La riflessione. Tempo di fiamme e poesia (Per il Natale che viene)

La logica estrema del dono ha la sua paradossale e sovrana radice nel giorno dello Straniero Bambino
Da Avvenire

In alto: Marco Lodola, “Natività”, 2021. Scultura luminosa scatolata, in lamiera verniciata di nero illuminata con led e decorata con pellicole colorate. Dalla mostra Admirabile signum, a La Spezia

In alto: Marco Lodola, “Natività”, 2021. Scultura luminosa scatolata, in lamiera verniciata di nero illuminata con led e decorata con pellicole colorate. Dalla mostra Admirabile signum, a La Spezia – Collezione Fondazione Carispezia
Credo che moltissimi tra noi siano rimasti trasecolati dall’esortazione della Commissaria europea all’Uguaglianza, poi formalmente ritirata, a non utilizzare più parole come Natale o Maria per non offendere chi non è cristiano. Non penso che saranno molti ad ascoltare questa perorazione quando, ora che torna il momento di scambiarci gli auguri natalizi, ma non mi sembra tempo perso sostare un attimo col pensiero su ciò che il Natale, per fortuna, continua a significare per noi.

Quale festa sa ancora creare nel mondo – buona parte del mondo, non solo l’Occidente – le risonanze, gli echi, le vibrazioni, le luci, gli aloni del Natale? Nonostante gli attentati allo spirito dello stupore e del dono prodotti senza tregua dalla civiltà del banale e del disincanto, dai colpi di maglio dell’abitudine e dal duro pane del nonsenso quotidiano (fino all’assedio del Covid-19), il Natale resiste come un castello di sogni leggerissimo ma imprendibile nella sua essenza, come l’isola che non c’è di tutte le utopie, come la montagna incantata della bellezza più limpida e tenace. A ogni nuovo Natale che si avvicina quanti sono gli esseri umani toccati da un sentimento di sollievo, grati a una festa capace, nonostante tutto, di farli respirare, di liberarli, almeno per qualche giorno, dai virus dell’angoscia, dell’amarezza, dello spleen? Certamente milioni. Eppure molte persone fra noi non “sentono” il Natale, o nutrono nei suoi confronti dubbi, sospetti, indifferenza, disagio. È in primo luogo per loro che il grande teologo Karl Rahner nel 1962, cioè in un momento in cui l’Occidente era percorso dall’euforia di un rinato benessere materiale, scrisse: .

Per parte mia non ho dubbi: coloro che non sentono, che non “capiscono” il Natale sono gli stessi che non amano la poesia, che non intendono come la poesia non sia un lusso ma un bisogno primario per l’anima. Simile alla carità nella sua forza profonda – nella sua capacità, per dirla con Paolo di Tarso, di perdonare, credere, sperare senza riserve –, la poesia resiste a ogni genere di distruzione perché sa cogliere “l’altro lato” della realtà, il nocciolo segreto della vita, la ricchezza delle cose anche più comuni. Ogni vera poesia è, in germe, una specie di vangelo, cioè un annuncio del carattere miracoloso del mondo: i grandi poeti, da Francesco d’Assisi a Giovanni Pascoli ad Attilio Bertolucci, sanno ricordarci il miracolo supremo – il fatto che il mondo esiste, che non c’è solo il nulla – con parole spesso semplicissime, con immagini che sembrano fiorire dal lapis di un bambino. A sua volta l’annuncio dei Vangeli è essenzialmente poesia: Cristo non è solo un filosofo rivoluzionario (un maestro in grado di pensare in modo radicalmente “altro”, come ha evidenziato Frédéric Lenoir in uno splendido libro), è soprattutto uno straordinario poeta. Cosa ci rivelano le sue parole, le sue metafore, i suoi apologhi? Forse il senso ultimo del suo insegnamento è inattingibile, ma almeno questo è chiaro e comprensibile a tutti: che nel Regno di Dio le cose e le creature più sublimi sono le più piccole, fragili e inappariscenti: che la Verità sfugge ai concetti, alle idee rigide, alle categorie (ecco perché in certi momenti il modo migliore per testimoniarla è il silenzio): che c’è un legame essenziale tra il visibile e l’invisibile, la realtà e l’Altrove, la povertà e la ricchezza, la morte e la vita. Di questa immensa rivelazione il Natale è il fulcro, il punto di convergenza e di irradiazione, il “fuoco” vivo, la fiamma umilissima e abissale. Nel racconto natalizio di Luca trionfa ciò che i giapponesi chiamano wabi: la bellezza del frugale e del povero, la gloria dello spoglio, del minimo, della nudità, del delicato, del nascosto. Mostrare, come fa il racconto del Natale cristiano, che nell’ombra si manifesta la luce più grande (quella che nel Prologo del Vangelo di Giovanni riapparirà nella sua splendente purezza metafisica) è possibile solo nel vortice inebriante, rapinoso del paradosso. Nessun messaggio, nessuna creazione è così profondamente paradossale come la poesia evangelica, e così capace di far fluire lo spirito del paradosso in altri testi, in altre poesie, in altre creazioni. Da Efrem il Siro che nel suo inno sulla Natività scrive fino all’Andrej Rublëv che dipinge la culla del Dio neonato con la forma di un sarcofago; dai cortocircuiti teologici del Paradiso dantesco () fino all’Ungaretti che in una poesia del Sentimento del tempo evoca un Dio piccolo e sorridente () come figura suprema di quei momenti in cui , cos’è stata la vicenda dell’arte, della letteratura e della musica cristiana se non una straordinaria Via del Paradosso?

