Scontro tra Cina e India sull’Himalaya

Almeno venti soldati indiani, tra cui un alto ufficiale, sono rimasti uccisi in uno scontro con l’esercito cinese nel territorio del Ladakh, remota area del Kashmir nella regione di confine himalayana contesa tra i due Paesi.

Si tratta di uno dei più gravi incidenti tra Cina e India registrati negli ultimi anni. È la prima volta dal 1975, infatti, che dei soldati muoiono in uno scontro militare tra le due più grandi potenze economiche asiatiche, che da decenni sono impegnate in una disputa territoriale che ha prodotto tensioni intermittenti.

L’episodio — che rischia di esacerbare la già grave situazione nella regione — è avvenuto lunedì notte nella valle del Galwan, sotto il controllo cinese ma rivendicata dall’India, dove da settimane si registrano schermaglie tra i due eserciti. Stando a una nota ufficiale di New Delhi, è in corso un incontro tra rappresentanti militari di India e Cina per evitare un’ulteriore escalation. «Lunedì sera si è verificato un violento scontro con vittime. La perdita di vite dal lato indiano include un ufficiale», ha detto il portavoce dell’esercito, colonnello Aman Anand. Secondo l’emittente indiana Ndtv, le uccisioni non sono state il risultato di scontri a fuoco, ma di combattimenti con pietre e bastoni.

Il capo di Stato maggiore dell’esercito indiano, Manoj Mukund Naravane, ha cancellato una visita che aveva in programma alla base militare di Pathankot, come ha riferito l’emittente News18. La situazione è stata analizzata anche durante un incontro convocato dal ministro della Difesa indiano, Rajnath Singh, con il capo della diplomazia, S. Jaishanka e altri responsabili della sicurezza.

Da Pechino, il ministero degli Esteri cinese, riporta il quotidiano «The Global Times», ha accusato le forze indiane per quelle che considera «due incursioni provocatorie» lungo il confine conteso.

Il ministero, una nota ufficiale, ha confermato che «scontri» sono scoppiati nella valle del Galwan, «dopo che le truppe indiane hanno attraversato la frontiera per attività illegali», ma non ha confermato se ci siano state vittime. La Cina, si legge nello stesso documento, ha presentato una protesta formale e il portavoce del ministero, Zhao Lijian, ha accusato l’India di avere provocato «gravi scontri» diretti tra le truppe dei due giganti asiatici.

Pechino ha poi messo in guardia da «movimenti unilaterali che potrebbero complicare la situazione al confine». Zhao ha auspicato un «dialogo» per «contribuire ad allentare le tensioni e mantenere la pace e la tranquillità» lungo la frontiera.

Diversi soldati indiani, inoltre, risultano scomparsi, e l’India teme che possano essere stati catturati dai militari cinesi.

Le tensioni tra India e Cina sulle questioni di confine vanno avanti da decenni, dalla guerra sino-indiana del 1962. Le più recenti sono iniziate il 5 maggio nei pressi del lago Pangong Tso, nel Ladakh, dopo una schermaglia tra i due eserciti. Nelle settimane successive, indicano gli analisti politici, la Cina avrebbe dispiegato migliaia di soldati nella zona contesa, e la stampa indiana ha parlato di immagini satellitari che mostrano la costruzione di una base aerea cinese.

La guerra sino-indiana fu un breve, ma intenso conflitto che vide contrapposte Pechino e New Delhinell’ottobre del 1962 per il controllo della parte nordoccidentale del territorio Aksai Chin e nordorientale Nefa (“North East Frontier Agency”), rispettivamente delimitati dalla Linea Johnson e dalla Linea McMahon, entrambe contestate da parte cinese. Nonostante il sostegno logistico statunitense, l’India risultò sconfitta sul campo e si vide privata di un’ampia porzione — tuttora rivendicata e al centro degli ultimi avvenimenti — di territorio himalayano (l’area conosciuta con il nome di Soda Plains) dell’ex reame del Kashmir al confine nordoccidentale, mentre il confine nordorientale non subì alcuna modifica di posizione.

L’attuale confine, contestato, corre molto a meridione della catena montuosa del K’un-lun e prende il nome di Line of Actual Control.

3 luglio 2019 nella chiesa parrocchiale di Santo Stefano la Festa di San Tommaso apostolo, evangelizzatore e patrono delle Chiese dell’India.

Con particolare solennità è stata celebrata mercoledì 3 luglio nella chiesa parrocchiale di Santo Stefano la festa di San Tommaso apostolo, evangelizzatore e patrono delle Chiese dell’India.

