Se l’indicibile leopardiano è nell’amore

Il motivo della morte attraversa i Canti di Giacomo Leopardi: dal suicidio di Saffo, personaggio nel quale il poeta ha inteso simboleggiare il proprio senso di diversità, alla prematura scomparsa di Silvia, che allude alla caduta delle illusioni giovanili. Al tema della morte si lega spesso quello dell’amore:

Amore e morte si intitola uno dei cinque componimenti del ‘ciclo di Aspasia’, mettendo subito in chiaro un binomio tipicamente romantico. Su un’indagine relativa a ‘eros’ e ‘morte sacrificale’ nei Canti di Leopardi è incentrato l’ultimo saggio di Franco D’Intino, professore di Letteratura italiana contemporanea all’Università ‘La Sapienza’ di Roma, dove ha fondato e dirige il Laboratorio Leopardi: L’amore indicibile (Marsilio, pagine 230, euro 21). L’autore si addentra nei Canti leopardiani a partire da alcuni ingressi strategici: l’esordio, il centro, la fine. D’Intino mette in luce come nel pensiero e nella poesia di Leopardi l’eros sia una forza centrale, che travolge l’essere umano, che però in molti casi può essere anche in grado di salvarlo. Ma in che modo si lega il motivo dell’amore a quello della morte? Al cuore dell’immaginario leopardiano è il ‘sacrificio d’amore’, come vediamo nella canzone inaugurale, All’Italia, che celebra la morte e la gloria futura dei martiri della patria, offrendo una via d’uscita dalla miseria del presente. Quello che interessa Leopardi è l’’eros paidikòs’ degli antichi Greci, «in continua tensione», come scrive lo studioso, «tra desiderio e istanze morali, pedagogiche e politiche», un amore, insomma, «non vergognoso e lubrico ma invece celeste, divino e benefico». Con A Silvia, il «grande idillio» scritto dieci anni dopo, la tessitura tematica presenta un sottotesto correlato ai culti persefonei per esprimere il mistero della morte-rinascita della natura (con il passaggio simbolico, a cui si accennava sopra, dal piano naturale a quello esistenziale). D’Intino definisce questo testo «il canto in cui Leopardi mette tutto se stesso, la sua vita e il suo pensiero, condensati in una mirabile sintesi poetica che è, come l’autentico frutto del genio, indicibile e inesauribile». Infine, nei Frammenti che chiudono la raccolta, troviamo il motivo del rimpianto del tempo perduto e quello di un desiderio di pienezza da realizzare nel presente, nel poco tempo che il poeta intuisce rimanergli. L’idea iniziale di questo originale percorso ermeneutico – che sfrutta anche gli strumenti della narratologia per leggere un’opera di poesia (nel senso di un’attenzione agli intrecci, ai personaggi, oltre che ai temi e ai motivi) – è venuta a D’Intino dai suoi studi filologici sui testi leopardiani, a conferma di come, per dirla con Jean Starobinski, la filologia e la critica possano, anzi debbano dialogare, se si vuole giungere a significativi risultati interpretativi. Così per definire il disegno complessivo tracciato nel volume «potremmo dire che l’iniziale allegro primaverile si approfondisce nei colori più carichi di un’estiva e autunnale maturità, per disseccarsi poi in una disincantata e ironica asciuttezza invernale». Che è, per Leopardi, il percorso dell’esistenza umana.

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I cerchi concentrici della solidarietà

Osservatore Romano

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Per superare le crisi ed essere migliori di prima

05 settembre 2020

Nel corso della prima udienza pubblica dopo la sospensione dovuta all’emergenza sanitaria, il Pontefice ha invocato la solidarietà quale valore fondamentale per superare, «migliori di prima», la crisi, che, ormai da mesi, mette a dura prova tanto le istituzioni, quanto le relazioni sociali ed economiche dell’intero pianeta. Il forte richiamo al canone solidarista merita particolare attenzione, essendo rivolto, al contempo, alle persone e alle istituzioni della convivenza.

La solidarietà è valore che, nel corso dei secoli è transitato dal piano religioso a quello politico-filosofico, per approdare, in esito ad un lento processo di positivizzazione, alla dimensione giuridica e, segnatamente, a quella costituzionale. Il principio di solidarietà si colloca, dunque, alle radici di ogni legame sociale, esprimendo, nelle diverse declinazioni in cui si svolge, tutti i riflessi della sua ascendenza assiologica.