Il Paradosso è traboccato oltre i domini della creazione estetica, ha invaso anche le sterminate terre dell’esperienza mistica. Ma nemmeno le cattedrali della filosofia ne sono rimaste immuni. Per uno dei più mirabili filosofi cristiani, Agostino d’Ippona, , secondo la folgorante sintesi di Jeanne Hersch. Per Lev Šestov, spirito intrepido e ribelle, ostinatamente dissidente nella storia della filosofia moderna, segnato dalla Bibbia in un modo tutto suo, sono i risvegli improvvisi da quel sonno che ci rinchiude nell’illusione della ragione.

Il carattere, paradossale fino alla provocazione, dello spirito cristiano è sempre stato scandalo per il mondo, ma i Vangeli ci dicono che solo chi non è disposto a spingersi fuori, lontano dalle abitudini, affidandosi alla “lucida manía” dei profeti, può credere che la via inaugurata dal Natale sia soltanto una forma di follia. Certo, il Dio che Cristo ci ha rivelato non è solo il bambino indifeso, dolcissimo del presepe ma anche lo Straniero, . (Questo aspetto di Cristo è stato colto assai bene da Pasolini nel suo “Vangelo secondo Matteo”: qui Gesù non è solo umanissimo e ; spesso la sua predicazione ha qualcosa di irto, di lancinante e quasi di selvaggio anzitutto per gli apostoli.) Ma lo Straniero è anche il Dio vicinissimo a noi, colui che ci salva con la forza inaudita della gratuità, con la bellezza del dono puro, senza perché.

L’aspetto più autentico del dono in certe culture arcaiche è, secondo Marcel Mauss, il suo carattere eccessivo, cioè la tendenza del donatore a dare “tutto” ciò che possiede, senza temere di rovinarsi. Sommersi dai vacui eccessi del consumismo, storditi dalle troppe offerte di oggetti da acquistare, soprattutto nel periodo natalizio, non siamo più in grado di capire la generosità, la magia, la poesia umana delle forme “primitive” di eccesso. Il Dio dei Vangeli, però, pratica proprio l’eccesso senza misura nel momento in cui dona: se interviene a un pranzo di nozze, come a Cana, offre ai commensali una quantità enorme di vino (secondo le indicazioni di Giovanni potrebbero essere stati più di settecento litri); se uno degli esseri più reietti, un brigante crocifisso, ha un disperato bisogno del suo perdono, glielo concede subito, addirittura gli schiude il Paradiso senza chiedergli nulla in cambio.

Al Museo del ‘900 di Milano la milionaria collezione Mattioli. E’ la più importante al mondo. In comodato gratuito le 26 opere

Il museo del Novecento di Milano ospiterà la collezione Mattioli, la più importante collezione al mondo di opere futuriste e dell’avanguardia italiana di inizio ‘900 Dichiarata indivisibile e insostituibile dallo Stato nel 1973, è formata da 26 opere fra cui Materia di Boccioni, e lavori di Balla, Carrà, Morandi e Modigliani. La collezione, che ha un valore assicurativo di quasi 143 milioni è stata ceduta in comodato gratuito per 5 anni rinnovabili. Così “il museo del 900 diventa il più importante al mondo sul futurismo” dice all’ANSA Anna Maria Montaldo, direttrice del polo arte moderna e contemporanea del Comune.
L’importanza della cessione non sta solo nel valore in sé delle opere – fra cui ‘Mercurio passa davanti al sole’ di Giacomo Balla, ‘Manifestazione interventista’ di Carlo Carrà, ‘Bottiglie e fruttiera’ di Giorgio Morandi e ‘Composizione con elica’ di Mario Sironi – ma nel fatto che arricchiscono e completano una collezione già di grande valore. ‘Ballerina blu’ di Gino Severini, ad esempio, si aggiungerà alla ‘Ballerina bianca’ già presente. In termini calcistici, sarebbe come unire Messi a una grande squadra dove già gioca Ronaldo.
Dal 1997 al 2015 la collezione Mattioli è stata esposta al Peggy Guggenheim Museum di Venezia. E’ invece del 2017 l’annuncio che sarebbe andata per due anni a Palazzo Citterio, cioè lo spazio dedicato al Novecento di Brera, che però non è ancora pronto per l’apertura.
Al momento le opere sono esposte al Museo Russo di San Pietroburgo, come parte fondamentale della mostra ‘Futurismo italiano della collezione Mattioli. Cubofuturismo russo del Museo Russo e collezioni private’. A Milano arriveranno la prossima primavera e “la prospettiva – rivela Montaldo – è di presentare la galleria del futurismo con la collezione Mattioli nell’ottobre 2022”. (ANSA).

Le mostre del week end, da Joan Miró a Frida Kahlo

NAPOLI – Frida Kahlo e Joan Miró, Pier Paolo Pasolini e Ferdinando Scianna, Robert Capa, Pietro Consagra e Banksy: sono ricche di approfondimenti su grandi personaggi le mostre del prossimo weekend.

NAPOLI – Palazzo Fondi ospita dall’11 settembre la mostra “Frida Kahlo. Il caos dentro”, a cura di Milagros Ancheita, Alejandra Matiz, Maria Rosso, Antonio Arévalo: un percorso fotografico e interattivo, allestito fino al 9 gennaio 2022, scandito dagli eventi principali della vita dell’artista messicana, con opere d’arte, immagini scattate da grandi fotografi, abiti, lettere, film che la videro protagonista e la ricostruzione degli ambienti in cui visse.

MODENA – Alle Gallerie Estensi “Capa in color”, mostra che presenta per la prima volta le fotografie a colori di Robert Capa: in programma dall’11 settembre al 13 febbraio 2022, il progetto si snoda lungo oltre 150 immagini, lettere personali e appunti dalle riviste che pubblicarono i lavori del fotografo. Le immagini esposte raccontano la società del secondo dopoguerra vista attraverso gli occhi di un grande artista.