La Santa Messa vespertina è stata presieduta da mons. Anthony Chirayath, originario di Trichur in Kerala e vescovo emerito della diocesi siro-malabarese di Sagar (India), che quest’anno ricorda il giubileo dei 50 anni di sacerdozio. Hanno concelebrato il vescovo emerito Adriano Caprioli, mons. Francesco Marmiroli, mons. Pietro Iotti, don Daniele Casini, don Gianni Manfredini don Danilo Gherpelli, don Giuliano Guidetti, don Edoardo Cabassi, don Anton del Biafra e don Jinto dell’India; all’altare erano i diaconi Emer Lusvarghi, Amedeo Tarabusi e Marco Vezzosi. Alla celebrazione hanno partecipato le suore provenienti dal Kerala, appartenenti alle tredici comunità religiose indiane presenti nella diocesi di Reggio Emilia-Guastalla, che hanno dato vita ad una suggestiva processione introduttiva recando ognuna un lumino acceso, poi deposto ai piedi dell’altare.

La festa – come ha sottolineato il parroco don Daniele Casini – evidenzia un prezioso scambio di doni tra la Chiesa reggiano guastallese, da decenni presente in India con missionari diocesani e suore della congregazione mariana delle case della carità – a Versova, Uttan, Mamangalam, Shanti Niwas, Verapoly- e le religiose indiane che da alcuni anni sono attivamente inserite nella pastorale diocesana. Nella liturgia oltre all’italiano sono stati utilizzati il malayalam, il tamil, e l’inglese.

Nell’omelia il vescovo Anthony Chirayath, che per vari anni ha prestato servizio in Vaticano nel Pontificio consiglio per i migranti chiamato da Paolo VI, ha definito il vescovo Adriano e mons. Marmiroli due amici dell’India, manifestando loro apprezzamento e gratitudine. Il presule ha poi ricordato le profonde radici cristiane dell’India, documentate anche da recenti scavi archeologici e ha ricordato come l’evangelizzazione operata da San Tommaso avvenuta nella prima metà del primo secolo a.C. sia precedente alla diffusione del cristianesimo in Europa. Il presule – commentando il brano del Vangelo di Giovanni “se non vedo il segno dei chiodi … e non  metto la mia mano nel suo fianco” e contestualizzando la situazione eccezionale in cui l’apostolo si trovava – ha ribadito che non si può ridurre Tommaso all’icona dell’incredulo e farne derivare un messaggio negativo. Anzi, le sue lapidarie quattro parole “Mio Signore, mio Dio” riassumono senza alcun nota di dubbio tutta la dottrina cattolica.

g.a.rossi

Le foto documentano la celebrazione eucaristica nella festa di San Tommaso apostolo ed evangelizzatore dell’India


In S. Stefano a Reggio Emilia Festa annuale di S. Tommaso evangelizzatore e patrono dell’India

La celebrazione Eucaristica è stata presieduta da S. E, Mons. Antony Chirayat e animata dalle comunità religiose provenienti dall’India. Hanno organizzato l’evento la Chiesa di Reggio Emilia Guastalla, il Vicariato per la vita consacrata e i monasteri e il Servizio Diocesano Vocazioni con l’Unità Pastorale “Santi Crisanto e DAria”

Mons. Chirayat è Vescovo emerito della diocesi siro-malabarese di Sagar (India) e ha celebrato il Giubileo dei 50 anni di sacerdozio.

Hanno concelebrato S. E. Mons. Adriano Caprioli vescovo emerito di Reggio EMilia – Guastalla nel 60° di Ordinazione presbiterale (28 Giugno) e Mons. Francesco Marmiroli già vicario episcopale per la vita consacrata.

Le foto documentano la celebrazione eucaristica nella festa di San Tommaso apostolo ed evangelizzatore dell’India

Sri Lanka Colombo, il premier indiano Modi rende omaggio alle vittime del terrore di Pasqua

AsiaNews 

(Melani Manel Perera)Egli è il primo leader straniero a recarsi in visita ufficiale su uno dei luoghi dei massacri del 21 aprile scorso. Durante la visita lampo, discussi accordi di natura economica, progetti di sviluppo e collaborazioni in campo turistico. — Il premier indiano Narendra Modi ha reso omaggio alle vittime delle stragi compiute la domenica di Pasqua in Sri Lanka. 

La svolta. Spose bambine, il Pakistan si muove: nozze solo dopo i 18 anni

Una bimba di 7 anni nel retro di un camion dopo il matrimonio in India (foto archivio Ap)

Avvenire

Lunedì scorso, dopo oltre tre mesi dalla presentazione, il Senato del Pakistan ha approvato una legge che di fatto emenda quella che ha finora regolato le questione matrimoniale e prevedeva un’età minima di 16 anni per l’unione legale. Il limite è ora esteso a 18 anni, in sintonia con una sensibilità in evoluzione ma anche con le legislazioni di diversi altri Paesi musulmani, tra cui Turchia, Egitto e Bangladesh.

