Reggio Emilia, il ruolo dell’informazione nella lotta alle mafie: due giorni di incontri con Paolo Borrometi

Il giornalista Paolo Borrometi

REGGIO EMILIA – Due giorni di incontri dedicati al tema del rapporto tra mafie e informazione, che talvolta diventa strumento delle organizzazioni criminali per assoggettare un territorio, ma che molto più spesso rappresenta un mezzo fondamentale per contrastare omertà e cultura mafiosa attraverso il racconto dei processi e le inchieste più coraggiose. Protagonista di questo calendario fitto di iniziative sarà Paolo Borrometi, giornalista siciliano che ha sempre denunciato la criminalità organizzata, soprattutto nei territori del siracusano e del ragusano, e per questo ha ricevuto svariate minacce e dal 2014 vive sotto scorta. Scrittore, condirettore dell’AGI (Agenzia Giornalistica Italia) che lavora per molte testate nazionali, per il suo impegno Borrometi ha anche ricevuto l’onorificenza motu proprio dal Presidente della Repubblica.

Il coordinamento provinciale di Libera Reggio Emilia accompagnerà il giornalista agli incontri con studentesse e studenti dell’Istituto D’Arzo di Montecchio Emilia e dell’Istituto Gobetti di Scandiano, nelle mattine del 16 e 17 febbraio.

Venerdì 16 febbraio non mancheranno poi i momenti di confronto aperti a tutta la cittadinanza, prima a Reggio Emilia e poi a Correggio. Nel pomeriggio del 16/02, a partire dalle 16, Borrometi sarà ospite del Dipartimento di Educazione e Scienze Umane dell’Università di Modena e Reggio Emilia, presso l’Aula Magna di Palazzo Baroni, l’ex seminario vescovile di viale Timavo 93, per un incontro dal titolo “Educare alla legalità e contro le mafie”, organizzato con Libera. Alle 20.45, al Palazzo dei Principi di Correggio (corso Cavour 7), si terrà invece la presentazione dell’ultimo libro del giornalista, “Traditori”, per una serata curata dal locale gruppo di Libera insieme al circolo culturale Primo Piano, al Comune di Correggio e ad Agende Rosse Rita Atria, gruppo di Reggio Emilia e provincia.

Per Libera Reggio Emilia, “queste iniziative saranno anche l’occasione per confrontarsi su quanto sia importante raccontare il radicamento mafioso in un territorio, come quello reggiano, in cui i processi alla ‘Ndrangheta continuano ad abitare le aule di tribunale, le interdittive antimafia registrano numeri sempre altissimi e dove bisogna monitorare con attenzione il destino degli oltre 300 beni confiscati che – speriamo presto – arriveranno nelle disponibilità dei comuni della provincia”.

stampareggiana.it

De Lucia: «La mafia non è finita: tutti uniti e più risorse»

Il procuratore di Palermo: dopo Messina Denaro, non ci siamo fermati. Ma se vogliamo continuare a contrastare i loro piani criminali, tutto deve funzionare

Il procuratore di Palermo Maurizio de Lucia

Il procuratore di Palermo Maurizio de Lucia – ANTONIO PARRINELLO

Lo Stato non si è fermato a Palermo, quella mattina del 16 gennaio 2023 in cui è stato catturato il latitante più pericoloso di Cosa nostra. «L’arresto di Matteo Messina Denaro era un dovere per le istituzioni», spiega oggi il procuratore Maurizio de Lucia, che di quell’operazione fu il regista. «La mafia non è finita allora, d’altra parte 160 anni di storia non si possono chiudere in poche settimane. Però siamo riusciti a indebolirla e abbiamo in testa una strategia chiara per continuare a colpirla, perché questa volta sappiamo dove i clan vogliono andare». La capacità del crimine di mimetizzarsi, di creare legami pericolosi e insondabili, di inabissarsi per poi riapparire improvvisamente, è ciò che maggiormente preoccupa. «Se vogliamo continuare a contrastare con efficacia i loro piani, ogni cosa deve funzionare. La macchina della giustizia ha bisogno di maggiore personale e di maggiori risorse» sottolinea ad Avvenire il magistrato che guida la Procura del capoluogo siciliano.

