Gli animali un dono di Dio, nostri “compagni” nel Creato

Il richiamo all’ecologia integrale è la condizione prioritaria per essere buoni amministratori del creato e allontanarsi da una cultura che trasforma gli esseri viventi in oggetti di consumo. Compresi gli animali, messi al centro del messaggio della Commissione episcopale per i problemi sociali, il lavoro, la giustizia e la pace per la 71ª Giornata del Ringraziamento: “Lodate il Signore dalla terra (…) voi, bestie e animali domestici (Sal 148,10). Gli animali, compagni della creazione”.

Ricca di significati la scelta di celebrare in Sardegna la manifestazione che contadini, pastori e allevatori considerano il capodanno delle campagne. L’isola, infatti, l’estate scorsa ha pagato un prezzo ambientale altissimo: 20mila ettari devastati dalle fiamme, centinaia di animali morti, 100 mila alberi d’ulivo inceneriti, con 60 milioni di api uccise, insetti che il documento dei vescovi considera «una benedizione per l’ecosistema e per le attività dell’uomo ». «La prossimità agli animali, che nella tradizione della civiltà agricola ha portato a sentirli e trattarli quasi come partecipi della vita familiare, nella modernità – scrivono i vescovi – è stata abbandonata, riducendo queste creature a oggetti di mero consumo». Un’ecologia anche integrata, che don Bruno Bignami, direttore dell’Ufficio nazionale Cei per i problemi sociali e il lavoro, ha descritto in apertura del seminario organizzato dall’arcidiocesi di Sassari unitamente a Acliterra, Coldiretti, Fai Cisl, Feder.Agri, Terraviva. La necessità di riconvertire il nostro stile di vita è il filo rosso che unisce la due giorni del Ringraziamento, che si conclude oggi con la Messa (trasmessa in diretta su Rai uno) celebrata dall’arcivescovo Gian Franco Saba, a Portotorres, nella basilica dei Santi Martiri Gavino, Proto e Gianuario, seguita dalle parole di papa Francesco, all’Angelus. Al termine la benedizione dei mezzi agricoli e degli animali.

Di “Benessere animale e benessere dell’uomo nell’attività zootecnica” si è parlato nella tavola rotonda, coordinata da Daniela Scano, caporedattrice del quotidiano La Nuova Sardegna.

«Questa Giornata rappresenta, per la diocesi di Sassari – ha detto don Andrea Piras, responsabile della pastorale del lavoro – l’occasione per consolidare l’alleanza che, tra le componenti ecclesiali, le parti civili, gli organismi sociali, le agenzie culturali della città e del territorio, insieme alle categorie di lavoratori e di tanti giovani studenti, intende favorire una scelta di consapevolezza e di responsabilità perché ciascuno, sentendosi interpellato personalmente, si adoperi come autentico protagonista del cambiamento d’epoca in atto».

«La giornata del Ringraziamento – ha commentato il segretario generale della Fai Cisl, Onofrio Rota – ci consente di rilanciare il percorso verso l’ecologia integrale che ci siamo impegnati a coltivare anche con l’adesione al Manifesto di Assisi e con la nostra campagna Fai Bella l’Italia. Tra gli obiettivi di quell’idea c’è il superamento di un approccio predatorio che per anni ha caratterizzato la crescita, anche nel nostro Paese, svalutando e depauperando il suolo, il paesaggio, gli alvei idrici, le persone, il loro rapporto con l’ambiente e il regno animale». «Per noi – ha aggiunto il presidente di Coldiretti Sardegna, Battista Cualbu – è un orgoglio ospitare in Sardegna, a distanza di pochi anni dalla tappa di Dolianova nel 2015, questa manifestazione nazionale, che dimostra ancora una volta la sensibilità della Cei per la nostra terra, in particolare in quest’anno segnato dai terribili incendi estivi».