L’origine dell’ispirazione solidarista è storicamente segnata dall’incarnazione del figlio di Dio e, dunque, dalla fratellanza di tutti gli uomini in Cristo. «Non c’è più (tra voi) né giudeo, né greco, né schiavo, né libero, né maschio, né femmina essendo tutti noi una sola persona in Cristo Gesù», scriveva San Paolo nella Lettera ai Galati (III, 28). Tale rivoluzionario postulato è stato capace, dapprima, di riplasmare i riferimenti culturali e assiologici della civiltà greco-romana, assorbendoli nella nuova dimensione della Respublica Christiana, orientata dall’autorità imperiale e dalla Chiesa universale. Successivamente, dopo la rottura dell’unità religiosa dell’Occidente, la solidarietà ha, comunque, condizionato i caratteri degli ordinamenti politici laici, affacciandosi sotto forma di fraternità, accanto alla libertà e all’eguaglianza nella triade rivoluzionaria del 1789.

In quest’ultimo contesto storico-politico, tuttavia, l’ispirazione solidarista rimase in ombra, essendo strutturalmente incompatibile con la fortissima carica individualistica che connotava gli altri due principi ispiratori dello Stato liberale ottocentesco. La solidarietà, infatti, postula il concetto di persona, entità originale, ma in costante rapporto con il prossimo e, dunque, immersa nella concretezza dei rapporti sociali, titolare di diritti, ma anche di paralleli doveri. Ecco, allora, che il principio di solidarietà riemerge nella Dottrina sociale della Chiesa, che, a partire dalla Rerum novarum di Leone XIII, contribuisce al superamento dell’individualismo liberale e, nel segno della dignità della persona umana, alla progressiva affermazione dello Stato costituzionale e sociale nella seconda metà del XX secolo.

Proprio nello Stato costituzionale, la solidarietà, divenuta ormai principio di diritto, rivela tutte le sue potenzialità per l’affermazione di un assetto di convivenza orientato al bene comune. In tale ambito, il principio solidarista è un potentissimo fattore di integrazione umana, sul piano politico, sociale ed economico, tanto nelle relazioni tra i privati, quanto nei rapporti tra i cittadini e l’autorità.

Dal primo punto di vista, la solidarietà opera in parallelo al principio di sussidiarietà, offrendo un parametro giuridico per la valorizzazione delle condotte individuali e sociali spontaneamente rivolte al bene comune. Come ha segnalato la Corte costituzionale italiana, la persona è chiamata «ad agire non per calcolo utilitaristico o per imposizione di un’autorità, ma per libera e spontanea espressione della profonda socialità che caratterizza la persona stessa». La solidarietà è, dunque, un principio che, «comportando l’originaria connotazione dell’uomo uti socius», è posto dalla Costituzione tra i valori fondanti dell’ordinamento giuridico. La stessa, quindi, è «istanza dialettica volta al superamento del limite atomistico della libertà individuale, nel senso che di tale libertà è una manifestazione che conduce il singolo sulla via della costruzione dei rapporti sociali e dei legami tra gli uomini, al di là di vincoli derivanti da doveri pubblici o da comandi dell’autorità».

Sul piano dei rapporti tra autorità e libertà, la solidarietà si pone, innanzi tutto, alle radici del vincolo politico tra Stato e cittadino. Tuttavia, proprio la sua carica assiologica alimenta le aperture dell’ordinamento a legami che valicano il perimetro della cittadinanza. Il rilievo del valore personalista, infatti, va oltre la cittadinanza e la nazionalità e rappresenta il presupposto per l’allargamento dei vincoli solidaristici anche in campo politico, secondo un’articolazione che può essere definita “a cerchi concentrici”. Così — sia pure entro i limiti di compatibilità stabiliti dall’ordinamento sovrano, dai suoi organi democratico-rappresentativi e dalla cornice dei principi costituzionali — la solidarietà è stata riconosciuta dal Giudice delle leggi, come fondamento di «una comunità di diritti e di doveri, più ampia e comprensiva di quella fondata sul criterio della cittadinanza in senso stretto, accoglie e accomuna tutti coloro che, quasi come in una seconda cittadinanza, ricevono diritti e restituiscono doveri». In questi termini la solidarietà è ponte tra libertà e autorità, tra cittadino e straniero, tra sentimento e ragione, in un equilibrio dinamico che aiuta a superare le crisi «migliori di prima».

di Felice Giuffrè
Ordinario di Diritto costituzionale nell’Università degli Studi di Catania

L’amore sconfinato di Dio nel NT

Fonte: Settimana news

Il libro rispecchia perfettamente la preparazione culturale e lo stile metodologico dell’autore, professore emerito di Nuovo Testamento alla Pontificia Università Lateranense. Da profondo conoscitore della letteratura greco-romana egli si tuffa con sicurezza nel mare magnum del tema dell’amore, con la sua vasta polisemia, indagandolo dapprima nell’antichità greca e latina (pp. 15-32).