Procuratore de Lucia, l’arresto di Messina Denaro ha segnato una linea di confine, un prima e un dopo, nella lotta alla mafia. Cosa è accaduto da allora?

Non ci siamo mai fermati. Diversi soggetti sono stati individuati e posti in custodia cautelare. Altre indagini sono in corso e riguardano l’organizzazione di Cosa nostra nel Trapanese, con il coinvolgimento di altri soggetti riferibili all’area di influenza dello stesso Messina Denaro. Sono stati tanti i processi conclusi e le indagini che hanno portato alla cattura di esponenti mafiosi. Oggi magistratura e forze dell’ordine sono in grado di individuare gli associati mano mano che assumono posizioni più rilevanti. Attenzione, però: Cosa nostra per continuare a esistere ha bisogno di un vertice e ora non ce l’ha più. Ha la necessità di dare ordine a quello che succede nelle città, per questo tende a una ristrutturazione costante della sua organizzazione, con un obiettivo su tutti: tornare a essere ricca, ad avere risorse, per riuscire a riacquistare forza sul piano militare e politico, ridiventando così un punto di riferimento per quella che viene chiamata la borghesia mafiosa. Perciò dobbiamo perseguire non solo i mafiosi, ma anche i patrimoni dei mafiosi.

Il boss mafioso Matteo Messina Denaro dopo la cattura

Il boss mafioso Matteo Messina Denaro dopo la cattura – ANSA

Come si finanzia oggi Cosa nostra?

Registriamo un forte interesse verso il traffico degli stupefacenti. Le cosche stanno cercando di reperire fondi dal mercato della droga e per questo hanno iniziato a lavorare con l’organizzazione che da trent’anni ha il monopolio del settore: la ‘ndrangheta. Da una posizione servente, di collaborazione, Cosa nostra vuole diventare socio di minoranza in business come questi, che sono largamente i più redditizi. Può spendere il suo brand, che esercita ancora un forte richiamo soprattutto verso i cartelli del narcotraffico sudamericano, e insieme ha a disposizione un mercato importante come la Sicilia, dove la cocaina è richiesta anche nei palazzi delle famiglie del ceto medio.

Nel libro “La cattura”, che ha scritto per Feltrinelli con Salvo Palazzolo, lei cita tra gli altri un vecchio capomafia, Nino Rotolo, intercettato nel 2005, quando dichiarava: “Noi campiamo per il popolino”. A che punto è l’erosione del consenso sul territorio per la mafia, soprattutto al Sud?

Quelle parole, così come ha poi dimostrato in questi mesi l’inchiesta sulla rete che proteggeva Messina Denaro, dimostrano che superare la soglia dell’omertà in determinati territori resta estremamente difficile: c’è gente che è abituata a ragionare con la mafia, c’è chi è indifferente e fa finta di non vedere, chi infine riesce ad opporsi. Poi abbiamo esempi luminosi come quello di don Pino Puglisi, che ha sacrificato la sua vita per difendere i ragazzi dalla trappola dei clan. Penso che paura, connivenza e convivenza si superino solo con due fattori: sviluppo economico e sviluppo culturale, che però devono camminare uno insieme all’altro. L’impegno dei giovani di Addiopizzo è un segnale, ad esempio. Dal punto di vista invece dell’impatto sull’opinione pubblica, la risposta più importante data dallo Stato alla mafia è stata senza dubbio il maxiprocesso, un fatto che ha segnato la storia di questo Paese e che è costato la vita a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

In questi giorni è riemersa una fotografia, quella di Messina Denaro e Giuseppe Graviano in platea al “Maurizio Costanzo Show”. Che impressione le ha fatto?