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Un momento del Convegno a Sassari per la Giornata del Ringraziamento

DIBATTITO Ebraismo e cristianesimo dal conflitto al dialogo

L’adversus judaeos, ossia l’avversione nei confronti degli ebrei, è stata fino a pochi decenni fa una categoria teologico-politica consolidata. Essa ha accompagnato l’intera storia della cultura occidentale, dagli autori neo-testamentari – o almeno da Giustino e Tertulliano – fino alla vigilia del Concilio Vaticano II. È il senso di quell’adversus in quanto tale, che copre un misto di tragedie storiche già lette in chiave di teologia e di filosofia della storia (si pensi all’impresa agostiniana del De civitate Dei o alla Historia di Eusebio da Cesarea), che qui si vuole reinterpretare, non in generale ma dal punto di vista di chi era “avversato”, ossia percepito e descritto come “avversario” seppur non necessariamente o almeno non sempre come vittima di chi lo avversava. Gli avversari, nella misura in cui sono identificati e riconosciuti come tali, mantengono strutturalmente una loro dignitas, magari negativa, ma pur sempre degna dell’onore delle armi e persino di rispetto. Gli ebrei sono sempre stati questi avversari del mondo cristiano e nella lotta certamente ad armi impari – chiamata per lo più con il generico nome di antigiudaismo (e solo a partire dal XIX secolo di antisemitismo) – essi hanno paradossalmente mantenuto uno status, per quanto negativo, che li rendeva “degni” di essere contraddetti e combattuti, per essere alla fine convertiti. E sempre molto paradossalmente, anche quando convertiti, era in quanto “ebrei” che risultavano degni di considerazione; obliata l’origine ebraica, la nobilitas spirituale originaria che dovevano al contempo “negare” evaporava ed essi perdevano ogni interesse teologico.

È questa lunga vicenda di avversione, oggi ampiamente documentata dagli storici, che costituisce il magnete della presente ricerca, non nella sua dimensione fattuale ma nel bisogno di comprensione – la comprehension inglese – che essa stimola ed esige e reclama, come un senso non ancora sufficientemente esplorato ed eviscerato, come una storia traumatica non anco- ra elaborata e come tale che ancora duole (e come potrebbe non dolere se essa è perdurata fino a pochissimo tempo fa, culminando in quel buco nero, in quell’apice del conflitto – divenuto quasi storia a sé stante in quanto antisemitismo a carattere biologistico – che chiamiamo Shoah?).

Con queste premesse, ideologiche più che metodologiche, mi accingo a raccogliere alcune riflessioni iniziate oltre travvedere – e non è poca ambizione – la vera posta in gioco e le ragioni profonde del contendere, posta e ragioni che sul campo di battaglia della storia sono state spesso occultate, rimosse e rinnegate ma che mantengono, forse, la loro raison d’être. Forse, ripeto. Perché un conflitto di tale portata non può ascriversi alla mera malvagità degli esseri umani o alla sfortuna delle sorti geo-politiche o a qualche genio maligno che cartesianamente si diverte ad aizzare gli umani gli uni contro gli altri armati. Questo conflitto, che sta alla base della storia religiosa dell’occidente e che ne ha condizionato i destini e le idee, e persino molte istituzioni, ha da essere indagato non come un accidente della cui origine si è persa memoria né come una disgrazia oggetto di rammarichi (e sensi di colpa) ma come un coacervo di significati diversi; certo, districando tali significati il conflitto non smette di esistere ma smette di essere mortifero e umiliante per una delle parte (o per entrambe) e diventa – torna a diventare? – un conflitto positivo, una dialettica benefica e arricchente; per dirla in ebraico, ridiverrà «una machloqet (una disputa) per amore del Cielo» a beneficio soprattutto degli antagonisti, dei contendenti, dei belligeranti.

Sono consapevole che una simile impresa potrebbe urtare più di una sensibilità, sia da parte ebraica sia da parte cristiana; ma il mio resta resta uno scopo ermeneutico, per così dire, un tentativo cioè di offrire al clima odierno – un clima dialogante e capace di ascolto delle ragioni altrui, sopraggiunto negli ultimi decenni del XX secolo, in un’epoca di conclamata fraternità e sororità – e di sviluppare nuovi approcci e nuove categorie di comprensione del conflitto tra cristianesimo ed ebraismo. L’obiettivo è trovare un’inedita grammatica per decifrare quest’antichissimo corpo a corpo religioso, foriero di enormi conseguenze per la storia umana, certamente il più carico di incomprensioni e di sofferenze per lo più inflitte da parte cristiana al mondo ebraico “dopo il 70”. Da questo preciso punto, dunque, occorre partire.