MILANO – Si intitola “Sociocromie. 100 anni in 25 colori”, la mostra in programma al Museo Nazionale Scienza e Tecnologia Leonardo da Vinci dall’8 settembre al 14 novembre. Presentando 25 tavole sinottiche (ognuna riproducente un singolo concetto, l’anno in cui il concetto è emerso e un colore), la mostra, a cura di Giulio Ceppi, ha l’obiettivo di documentare alcuni momenti di valore storico e sociale, legati alla politica, agli eventi sportivi, alle innovazioni tecniche, che ricorrono al colore quale espressione connotante, come la “maglia rosa”, la “blue economy”, il “black friday”.

Nuove date per “The World of Banksy – The immersive experience”, allestita dall’8 settembre al 31 ottobre al Teatro Nuovo: una panoramica del lavoro del misterioso artista britannico attraverso oltre 100 opere d’arte e murales realizzati da giovani artisti anonimi di tutta Europa. Il percorso evidenzia tutti i temi trattati da Banksy nei suoi lavori, ma anche l’importanza che assumono i luoghi stessi, dai quali l’artista trae ispirazione.

“(La) Natura (è) morta?”, curata da Sabino Maria Frassà, è la nuova mostra di Cramum allestita a Villa Mirabello dal 7 al 12 settembre in occasione della Milano Design Week, che presenta 30 opere dedicate al rapporto “essere umano-natura-futuro”. La mostra ospita anche l’ottava edizione del premio Cramum, la cui edizione 2021 è stata vinta dall’artista Stefano Cescon.

MAMIANO DI TRAVERSETOLO (PR) – Due progetti si aprono in contemporanea alla Fondazione Magnani-Rocca, dall’11 settembre al 12 dicembre: “Miró. Il colore dei sogni”, a cura di Stefano Roffi, rivela in 50 opere come per l’artista spagnolo colori brillanti e forti contrasti, linee sottili e soggetti allucinati e onirici fossero gli strumenti attraverso i quali sfidare la pittura tradizionale in favore di un’arte immediata e basata sulle suggestioni. “Pier Paolo Pasolini. Fotogrammi di pittura”, mostra Focus in apertura del centenario pasoliniano, a cura di Stefano Roffi e Mauro Carrera, rivela i numerosi riferimenti pittorici (da Andrea Mantegna a Piero della Francesca e Francis Bacon) che alimentarono nel regista-intellettuale la nascita e la definizione del suo stile cinematografico.

BAGNACAVALLO (RA) – L’arte e i simboli per indagare il legame antico e la convivenza tra uomo e animali, anche alla luce della “dominazione” consumistica e autodistruttiva dell’essere umano: è la mostra “Il rituale del serpente. Animali, simboli e trasformazioni” che dall’11 settembre all’8 dicembre sarà allestita nel Convento di San Francesco. Nel percorso, a cura di Viola Emaldi e Valentina Rossi, saranno esposti lavori inediti di Marta Pierobon, Luigi Presicce, Lorenzo Scotto di Luzio, Filippo Tappi, opere recenti di Mark Dion, Valentina Furian, Claudia Losi, Marco Mazzoni, Dana Sherwood, Davide Rivalta, Emilio Vavarella e un’opera site specific di Bekhbaatar Enkhtur.

COLORNO (PR) – La Reggia di Colorno accoglie il progetto fotografico di Ferdinando Scianna, dal titolo “Due scrittori. Leonardo Sciascia e Jorge Louis Borges”, a cura di Sandro Parmiggiani: in 22 ritratti ciascuno, il fotografo siciliano racconta Sciascia, l’amico di una vita e suo “secondo padre”, accanto all’autore argentino, incontrato negli anni ’80, dalle cui opere è rimasto affascinato.

LUGANO – Aprirà il 12 settembre alla Collezione Giancarlo e Danna Olgiati la retrospettiva “Pietro Consagra. La materia poteva non esserci”, a cura di Alberto Salvadori in collaborazione con l’Archivio Consagra. La mostra, la prima dedicata all’artista in un’istituzione pubblica svizzera, ripercorre la carriera di Consagra dagli anni ’50 fino ai primi ’70, attraverso 64 opere, rivelando come per lui il centro della sua ricerca sia sempre stato il valore dell’uomo e dell’arte al fine di costruire una società migliore.
ansa

Se l’indicibile leopardiano è nell’amore

Il motivo della morte attraversa i Canti di Giacomo Leopardi: dal suicidio di Saffo, personaggio nel quale il poeta ha inteso simboleggiare il proprio senso di diversità, alla prematura scomparsa di Silvia, che allude alla caduta delle illusioni giovanili. Al tema della morte si lega spesso quello dell’amore:

Amore e morte si intitola uno dei cinque componimenti del ‘ciclo di Aspasia’, mettendo subito in chiaro un binomio tipicamente romantico. Su un’indagine relativa a ‘eros’ e ‘morte sacrificale’ nei Canti di Leopardi è incentrato l’ultimo saggio di Franco D’Intino, professore di Letteratura italiana contemporanea all’Università ‘La Sapienza’ di Roma, dove ha fondato e dirige il Laboratorio Leopardi: L’amore indicibile (Marsilio, pagine 230, euro 21). L’autore si addentra nei Canti leopardiani a partire da alcuni ingressi strategici: l’esordio, il centro, la fine. D’Intino mette in luce come nel pensiero e nella poesia di Leopardi l’eros sia una forza centrale, che travolge l’essere umano, che però in molti casi può essere anche in grado di salvarlo. Ma in che modo si lega il motivo dell’amore a quello della morte? Al cuore dell’immaginario leopardiano è il ‘sacrificio d’amore’, come vediamo nella canzone inaugurale, All’Italia, che celebra la morte e la gloria futura dei martiri della patria, offrendo una via d’uscita dalla miseria del presente. Quello che interessa Leopardi è l’’eros paidikòs’ degli antichi Greci, «in continua tensione», come scrive lo studioso, «tra desiderio e istanze morali, pedagogiche e politiche», un amore, insomma, «non vergognoso e lubrico ma invece celeste, divino e benefico». Con A Silvia, il «grande idillio» scritto dieci anni dopo, la tessitura tematica presenta un sottotesto correlato ai culti persefonei per esprimere il mistero della morte-rinascita della natura (con il passaggio simbolico, a cui si accennava sopra, dal piano naturale a quello esistenziale). D’Intino definisce questo testo «il canto in cui Leopardi mette tutto se stesso, la sua vita e il suo pensiero, condensati in una mirabile sintesi poetica che è, come l’autentico frutto del genio, indicibile e inesauribile». Infine, nei Frammenti che chiudono la raccolta, troviamo il motivo del rimpianto del tempo perduto e quello di un desiderio di pienezza da realizzare nel presente, nel poco tempo che il poeta intuisce rimanergli. L’idea iniziale di questo originale percorso ermeneutico – che sfrutta anche gli strumenti della narratologia per leggere un’opera di poesia (nel senso di un’attenzione agli intrecci, ai personaggi, oltre che ai temi e ai motivi) – è venuta a D’Intino dai suoi studi filologici sui testi leopardiani, a conferma di come, per dirla con Jean Starobinski, la filologia e la critica possano, anzi debbano dialogare, se si vuole giungere a significativi risultati interpretativi. Così per definire il disegno complessivo tracciato nel volume «potremmo dire che l’iniziale allegro primaverile si approfondisce nei colori più carichi di un’estiva e autunnale maturità, per disseccarsi poi in una disincantata e ironica asciuttezza invernale». Che è, per Leopardi, il percorso dell’esistenza umana.

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48 ore a Reggio Emilia, la città dal grande passato e dal presente vivace

Reggio Emilia Stazione AV di Santiago Calatrava 2 (Foto Kai-Uwe Schulte-Bunert)

Chiusa tra due vicine ingombranti come Parma e Modena, la più discreta Reggio Emilia regala al visitatore molto più di quel che si aspetterebbe. La meraviglia va ben oltre la scontata fama gastronomica della patria del Parmigiano Reggiano, del locale aceto balsamico, dei salumi reggiani (prosciutto crudo e cotto, coppa, mortadella, salami e cotechini) accompagnati dal gnocco fritto, dei cappelletti, dell’erbazzone.

 

48 ore a Reggio Emilia, la città dal grande passato e dal presente vivace

 

Senza dimenticare il Lambrusco reggiano: l’area vitivinicola della sua provincia è più estesa di quella più nota di Modena. Ma Reggio Emilia è anche arte, architettura, musica, teatro, senso civico e i resti di una passione politica che, tra miti della Resistenza e lotte sociali, ha influenzato la toponomastica più che in qualunque altro capoluogo italiano. È la città di pittori come Correggio, Antonio Fontanesi, Antonio Ligabue e Marco Gerra. Del poeta Ludovico Ariosto. Di Nilde Iotti, prima Presidente donna della Camera dei deputati. Di giganti dello spettacolo come Cesare Zavattini e Romolo Valli. E ha sfornato nel Novecento un’impressionante serie di cantati: Iva Zanicchi, Zucchero, I Nomadi e Luciano Ligabue. Senza dimenticare il genio industriale Max Mara con i vecchi impianti trasformati in museo d’arte contemporanea. E il Tricolore che Reggio ha regalato all’Unità d’Italia. Una città dove palazzi, chiese e teatri testimoniano un grande passato. E dove i colori delle facciate delle case – gialle, rosse, arancio, verdi, azzurre – raccontano la vivacità dei suoi abitanti.

 

PRIMO GIORNO
MATTINA

La vista inizia nell’immensa piazza Martiri del 7 luglio 1960 con i contigui piazza della Vittoria e Parco del Popolo. Probabilmente l’unica spianata urbana italiana che ospita tre teatri: l’Ariosto, il Cesare Zavattini e il Municipale Romolo Valli. Quest’ultimo è un tipico teatro d’opera italiano di metà Ottocento con facciata neoclassica e interno barocco. La sala ellittica, colorata di bianco e oro, racchiude quattro ordini di palchetti, il palco reale e la loggia.

 

 

Reggio Emilia, Teatro Romolo Valli (foto Marco Moretti)
Reggio Emilia, Teatro Romolo Valli (foto Marco Moretti)

 

Visite guidate permettono di ammirare i dipinti allegorici del soffitto, da cui pende il grande lampadario di cristallo, i tre sipari affrescati e, nel sottotetto, una straordinaria collezione di macchine teatrali. A sinistra del teatro, c’è il Palazzo dei Musei con esposizioni che spaziano dalle scienze naturali all’arte, dall’etnografia all’archeologia. Sul lato opposto della spianata, un edificio eclettico ospita la Galleria Parmeggiani, una casa museo con una collezione di falsi d’autore con in ballo pittori come Velasquez, Van Eyck e El Greco.

POMERIGGIO
Da piazza Martiri, via Crispi porta in piazza Del Monte dominato dal cinquecentesco Hotel Posta, da dove in pochi passi si raggiunge piazza Prampolini, il cuore di Reggio, chiusa su tre lati dal Palazzo del Monte di Pietà dominato dalla Torre dell’Orologio, dal Duomo e dal Municipio. La Cattedrale con la facciata romanica ospita all’interno una pala d’altare del Guercino nella cappella Fiordibelli.