Quella foto (un frame di un video) in realtà era nota agli investigatori da molto tempo. Ma il vero volto dei due mafiosi ritratti è quello che emerge da anni di processi e dalle sentenze che li hanno condannati . Certo, la cattura di un superboss che non era il capo dei capi, ma una persona così carismatica da dettare le strategie seppur malato, non basta oggi per dire che si sia messa per sempre una pietra sopra la stagione della mafia stragista, il biennio terribile 1992-1993. Le Procure di Caltanissetta e di Firenze, coordinate dal Procuratore nazionale antimafia Melillo, su quel periodo continuano a indagare. Il lavoro non è finito.

Cosa serve adesso?

In terra di mafia, Procure e Tribunali distrettuali non possono concedere vantaggi alle strutture criminali. Eppure, in un settore fondamentale della nostra vita pubblica come la giustizia, mancano persone e mancano risorse. Tutti gli uffici giudiziari italiani hanno organici inferiori a quel che sarebbe necessario. La Procura di Palermo ad esempio dovrebbe avere 61 pubblici ministeri, ma ne abbiamo soltanto 47. Quattordici pm sono tanti, se si pensa che con le nostre forze copriamo le province di Palermo, Trapani e Agrigento. Come Dda del capoluogo siciliano, in questi giorni, abbiamo deciso di mettere a concorso due dei 13 posti mancanti, ma si tratta sempre di strumenti d’emergenza. Lo stesso vale per le procedure avviate per assumere i nuovi magistrati in tutta Italia. Sono in corso concorsi per 500 posti e ne sono assai opportunamente previsti altri: benissimo, ma entreranno in servizio solo tra qualche anno. Nel frattempo, cosa si fa? Per combattere contro un nemico senza scrupoli, tutto deve funzionare. Invece scontiamo tanti errori fatti in passato. Non servono, ad esempio, più tribunali, ma tribunali attrezzati.

Collaboratori di giustizia e intercettazioni restano strumenti indispensabili.

Certamente. Teniamo alta la guardia, ma devo dire che su questi fronti arrivano segnali confortanti. Le intercettazioni ci hanno permesso di conoscere le dinamiche più riservate dei clan, il 41 bis è prezioso per impedire che i capimafia continuino a comunicare con l’esterno. Non è purtroppo saltato il tappo di tutte le connivenze e di tutti gli affari illeciti trattati dai boss, in realtà economicamente depresse. Figurarsi laddove c’è ricchezza. Dove ci sono tanti soldi, c’è tanta mafia: si fanno pochi omicidi e molti affari. Pensi al Nord Italia: Luciano Liggio venne arrestato a Milano nel 1974, a testimonianza del fatto che la presenza mafiosa anche nelle grandi città settentrionali non è mai mancata, soprattutto nei posti dove è possibile confondere i profitti illeciti con altre ricchezze. Per questo, guardiamo con grande attenzione all’arrivo dei fondi del Pnrr: Cosa nostra ha tutto l’interesse a entrare nel business dei cantieri e noi dovremo vigilare, in particolare sui subappalti. Servono controlli preventivi, indagini a tappeto. Poi toccherà agli imprenditori e alla società civile muoversi: la mobilitazione positiva degli ultimi mesi deve continuare.

avvenire.it

Palermo. Borsellino e Falcone, Giusti contro la mafia

L'arcivescovo di Palermo, Corrado Lorefice

L’arcivescovo di Palermo, Corrado Lorefice – Collaboratori

La Messa celebrata dall’arcivescovo nella chiesa in cui sono stati battezzati Paolo Borsellino, nel 1940, e don Pino Puglisi, nel 1937

Trentuno anni fa, il diciannove luglio del 1992, era una domenica di piena estate, a Palermo. Un’esplosione devastò il silenzio e la serenità del giorno. Il giudice Paolo Borsellino fu travolto dalla violenza della mafia. Con lui morirono coloro che avevano giurato di proteggerlo, la sua scorta: Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Vincenzo Li Muli, Emanuela Loi, Claudio Traina. L’autista Toni Vullo, unico sopravvissuto, si salvò. Ma le cicatrici e gli incubi di quella strage non passarono mai.

