Arrestato Matteo Messina Denaro. Dopo 30 anni di latitanza. E’ stato trasferito in una località segreta

Il boss mafioso Matteo Messina Denaro in un fermo immagine dopo l'arresto dai carabinieri del Ros, dopo 30 anni di latitanza, Palermo, 16 gennaio 2023. ANSA/US CARABINIERI © ANSA

Il boss mafioso Matteo Messina Denaro in un fermo immagine dopo l’arresto dai carabinieri del Ros, dopo 30 anni di latitanza, Palermo, 16 gennaio 2023. ANSA/US CARABINIERIRIPRODUZIONE RISERVATA © Copyright ANSA

Il boss mafioso Matteo Messina Denaro è stato arrestato dai carabinieri del Ros, dopo 30 anni di latitanza.

L’inchiesta che ha portato alla cattura del capomafia di Castelvetrano (Tp) è stata coordinata dal procuratore di Palermo Maurizio de Lucia e dal procuratore aggiunto Paolo Guido.

Matteo Messina Denaro è stato arrestato all’interno della clinica privata La Maddalena di Palermo, dove un anno fa era stato operato e da allora stava facendo delle terapie in day hospital. Nel documento falso esibito ai sanitari c’era scritto il nome di Andrea Bonafede.

“Bravi, bravi!”. Urla di incoraggiamento e applausi nei confronti dei carabinieri del Ros, da parte di decine di pazienti e loro familiari, hanno accompagnato l’arresto del superlatitante nella clinica.

La certezza è arrivata tre giorni fa. I magistrati, che da tempo seguivano la pista, hanno dato il via libera per il blitz. I carabinieri del Gis erano già alla clinica Maddalena dove, da un anno, Messina Denaro si sottoponeva alla chemioterapia. Il boss, che aveva in programma dopo l’accettazione fatta con un documento falso, prelievi, la visita e la cura, era all’ingresso. La clinica intanto è stata circondata dai militari col volto coperto davanti a decine di pazienti. Un carabiniere si è avvicinato al padrino e gli ha chiesto come si chiamasse. “Mi chiamo Matteo Messina Denaro”, ha risposto.

Dopo il blitz nella clinica, l’ormai ex superlatitante è stato trasferito prima nella caserma San Lorenzo, poi all’aeroporto di Boccadifalco per essere portato in una struttura carceraria di massima sicurezza. La stessa cosa accadde al boss Totò Riina, arrestato il 15 gennaio di 30 anni fa.

Insieme a Matteo Messina è stato arrestato anche Giovanni Luppino, di Campobello di Mazara (Tp), accusato di favoreggiamento. Avrebbe accompagnato il boss alla clinica per le terapie.

Mafia: 35 anni fa ucciso Natale Mondo, Palermo lo ricorda

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Questura di Palermo ha ricordato uno dei tanti agenti di polizia, uccisi dalla mafia, Natale Mondo, assistente capo, trucidato il 14 gennaio del 1988 dinanzi al negozio di giocattoli della moglie.

Nel corso di una cerimonia solenne ed alla presenza di autorità civili e militari, il questore di Palermo, Leopoldo Laricchia, ha deposto una corona di alloro dinanzi alla lapide posta nell’atrio della squadra mobile su cui il nome di Natale Mondo è inciso assieme a quello di tanti nostri colleghi uccisi dalla mafia.
Natale Mondo, palermitano di nascita, da poliziotto, dopo una breve esperienza in alcune città italiane, era tornato a Palermo dove aveva prestato servizio presso la Squadra Mobile dal 2 dicembre 1982 al 9 ottobre 1985.
Si era occupato prevalentemente di indagini sulle cosche mafiose attive nel capoluogo, apportando un prezioso contributo alle indagini su “Cosa Nostra”, in un periodo in cui affrontare sul campo la criminalità organizzata, specialmente per i poliziotti che erano originari del capoluogo, significava esporsi pericolosamente a terribili vendette.
Per l’estremo sacrificio della propria vita, stroncata da un proditorio agguato criminale, Natale Mondo il 10 novembre 1999 e’ stato insignito della “Medaglia d’oro al valor civile alla memoria”. (ANSA).

Le nuove indagini (43 anni dopo) sull’uccisione di Piersanti Mattarella

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AGI- Il binomio Nino Madonia-Vito Ciancimino avanza lentamente, 43 anni dopo, nei nuovi accertamenti che la procura di Palermo sta conducendo sull’omicidio di Piersanti Mattarella, il fratello del presidente della Repubblica, Sergio, assassinato la mattina del 6 gennaio 1980 in via Libertà, nel capoluogo siciliano.