trent’anni fa sul conflitto tra cristianesimo ed ebraismo, nel tentativo di individuare chiavi ermeneutiche tali che, aiutando la comprensione dei fatti e dei testi “oggetto” peculiare di disputa tra ebrei e cristiani, non tanto leniscano le ferite sul campo (o ancor meno compensino le irredimibili sofferenze dei morti) quanto diano un senso al conflitto stesso e con ciò ne disinneschino la virulenza. Vorrei lasciar in-

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Dall’«adversus judaeos» di Giustino e Tertulliano al Concilio Vaticano II, due millenni di storia di uno scontro teologico spesso agguerrito, ma anche capace di riconoscere alla controparte rispetto e «dignitas». Comprenderli oggi può aiutare a volgerli in dialettica positiva: per dirla in ebraico, in una «machloqet» (una disputa) per amore del Cielo

Papa Francesco al Muro del Pianto nel 2014. Il Muro è ciò che resta del Tempio distrutto nel 70 d.C. / Epa/Osservatore Romano

Società e diritti «Il crocifisso a scuola non discrimina Gli è legata la tradizione di un popolo»

Esporre il crocifisso nelle scuole non è una condotta discriminatoria. Lo ha stabilito la Suprema Corte, che nella sua composizione più autorevole – le Sezioni Unite – con la sentenza 24414/2021 pubblicata ieri mattina ha chiarito definitivamente che il maggiore simbolo del cristianesimo può rimanere nelle aule. Basta che a volerlo sia «la comunità scolastica», la quale può anche decidere di accompagnarlo «con i simboli di altre confessioni presenti in classe – così si esprime il comunicato stampa diffuso dalla Cassazione – e in ogni caso ricercando un ragionevole accomodamento tra eventuali posizioni difformi». La questione non è solo religiosa. Per la Corte infatti al crocifisso «si legano, in un Paese come l’Italia, l’esperienza vissuta di una comunità e la tradizione culturale di un popolo». Per questo, a maggior ragione, la sua affissione «non costituisce un atto di discriminazione del docente dissenziente per causa di religione». Sotto il profilo prettamente giuridico, gli ermellini – come vengono chiamati i giudici della più alta corte italiana, per via della toga nelle occasioni più formali – ricordano innanzitutto come un regolamento degli anni Venti, mai abrogato, avesse imposto la presenza del crocifisso nelle aule. «Ogni istituto – si legge in quel testo – ha la bandiera nazionale; ogni aula, l’immagine del crocifisso e il ritratto del Re». È vero, allora il cattolicesimo era ‘religione di Stato’. Ma la Suprema Corte nella sentenza di ieri ha chiarito che la norma di un secolo fa è suscettibile di essere interpretata oggi in senso conforme alla Costituzione. In parole povere: se la scuola nelle sue varie componenti lo vuole, il crocifisso può e deve restare, perché «il venir meno dell’obbligo di esposizione – si legge in sentenza – non si traduce automaticamente nel suo contrario, e cioè in un divieto di presenza del crocifisso nelle aule scolastiche ». Attenzione: se l’istituto, studenti compresi, decide di tenerlo, nessuno può toglierlo a piacere, come invece aveva fatto il docente da cui era scaturito il caso giudiziario.