Il lessico greco dell’amore comprende i termini erōs, philia e agapē.

Lo scandaglio che pesca nella poesia, nella filosofia e nella sua dimensione sociale rivela che l’erōs è un nobile sentimento, ma che parte dalla mancanza per trovare qualcosa che la colmi. Esso non è esente dall’istinto del dominio e del possesso. Anche Benedetto XVI ne ha esaltato l’aspetto positivo di ricerca e di anelito ma, nel complesso, il sostantivo e il verbo sono completamente ignorati nel NT.

Philia esprime l’amore di amicizia, nobile sentimento che, nella letteratura, raggiungerà espressioni di profondo spessore.

Agapē invece ha uno scarso impiego letterario e un significato estenuato di “stimare, avere affetto, prediligere”.

Nell’Antico Testamento e nel giudaismo (pp. 33-60) ci si confronta con un monoteismo dai contorni forti, al limite della rigidità. Il lessico dell’amore svaria su vari termini e poggia sul fondamento sicuro del fatto che Dio ama il suo popolo.

Questo fatto, davvero nuovo, è espresso con il concetto di “alleanza”. Dagli aspetti concreti e fattuali contenuti nei contratti di alleanza dell’ambiente politico-militare esso giunge fino a connotare le tenere espressioni di amore nuziale.

L’amore per Dio è presente, così pure il problematico amore per il prossimo, inteso tuttavia per lo più in senso ristretto con il proprio correligionario e membro dello stesso clan o tribù.

Non mancano pochissimi accenni all’amore verso il “nemico”, da aiutare in caso di bisogno (vedi l’asino che cade o l’animale che si perde: vanno aiutati e riportati al proprietario).

Si giunge così ad analizzare la novità cristiana dell’amore agapico (pp. 61-190).

Con l’avvento di Gesù si assiste a una vera e propria conversione semantica del verbo agapaō e del corrispettivo sostantivo deverbale agapē. I termini vengono a esprimere l’amore sorgivo, gratuito e indiscriminato di Dio Padre, in Cristo Gesù, connotato dallo Spirito Santo, nei confronti degli uomini. Una «scaturigine verticale [che] ricade verso il basso e si allarga a dismisura in direzione orizzontale», afferma Penna.

L’amore preveniente di Dio Padre si rivela storicamente in Gesù Cristo. La sua vita è segnata “scandalosamente” dall’amore per gli ammalati, i pastori e gli impuri (pp. 64-78).

Lo specifico paradosso della vita e dell’insegnamento di Gesù (pp. 79-92) si rivela essere l’amore “eccessivo”, “straordinario”: quello per i nemici. Un tratto continuato perfettamente dal grande apostolo Paolo.

Il paragrafo più impegnativo del libro, ma davvero esaltante, è quello riguardante l’essenza del mistero pasquale (pp. 93-115), in cui si rivela concretamente l’amore di Dio in Cristo per gli uomini.

La più antica professione di fede afferma che «Cristo è morto per i nostri peccati». Penna analizza il sintagma “morire per” nella cultura greco-romana. Si contemplava e si lodava il fatto che si potesse morire per una realtà positiva (la patria, l’onore ecc.). Ora, i peccati non lo sono. Bisogna quindi intendere che Gesù Cristo muore per allontanare gli uomini da una realtà negativa. L’espressione di 1Cor 15,3 si pone in definitiva sul crinale che fa convergere mondo greco e mondo ebraico, traendone una realtà nuova.

Dio ha dimostrato il suo amore per gli uomini in Cristo Gesù, proprio mentre non erano amabili, ma deboli moralmente, empi, nemici e peccatori (Rm 5,1-11). L’amore di Dio e di Cristo coincidono. Questo viene espresso in Rm 5,1-11 e in Rm 8.

Va da sé che dalla fede fluisce l’amore come impegno, cioè la morale cristiana (pp. 116-133). L’amore diventa il criterio dell’etica dei discepoli di Gesù, e connota la loro libertà come libertà-da (passioni e vizi schiavizzanti) e libertà-per (l’impegno la donazione, ecc.).

Esaminando l’aspetto ecclesiale dell’amore (pp. 134-151), Penna rinviene nel concetto “edile” di “edificare/edificazione/oikodomein/oikodomē” impiegato da Paolo il centro attorno a cui si coagula il criterio risolutivo delle varie problematiche ecclesiali che si rinvengono nelle lettere paoline, esaminate nel loro dispiegarsi cronologico.