Palermo oggi ricorda il suo presidente della Regione dalle “carte in regola”, con un omaggio nel luogo dell’agguato, ma soprattutto con la rinnovata richiesta di verità sul delitto. E indagini che prendono una direzione precisa. Mentre il presidente del Tribunale, Antonio Balsamo, chiede una Commissione parlamentare di inchiesta che “faccia piena luce sulla stagione del terrorismo mafioso”, una fase storica che inizia negli anni Settanta e si protrae fino al 1993.

Il sicario e l’ex sindaco mafioso
Madonia, detenuto ininterrottamente dalla fine del 1989, dopo avere trascorso già precedenti periodi in carcere, potrebbe essere il sicario che sparo’ all’allora presidente della Regione. L’ex sindaco Ciancimino, morto a novembre del 2002, è il politico-mafioso inserito a pieno titolo nel contesto melmoso in cui maturò l’omicidio: un fatto – la sua responsabilita’ diretta – su cui ci sono sempre stati sospetti ma mai prove, sebbene messi pure nero su bianco in sentenze definitive, come quella sui cosiddetti delitti politici (Reina, Mattarella, La Torre).

Accertati pure la caratura criminale dell’ex barbiere venuto da Corleone e il suo ruolo di cerniera fra la vecchia Dc e la Cosa nostra tradizionale, di Riina e Provenzano, in cui lui, seppure su piani diversi, sarebbe stato allo stesso livello di potere dei due suoi compaesani.

Il killer dagli occhi di ghiaccio
Nel caso specifico del delitto Mattarella è poi accertato pure il depistaggio tentato da Ciancimino con la falsa pista sulle Brigate rosse (così come per l’assassinio del segretario del Pci, Pio La Torre, lo stesso uomo del sacco edilizio di Palermo mise in giro, e a verbale, la teoria della “pista interna” al partito comunista).

Indagare su don Vito è però sostanzialmente inutile, a meno che non emergano altre complicità per l’omicidio con personaggi ancora in vita della politica di quei tempi. Mentre Madonia, che sconta ergastoli per una serie di altri omicidi degli anni ’80, ha tutti i requisiti per essere il killer dagli occhi di ghiaccio che sparò a Mattarella, appena salito in auto con la moglie, Irma Chiazzese, e i figli Bernardo e Maria, con cui stava andando a messa, senza scorta, perché quell’Epifania del 1980 era domenica e nei giorni di festa il presidente lasciava liberi gli uomini che lo proteggevano.

La verità reclamata dai nipoti
Dall’anno scorso i due nipoti diretti della vittima, prima Piersanti – omonimo del nonno – e ora Andrea Mattarella, entrambi figli di Bernardo Mattarella, chiedono che si faccia piena luce sulle responsabilita’ ancora non emerse.

Un appello affinché si accendano i fari sulle collusioni mai scoperte, sul contesto politico-istituzionale deviato che volle o favorì il delitto, l’eliminazione di un rappresentante delle istituzioni che si opponeva a un sistema affaristico basato su appalti pilotati e divisi fra imprese vicine alle cosche, con l’avallo della politica inquinata.

Un pressante invito a ripartire raccolto, nel tempo, dagli inquirenti, già costretti però ad abbandonare le suggestioni di piste inconsistenti o del tutto vanificate dagli esiti di processi e da sentenze definitive.

Vecchie piste e nuovi accertamenti
La pista nera, benché giudiziariamente sepolta dall’assoluzione definitiva di Giusva Fioravanti, killer nero sul cui ruolo aveva puntato Giovanni Falcone, era stata rispolverata sulla base di elementi vecchissimi ma riemersi negli ultimi anni: si puntava a eventuali complici di Fioravanti ma nessuna certezza è stata raggiunta, a causa della distruzione dei reperti o per la loro naturale consunzione, cosa che aveva reso impossibile, ad esempio, appurare se la pistola Colt Cobra che aveva sparato a Mattarella fosse stata usata anche per uccidere, cinque mesi e mezzo dopo, il 23 giugno 1980, il giudice romano Mario Amato, che indagava sul terrorismo di estrema destra.

Rimangono elementi anch’essi suggestivi, come il riconoscimento di Fioravanti, fatto dalla vedova Mattarella non solo sulla base dell’immagine che le era stata mostrata dell’esponente dei Nar, ma anche su un particolare fisico certo, l’andatura caracollante, a balzelloni, del killer. Un modo di camminare che era tipico anche di Fioravanti.