Trentuno anni dopo, ieri, Palermo ha vissuto un rito della memoria divisa, con due manifestazioni – la fiaccolata serale, una tradizione della destra, e un corteo di segno opposto – che hanno sfilato, in orari diversi, fino al luogo dell’eccidio. Ma c’è stata anche una città che si è riunita, senza bandiere e senza polemiche, per onorare il sacrificio dei suoi umanissimi eroi che non saranno mai statue. Una parte si è raccolta nella chiesa di Santa Maria della Pietà alla Kalsa per la messa celebrata dall’arcivescovo, monsignor Corrado Lorefice. «Quando i malvagi distruggono i fondamenti dell’umanità solo l’azione dei Giusti può evitare che il loro disegno perverso possa avere successo – ha detto l’arcivescovo nella sua omelia -. Chi uccide un uomo è come se uccidesse il mondo intero e chi salva un uomo è come se salvasse il mondo intero».

«Teniamo desta la memoria dei Giusti – ha aggiunto – di questi nostri memorabili e amabili Giusti, uccisi nella strage di via D’Amelio 31 anni fa, che hanno dato la vita per una Sicilia libera dal maledetto, nefasto e antievangelico potere mafioso. Oggi ci è chiesto di onorare questi nostri martiri della giustizia e della legalità con un rinnovato impulso di fedeltà corresponsabile di tutti agli impegni sanciti dalla nostra Costituzione. Lo dobbiamo anche ai familiari delle vittime».

L’appuntamento ha visto la presenza, tra gli altri, del presidente della Regione, Renato Schifani, del sindaco, Roberto Lagalla, del prefetto, Maria Teresa Cucinotta, del questore, Leopoldo Laricchia, del procuratore, Maurizio De Lucia, del presidente del Tribunale, Piergiorgio Morosini.

Nelle panche, accanto a quelle riservate alle autorità, c’erano i parenti delle vittime. L’arcivescovo Lorefice li ha abbracciati uno per uno.

C’è un particolare che ha reso ancora più preziosa la celebrazione di Santa Maria della Pietà alla Kalsa. In questa chiesa sono stati battezzati sia il giudice Paolo Borsellino che padre Pino Puglisi. Il parroco di Brancaccio fu battezzato il 21 ottobre 1937, il giudice Borsellino il 24 febbraio del 1940. Padre Giuseppe Di Giovanni, il parroco, ha ricordato: «La casa di Borsellino, in via Vetriera, è a poche centinaia di metri dalla chiesa. Nel passato, molte famiglie del quartiere di Romagnolo facevano riferimento alla parrocchia della Kalsa. Tra queste anche quella di padre Puglisi».

«Don Pino Puglisi – ha aggiunto don Di Giovanni – è stato mio professore di religione a scuola e poi mio padre spirituale. Ricordo la sua dolcezza e il suo modo inimitabile e profondamente umano di rapportarsi con il prossimo». Una targa, al fonte battesimale, sottolinea la circostanza. Nell’archivio della parrocchia sono conservati i certificati. Chi maneggia quei reperti di carta, li sfiora con commossa riverenza. Qui, due bambini che avrebbero seminato tanto bene a Palermo, si incrociarono, per un caso. E cominciarono un cammino di speranza.

avvenire.it

Palermo. Il messaggio di Mattarella: combattere indifferenza e zone grigie

Messaggio di Mattarella in ricordo della strage di via D'Amelio

Messaggio di Mattarella in ricordo della strage di via D’Amelio – Ansa

Il capo dello Stato: Falcone e Borsellino hanno dimostrato che la criminalità organizzata può essere sconfitta. L’omaggio della premier, che non parteciperà alla fiaccolata serale: “Ma non scappo”