Con la pronuncia di ieri, sotto il profilo tecnico-giuridico, le Sezioni Uni- te hanno dato risposta alle questioni contenute nella cosiddetta ‘ordinanza di rimessione’, quella cioè in cui una singola sezione della Suprema Corte – nel nostro caso la sezione lavoro –, ritenendo che la questione a essa sottoposta sia molto controversa e di particolare importanza, chiede che sia decisa in composizione plenaria. L’anno scorso, nel devolvere la vicenda alle Sezioni Unite, la Cassazione aveva preso le mosse da una sentenza pronunciata nel 2011 dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo (Cedu): il crocifisso, avevano scritto i giudici di Strasburgo, è «un simbolo essenzialmente passivo», per cui «dalla sua sola esposizione […] non deriva la violazione del principio di neutralità dello Stato ». Ciò premesso, la sezione lavoro della Suprema Corte riteneva che il caso su cui ha poi deciso fosse un poco diverso: a contestare il simbolo cristiano non era uno studente ma un professore. Non dunque un utente del servizio, ma un educatore. E proprio per questo, temeva la Corte, «l’esposizione del simbolo» avrebbe rischiato di attribuire «uno stretto collegamento tra la funzione esercitata e i valori fondanti il credo religioso che quel simbolo richiama». Le Sezioni Unite, però, hanno sgombrato il campo da questo timore. D’altronde, già nel 2006, il Consiglio di Stato aveva visto nel crocifisso «un simbolo idoneo a esprimere l’elevato fondamento di valori civili (tolleranza, rispetto reciproco, valorizzazione della persona, affermazione dei suoi diritti…)» che «delineano la laicità nell’attuale ordinamento dello Stato». La sentenza di ieri precisa che «la laicità italiana non è ‘neutralizzante’: non nega le peculiarità e le identità di ogni credo e non persegue un obiettivo di tendenziale e progressiva irrilevanza del sentire religioso, destinato a rimanere nell’intimità della coscienza dell’individuo». Ciò anche per via del fatto che «il principio di laicità – spiega la pronuncia – non nega né misconosce il contributo che i valori religiosi possono apportare alla crescita della società». Secondo la sentenza, dunque, esporre il crocifisso a scuola non è (più) un obbligo di legge, ma se le singole classi rappresentate dai loro organismi ritengono di farlo, la presenza del simbolo non può più essere tolta a piacere. Se non, ovviamente, con una successiva delibera.

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Cassazione, in aula crocifisso se comunità scuola d’accordo. Eventualmente con altri simboli fedi e cercando intesa tra tutti

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– L’ aula di una classe “può accogliere la presenza del crocifisso quando la comunità scolastica interessata valuti e decida in autonomia di esporlo, eventualmente accompagnandolo con i simboli di altre confessioni presenti nella classe e in ogni caso ricercando un ragionevole accomodamento tra eventuali posizioni difformi”. E’ quanto ha stabilito la corte di Cassazione (sentenza n.

24414, pubblicata oggi) che a Sezioni Unite, si è occupata dell’affissione del crocifisso nelle aule scolastiche.
In particolare, la questione esaminata dalla Cassazione riguardava la compatibilità tra l’ordine di esposizione del crocifisso, impartito dal dirigente scolastico di un istituto professionale statale sulla base di una delibera assunta a maggioranza dall’assemblea di classe degli studenti, e la libertà di coscienza in materia religiosa del docente che desiderava fare le sue lezioni senza il simbolo religioso appeso alla parete. La Corte ha affermato che la disposizione del regolamento degli anni Venti del secolo scorso – che tuttora disciplina la materia, mancando una legge del Parlamento – è suscettibile di essere interpretata in senso conforme alla Costituzione. “L’aula può accogliere la presenza del crocifisso quando la comunità scolastica interessata – spiega la Cassazione – valuti e decida in autonomia di esporlo, eventualmente accompagnandolo con i simboli di altre confessioni presenti nella classe e in ogni caso ricercando un ragionevole accomodamento tra eventuali posizioni difformi”. (ANSA).

Religioni devono dialogare con i processi globali per renderli più umani e finalmente capaci di ridurre le disuguaglianze

Scondo Miroslav Volf le fedi devono dialogare con i processi globali per renderli più umani e finalmente capaci di ridurre le disuguaglianze
Chiese e minareti al Cairo, in Egitto

Chiese e minareti al Cairo, in Egitto – Reuters/Amr Abdallah Dalsh

Avvenire

«Fiorire, come la vita vissuta bene, la vita che va bene, la vita che sta bene. Uso il termine in modo intercambiabile con “la vita buona” e “la vita che vale la pena vivere”. La vita buona non consiste solo nell’avere successo nell’una o nell’altra impresa che intraprendiamo, piccola o grande che sia, ma nel vivere raggiungendo la nostra pienezza umana e personale, questa, in una parola, è fiorire». Ed è pure il titolo di un saggio di Miroslav Volf (Fiorire Il contributo della religione in un mondo globalizzato, Queriniana, pagine 344. euro 30,00), teologo cattolico di origine croata che, dopo essere stato discepolo di Jürgen Moltmann, si è trasferito negli Usa, dove insegna all’Università di Yale.