La procura al lavoro
Il procuratore di Palermo, Maurizio de Lucia, e il suo aggiunto Marzia Sabella hanno oggi in mano il fascicolo contenente i nuovi accertamenti. Per un delitto come quello del 6 gennaio dell’80 non ci sono limiti massimi di tempo: poco meno di due anni fa, ad esempio, Nino Madonia e’ stato condannato all’ergastolo, in primo grado, per il duplice omicidio, avvenuto il 5 agosto 1989, dell’agente Nino Agostino e della moglie incinta, Ida Castelluccio.

Il giudizio contro Madonia, sul delitto Agostino, venne istruito solo alcuni decenni dopo ed e’ ancora in corso in appello. Un altro processo partito molti anni dopo la sua commissione è quello per l’omicidio del chirurgo vascolare Sebastiano Bosio (6 novembre 1981), per il quale l’ergastolo inflitto al superkiller è divenuto definitivo solo a settembre 2018.

Su Mattarella già la corte d’assise d’appello aveva evidenziato, nel 1998, nel decidere il processo sugli omicidi politici, la somiglianza fisica tra Nino Madonia e Giusva Fioravanti, oltre al dato – sottolineato da diversi pentiti – relativo alla assoluta incredibilità dello scambio di favori tra mafia e neri, visto che se i neofascisti potevano giovarsi dell’aiuto dei mafiosi, era assai piu’ improbabile il contrario, dato che i killer e i “soldati” pronti a sparare a Cosa nostra non mancavano.

Il figlio del patriarca di Resuttana
Madonia è uno dei quattro figli del patriarca di Resuttana, Ciccio Madonia, “competente per territorio” sulla via Libertà, dove venne ucciso Piersanti Mattarella. Tre dei fratelli Madonia commisero ciascuno tanti delitti e almeno uno eccellente: Giuseppe uccise il capitano dei carabinieri Emanuele Basile (4 maggio 1980, quattro mesi dopo Mattarella); Salvino, l’imprenditore Libero Grassi (29 agosto 1991); e Nino era uno degli uomini di punta del gruppo di fuoco che, alleato con i corleonesi, seminò sangue e terrore per tutto l’inizio degli anni ’80 (fra le sue vittime principali La Torre e Dalla Chiesa, 1982; Chinnici, 1983; Cassarà, 1985).

Oltre agli elementi di tipo logico-deduttivo, insufficienti per arrivare a un processo, c’è oggi la ricerca di testimonianze, di contributi specifici di pentiti, di dichiarazioni che possano incrociarsi e formare prove. Un lavoro in fase avanzata, che potrebbe portare presto all’incriminazione ufficiale del killer dallo sguardo glaciale, che sta pagando per tanti omicidi, ma non per quello di un presidente della Regione che aveva deciso di puntare sul rinnovamento, in un momento in cui questi comportamenti, giudicati “eversivi”, venivano puniti con la morte dall’organizzazione mafiosa.

“La forza mite che unì il pool anti-mafia”. Pietro Grasso ricorda Antonino Caponnetto

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AGI – “Conobbi personalmente Antonino Caponnetto quando, studiando le carte del maxiprocesso, lo incontrai nella sua stanza. Mi dette un buffetto sulla guancia, che somigliava più ad una carezza e mi disse ‘fatti forza ragazzo, vai avanti a schiena dritta e testa alta e segui soltanto la voce della tua coscienza’. Ancora oggi, in mezzo alle difficoltà, quelle parole mi permettono di affrontare situazioni anche spiacevoli“.

Nel giorno del ventennale dalla morte del giudice Antonino Caponnetto, è il presidente Pietro Grasso a tratteggiarne all’AGI il ricordo ed a spiegare il suo “rigore morale, la spina dorsale d’acciaio, che gli italiani impararono a conoscere dopo le stragi, quando la sua corazza per un attimo si abbasso’, con la frase ‘è tutto finito'”.

Caponnetto arrivò a capo dell’Ufficio istruzione del Tribunale di Palermo il 9 novembre 1983. Tre mesi e mezzo prima, il 29 luglio, era stato ucciso il Consigliere Rocco Chinnici. Proseguì l’idea di Chinnici di dare organicità alla lotta alla mafia, creando il famoso pool che istruì il Maxiprocesso. Pietro Grasso, giudice a latere del Maxi ed amico personale di Caponnetto, ne ricorda il contributo professionale e morale.

“Prima ancora di incontrarlo, nel novembre 1985, potei apprezzare il contributo giuridico che aveva dato. È sempre stato misconociuto, era un grande giurista, oltre che un magistrato d’azione. Non fu un notaio, o un grande sacerdote del rito del Maxi, ma si vide subito la sua autorevolezza, un’opera nascosta, certosina, con la quale riuscì a tenere ben saldo il pool, creando un clima di armonia, di affiatamento nel lavoro, supportando i loro sacrifici e facendo da scudo per le polemiche che già nascevano. Diede lui il collante”.