Il provvedimento, che esplicitamente «riduce il rischio del matrimonio infantile prevalente nel Paese e salva la donna dallo sfruttamento», era stato proposto a gennaio dalla senatrice Sherry Rehman, da tempo finita nel mirino dei fondamentalisti per la sua posizione critica verso la legge antiblasfemia al punto da essere stata costretta nel 2011 a lasciare il Paese, assegnata dall’allora partito di governo, il Pakistan People Party che in passato fu di Benazir Bhutto, alla sede delle Nazioni Unite a New York come ambasciatrice e in seguito indagata proprio per blasfemia.

Le pene previste per i trasgressori prevedono fino a tre anni di prigione e un’ammenda di almeno 100mila rupie (630 euro). Un severità che ha trovato un Senato pressoché compatto con soli cinque voti contrari alla legge su 104, ma con l’astensione del partito di governo il Pakistan Tehreek-e-Insaf. La forte opposizione islamista al provvedimento rischia di rendere la misura almeno in parte inefficace e il suo passaggio all’Assemblea nazionale per la definitiva approvazione quanto meno arduo. Se la posizione dei sostenitori è di rendere coerente l’età minima per il matrimonio con i 18 anni necessari a ottenere una carta d’identità nazionale, gli oppositori segnalano un possibile contrasto con la legge coranica (che consente il matrimonio dalla pubertà) e la mancanza di consultazione con i leader religiosi islamici.

Il matrimonio tra una 12enne e un 14enne in India (foto archivio Ap)

Il matrimonio tra una 12enne e un 14enne in India (foto archivio Ap)

Alla sua presentazione all’Assemblea martedì, anche due ministri, quello per gli Affari religiosi e quello per gli Affari parlamentari hanno votato contro, come già avevano fatto al Senato, e chiesto di chiedere un parere del Consiglio per l’Ideologia islamica anziché discuterlo in sede di commissione. A chiarire le difficoltà della sua discussione, il fatto che al dibattito introduttivo della legge all’Assemblea nazionale il 30 aprile, solo il Pakistan People Party ha votato compatto per la discussione del provvedimento, mentre tutti gli altri gruppi presenti nell’assemblea si sono divisi sulla sua opportunità.

Il confronto sull’età matrimoniale ha per le minoranze un’ulteriore valenza. Se approvato l’innalzamento a 18 anni, si negherebbe ulteriore legittimità ai matrimoni forzati in età minorile che sono un incubo per le giovani donne di fede cristiana, indù e ahmadiyya. La conversione, infatti, rende vano ogni impegno a far rientrare la “sposa” nella famiglia d’origine, salvo sia stata provata la costrizione al passaggio all’islamismo, ma la conversione non è abitualmente considerata valida anche dai tribunali islamici se al di fuori dell’età legale.

Alzare questa età in sostanza rende reato ogni imposizione al matrimonio per donne al di sotto dei 18 anni. A confermarlo anche Nasir Saeed, a capo del Centre for Legal Aid, Assistance and Settlement (Claas), organizzazione impegnata nella difesa dei cristiani perseguitati in Pakistan: «L’approvazione della legge è molto positiva, tuttavia la sua attuazione sarà altrettanto importante e se il governo mancherà di renderla efficace come stato in passato per altre leggi, pochi ne beneficeranno. In particolare tra le minoranze, dove è radicata la paura che le loro figlie vengano rapite, costrette alla conversione e a sposare contro la propria volontà i sequestratori».

APPELLO URGENTE DALLA MISSIONE DIOCESANE IN KERALA COLPITA DALLE INONDAZIONI “CHIEDIAMO PREGHIERE IN QUESTA SITUAZIONE DI GRANDE SOFFERENZA”

Foto 1: Il vescovo Massimo Camisasca accolto nella casa della carità di Verapoly

Anche la Casa della Carità “Marian Sneha Niwas” – arcidiocesi di Verapoly – nella Stato indiano del Kerala, è interessata dalle spaventose inondazioni che stanno colpendo lo Stato indiano: villaggi allagati, mancanza di energia elettrica, centinaia i morti, migliaia gli sfollati. Dal Kerala provengono le numerose religiose indiane di varie congregazioni, presenti nella nostra diocesi

Gli ospiti della Casa, dove sono presenti le suore carmelitane minori fondate da don Mario Prandi, sono stati evacuati perché costruita su un isola e portati nell’altra casa in città a Mamangalam.