«Nell’anniversario della strage di via D’Amelio la Repubblica si inchina alla memoria di Paolo Borsellino, magistrato di straordinario valore e coraggio, e degli agenti della sua scorta – Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina – che con lui morirono nel servizio alle istituzioni democratiche». Lo scrive il presidente della Repubblica Sergio Mattarella in una dichiarazione aggiungendo che «quel barbaro eccidio, compiuto con disumana ferocia, colpì l’intero popolo italiano e resta incancellabile nella coscienza civile». «Il nome di Paolo Borsellino, al pari di quello di Giovanni Falcone, mantiene inalterabile forza di richiamo ed è legato ai successi investigativi e processuali che misero allo scoperto per la prima volta l’organizzazione mafiosa e ancor di più è connesso al moto di dignità con cui la comunità nazionale reagì per liberare il Paese dal giogo oppressivo delle mafie. Loro «avevano dimostrato che la mafia poteva essere sconfitta. Il loro esempio ci invita a vincere l’indifferenza, a combattere le zone grigie della complicità con la stessa fermezza con cui si contrasta l’illegalità».

Intanto la premier Giorgia Meloni è arrivata nella caserma Lungaro per la cerimonia in memoria dei cinque agenti di scorta assassinati nella strage di via D’Amelio, dove 31 anni fa fu ucciso il giudice Paolo Borsellino. L’ingresso non è consentito ai giornalisti come comunicato ieri sera dalla questura. Meloni deporrà una corona sulla lapide in ricordo dei poliziotti Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Poi si è recata nei luoghi in cui sono sepolti Paolo Borsellino e Giovanni Falcone, al cimitero di Santa Maria di Gesù e nella chiesa di San Domenico. Subito dopo in Prefettura per presiedere il Comitato per l’ordine e la sicurezza. Meloni non sarà presente questa sera alla tradizionale fiaccolata organizzata da Fdi «per altri impegni concomitanti». «La strage di Via D’Amelio, dove Paolo Borsellino e cinque agenti della sua scorta vennero uccisi dalla mafia, è stato il motivo per il quale ho iniziato a fare politica. La data del 19 luglio 1992 rappresenta una ferita ancora aperta per chi crede in un’Italia giusta». Lo scrive in un post su Facebook la presidente del Consiglio. «Paolo sfidò il sistema mafioso senza mai temere la morte, insegnandoci a non restare a guardare e a non voltarci mai dall’altra parte. Il suo coraggio e la sua integrità sono doni che ci ha lasciato e che tanti giovani hanno deciso di raccogliere per affermare due valori imprescindibili: la legalità e la giustizia», prosegue la premier. «Oggi, a 31 anni di distanza da quel terribile attentato, ricordiamo tutti quegli eroi che non ebbero paura di denunciare al mondo il vero volto della criminalità organizzata e che servirono lo Stato fino all’ultimo. Nel loro esempio portiamo avanti il nostro impegno quotidiano per estirpare questo male dalla nostra Nazione: solo così – continua Meloni – il loro sacrificio non sarà mai vano».

Intercettata dai cronisti durante la visita mattutina a Palermo, la premier ha risposto sulla mancata partecipazione al corteo serale: «Chi fa queste polemiche non aiuta le istituzioni. Mi ha stupito quello che ho letto sui quotidiani: una polemica inventata sul fatto che avrei scelto di non partecipare alla manifestazione per paura di essere contestata. Chi mi può contestare? La mafia? La mafia può contestare un governo che ha fatto tutto quello che andava fatto sul contrasto alla criminalità organizzata. Ma io non sono mai scappata in tutta la mia vita. Io sono un persona che si permette sempre di camminare a testa alta. Sono qui oggi e sarò qui sempre per combattere la mafia», afferma la premier al margine delle commemorazioni di Palermo.

avvenire.it

Palermo. Dopo lo choc della preside arrestata la comunità dello Zen vuole ripartire