Eppure Caponnetto “aveva una naturale ritrosia – spiega Grasso – a mettere in evidenza il suo contributo personale, solo dopo tempo si è compreso quanto le decisioni prese dal pool portassero il suo contributo, la sua sensibilità“.

Tornando a quelle parole che Caponnetto pronunziò con volto disperato per la morte di Falcone prima e Borsellino poi, Grasso spiega: “Quella frase la rinnego’ subito dopo, con il suo discorso in Chiesa, con cui diede dignità civile ad un sentimento di speranza presente nella societa’ e testimoniato anche dallo sdegno dei palermitani onesti. Lo fece subito dopo, e’ importante ricordarlo”.

Poi ci fu una “vita successiva” per Caponnetto, quella nelle scuole, quella dedicata ai giovani. “Lui ha offerto il suo volto spendibile, pulito, spingeva i ragazzi a mantenere un costante rapporto con le Istituzioni“. Ed ancora l’esperienza dei vertici antimafia, quelli di Campi Bisenzio, nati da una sua intuizione, in cui metteva insieme le intelligenze migliori della società.

“Creò un osservatorio privilegiato, con la cartolina precetto, metteva insieme le migliori forze intellettuali del Paese, per fare il punto sulla situazione e sui diversi fronti della lotta alla mafia. Poi – spiega Grasso – per lui era centrale la ‘questione morale’, soprattutto in politica, sempre particolarmente attuale. Si era reso conto da tempo che la via della repressione non bastava”.

Ed ancora “cercava di ricucire il rapporto tra politica e magistratura, continuava a dire che nei momenti difficili il Paese dovesse stare unito. Rifiutò qualsiasi incarico e fu una vera spinta per i movimenti antimafia“. Il ricordo finale? “Per me è un punto di riferimento, lo è sempre stato, per questo continuo a parlarne nelle scuole”.

Infine forse il ricordo più dolce, quello del rapporto con la moglie, per tutti “nonna Betta”, ovvero la signora Elisabetta. Un amore vero che si poggiava su basi solide. Un’intesa che si è protratta, oltre la vita terrena del marito. “Lei era dolcissima con lui e condivideva appieno il suo impegno, i suoi ideali, i suoi valori. Avevano un’affinità elettiva straordinaria. E lei ha continuato nella sua opera, persino con i precetti nei vertici antimafia” e nella Fondazione che porta il suo nome, Antonino Caponnetto.

Saviano annulla gli incontri con gli studenti a Reggio Emilia: “Troppo odio”

Il sindaco Luca Vecchi: “Resisti Roberto, i ragazzi che avresti dovuto incontrare hanno bisogno del tuo pensiero, delle tue parole, del tuo impegno”

Saviano annulla gli incontri con gli studenti a Reggio Emilia: "Troppo odio"

Roberto Saviano ha annullato i due incontri con gli studenti previsti il 27 e il 28 novembre a Reggio Emilia, dove avrebbe dovuto presentare al Teatro Valli il suo libro su Giovanni Falcone “Solo è il coraggio”. Il motivo, spiega lo scrittore, sono il clima di odio nei suoi confronti e lo “squadrismo quotidiano che i giornali di estrema destra, in alcuni casi pagati direttamente da esponenti della maggioranza parlamentare, stanno facendo”. Saviano si vede “sulle loro prime pagine ogni giorno, attaccato nella maniera più bassa e vile”.

Dunque “rinuncio, in queste settimane di attacchi continui, per timore di esporvi, di esporre chi mi ospita: responsabilità, questa, che sento gravosissima”. Ma “l’esposizione fisica preoccupa me e chi mi sta attorno perché l’odio è tangibile e non esiste alcuno scudo”.
Gli attacchi ricevuti, precisa Saviano in una lunga nota, sarebbero riconducibili al processo in cui è accusato di diffamazione nei confronti dell’attuale presidente del consiglio, Giorgia Meloni, che si è aperto lo scorso 15 novembre. I fatti risalgono al dicembre 2020 quando in una trasmissione televisiva si scagliò contro chi porta avanti le campagne anti-immigrazione, paragonando il mancato soccorso in mare come a una ambulanza che non interviene per i feriti in strada e usando l’appellativo “bastardi”, riferito a Giorgia Meloni, allora parlamentare di Fratelli d’Italia e a Matteo Salvini (che per questo episodio si è costituito parte civile pur non avendo querelato all’epoca) per il loro contrasto alle ong.