L’autore si concentra infine a lungo su due testi specifici.

L’amore sponsale è visto come «un mistero grande» in Ef 5,21-33 (pp. 152-170), un testo in cui il verbo agapaō ricorre ben sei volte. Penna scorge un duplice livello del “mistero”. Vi intravede un’interconnessione tra l’amore perveniente di Cristo verso la Chiesa e il suo riverbero (ma anche la sua simbologia originante per esprimere questo) nel rapporto sponsale fra uomo e donna. Se, all’inizio, si sottolinea il primo aspetto, nei versetti finali si vira a sottolineare l’altro, che lo simboleggia “misteriosamente”. Valore creazionale e valore “sacramentale” (meglio, “misterico”, da mistērion) si intrecciano.

Buoni gli spunti della letteratura greco-romana presenti nei contratti matrimoniali. Si parla di “vita comune/symbiōsis”, rispetto, cura del marito verso la moglie, ma non di “amore”. Come esempio lampante per tutti, si veda il contratto di matrimonio del 14 aprile del 13 a.C. (B.G.U. IV, 1052 = SP, I, 3) citato da Penna a p. 157 nota 208 e riportato per esteso nel suo L’ambiente storico culturale delle origini cristiane, EDB, Bologna 6ª ed. 2012, 109. Apollonio si impegna a «fornire a Thermione tutte le cose necessarie e i vestiti, […] a non maltrattarla, a non cacciarla via, a non insultarla e a non introdurre un’altra donna, oppure egli perderà subito la dote…». La donna si impegna a fare altrettanto. Non si parla di amore qui, né di erōs né di agapē! «L’uno e l’altro sesso reca lo stesso contributo alla vita comune – riconosce il per altro grandissimo filosofo stoico Seneca –, ma l’uno è nato per obbedire (ad obsequendum), l’altro per comandare (altera ad imperium)» (La costanza del saggio, 1,1).

A una lettura non tanto razionale ma cristiana e credente, l’encomio dell’amore (1Cor 13, pp. 166-190) si rivela essere la descrizione dell’amore come valore assoluto, in cui il soggetto delle azioni è sia Dio in Cristo Gesù, tramite lo Spirito, nei confronti dell’uomo, sia la persona credente e battezzata che è posseduta pienamente dall’amore sorgivo e onnipervasivo di Dio.

Nel contesto letterario di 1Cor 8–14 (soprattutto cc. 12–14) l’amore si rivela il criterio valutativo dei carismi, la via “più eccellente” che rimane per sempre, anche oltre la fede e la speranza. Dell’amore si canta l’assoluta necessità, l’intrinseca bellezza e dignità, l’intramontabile durevolezza. Chi ha l’amore e lo vive, è; chi non lo ha e non lo vive rimane nella morte e non giunge al vero essere. Se Cartesio affermava cogito ergo sum, il cristiano può dire “amo ergo sum/amo, quindi esisto”, o meglio, “amor ergo sum/sono amato, quindi esisto”, oppure meglio ancora – essendo l’amore un valore relazionale – “amor/amamur ergo sumus/sono amato/siamo amati, quindi esistiamo”.

Per i cristiani il fondamento ultimo dell’amore è Dio. Il credente è colui che vive sola charitate, ma in ogni caso la integra con la fede. Non si dà fede senza amore («la fede che si rende operosa nell’amore», Gal 5,6) né l’amore senza fede («Noi abbiamo creduto all’amore che Dio ha per noi», 1Gv 4,16).

L’amore si dimostra sul piano del vissuto quotidiano, specialmente come amore per Dio (poco sottolineato nel NT), nell’amore per gli altri, e nell’amore all’interno della comunità ecclesiale e tendenzialmente verso tutti gli uomini.

In sintesi, si può affermare che «la qualifica di Dio come amore e insieme fonte di amore rappresenta “nientemeno che una rivoluzione nella storia delle religioni”» (p. 192, con citazione di C. Spicq, Agapé, 119).

Chiudono il bel volume l’ampia bibliografia consultata e citata (pp. 197-210), l’indice dei nomi (pp. 211-214) e l’indice delle citazioni bibliche (pp. 215-227) ed extrabibliche (pp. 227-235).

Pochissimi i refusi. Ricordo solo: a p. 44 r 3 invertire le due parole ebraiche; nella nota 25 r -2 leggasi “e la teologia”; a p. 46 nota 39 penultima e ultima riga, invertire le due parole ebraiche; a p. 54 nota 58 r 1 leggasi “Adamo rimprovera Eva”; a p. 86 r 13 staccare l’articolo greco dal sostantivo che segue; a p. 90 r 19 leggasi (2Cor 13,4); a p. 151 r -4 e a p. 152 r 3 si aggiunga l’accento al sostantivo agapē.