L’ingresso della scuola

La scuola dedicata alla memoria del giudice Giovanni Falcone, nel cuore dello Zen, periferia estrema di Palermo, vuole riacquistare la propria serenità. Il quartiere ha bisogno di voltare pagina. Ma non è semplice. Lo choc proposto dalla cronaca è fortissimo e non accenna a diminuire. L’ex preside, la professoressa Daniela Lo Verde, è stata arrestata, nei giorni scorsi, con addebiti pesantissimi. Un colpo al cuore per chi guardava al cancello della scuola con fiducia. Non si deve mai generalizzare, oltre le singole responsabilità, oggetto di indagine. Né si può dimenticare l’impegno strenuo di tanti presidi e docenti a latitudini complicate. Però è vero che i simboli investono percezioni a larghissimo raggio.

Era una dirigente scolastica antimafia apprezzata, Daniela Lo Verde, insignita dell’onorificenza di Cavaliere della Repubblica, nota per il suo impegno in una zona difficile. Gli addebiti di corruzione e peculato sono punteggiati da ricostruzioni inquietanti. Come la sottrazione di pc e tablet, destinati agli alunni e il cibo tolto alla mensa scolastica. Notizie che indignano, in questa parte poverissima di Palermo, tra padiglioni diroccati, spazzatura non raccolta, esposta alla luce del sole, e disagi di vaste proporzioni. Quaggiù fare la fame non è un modo di dire.

Il dirigente reggente Domenico Di Fatta con alcuni docenti dell’istituto “Falcone” del quartiere Zen di Palermo

Il dirigente reggente Domenico Di Fatta con alcuni docenti dell’istituto “Falcone” del quartiere Zen di Palermo – Web

Ora tutti gli occhi sono puntati sul nuovo reggente, il preside Domenico Di Fatta che era già stato alla “Falcone” dieci anni fa. Toccherà a lui riannodare i fili della fiducia spezzata, un compito arduo.

«Non voglio entrare nel merito dell’inchiesta, ma so che le cose che si sono viste e sentite non sono belle – ha detto il preside appena insediato –. Le mamme e i papà percepiscono un tradimento ed è comprensibile, io dovrò cercare di far loro cambiare idea e di spiegare a tutti che gli errori, se ci sono stati, investono la responsabilità di singole persone».

Il professore Di Fatta è un dirigente esperto e tenace: «Dopo essere stato preside della “Falcone”, dieci anni fa – ha raccontato, illustrando il suo curriculum – sono andato al liceo “Danilo Dolci” a Brancaccio a poche centinaia di metri da dove venne ucciso don Pino Puglisi. Ora sono dirigente al “Regina Margherita” la cui succursale è stata vandalizzata l’anno scorso. Le prime cose da fare qui? Ascoltare le famiglie e le associazioni che operano nel territorio. Da questo brutto momento dobbiamo uscire tutti insieme».

«Confesso che nell’apprendere la notizia il primo sentimento è stato di pietà per la preside – ha detto padre Giovanni Giannalia, parroco allo Zen da un anno e mezzo –. Mi sembra, però, sbagliato inquadrare la cosa a partire dalla realtà del quartiere. Io ci leggo invece la profonda crisi e confusione nella quale la nostra umanità può precipitare se non preghiamo e vegliamo su noi stessi. Mi permetto anche di far notare che i crolli evidenziano spesso che qualcosa non funziona a livello di struttura, scambio, vigilanza, compartecipazione. Piuttosto che piangersi addosso credo sia giusto rimboccarsi le maniche e ripartire con umiltà rafforzando tutti questi aspetti».

E ci sono le parole di frate Loris, nato nel quartiere, oggi cappellano al carcere “Pagliarelli”: «Il danno che si è prodotto lo considero gravissimo. La ferita inferta è molto profonda e non si rimarginerà subito. È necessario ripartire dalla riconquista della fiducia di tutti, dai bambini, dai ragazzi. E ci vogliono i servizi. Qui si deve attuare un progetto di rinascita non più rimandabile».