La fondazione I Teatri di Reggio Emilia, per bocca del direttore Paolo Cantù, esprime “solidarietà e grande dispiacere per essere costretta a rinviare un appuntamento, da molto tempo atteso e voluto per dare alla città e agli studenti la possibilità di sentire parlare di criminalità organizzata da uno dei giornalisti e scrittori italiani più esperti in materia”. Continua Cantù: “ci dispiace che l’attualità politica abbia preso il sopravvento e stiamo già cercando una data alternativa, il prima possibile, per riuscire ad avere Roberto Saviano con noi, per continuare ad esercitare fino in fondo la nostra funzione di spazio e presidio pubblico di pensiero e dialogo”.

“Caro Roberto, resisti”

In una lettera aperta, il sindaco e presidente della fondazione Luca Vecchi dice: “Caro Roberto Saviano, mi preme dirti che non sei solo: l’amministrazione comunale e la città sono al fianco di chi si impegna in prima persona contro la criminalità organizzata, per la legalità e la sicurezza, sin dai tempi in cui il prefetto Antonella de Miro cominciò, in questa terra, a operare sul fronte del contrasto alle mafie economiche.
Qui stiamo e qui ci troverai, sempre”. Dunque, “sono sono fiducioso che questo sia, per noi, solo un arrivederci”, continua vecchi. “Lascio a te, caro roberto, l’autonomia di una riflessione e di una decisione definitiva sulla tua partecipazione in futuro al nostro incontro. Voglio solo dirti che quei ragazzi pronti a riempire il teatro municipale Romolo Valli hanno bisogno del tuo pensiero, delle tue parole, del tuo impegno. Resisti Roberto. Ti aspettiamo in città al più presto”, conclude il primo cittadino.

Bonaccini: “Un forte abbraccio”

“Esprimo vicinanza e solidarietà a Roberto Saviano, a nome mio personale, della Regione e di tutta la comunità emiliano-romagnola. Che ritenga di dove rinunciare a partecipare a due incontri previsti al Teatro Valli di Reggio Emilia anche per non esporre i presenti a pericoli è un monito che non può essere sottovalutato”. Così il presidente della Regione, Stefano Bonaccini. “Una rinuncia che fa ancora più male – prosegue- in una terra dove valori comuni e condivisi di libertà e civica convivenza ci vedono lavorare insieme, istituzioni, società civile, associazioni, penso in particolare a Libera e ad Avviso Pubblico, contro le mafie e l’infiltrazione della criminalità organizzata. A partire dalla prevenzione nelle scuole fino alla collaborazione costante e continua con magistratura, inquirenti, tutte le forze dell’ordine, che ringrazio per l’attività incessante e quotidiana che portano avanti. Grazie a loro si sono svolte e si stanno svolgendo inchieste rilevanti, a partire da Aemilia, il cui processo come Regione abbiamo voluto si potesse svolgere proprio qui, in Emilia-Romagna”. “A Roberto Saviano – conclude Bonaccini – va un forte abbraccio: abbiamo bisogno della sua voce e della sua testimonianza, per un impegno che deve essere anche di tutti noi”.

bologna.repubblica.it

 

Veltroni: “Il mio docufilm su Pio La Torre racconta la storia di un eroe”

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“Volevo raccontare la storia di un eroe perché, se è vero quello che diceva Brecht ‘beato quel Paese che non ha bisogno di eroi‘, è altrettanto vero che è sciagurato quel Paese che dimentica i suoi eroi”. Walter Veltroni spiega così perché ha voluto dedicare al segretario del Pci siciliano ucciso da Cosa Nostra nel 1982 un documentario, ‘Ora tocca a noi – Storia di Pio La Torre‘, che sarà presentato oggi alle 19 alla Festa del cinema di Roma.

Incontrare Walter Veltroni alle come incontrare Walt Disney a Disneyland. Questa è casa sua ed è qui che insieme, con la complicità di Goffredo Bettini, quando era sindaco di Roma volle portare nella Capitale il festival cinematografico che oggi festeggia 17 anni. L’ex primo segretario del Pd, ex vicepremier ed ex ministro dei Beni culturali del governo Prodi da tempo si è ritirato dalla politica attiva e si è dedicato al cinema, sua antica e fortissima passione. “Ho ritenuto che la mia stagione fosse finita dal punto di vista dell’impegno politico. Ho deciso di fare quello che potevo per continuare in altre forme di impegno civile”, chiarisce.