La casa, aperta il 9 maggio 2011, è dedicata al 5° Mistero Glorioso “Maria Regina”, ha accolto il vescovo Massimo Camisasca nel corso della sua visita pastorale alla missione diocesana in India svoltasi dal 26 dicembre 2017 al 10 gennaio scorso. (foto 1 e foto 2)

Da Mumbay, dove nel 1980 è stata aperta la prima Casa della Carità in India, è arrivata a Reggio questo accorata richiesta di sostegno nella preghiera: “Carissimi, forse sapete già della situazione disastrosa del Kerala. Da domenica piove e ampie zone dello stato sono completamente allagate. L’aeroporto e’ chiuso, come tutte le altre vie di comunicazione. Interi paesi sono stati evacuati, anche per pericolo di smottamenti; ci sono diverse vittime. Per quel che riguarda la nostra famiglia a Mamangalam non ci sono problemi, mentre a Varapuzha l’acqua sta entrando in casa e gli Ospiti sono stati portati a Mamangalam. Chiediamo preghiere a tutti in questa situazione di grande sofferenza. Grazie”.

g.a.rossi

Foto 2: Mons. Camisasca a colloquio con l’arcivescovo di Verapoly Joseph Kalathiparambil

TESTIMONIANZA DA MUMBAI DI DON DAVIDE CASTAGNETTI

FRATELLO DELLA CARITA’ –  NELLA MISSIONE INDIANA DAL 2009

Come probabilmente sapete, già da diversi giorni in Kerala la pioggia (in due giorni quella che viene in un anno), ha gonfiato enormemente le riserve di acqua e le 80 dighe presenti sono state aperte gradualmente per evitare cedimenti strutturali. Dighe fra le più grandi d’Asia. La diga di Idukki erano 26 anni che non la aprivano perché l’invaso permetteva di smaltire gradualmente l’acqua. Così i fiumi sono cresciuti e straripati creando forti disagi e morti. Sono finora segnalati più di 160 morti e qualche centinaio i dispersi. Più di 200.000 persone sono rimaste senza casa e la situazione non sembra migliorare. L’aeroporto di Kochi era stato chiuso fino al 18 agosto ma vista la situazione è stata estesa la chiusura fino al 26 agosto a causa di allagamenti che hanno compreso le piste e gli stabili dell’aeroporto stesso. I treni sono bloccati e così la metro di Kochi.

Abbiamo sentito le nostre comunità e stanno abbastanza bene, anche se a Verapoly il fiume è tracimato ed è arrivato fino alla Casa e perciò i padri che si sono trasferiti altrove hanno chiesto alle suore di portare gli ospiti a Mamangalam che non ha finora avuto problemi. Così ora in casa sono 35.

In Verapoly l’elettricità è stata bloccata e perciò non funziona la pompa dell’acqua. E non ci sono scorte di cibo. Le case delle famiglie delle suore (sr. Mary, sr. Bridget, sr. Sheegiya sono originarie del Kerala) finora non sembrano in particolare pericolo, se non in parte i famigliari di sr. Bridget che vivono in un’area dove il fiume ha tracimato.

Per ora anche da qui non riusciamo a muoverci ma invitiamo tutti a pregare per il Kerala e per questo difficile momento.

Grazie.

Mumbai, 17 agosto 2018

Don Davide Castagnetti

 

Tenta un selfie con un orso in India, sbranato

Un frame del video dell’uomo che aveva tentato di fare un selfie con l’orso in India (da YouTube)

Voleva farsi un selfie con un orso ferito, ma è stato sbranato dall’animale sotto gli occhi atterriti di alcuni passanti che hanno ripreso la sua tragica morte con i telefoni cellulari. E proprio uno di questi video è stato pubblicato e diffuso dai media.

E’ successo in India, nel distretto di Nabarangpur dello Stato di Orissa (Est): l’uomo, Prabhu Bhatara, stava tornando da una festa di nozze a bordo di un suv con alcuni amici quando si è fermato per fare pipi’ e ha visto l’orso sul ciglio della strada. E’ in quel punto che ha deciso di approfittarne per farsi un selfie: i suoi amici lo hanno sconsigliato di avvicinarsi all’animale, sia pur ferito, ma lui non ha voluto sentire ragioni ed è stato attaccato non appena si è messo in posa accanto all’orso.

Il video pubblicato online dura pochi secondi e non mostra le fasi finali della lotta tra Bhatara e l’imponente animale, che ha continuato il suo attacco nonostante sia stato morso da un cane randagio arrivato in aiuto dell’uomo. Questi, ha detto un ranger locale, Dhanurjaya Mohapatra, “è morto sul posto”: “L’orso è in cura per le ferite che aveva”, ha aggiunto. L’India, scrive il quotidiano britannico Independent, ha registrato il più alto numero di morti al mondo legate ai selfie tra il marzo 2014 e il settembre 2016, con 76 decessi su un totale di 127.

ansa