 

Reggio Emilia, Municipio  (foto Marco Moretti)
Reggio Emilia, Municipio  (foto Marco Moretti)

 

Il Municipio comprende Museo e sala del Tricolore: racconta come nacque la bandiera nazionale e la storia risorgimentale di Reggio. Tra Duomo e Municipio s’apre il vicolo del Broletto, un sottopasso situato dove nel Quattrocento c’era il cimitero della Cattedrale: ospita botteghe gastronomiche come l’Antica Salumeria Pancaldi e la Casa del Miele (vende latticini di mucca rossa reggiana e ripieno per i cappelletti). Il Broletto collega piazza Prampolini a piazza San Prospero, sede del mercato e dell’omonima basilica, la più preziosa di Reggio: fondata nel 997, fu arricchita all’esterno nel Cinquecento con sei leoni in marmo rosso di Verona, venne poi barocchizzata nel Settecento, all’interno s’ammirano gli affreschi di Camillo Procaccini e Bernardino Campi nel presbiterio e nell’abside che domina uno stupendo coro il legno del Quattrocento. Da qui, seguendo via San Carlo, si raggiunge l’elegante piazza Fontanesi, una spianata rettangolare ingentilita da decine di tigli: è il fulcro della movida reggiana.

 

Reggio Emilia, case su via Emilia San Pietro  (foto Marco Moretti)
Reggio Emilia, case su via Emilia San Pietro  (foto Marco Moretti)

 

CENA
Il ristorante A Mangiare (viale Monte Grappa 3) è una riuscita contaminazione tra tradizione reggiana e cucina basca, frutto dell’incontro tra lo chef Olatz Agoues e la sommelier Donatella Donati. I cappellacci all’alga spirulina ripieni di crostacei, con crema di fave, capperi e crudo di gambero rosso riassumono al meglio il mix creativo di questa coppia di ristoratori.

SECONDO GIORNO
MATTINA

La via Emilia è la strada dello shopping sui due lati. Percorrendo quello porticato a San Pietro, al numero 27 s’incontra il quattrocentesco Palazzo Sacrati: è privato ma merita di entrare nell’androne per gettare lo sguardo sul meraviglioso  patio. Poco oltre, la chiesa di San Pietro annuncia gli omonimi chiostri – un colossale complesso monastico del Cinquecento – impiegati per spettacoli all’aperto e per mostre di fotografia e arte contemporanea.

 

Reggio Emilia, Chiostri di San Pietro (foto Marco Moretti)
Reggio Emilia, Chiostri di San Pietro (foto Marco Moretti)

 

 

Reggio Emilia, Palazzo Sacrati  (foto Marco Moretti)
Reggio Emilia, Palazzo Sacrati  (foto Marco Moretti)

 

POMERIGGIO
Sul versante opposto dell’arteria, a 2 chilometri dal termine della via Emilia Santo Stefano, in via Fratelli Cervi 66, si raggiunge la Collezione Maramotti, l’ex fabbrica di Max Mara costruita nel 1951. Achille Maramotti, il creatore della famosa casa di moda era un grande collezionista d’arte. Negli spazi ridisegnabili dello stabilimento dismesso, nel 2007 ha aperto un museo d’arte contemporanea ricco di centinaia di opere create dopo il 1945: tele e sculture dei maggiori artisti, da Francis Bacon a Lucio Fontana, e dei più importanti movimenti, dall’Arte povera alla Transavanguardia. La permanente comprende 200 opere, a cui si sommano le mostre temporanee. Le visite accompagnate sono gratuite: è obbligatoria la prenotazione. Dall’arte all’architettura contemporanea, una breve corsa in auto (5 km dal centro) porta alla Stazione Mediopadana dell’Alta Velocità progettata da Santiago Calatrava come un’onda lunga 483 metri nell’inseguirsi di 457 portali in acciaio bianco.

 

Reggio Emilia, case nel Centro Storico  (foto Marco Moretti)
Reggio Emilia, case nel Centro Storico  (foto Marco Moretti)

 

CENA
Trattoria La Morina (C.so Garibaldi n. 24/D) serve ricette reggiane tradizionali a prezzi contenuti: cappelletti in brodo, tortelli verdi o di zucca, erbazzone, polenta con porcini dell’Appennino, spongata reggiana.

 

Reggio Emilia, in bici nel Centro Storico (foto Marco Moretti)
Reggio Emilia, in bici nel Centro Storico (foto Marco Moretti)

 

REGGIO IN BICICLETTA
Reggio Emilia è la città più ciclabile d’Italia con una rete di 178 chilometri di ciclovie. Si basa su 12 piste, lunghe da 5 a 12 chilometri, e su di un anello ciclabile di 4,5 chilometri che circonda il centro storico.

lastampa.it

La questione sinodale richiede una ricostruzione storica condivisa che permetta di uscire da alcuni pantani ecclesiali che sembrano oggi ineluttabili

Non ho la possibilità di rispondere puntualmente alle riflessioni qui svolte da Sergio Ventura a partire dalla mia rubrica su Jesus dello scorso luglio. Provo tuttavia a reagire in spirito di dialogo.

Accostare due sinodi così lontani è chiaramente una provocazione che, in quanto tale, resta precaria e fragile. L’intento era unirmi a coloro che avvertono urgente la necessità di una narrazione di parresìa sui decenni coincisi con le presidenze della CEI del card. Ruini e dei suoi immediati successori (a scanso di equivoci, «parresìa» non è qui da intendersi come «grande sincerità e coraggio individuali», ma nel senso molto più complesso che Andrea Grillo ha ben spiegato qui).