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Walter Veltroni, segretario Pd dal 2007 al 2009

Sulla situazione politica, però, pur non volendo parlare di partiti o del governo nascituro di centrodestra, ha le idee chiare e una profonda fede nel futuro: “Quello che vedo è che non solo il ceto politico ma lo zeitgeist, lo spirito del tempo, porta chiunque nel nostro Paese abbia un ruolo pubblico a concentrarsi su se stesso e non sul contesto – spiega rispondendo all’AGI – questo gratifica chi lo fa ma non serve agli altri. E’ quindi necessario qualcuno che sappia accendere la scintilla, soprattutto nei giovani”.

Secondo l’ex sindaco di Roma (che, prudentemente, non vuole parlare della situazione in cui versa la Capitale a guida Pd) “bisogna cercare di trovare una chiave per arrivare a loro”. “La politica deve riaccenderla perché c’è grande voglia di impegno civile – dice Veltroni – io ne sono sicuro, ma bisogna farlo. E una scintilla può arrivare dalla cultura”. Già, la cultura. Nota dolente per Veltroni: “Purtroppo non mi sembra che ci sia attenzione a questo settore fondamentale – spiega ancora – anche perché in tutte le anticipazioni sui vari ministeri uscite sulla stampa mancava sempre la casella riguardante il ministro della Cultura. Quando nel ’96 vincemmo le elezioni con l’Ulivo – ricorda Veltroni – Prodi mi disse che oltre alla vicepresidenza voleva affidarmi un ministero e mi chiese quale volessi. Chiesi la Cultura perché pensavo che il governo dell’Ulivo dovesse far capire che era una priorità”.

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© GIUSEPPE CACACE / AFP

Romano Prodi e Walter Veltroni

Veltroni rappresenta un mondo e una classe politica in via di estinzione, in cui la competenza e l’impegno – civile e politico – erano considerati dei valori. Adesso le cose stanno diversamente e la nuova classe politica sembra distratta da altre questioni. E questo potrebbe favorire la mafia. Ne è convinto anche Veltroni che spiega come oggi sia “sommersa ma non è sparita. E’ come una piovra e ha allargato i suoi tentacoli – spiega – e il fatto che non si sparga sangue, non vuol dire che sia scomparsa. Al contrario, questi soggetti – mafia, camorra, ‘ndrangheta – sono diventati potenze nazionali e mondiali. Si sottovaluta la necessità di recidere i tentacoli, di tagliare quei legami”.

Nel suo documentario ‘Ora tocca a noi – Storia di Pio La Torre’, realizzato con immagini di repertorio a volte inedite delle tv locali e della Rai, ripercorre l’efferato delitto avvenuto quarant’anni fa, la mattina del 30 aprile 1982, di Pio La Torre. Il politico, ex sindacalista e segretario regionale del Pci in Sicilia, fu assassinato insieme al suo amico e collaboratore Rosario Di Salvo mentre si recava in ufficio a Palermo. Mandanti, concluse il processo svoltosi quasi dieci anni dopo nell’aula del carcere dell’Ucciardone: i boss della Cupola di Cosa Nostra.

“Il titolo ‘Ora tocca a noi’ ha un doppio significato – spiega Veltroni – uno è la lucida considerazione di Pio La Torre che sapeva di essere nel mirino di Cosa Nostra ma ha continuato la sua battaglia. E l’altro è che ora tocca a noi continuare perché c’è una bandiera che non deve restare per terra: le idee di Pio devono essere portate avanti”, aggiunge.

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Pio La Torre

“Volevo raccontare la storia di un eroe – aggiunge – perché se è vero quello che diceva Brecht ‘beato quel Paese che non ha bisogno di eroi’, è altrettanto vero che è sciagurato quel Paese che dimentica i suoi eroi. Pio aveva un fuoco dentro di sé legato alla politica più alta”, ricorda Veltroni, che conosceva personalmente Pio La Torre con cui aveva lavorato e dei cui figli era amico. “Non esiste più la quella passione politica – continua – e forse viene facile dire che le persone sono diverse, ma io credo che diverso sia il contesto. Non per nulla in tutto il mondo c’è lo stesso fenomeno. Il Pci allora era una comunità di persone che avevano a cuore sentimenti comuni – aggiunge l’ex segretario democratico – il dolore di Macaluso che, come si vede nel documentario, racconta quando Pio gli disse ‘ora tocca a noi’ è il dolore nato nella lotta, nelle battaglie comuni. Il Pci in Sicilia era uno dei baluardi contro la mafia“, aggiunge.