La rabbia dei genitori che accompagnano i figli a scuola, ogni mattina, è palese. Devono attraversare strade ricolme di rifiuti e rottami per arrivare al presidio dell’istruzione e della legalità. Ma cadono le braccia se perfino i luoghi che consideravi un’isola felice mostrano delle crepe.

C’è stata un’assemblea all’interno dell’istituto, un momento serrato di confronto. Ognuno ha condiviso con gli altri la propria sofferenza. Davanti al cancello una mamma si è sfogata: «La vita non è comoda, abbiamo i mariti al “Pagliarelli” e dobbiamo fare tutto da sole. Mio figlio è sconvolto, mi ha detto: se la preside rubava, perché non posso rubare pure io…».

All’incontro è intervenuto il sindaco di Palermo, Roberto Lagalla: «La scuola e le istituzioni vanno al di là delle singole persone, il messaggio educativo continua – ha detto –. Sono sgomento per ciò che viene proposto dalla stampa sull’operato della preside Daniela Lo Verde e mi auguro che alla fine possa essere dimostrato che abbiamo fatto tutti solo un brutto sogno perché, prima da assessore e poi da sindaco, ho sempre ritenuto l’istituto Falcone un avamposto di legalità che non può ammettere tradimento». Allo Zen c’è bisogno, ancora più di prima, di fare bei sogni.

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Mafia. Società, fiumi di contanti e coperture. Messina Denaro, ecco la pista svizzera

Portano a Lugano gli affari del boss e dei suoi fiancheggiatori. Perquisizioni a tappeto a Campobello di Mazara: i carabinieri nell’abitazione di un ex avvocato
Perquisizione nel terzo covo di Matteo Messina Denaro a Campobello di Mazara (Trapani)

Perquisizione nel terzo covo di Matteo Messina Denaro a Campobello di Mazara (Trapani) – Fotogramma

avvenire.it

L’ultimo dei covi individuati a Campobello di Mazara dalla Polizia è intestato a un siciliano emigrato in Svizzera quarant’anni fa, quando il ventenne “don Matteo” già prometteva di emancipare la mafia dell’entroterra trapanese, fino a sedersi un giorno «sulle gambe di Totò Rina», come di lui dicono con spregio alcuni pentiti.

La Svizzera è sempre stata una delle fissazioni di “Diabolik”. A Lugano se ne parla apertamente. Perché da qui a Basilea, attraversando piccoli borghi e piazzali di istituti di credito, in molti hanno avuto a che fare con i “piccioli” di Messina Denaro. Soldi a palate da nascondere o da reinvestire e di cui in gran parte si sono perse le tracce. Il cicerone che ci accompagna tra i segreti svizzeri di “u siccu” sa di cosa parla e porta con sé documenti che ci lascia solo guardare.

Le sue parole trovano molte conferme negli archivi investigativi e nelle ricerche dell’Osservatorio sulla criminalità della Svizzera italiana. Uno dei nomi è quello di Giovanni Domenico Scimonelli, figlio di emigrati siciliani, nato e cresciuto a Locarno. I 1.800 chilometri che separano la soleggiata località svizzera sul Lago Maggiore dalla sterpaglia di Castelvetrano non hanno impedito a Scimonelli di tenere insieme la scuola dei libri contabili e quella del disonore. Non uno sherpa qualsiasi.

Scimonelli aveva creato schermature societarie attraverso cui rendere pressoché impossibile la tracciatura dei movimenti di diverse carte di credito, messe nella disponibiltà della ristrettissima cerchia dei fedelissimi di Messina Denaro. All’occorrenza recapitava messaggi attraverso i “pizzini” con cui il boss impartiva ordini. Sempre lui provvedeva ai bisogni della famiglia del latitante e trasportava denaro contante dall’Italia alla Svizzera, dove sono stati aperti almeno due conti nella disponibilità di Diabolik. Nel 2018 Scimonelli è stato condannato all’ergastolo quale mandante di un omicidio. Non ha mai collaborato con le indagini e dei soldi di “Diabolik” in Svizzera non si è saputo quasi più nulla.