L’autore è convinto che per giungere alla vita buona sia indispensabile il ruolo delle religioni, che sole possono dare un’anima al processo di globalizzazione, come scrive anche papa Francesco nell’ultima enciclica, quando parla della «musica del Vangelo » che è in grado di spingere i cristiani verso la fraternità con tutti. Ma il mondo sembra andare verso un’altra direzione. Non solo per la pandemia che ha colpito l’umanità, ma per una serie di fattori vari (la violenza crescente, le disuguaglianze nella distribuzione delle ricchezze, i mutamenti del clima) la nostra esistenza sembra precipitare verso «una valle oscura» e «una terra tenebrosa», per ripetere le parole dei salmisti e dei profeti.

Certo, non viviamo nei tempi più bui della storia, l’umanità in molti sensi è progredita, ad esempio nella coscienza dei diritti umani e nella loro applicazione, nel rispetto delle vittime della storia, nelle condizioni di vita, ma ciò non significa che il rischio di una catastrofe non possa incombere. Non solo per il coronavirus, da tempo il cinema ad esempio è dominato da film con scenari apocalittici e distopici, come il film Melancholia di Lars von Trier, che termina con due sorelle e un bambino che cercano di ripararsi in una casupola di legno (un tempio improvvisato?), mentre si fa sempre più vicina la luce di un asteroide che annienterà il mondo. Come interpretare la fine incombente? Siamo forse di fronte all’immagine di un salto nella luce della fede, oppure nel precipitare dell’umanità nella desolazione del nulla? Per non parlare di altre pellicole come L’esercito delle dodici scimmie di Terry Gilliam, in cui la popolazione decimata da un virus è costretta a vivere nel sottosuolo, o il più recente Contagion di Steven Soderbergh che ha anticipato di qualche anno il Covid.

Il processo di globalizzazione ha così un volto ambivalente: mentre contribuisce alla prosperità di milioni di persone, che possono – in alcune zone del globo per la prima volta nella storia – beneficiare dei frutti della crescita economica e dello sviluppo tecnologico, contemporaneamente si porta dietro disuguaglianze enormi, con milioni di persone che continuano a essere disprezzate e a non godere dei beni preziosi della terra. Ambivalenza che vale anche per le religioni, che mostrano un volto di pace, ma anche un fondamentalismo che può sfociare nel terrorismo. Volf fra l’altro è nato in un Paese «che si è dissolto alla fine della storia», toccato per molti anni, dopo il dissolvimento della Jugoslavia in seguito al crollo del comunismo, da guerre dovute a nazionalismi d’impronta religiosa.

Ma dopo aver chiarito l’ambiguità sottesa sia al mondo della globalizzazione sia a quello delle religioni, l’autore vuole dimostrare che la globalizzazione ha bisogno delle religioni per essere liberata dalle sue ombre, dall’enfasi riposta solo sullo sviluppo materiale che rischia di soffocare la compassione: «La globalizzazione – scrive – deve essere addomesticata, cosicché abbia meno probabilità di derubarci della nostra umanità». E poi precisa: «La globalizzazione riguarda principalmente (non in modo esclusivo) il “pane”, un tipo particolare di valorizzazione della vita ordinaria. Essa avanza come se la Parola non fosse la fonte di una vita abbondante e tiene i nostri occhi fissi sulla moltiplicazione del pane». Per poi arrivare ad alcune conclusioni che vale la pena riassumere: le religioni esprimono una visione del fiorire che non può prescindere dall’ancoramento alla trascendenza, per cui non possono concepirsi né essere concepite come meri lubrificanti per gli ingranaggi della globalizzazione; quest’ultima sarà in grado di migliorare davvero le condizioni di vita dell’umanità solo se le «visioni del fiorire umano e alcuni framework morali» la modellano; anche se riguarda soprattutto «il pane e la sua moltiplicazione», la globalizzazione non dev’essere una forza che, trainata dal mercato, compromette la possibilità di una vita spirituale; infine, la globalizzazione può aiutare le religioni a liberarsi da visioni di tipo nazionalistico per riscoprire l’universalità e la fraternità.

Davvero le religioni possono plasmare la globalizzazione per il bene dell’umanità combattendone i soprusi che si trascinano dietro i più vulnerabili e gli ultimi. In questa direzione, per Volf è possibile immaginare una sorta di tavolo comune, delineare alcuni punti che, senza mirare alla creazione di un’unica religione mondia-le, costituiscano un minimo comun denominatore. Essi sono: una descrizione della realtà basata su due mondi, quello terreno e quello trascendente; la concezione dell’essere umano come persona unica e irripetibile; la pretesa di esprimere una Weltanschauung universale, che va oltre le culture e le religioni locali; la capacità di trascendere i confini politici ed etnici e perciò di incarnarsi in ogni cultura; il darsi come obiettivo il bene dell’uomo su questa terra, ma guardando all’aldilà; la capacità perciò di trasformare le realtà terrene, sapendo al contempo dare spazio all’ascetismo e al profetismo, pena la perdita della propria identità.

