malato, voglio offrire ai navigatori di Vino Nuovo un brano della lettera che Antonio ha scritto per Natale ai suoi amici. Ho un debito di gratitudine nei confronti di Antonio; far conoscere la sua storia mi pare un modo per provare a colmarlo.

Ci fosse bisogno di conferme, credo che questo testo le dia: il malato che vive con fede la sua stagione di vulnerabilità, appoggiandosi alla compagnia di Gesù, acquista un’energia nascosta, potente e contagiosa.

Se un giorno mi dovesse capitare di trovarmi in una situazione anche lontanamente simile, vorrei avere la stessa lucidità, forza d’animo e – in ultima analisi – fiducia in Dio che Antonio fa trapelare da queste poche righe, inviate agli amici della “Casa sul pozzo” e lette durante la Messa di Natale.

«Carissimi amici, non so dirvi com’è bello essere qui stasera insieme a voi, esserci anche da lontano: con il pensiero, con la preghiera, con la trepidazione dell’attesa in questa Notte Santa.

Non sarei mai potuto mancare, questa è anche la mia Casa, è il luogo che ha cambiato anche la mia vita. Padre Angelo, che mi ha chiesto questo intervento, ce lo ha ricordato citando San Paolo: siamo qui per l’atto d’amore sublime con il quale Dio si è svuotato delle propria divinità per ridursi alla condizione mortale, facendosi uomo.

Forse, allora, anche voi vi sarete chiesti se gli svuotamenti siano processi sperimentabili da parte nostra, e dove potrebbero condurci. Parlo di caduta di maschere, di rinuncia a tutto fino al raggiungimento di uno stato essenziale e perciò irrinunciabile, da solo in grado di farci vivere, e persino più intensamente.

Ho una piccola testimonianza da darvi, a questo proposito, perché talvolta una malattia mette di fronte proprio a questo: a una forma di svuotamento. Quando il mio corpo ha cominciato poco a poco ad abbandonarmi, quando sono riuscito ad accettarlo consegnandomi con un abbandono senza più resistenze, mi sono ritrovato a dirmi che restava pur sempre qualche pezzo di me ancora in grado di funzionare. In quel momento mi sono reso conto che un uomo riesce a fare a meno di qualsiasi cosa, quasi di qualsiasi cosa. Ora che nulla di me più funziona, se non il cuore e il cervello che il buon Dio ha voluto lasciarmi, ora che questo svuotamento si è compiuto, tutto in me si è ridotto all’essenza.

Qual è questa essenza? A cosa non avrei potuto e saputo rinunciare? Ora lo so, lo vedo con una chiarezza che mai avevo conosciuto. Non avrei potuto rinunciare all’amore di mia moglie e dei miei figli, all’amore degli amici che mi sono a fianco, dunque all’amore e alla tenerezza di tanti di voi. Sono fortunato: questo amore l’ho, e perciò ho tutto ciò che mi serve.

Vorrei dirvelo meglio: di questo amore sono pieno fino all’orlo, al punto che in me ora non ci sarebbe posto per altro. So che vi sembrerà impossibile, ma nulla mi manca di ciò che avevo prima della malattia. Sono in pace. E io stesso, razionalmente, avverto il paradosso di essere arrivato alla gioia attraverso il dolore. Non è necessario, naturalmente, per fortuna non lo è. Ci sono molte altre esperienze della vita che possono condurre nello stesso luogo di pace interiore. Ciò che mi appare indispensabile, invece, è che – con le gambe o no – ciascuno di noi si metta in cammino per quel suo luogo, in una continua ricerca di senso e di verità.

Cosa conta davvero? Cosa tiene insieme e rende belle le nostre vite? Questo percorso di svuotamento non passa necessariamente attraverso privazioni, eventi traumatici, perdite. È fatto di consapevolezza piena. E so che questa consapevolezza, quando verrà, sarà in ciascuno la stessa che mi porto dentro: a tutto possiamo rinunciare fuorché all’amore, quello che ci è dato e quello che siamo in condizione di offrire, fino all’ultimo istante.

Un amore che, per chi crede, discende dall’amore di Dio, che in qualche modo è figlio anche del suo svuotamento, come ne è figlio il Bimbo che ci ha radunati questa notte».