DIBATTITO Ebraismo e cristianesimo dal conflitto al dialogo

L’adversus judaeos, ossia l’avversione nei confronti degli ebrei, è stata fino a pochi decenni fa una categoria teologico-politica consolidata. Essa ha accompagnato l’intera storia della cultura occidentale, dagli autori neo-testamentari – o almeno da Giustino e Tertulliano – fino alla vigilia del Concilio Vaticano II. È il senso di quell’adversus in quanto tale, che copre un misto di tragedie storiche già lette in chiave di teologia e di filosofia della storia (si pensi all’impresa agostiniana del De civitate Dei o alla Historia di Eusebio da Cesarea), che qui si vuole reinterpretare, non in generale ma dal punto di vista di chi era “avversato”, ossia percepito e descritto come “avversario” seppur non necessariamente o almeno non sempre come vittima di chi lo avversava. Gli avversari, nella misura in cui sono identificati e riconosciuti come tali, mantengono strutturalmente una loro dignitas, magari negativa, ma pur sempre degna dell’onore delle armi e persino di rispetto. Gli ebrei sono sempre stati questi avversari del mondo cristiano e nella lotta certamente ad armi impari – chiamata per lo più con il generico nome di antigiudaismo (e solo a partire dal XIX secolo di antisemitismo) – essi hanno paradossalmente mantenuto uno status, per quanto negativo, che li rendeva “degni” di essere contraddetti e combattuti, per essere alla fine convertiti. E sempre molto paradossalmente, anche quando convertiti, era in quanto “ebrei” che risultavano degni di considerazione; obliata l’origine ebraica, la nobilitas spirituale originaria che dovevano al contempo “negare” evaporava ed essi perdevano ogni interesse teologico.

È questa lunga vicenda di avversione, oggi ampiamente documentata dagli storici, che costituisce il magnete della presente ricerca, non nella sua dimensione fattuale ma nel bisogno di comprensione – la comprehension inglese – che essa stimola ed esige e reclama, come un senso non ancora sufficientemente esplorato ed eviscerato, come una storia traumatica non anco- ra elaborata e come tale che ancora duole (e come potrebbe non dolere se essa è perdurata fino a pochissimo tempo fa, culminando in quel buco nero, in quell’apice del conflitto – divenuto quasi storia a sé stante in quanto antisemitismo a carattere biologistico – che chiamiamo Shoah?).

Con queste premesse, ideologiche più che metodologiche, mi accingo a raccogliere alcune riflessioni iniziate oltre travvedere – e non è poca ambizione – la vera posta in gioco e le ragioni profonde del contendere, posta e ragioni che sul campo di battaglia della storia sono state spesso occultate, rimosse e rinnegate ma che mantengono, forse, la loro raison d’être. Forse, ripeto. Perché un conflitto di tale portata non può ascriversi alla mera malvagità degli esseri umani o alla sfortuna delle sorti geo-politiche o a qualche genio maligno che cartesianamente si diverte ad aizzare gli umani gli uni contro gli altri armati. Questo conflitto, che sta alla base della storia religiosa dell’occidente e che ne ha condizionato i destini e le idee, e persino molte istituzioni, ha da essere indagato non come un accidente della cui origine si è persa memoria né come una disgrazia oggetto di rammarichi (e sensi di colpa) ma come un coacervo di significati diversi; certo, districando tali significati il conflitto non smette di esistere ma smette di essere mortifero e umiliante per una delle parte (o per entrambe) e diventa – torna a diventare? – un conflitto positivo, una dialettica benefica e arricchente; per dirla in ebraico, ridiverrà «una machloqet (una disputa) per amore del Cielo» a beneficio soprattutto degli antagonisti, dei contendenti, dei belligeranti.

Sono consapevole che una simile impresa potrebbe urtare più di una sensibilità, sia da parte ebraica sia da parte cristiana; ma il mio resta resta uno scopo ermeneutico, per così dire, un tentativo cioè di offrire al clima odierno – un clima dialogante e capace di ascolto delle ragioni altrui, sopraggiunto negli ultimi decenni del XX secolo, in un’epoca di conclamata fraternità e sororità – e di sviluppare nuovi approcci e nuove categorie di comprensione del conflitto tra cristianesimo ed ebraismo. L’obiettivo è trovare un’inedita grammatica per decifrare quest’antichissimo corpo a corpo religioso, foriero di enormi conseguenze per la storia umana, certamente il più carico di incomprensioni e di sofferenze per lo più inflitte da parte cristiana al mondo ebraico “dopo il 70”. Da questo preciso punto, dunque, occorre partire.

trent’anni fa sul conflitto tra cristianesimo ed ebraismo, nel tentativo di individuare chiavi ermeneutiche tali che, aiutando la comprensione dei fatti e dei testi “oggetto” peculiare di disputa tra ebrei e cristiani, non tanto leniscano le ferite sul campo (o ancor meno compensino le irredimibili sofferenze dei morti) quanto diano un senso al conflitto stesso e con ciò ne disinneschino la virulenza. Vorrei lasciar in-

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Dall’«adversus judaeos» di Giustino e Tertulliano al Concilio Vaticano II, due millenni di storia di uno scontro teologico spesso agguerrito, ma anche capace di riconoscere alla controparte rispetto e «dignitas». Comprenderli oggi può aiutare a volgerli in dialettica positiva: per dirla in ebraico, in una «machloqet» (una disputa) per amore del Cielo

Papa Francesco al Muro del Pianto nel 2014. Il Muro è ciò che resta del Tempio distrutto nel 70 d.C. / Epa/Osservatore Romano