“La forza mite che unì il pool anti-mafia”. Pietro Grasso ricorda Antonino Caponnetto

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AGI – “Conobbi personalmente Antonino Caponnetto quando, studiando le carte del maxiprocesso, lo incontrai nella sua stanza. Mi dette un buffetto sulla guancia, che somigliava più ad una carezza e mi disse ‘fatti forza ragazzo, vai avanti a schiena dritta e testa alta e segui soltanto la voce della tua coscienza’. Ancora oggi, in mezzo alle difficoltà, quelle parole mi permettono di affrontare situazioni anche spiacevoli“.

Nel giorno del ventennale dalla morte del giudice Antonino Caponnetto, è il presidente Pietro Grasso a tratteggiarne all’AGI il ricordo ed a spiegare il suo “rigore morale, la spina dorsale d’acciaio, che gli italiani impararono a conoscere dopo le stragi, quando la sua corazza per un attimo si abbasso’, con la frase ‘è tutto finito'”.

Caponnetto arrivò a capo dell’Ufficio istruzione del Tribunale di Palermo il 9 novembre 1983. Tre mesi e mezzo prima, il 29 luglio, era stato ucciso il Consigliere Rocco Chinnici. Proseguì l’idea di Chinnici di dare organicità alla lotta alla mafia, creando il famoso pool che istruì il Maxiprocesso. Pietro Grasso, giudice a latere del Maxi ed amico personale di Caponnetto, ne ricorda il contributo professionale e morale.

“Prima ancora di incontrarlo, nel novembre 1985, potei apprezzare il contributo giuridico che aveva dato. È sempre stato misconociuto, era un grande giurista, oltre che un magistrato d’azione. Non fu un notaio, o un grande sacerdote del rito del Maxi, ma si vide subito la sua autorevolezza, un’opera nascosta, certosina, con la quale riuscì a tenere ben saldo il pool, creando un clima di armonia, di affiatamento nel lavoro, supportando i loro sacrifici e facendo da scudo per le polemiche che già nascevano. Diede lui il collante”.

Eppure Caponnetto “aveva una naturale ritrosia – spiega Grasso – a mettere in evidenza il suo contributo personale, solo dopo tempo si è compreso quanto le decisioni prese dal pool portassero il suo contributo, la sua sensibilità“.

Tornando a quelle parole che Caponnetto pronunziò con volto disperato per la morte di Falcone prima e Borsellino poi, Grasso spiega: “Quella frase la rinnego’ subito dopo, con il suo discorso in Chiesa, con cui diede dignità civile ad un sentimento di speranza presente nella societa’ e testimoniato anche dallo sdegno dei palermitani onesti. Lo fece subito dopo, e’ importante ricordarlo”.

Poi ci fu una “vita successiva” per Caponnetto, quella nelle scuole, quella dedicata ai giovani. “Lui ha offerto il suo volto spendibile, pulito, spingeva i ragazzi a mantenere un costante rapporto con le Istituzioni“. Ed ancora l’esperienza dei vertici antimafia, quelli di Campi Bisenzio, nati da una sua intuizione, in cui metteva insieme le intelligenze migliori della società.

“Creò un osservatorio privilegiato, con la cartolina precetto, metteva insieme le migliori forze intellettuali del Paese, per fare il punto sulla situazione e sui diversi fronti della lotta alla mafia. Poi – spiega Grasso – per lui era centrale la ‘questione morale’, soprattutto in politica, sempre particolarmente attuale. Si era reso conto da tempo che la via della repressione non bastava”.

Ed ancora “cercava di ricucire il rapporto tra politica e magistratura, continuava a dire che nei momenti difficili il Paese dovesse stare unito. Rifiutò qualsiasi incarico e fu una vera spinta per i movimenti antimafia“. Il ricordo finale? “Per me è un punto di riferimento, lo è sempre stato, per questo continuo a parlarne nelle scuole”.

Infine forse il ricordo più dolce, quello del rapporto con la moglie, per tutti “nonna Betta”, ovvero la signora Elisabetta. Un amore vero che si poggiava su basi solide. Un’intesa che si è protratta, oltre la vita terrena del marito. “Lei era dolcissima con lui e condivideva appieno il suo impegno, i suoi ideali, i suoi valori. Avevano un’affinità elettiva straordinaria. E lei ha continuato nella sua opera, persino con i precetti nei vertici antimafia” e nella Fondazione che porta il suo nome, Antonino Caponnetto.