Non sono uno storico, ma occupandomi di teologia, posso riconoscere come non esista quasi nessun tema di grande attualità per la Chiesa italiana che non si trovi a dover fare i conti con quanto è successo negli ultimi quarant’anni, su cui è tuttavia difficile una narrazione condivisa. Trattando ad esempio del tema «teologia e cultura», due anni fa scrivevo insieme alla prof.ssa Stella Morra che:

«a metà degli anni ’80, la Conferenza Episcopale Italiana, su richiesta esplicita di papa Giovanni Paolo II, insistette molto sulla promozione di alcuni valori identitari, intorno cui costruire un profilo riconoscibile del cristiano cattolico italiano. Tali intenti trovarono una concretizzazione esplicita in una serie di iniziative sfociate nel Progetto Culturale della fine degli anni ’90. Lo scopo dichiarato era strutturare su valori o principi – che poi avrebbero trovato nei documenti magisteriali la qualifica di «non negoziabili» – una sorta di scheletro culturale del popolo di Dio. Esso, tuttavia, ha creato una situazione di conflitto – per certi versi diremmo inevitabile – che la chiesa italiana non aveva mai vissuto con questi toni, a differenza di altri paesi vicini come la Francia. La forte polarizzazione che ne è scaturita – anche all’interno della chiesa stessa – ha portato a una sconfitta di tutte le parti: abbiamo infatti quasi completamente rigettato una matrice popolare senza tuttavia conquistarne altre, consumandoci in scontri duri e spesso sterili» (Incantare le Sirene. Chiesa, teologia e cultura in scena, EDB, Bologna 2019, 234).

Questo embrionale tentativo di valutazione – molto più articolati sono ad esempio i saggi di Sorge giustamente citati da Ventura, o gli studi di De Rita – non vuole essere un giudizio di valore sull’operato dei singoli, sui quali ci sembra pleonastico ricordare che tra cristiani vale sempre l’attribuzione delle migliori intenzioni e il riconoscimento dell’assunzione di responsabilità in spirito di servizio, quanto piuttosto una ricostruzione che permetta di uscire da alcuni pantani in cui oggi vige quasi una sensazione di ineluttabilità, più che di immobilismo. Pur riconoscendo ai protagonisti del tempo la loro retta intenzione e la bontà di alcune scelte, penso che oggi sia evidente come i prezzi pagati siano stati molto alti. E non solo per la «cultura», ma anche per molti altri campi dell’evangelizzazione.

Faccio un altro esempio. Negli stessi anni del testo che evocavo nel pezzo su Jesus, il prof. Severino Dianich avvertiva che interpretare la «missione» nel senso del «compito pastorale» – come poi è stato spesso fatto – avrebbe portato inevitabilmente a una «strozzatura individualistica, soprattutto quando missione e compito pastorale restano determinati da un’ecclesiologia della struttura invece che dell’evento, da una teologia della chiesa nella quale, in maniera esplicita o nascosta, si pensa la chiesa esistente quando esiste il suo apparato sociale, dal quale essenzialmente emana la sua operosità, e non quando esiste il fatto comunionale come principio del suo agire. […] Se alla chiesa “piantata” resta da svolgere un compito pastorale che non è la missione, il suo problema principale non è più quello del rapporto con il mondo, ma quello della salvezza dei singoli cristiani. Il problema del rapporto con il mondo, dalla grande questione dell’impatto del vangelo con la storia si riduce alla piccola questione della rivalità fra la chiesa e lo stato, e della distribuzione delle competenze fra autorità religiosa e civile nella determinazione della vita pubblica dei cittadini. Succede così che si ha una chiesa decisamente apolitica alla base e una chiesa fortemente politicizzata al vertice: l’abbondantissima letteratura sul problema chiesa-stato, dove la chiesa non è la comunità cristiana ma solo la gerarchia, e dove lo stato non è la comunità civile ma la sua organizzazione nelle strutture dell’autorità, testimonia della grave restrizione di interessi nella quale una simile teologia prima o poi va a finire» (Chiesa estroversa, San Paolo, Cinisello Balsamo 20182, 133-134. [ed. or. 1987]) [1].

Era il 1987. Internet era fantascienza e il delitto d’onore era stato abrogato da solo 6 anni. Ma i grandi teologi hanno questo di bello, che vedono lontano. E i loro insegnamenti sono qualcosa cui si può tornare. A patto ovviamente che la storia sia raccontata tutta e, in quegli anni, la posizione di Dianich non fu certo tra le più ascoltate.

Tornare alla dignità del sacerdozio battesimale, vivere senza paura l’ecumenismo, riconoscere le questioni di genere, ridare slancio al movimento liturgico, stare dalla parte dei poveri anche quando non è comodo, affrontare il conflitto imparando la fraternità: l’elenco potrebbe continuare, ma questi temi non vanno interpretati come i singoli campi di battaglia in cui oggi dobbiamo entrare per sconfiggere l’avversario di turno (fuori e dentro la chiesa), quanto piuttosto le direttrici della forma che la chiesa italiana prenderà nel prossimo futuro. Questa prospettiva si acquisisce, a mio giudizio, assumendo anche un valido punto di vista storico, di cui abbiamo necessità urgente.
vinonuovo.it