“Uomini come Pio La Torre erano persone poco dotate di ideologia, nel senso di sistema chiuso, ma avevano forti ideali, valori di principi a cui ispirare la politica in generale – spiega ancora Veltroni – Pio La Torre è voluto tornare a tutti i costi in Sicilia, era un riformista che aveva passione per le battaglie civili, per le masse. In lui c’era una forte passione per un ideale”, conclude.

‘Ora tocca a noi – Storia di Pio La Torre’, prodotto da Minerva Pictures, Rai documentari e Istituto Luce-Cinecittà, sarà programmato a dicembre su Raitre.

Agi

Palermo. Raid vandalici nei luoghi del ricordo delle vittime di mafia

Domenica sfregiato un murale dedicato a Paolo Borsellino e rubate alcune statuette che rappresentano le vittime, nel cortile del complesso dello Spasimo
Il murale dedicato a paolo Borsellino sfregiato

Il murale dedicato a paolo Borsellino sfregiato – Fotogramma

Due raid vandalici a Palermo che hanno avuto come obiettivo le vittime di mafia riaccendono lo sdegno di cittadini e istituzioni, alla vigilia dell’anniversario dell’omicidio di mafia di Libero Grassi. Nella tarda serata di domenica 28 agosto all’interno del cortile del complesso dello Spasimo, dove è installato “L’Albero dei tutti”, opera di Gregor Prugger, prodotta dalla Fondazione Falcone con la provincia autonoma di Bolzano, curata da Alessandro De Lisi e realizzata in occasione del trentennale delle stragi di Capaci e via D’Amelio, in ricordo delle vittime della mafia, ignoti hanno rubato 23 statuette che ne rappresentano proprio alcune. Non si registrano danni all’albero.

E, sempre ieri sera, la scoperta che qualcuno ha vandalizzato il murale di TvBoy che si trova fra le vie Alessandro Paternostro e Lungarini che ritrae Paolo Borsellino. Il fatto, secondo una prima ricostruzione, sarebbe avvenuto nella notte fra sabato e domenica. A essere preso di mira il volto del giudice ucciso dalla mafia, sfregiato con un punteruolo.

Avvenire

INCHIESTA Trent’anni di mafia rivisti nel “Padrino”

Un saggio di Enrico Deaglio solleva molti interrogativi su depistaggi e latitanze eccellenti Con tanti rimandi al film di Coppola e al romanzo di Puzo

L’installazione “Branco” di Velasco Vitali, realizzata nel maggio scorso nell’Aula Bunker di Palermo in occasione della rassegna #SpaziCapaci promossa dalla Fondazione Falcone / Fondazione Falcone

Quando chiude questo libro di Enrico Deaglio dedicato alla mafia ( >>>Qualcuno visse più a lungo. La favolosa protezione dell’ultimo padrino, Feltrinelli, pagine 284, euro 19,00) il lettore torna a una frase che ha incontrato a pagina 227: «Sono passati trent’anni. Cosa si può sapere dopo trent’anni? Probabilmente nulla». In realtà le tante sentenze emesse dalle corti d’assise, grazie al lavoro ciclopico della magistratura siciliana, ci dicono molto. Ma, come sempre accade di fronte a fenomeni criminali così ampi e profondi, molti interrogativi riemergono e con gli anni si moltiplicano. Proprio questi interrogativi sono il cuore del libro. C’è una domanda principale che lo percorre come un’eco continua: perché ci sono voluti quindici anni e una dozzina di innocenti condannati all’ergastolo per scoprire che il racconto di Vincenzo Scarantino sulla strage di via D’Amelio era un depistaggio? Intorno a questo interrogativo di fondo, un corollario di altre domande senza risposta. Perché nel luglio 1979, nel carcere di Rebibbia, si suicida (fu vero suicidio?) Antonio Gioè che, con Giovanni Brusca, aveva azionato il telecomando di Capaci? Perché Giuseppe Graviano, uno dei principali protagonisti della strategia stragista del ’92-’93 e mandante dell’omicidio di don Pino Puglisi, fino al 1994 ha vissuto una latitanza di «circa dieci anni, in totale tranquillità» (parole dei giudici di Reggio Calabria) ad Omegna, ridente paesino sul lago d’Orta da dove si spostava abitualmente per fare shopping e frequentare ristoranti di lusso a Milano? Perché Graviano non fu mai «notato dalle forze dell’ordine, nonostante fosse solito spostarsi in compagnia di svariati soggetti?» (sono sempre i giudici di Reggio a scriverlo in sentenza). Come mai in quei dieci anni a nessuno è venuto in mente di cercarlo ad Omegna, ancorché lì Graviano fosse ostentatamente accolto da un parente di un pezzo grosso della banda di Brancaccio, di cui Graviano era capo incontrastato? E pensare che ad Omegna Graviano riceveva frequenti visite di parenti ed amici che arrivavano in treno e in auto da Palermo. Illuminando questi interrogativi irrisolti, Deaglio è cronista di trent’anni di mafia. Le stragi infinite dei primi anni ’80 (tempi in cui poteva accadere che, nella stessa via di Palermo, in quattro mesi fossero uccise dodici persone!). Gli omicidi eccellenti. La guerra dei corleonesi con lo sterminio di intere famiglie perché – diceva Riina – «non doveva rimanere nulla del loro seme». La Pizza connection e i legami, per il mercato della droga, con i cugini d’America. I rapporti col finanziere Michele Sindona e la sua morte per avvelenamento nel carcere di Voghera (come evitare il richiamo all’avvelenamento, all’Ucciardone, di Gaspare Pisciotta, omicida confesso del leggendario bandito Giuliano?). Il martirio di don Puglisi che, nel regno dei Graviano, a Brancaccio, si ostinava a sognare «che i bambini andassero a scuola e le bambine non si prostituissero ». L’assalto al cielo, contro le istituzioni dello Stato e il massacro dei suoi migliori servitori, fino alle stragi del ’92 e ’93.