Una fonte della polizia cantonale conferma che a suo tempo fu individuata «una movimentazione di almeno 15 milioni di euro, ma quanti soldi siano transitati complessivamente sui conti e dove siano stati trasferiti non è stato possibile accertarlo».

Nel Cantone Ticino portano le voci di un altro dei comparti su cui il boss si è specializzato. La seconda moglie di Vito Nicastri, ritenuto uno dei più affidabili prestanome del capomafia trapanese, nella Svizzera Italiana ha sviluppato un buon numero di affari. Il 21 gennaio di due anni Nicastri, noto come “re dell’eolico” per avere accumulato una fortuna con le energie rinnovabili, è stato assolto in Corte d’appello dal reato di concorso esterno in associazione mafiosa, per cui il Tribunale gli aveva comminato nove anni. Ma è stata confermata la condanna per intestazione fittizia di beni. Secondo gli inquirenti antimafia Nicastri sarebbe uno dei finanziatori della latitanza di Messina Denaro. In Svizzera da tempo gli investigatori tengono d’occhio la donna e i suoi interessi nel campo della ristorazione e del commercio. Fino a poco tempo fa amministrava società che dal 2010 avevano acquistato nel Paese diversi diritti di superficie. Quando hanno cercato di capirne di più, gli ispettori svizzeri hanno scoperto che tra i soci vi erano emissari delle cosche calabresi di Platì e di San Luca. La conferma del patto di Messina Denaro con la ‘ndrangheta calabrese, che in Svizzera ha sviluppato ingenti business.

Una ventina di anni fa si scoprirono proprio nella Confederazione elvetica tracce di uno degli hobby di Messina Denaro. Da padrone dei mandamenti di Trapani e Agrigento, il boss si è sentito in diritto di depredarne perfino la storia, come uno di quei barbari che ogni tanto rapinavano l’isola. A Basilea vennero sequestrati cinque magazzini nella disponibilità di Gianfranco Becchina, che cooperava nel business della storia rubata e custodiva un archivio di cui si è seppe solo che conteneva 4mila immagini e 17mila documenti.

«Per noi questa è l’ennesima conferma della presenza di una mafia quasi sempre silente, ma non certo meno pericolosa», commenta Francesco Lepori, dell’Osservatorio sulla criminalità organizzata dell’Università della Svizzera Italiana. «Da noi – osserva – non si spara, ma solo perché il ricorso alla violenza creerebbe un allarme sociale che sarebbe da ostacolo agli interessi economici». In Sicilia intanto proseguono le perquisizioni, specialmente a Campobello di Mazara, dove emerge una rete di fiancheggiatori che conferma il clima di omertà di cui ha goduto il boss per proteggere la sua irreperibilità.

L’ultimo a finire nei guai è Antonio Messina, 77 anni, un anziano avvocato e massone radiato dall’albo, già coinvolto in passato in indagini che ruotavano attorno al nome di Messina Denaro. I carabinieri hanno perquisito due immobili di sua proprietà. Uno degli edifici si trova di fronte all’abitazione di Salvatore Messina Denaro, fratello del boss; l’altro a Torretta Granitola, sul litorale di Mazara del Vallo. Messina fu condannato per traffico di droga negli anni ‘90. Assieme a lui erano imputati l’ex sindaco del Comune di Castelvetrano, Antonio Vaccarino, che per conto dei servizi segreti intavolò una corrispondenza con Messina Denaro con il nome di Svetonio, e gli uomini d’onore Nunzio Spezia e Franco Luppino. Messina fu indicato dai collaboratori di giustizia Rosario Spatola e Vincenzo Calcara, come mandante dell’uccisione del giudice Giangiacomo Ciaccio Montalto, ma venne successivamente prosciolto. Assolto anche due anni fa dall’accusa di traffico internazionale di stupefacenti sulla rotta Marocco-Spagna-Italia.