Da Eufronio a Brueghel, l’arte di salvare la bellezza

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CASTEL SANT’ANGELO (ROMA) – Siamo in grado di salvaguardare il nostro patrimonio culturale? E in che modo? Parte da questa domanda la mostra “Il mondo salverà la bellezza?. Prevenzione e sicurezza per la tutela dei Beni Culturali”, inaugurata il 12 luglio a Roma, nelle sale del Castel Sant’Angelo, con i capolavori dell’arte, dal mitico Cratere di Eufronio a tante tele, oggetti, statue di tutte le epoche recuperate in questi anni dai carabinieri dei beni culturali. “Una mostra straordinaria che racconta il grande lavoro fatto dai nostri carabinieri della cultura che sono un’eccellenza mondiale”, fa notare il ministro della Cultura Dario Franceschini inaugurandola. Un lavoro straordinario, aggiunge, “frutto di grande competenze scientifiche e di grandi professionalità che il mondo ammira e che ha dato vita anche a quell’unità chiamata I caschi blu della cultura che sta diventando un punto di riferimento in tutto il mondo e che noi porteremo a conoscenza di più paesi nel G20 cultura che sarà a Roma il 29 e 30 luglio”.
Franceschini ricorda quindi che il criterio adottato dall’Italia è quello che le opere “tornino dove sono state trafugate o comunque se non è conosciuto con esattezza il luogo di provenienza il luogo cui fa riferimento storicamente quell’opera”. E quindi, aggiunge, “c’è da un lato un’operazione doverosa per contrastare il crimine e recuperare opere trafugate o danneggiate e contemporaneamente farle diventare un veicolo di arricchimento delle nostre collezioni museali, magari dei musei meno conosciuti”. Tra i capolavori esposti nella rassegna ideata e organizzata dal Centro Europeo per il Turismo e la Cultura di Roma diretto da Giuseppe Lepore in sinergia con la Direzione Generale Sicurezza del Patrimonio Culturale MiC, il Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale e il Museo Nazionale di Castel Sant’Angelo diretto da Mariastella Margozzi, c’è appunto anche il celeberrimo cratere di Eufronio, “che è stato restituito qualche tempo fa e che è diventato il simbolo del museo di Cerveteri – fa notare il ministro – perché l’identificazione con il luogo è totale”. Articolata in diverse sezioni, la rassegna – che sarà visitabile fino al 4 novembre – espone opere di tutte le epoche da una crocefissione di Pieter Brueghel il Giovane al frammento recuperato dell’obelisco di Montecitorio. Una sezione è dedicata al recupero dei beni e alle indagini che ne hanno permesso la restituzione e la messa in sicurezza. Un racconto che accende i riflettori anche sul mondo del web, diventato negli ultimi anni un canale di diffusione e di smercio di queste opere , ma che nello stesso tempo, sottolineano gli organizzatori, può diventare “anche un alleato per la loro difesa nel contrasto dei traffici illeciti grazie alla creazione di banche dati”. Ecco quindi illustrato l’impegno dell’ufficio esportazioni del ministero, sempre in collaborazione con i carabinieri del nucleo per la tutela dei beni culturale (Tpc) per evitare le esportazioni illecite di gioielli del patrimonio italiano. E ancora il racconto si sofferma sui tanti interventi di questi militari specializzati nei luoghi delle calamità e dei disastri, storia recente se si pensa ai terremoti dell’Abruzzo, del Lazio delle Marche e dell’Umbria, grandi tragedie che sono state anche un ottimo campo di addestramento e di messa a punto di modelli di intervento che poi, d’intesa con la Protezione civile e con l’Unesco, sono stati esportati negli altri paesi del mondo.

La Genesi di Manachem Qabbalista italiano

da Avvenire

Esistono miriadi di interpretazioni del libro della

Genesi, ma quella del mistico ebreo Manachem (da) Recanati è diversa. Facendo un balzo nella seconda metà del XIII secolo e immergendosi nella lettura, non facile ma affascinante, del suo Commento alla Torà, ci troviamo in un mondo totalmente altro rispetto alle decostruzioni storico-filologiche dell’esegesi odierna. In questo enciclopedico testo ogni parola ebraica, ogni versetto e ogni pericope sono rami di un immenso albero che collega la terra al cielo (e viceversa) e chi ha la forza di arrampicarvisi arriva a conoscenze segrete e sublimi, a quei ‘segreti della Torà’ che hanno fatto la delizia di una schiera di qabbalisti.

Nello scorcio di quel tardo medioevo la qabbalà o mistica ebraica era al suo apice: circolava in manoscritti ricercatissimi e costosi, copiati e ricopiati in continuazione, non raramente tradotti in latino per quei qabbalisti cristiani, come Pico della Mirandola e il cardinal Egidio da Viterbo, che ne erano affascinati e vi cercavano (addirittura) la prova provata dei dogmi cristiani. Menachem figlio di Beniamino fu probabilmente il maggior qabbalista italiano e il suo commento è diverso perché raccoglie e organizza, in una vasta architettura letteraria, un po’ tutte le correnti di pensiero esoterico-teologico che chiamiamo qabbalà. Un assaggio di questo complesso mondo di idee e di visioni, di rivelazioni segrete e di illuminazioni religiose è ora offerto dalla traduzione italiana dei primi tre capitoli della Genesi, in ebraico Bereshit ossia ‘In principio’, compiuta da Maria Tiziana Mayer (edizioni La vita felice, prefazione di Joseph Blaha, pagine 388) uscita da poco con il titolo Commento alla Genesi.