A far da colonna sonora a questo racconto dell’orrore c’è un film di 50 anni fa: Il Padrino di Francis Ford Coppola che, con i suoi personaggi più che realisti, ‘divinatori’, aveva già raccontato tutto. «Nel Padrino c’è tutto», dice una celebre battuta di Tom Hanks in C’è posta per te. E così la pensa Deaglio, da sempre innamorato del film di Coppola. I mafiosi vincenti vengono da Corleone, il paese del Padrino, reso famoso nel mondo dal romanzo di Mario Puzo e dal film di Coppola. L’omicidio di Carmine Galante, tranquillamente seduto col sigaro in bocca in un ristorante di New York nel 1979, pare la trasposizione dalla finzione alla realtà della indimenticabile scena in cui Michael, recuperata una pistola nascosta nello sciacquone del bagno, uccide con due soli colpi Sollozzo e il capitano corrotto della polizia. La freddezza tranquilla di certe esecuzioni fa venire in mente il «lascia la pistola, prendi i cannoli», detto da Clemenza a Rocco Lampone dopo che costui ha appena sparato alla nuca di un loro uomo, sospettato di infedeltà. Lo schema organizzativo della ‘Commissione’ di Cosa Nostra è lo stesso di quello raccontato da Puzo. La scelta della famiglia Graviano di lasciare Brancaccio per la Milano degli affari ricorda il trasferimento dei Corleone dalla pericolosa New York al più tranquillo Nevada. Gli accordi tra mafia e mondo di economia e finanza, raccontati dal collaboratore Angelo Siino ci portano a Cuba, capodanno del 1959, quando i maggiori imprenditori americani, incrociando quasi senza accorgersene (solo Michael capisce) i barbudos di Castro che stanno prendendo il potere, si incontrano per stringere affari con i Corleone.

«Tutti si pentono, prima o poi; tutti o quasi», scrive a un certo punto Deaglio. E infatti il suo libro attinge con gusto narrativo ai racconti di tanti ‘dichiaranti’ (puntigliosamente indicati in Appendice). Non solo a quelli recepiti in sentenze definitive ma anche ai tanti racconti resi in processi ancora aperti o nel corso di ‘colloqui investigativi’ o captati durante le intercettazioni. Ma noi sappiamo che non tutti i ‘collaboranti’ (neppure quelli certificati dall’autorità giudiziaria) sono egualmente attendibili. E, alla fine, le loro voci sono come tanti strumenti di un’orchestra. Il risultato finale non è però un’armonica sinfonia, ma un tumulto cacofonico. Non invidiamo i magistrati siciliani e calabresi che in quella foresta di suoni han dovuto addentrarsi e orientarsi. Nonostante alcuni errori, anche gravi, che Deaglio puntualmente denuncia, il loro lavoro, nel complesso, è stato molto importante. L’avvertimento iniziale («cosa si può sapere dopo trent’anni?») forse va rovesciato: «Cosa si può sapere soltanto trent’anni dopo?». Forse solo le nostre e i nostri nipoti, quando saranno aperti certi archivi, quando la nebbia si sarà alzata e la polvere posata, saranno capaci di scrivere la storia di questi decenni di assedio mafioso allo Stato e alla libera vita dei cittadini onesti. Ma sarà compito degli storici, non dei tribunali.

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