Riferendosi soprattutto agli studi di Charles Taylor e Ian Assmann, Volf delinea queste caratteristiche di base che non intendono designare l’essenza delle religioni, ma costituiscono a suo modo di vedere affinità strutturali condivise. Nella consapevolezza che con la globalizzazione le religioni non stanno affatto scomparendo, nonostante quanto predetto dai teorici della secolarizzazione, un discorso che riguarda tutte le grandi religioni qui esaminate: il cristianesimo, l’ebraismo, l’islam, il buddhismo, l’induismo, il confucianesimo. Ma perché le religioni possano dare un’anima alla globalizzazione devono – come suggerisce l’enciclica Fratelli tutti– superare l’impulso alla concorrenzialità reciproca e alla violenza che ancora contengono, nonché rinunciare a divenire «marcatori di identità etniche o nazionali».

Nella prospettiva delle religioni mondiali, la vera sfida non è quella di acquisire un vantaggio competitivo sulla scienza e sulla tecnologia né di conservare la stessa quota di mercato, e nemmeno quella di saper fornire beni terreni – come la salute, la longevità e il benessere economico – più di quanto sappia fare la globalizzazione, ma è la capacità di collegare le persone con l’ambito trascendente, di condurre esistenze degne di esseri umani, modulate non solo in base al proprio appagamento ma alla solidarietà. Solo così potranno fiorire e far fiorire, essere una benedizione per l’uomo e per il mondo.

Violenza e odio rischiano di compromettere la collaborazione fraterna tra le religioni

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All’udienza generale il Papa prega per le vittime inermi del terrorismo in Europa

04 novembre 2020

«Ricordiamo ancora le vittime inermi del terrorismo, il cui inasprimento di crudeltà si sta diffondendo in Europa». Con il pensiero rivolto ai recenti attacchi che hanno seminato morte a Nizza e a Vienna, il Papa ha di nuovo denunciato questi «deprecabili eventi, che cercano di compromettere con la violenza e l’odio la collaborazione fraterna tra le religioni». Lo ha fatto al termine dell’udienza generale di mercoledì 4 novembre, tornata a svolgersi senza fedeli nella Biblioteca privata del Palazzo apostolico vaticano a causa della recrudescenza della pandemia di covid-19.

Ecco il testo delle parole del Papa:

«In questi giorni di preghiera per i defunti, abbiamo ricordato e ricordiamo ancora le vittime inermi del terrorismo, il cui inasprimento di crudeltà si sta diffondendo in Europa. Penso, in particolare, al grave attentato dei giorni scorsi a Nizza in un luogo di culto e a quello dell’altro ieri nelle strade di Vienna, che hanno provocato sgomento e riprovazione nella popolazione e in quanti hanno a cuore la pace e il dialogo. Affido alla misericordia di Dio le persone tragicamente scomparse ed esprimo la mia spirituale vicinanza ai loro familiari e a tutti coloro che soffrono a causa di questi deprecabili eventi, che cercano di compromettere con la violenza e l’odio la collaborazione fraterna tra le religioni».

In precedenza, Francesco aveva introdotto la catechesi — incentrata sulla figura di Gesù “maestro di preghiera” — rammaricandosi di come «purtroppo siamo dovuti tornare» all’incontro settimanale senza la presenza di persone «per difenderci dai contagi» e raccomandando grande attenzione «alle prescrizioni delle autorità», sia politiche sia sanitarie. Inoltre il vescovo di Roma ha pregato per «gli ammalati, coloro che entrano negli ospedali già come scarti», e anche per «i medici, gli infermieri, le infermiere, i volontari», e «tanta gente che lavora con gli ammalati» rischiando «la vita per amore del prossimo».