Ma chi era davvero questo grande qabbalista? Ben poco si sa di lui, e per molto tempo è stato identificato, persino dallo storico rumeno-israeliano Moshe Idel, con un copista romano, a sua volta di nome Menachem ben Benjamin; ma il nostro Giulio Busi, illustre ebraista oggi all’uni- versità di Berlino, lo ha più correttamente identificato come membro della benestante famiglia Finzi, residente a Recanati, da dove il giovane potè coltivare intensi rapporti col mondo ebraico sefardita. Da qui la sua profonda conoscenza dei testi mistici che, soprattutto in Catalogna, venivano composti nella forma di commenti alla Bibbia, come lo stesso

Sefer ha-zohar che è il più noto tra quei commenti (scritto in un aramaico letterario, venne stampato la prima volta a Cremona nel 1558). Nella penisola iberica erano attivi alla fine del XIII secolo i più grandi qabbalisti di sempre, come Joseph Gikatilla e Moshe de Leon, ai quali risale buona parte del materiale confluito nello

Zohar, e come Shlomò ben Adret ed Ezra ben Todros, che fecero da ponte tra Spagna e Italia nella trasmissione di quelle scuole esoteriche. Nessuna sorpresa che il rampollo dei recanatesi Finzi abbia beneficiato di tanta ricchezza esegetico-spirituale e l’abbia fatta confluire nel suo grande commentario ai libri biblici.

Come annota la traduttrice, è riduttivo tuttavia considerare Menachem un mero epigono di quei grandi studiosi sefarditi, a conferma del giudizio che, a suo tempo, ne diede proprio Giulio Busi: «Menachem (da) Recanati è stato un bibliografo paziente, che accumulava decine di fonti prima di azzardare un teoria personale. Allo stesso tempo fu un teorico brillante, capace di cogliere i legami metaforici che uniscono il mondo fisico al sistema delle emanazioni divine». Già, perché in queste dottrine mistiche l’albero che unisce cielo e terra è quello sefirotico, aggettivo che viene da ‘sefirà’, termine polisemico che in ebraico significa sia numero sia narrazione, da cui anche libro, e nel quale risuona persino il greco ‘sfera’. Fissate nel numero canonico di dieci, queste ‘sfere’ sarebbero a un tempo gli attributi del Divino e le sue emanazioni, intese come canali che portano nel mondo terrestre l’energia superna e che costituiscono altrettanti ‘rami’ per salire (e scendere) dall’albero sefirotico.

Evidenti gli influssi neoplatonici di questa dottrina mistica. Il Commento alla Torà di Menachem (da) Recanati intreccia questa struttura esoterico-metafisica con interpretazioni rabbiniche più tradizionali, ad esempio la spiegazione della trasgressione di Adamo ed Eva che mangiarono un fico, e non una mela, come volle una più tarda tradizione cristiana (Michelangelo è al corrente di quest’identificazione ebraica dell’albero proibito e nella Cappella Sistina ritrae un fico, non un melo). Il fico è, simbolicamente, l’albero della ricerca della verità. Ma il punto non è che sia un fico o un melo, ma che i protogenitori abbiano ceduto alla lusinga dell’astuto serpente facendosi un’immagine sbagliata di Dio: la loro colpa, ossia il peccato originale, altro non fu che un peccato di idolatria. Il qabbalista visualizza questa trasgressione come un atto di sradicamento dell’albero stesso, perché ‘tagliare l’albero’ significa sconnettersi dalla fonte della vita e della conoscenza, privarsi del mezzo per salire verso Dio al fine di «vedere il volto del Re» e «mangiare dei frutti squisiti» della sua sapienza. Il commento ebbe un’enorme fortuna, ben intuibile dal fatto che esso venne stampato già nel 1523, a Venezia (praticamente in contemporanea con il Talmud Babilonese), e conobbe molte riedizioni succe ssive. Tanta fortuna si deve probabilmente alla capacità di questo autore di tenere insieme le correnti mistiche più diverse che allora attraversavano il mondo ebraico: quelle imperniate sull’interpretazione del testo, anzitutto, ma anche le correnti estatiche, che prediligevano l’ascesi e la mortificazione (dello stesso Menachem si narra che facesse lunghi digiuni), e persino quelle tendenze religiose che invece preferivano esplorare i testi sacri con metodi più razionali, filosofici, come indicato dal maggior pensatore del giudaismo medievale, Maimonide. L’influenza filosofica è innegabile, ad esempio, in questo passo del mistico recanatese: «La verità è che il Creatore benedetto è la Cagione delle cagioni, la Causa delle cause, né gli si può attribuire mutamento alcuno né alcuna cosa che faccia pensare alla sua molteplicità».

Altri esempi si potrebbero portare dell’intreccio tra filosofia e qabbalà, a dimostrazione di quanto erronea sia l’idea che la mistica ebraica nacque come correzione spirituale agli accessi razionalisti della filosofia ebraica, influenzata com’era dall’aristotelismo arabo (averroistico soprattutto). La mistica, nel giudaismo, è antica quanto il giudaismo stesso e certamente si intreccia con alcune scuole neoplatoniche, ma nel medioevo, come si evince proprio dall’opera di Menachem (da) Recanati, non disdegnò di combinarsi e spesso di fondersi con l’approccio filosofico più razionalista. Qabbalà e filosofia sono le due grandi forme che, a partire dal XII-XIII secolo, il giudaismo intraprese per rinnovarsi e, non da ultimo, per dialogare con le culture in cui viveva: l’islam mutazilita nel bacino afro-mediorientale e il cristianesimo platonizzante in Spagna e in Italia, all’alba di un nuovo umanesimo. Anche grazie ad autori come il qabbalista recanatese, l’umanesimo e poi il rinascimento riscoprirono non solo il greco ma anche l’ebraico e cercarono di scalare l’albero qabbalistico ovvero una sapienza ritenuta ancor più antica della filosofia.

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Pubblicata la prima parte del Commento alla Torà del mistico ebreo medievale nato a Recanati. Una lettura esoterico-teologica in una visione di unità fra il cielo e la terra

L’Albero della vita, rappresentazione simbolica nella qabbalà / WikiCommons