Osservatore

Percorso di amicizia e di dialogo. Un libro ricorda le relazioni tra cristiani e buddisti dal primo messaggio per la festa di Vesakh nel 1995 fino a oggi

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03 ottobre 2020

«Dimostrare e comunicare che il dialogo tra cristiani e buddisti è possibile», un dialogo che da seme che era durante il Concilio Vaticano II è diventato oggi un albero, permettendo di passare dalla paura all’amicizia, dalla diffidenza alla fiducia: questo è l’intento del libro intitolato Costruire una cultura di compassione (Città del Vaticano, Urbaniana university press, 2020, pagine 375, euro 18), una raccolta di saggi pubblicati dal Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso in occasione del venticinquesimo anniversario del primo messaggio indirizzato da Giovanni Paolo II ai buddisti di tutto il mondo per la festa di Vesakh, durante la quale si commemorano i principali avvenimenti della vita di Buddha. Lo spiega a «L’Osservatore Romano» il segretario del dicastero, monsignor Indunil Janakaratne Kodithuwakku Kankanamalage, che è stato incaricato dell’elaborazione del volume il cui titolo riprende un’espressione usata da Papa Francesco durante il suo viaggio apostolico in Thailandia e in Giappone, rivolgendosi al patriarca supremo dei buddisti nel Wat Ratchabophit Sathit Maha Simaram Temple, a Bangkok, il 21 novembre 2019.

A produrre i contenuti del libro sono stati diversi rappresentanti delle due religioni, monaci e monache, sacerdoti, vescovi e laici, tutti con una vasta esperienza, arricchita per alcuni dalla partecipazione alle conferenze organizzate dal Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso o agli incontri con i Pontefici.

Diviso in tre parti — storia del dialogo cristiano-buddista, questioni tematiche, sfide contemporanee — il libro riprende tutti i messaggi pubblicati dalla Santa Sede in occasione di Vesakh tra il 1995 e il 2020. Ed è proprio sull’origine di questa tradizione che si sofferma il presidente del Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso, cardinale Miguel Ángel Ayuso Guixot, nella sua prefazione. «Venticinque anni fa — racconta — il mio predecessore, il cardinale Francis Arinze, ha iniziato a inviare una lettera per la festa di Vesakh ai nostri amici buddisti in tutto il mondo, con le parole “Pace e benedizioni per tutti voi”, (…) precisando che questa festività annuale era “un’occasione per voi buddisti e per noi cristiani — perché vogliamo condividere la vostra gioia — di meditare su insegnamenti che riguardano tutti noi”».

Da allora, si sono verificati «numerosi scambi di gioia e di buona volontà tra di noi», prosegue il porporato, ad esempio tutte le volte in cui «i monaci delle nostre due tradizioni (…) si sono radunati nel corso di conferenze, scambi e ritiri per condividere intuizioni, preoccupazioni e riflessioni, sulla base delle loro profonde saggezze ed esperienze spirituali». Sulla scia del «dialogo di fraternità e di rispetto di Papa Francesco», aggiunge il cardinale Ayuso Guixot, buddisti e cristiani di tutto il mondo «sono stati in grado di trovare cammini creativi per condividere le gioie e i misteri della vita e collaborare per il bene comune e la sopravvivenza della nostra casa comune».

Con la diversità dei suoi contenuti, questo nuovo libro, afferma monsignor Kodithuwakku Kankanamalage, «è destinato ad aiutare le Chiese locali a promuovere il dialogo con i buddisti, valutare il percorso già compiuto, e ispirarle in vista di ulteriori iniziative». Sono tante le priorità condivise dalle due religioni, nonostante la diversità delle fedi, ricorda il sacerdote sri-lankese: «Oggi per esempio parliamo dell’importanza della non-violenza, dell’ecologia, dei migranti, tutte tematiche sulle quali il buddismo propone un grande insegnamento». Cristiani e buddisti devono anche affrontare numerose sfide comuni: i matrimoni misti, la libertà religiosa, l’educazione dei giovani alla fede, il fondamentalismo e la strumentalizzazione della religione a scopi politici, ma anche il pericolo del proselitismo.

Per migliorare ancora di più l’intesa cristiano-buddista, osserva altresì il segretario del Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso, «occorre un’educazione aperta, che permetta di insegnare una buona convivenza tra credenti». Mentre alcuni gruppi seminano odio e discriminazione, conclude, bisogna insistere più che mai sulla necessaria fratellanza e riconciliazione tra tutti i credenti.

di Charles de Pechpeyrou