Romano Penna, Amore sconfinato. Il Nuovo Testamento sul suo sfondo greco ed ebraico, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2019, pp. 240, € 22,00.

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G. Jeanrond, Teologia dell’amore, Queriniana, Brescia 2012, pp. 317, € 29,00.

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Una teologia «fondamentale» dell’amore a partire dalla «prassi» cristiana. La riflessione è sostenuta dalla consapevolezza che, da un lato, la trattazione teologica del tema «necessiti d’essere analizzata con una buona dose di sospetto e di critica» e che, dall’altro, «ogni amore – e quindi ogni teologia dell’amore – abbia una storia», un’incarnazione. Lo studio, interessante e documentato, ripercorre le principali concezioni dell’amore nella tradizione cristiana, dalle «sfide bibliche» alle grandi dottrine alle «istituzioni dell’amore», facendo emergere alcune «ambiguità» da superare – prima fra tutte la separazione tra un amore «puro», spirituale, divino (agape) e uno «impuro», corporeo, umano (eros) – per recuperare, tra l’altro, il significato del corpo e il ruolo del desiderio (Il Regno).

Educare all’amore e alla libertà

Abbiamo a che fare con le coscienze e la libertà delle persone, che devono saper scegliere quando saranno sole. Tra le varie realtà, laCaritas rappresenta un ambito pedagogico, prima che esistenziale.

La parola rischio fa rima con il verbo educare. E non potrebbe essere diversamente, dal momento che la “materia” con cui si ha a che fare non sono materiali inerti come l’acciaio o il cemento, ma con le coscienze delle persone e dunque con le loro libertà. E libertà dice la possibilità di scelte diverse. Un educatore non potrà mai tollerare che la sua azione educativa finisca per generare dei cloni di sé. Dovrà perciò muoversi su due binari:

1 la verità (che nel titolo abbiamo tradotto con “amore”): preoccuparsi di comunicare quanto per l’educando è il bene, senza scadere in forme di relativismo etico; in questo senso educare è un rischio, perché richiede un modello di uomo, di esperienza umana, che sappiano costituire un fine per il quale vale la pena d’impegnarsi; è un rischio perché ci chiede di scoprire prioritariamente se c’è qualcosa per cui valga la pena di vivere e morire;

2 la libertà: se anche la persona dovesse aderire a determinati elementi valoriali – ma questo fosse la conseguenza di meccanismi non liberanti – l’azione educativa perderebbe automaticamente di significato. L’educazione non può non essere alla libertà e della libertà: far fare esperienza della libertà e liberarla dalla disastrosa idea di essere tutta e solo potere di scelta e non anche capacità di adesione al bene e capacità di relazione con l’altra libertà.

Lavoro di gruppo in un liceo albese.

Lavoro di gruppo in un liceo albese (foto CENSI).

Generazione ed educazione

Educare è un rischio anche perché è un compito al quale non si può abdicare. In nome di una sterile neutralità non ci è lecito abbandonare i giovani alla loro solitudine, sempre più in balia della violenza e della volgarità.

Vi è un nesso strettissimo tra generazione ed educazione: l’educazione è quell’agire con cui i genitori per primi «rendono ragione al figlio della promessa che essi gli hanno fatto, mettendolo al mondo» (Giuseppe Angelini).

Così che, al contrario, dove la generazione non continua nell’atto educativo, al suo stesso livello di senso si smentisce: il mettere al mondo coincide drammaticamente con un gesto di abbandono.

Coloro che hanno il dono della fede nel Dio cristiano sanno che questa dinamica verità-libertà ha sempre accompagnato la storia di Dio con gli uomini. Un Dio che fin dall’inizio ha voluto impostare questo rapporto in termini di “alleanza”, cioè di partenariato in cui i due contraenti sono entrambi liberi, seppure su piani asimmetrici. Dio agisce in totale libertà, non condizionato da alcun motivo che non sia il suo amore per l’uomo. L’uomo è chiamato a rispondere in modo libero e consapevole. Dio è assolutamente necessario all’uomo perché la sua vita abbia successo, ma contemporaneamente Dio non potrebbe mai sopportare di essere subìto e imposto all’uomo. Dio non avrebbe mai posto in essere la storia della salvezza, se l’uomo fosse stato un burattino privo di libertà.

L’educazione che proponiamo deve essere “a termine”. Non si può prendere un bambino e pretendere di accompagnarlo dalla culla fino alla tomba. Un’educazione, per essere vera, deve porre gesti di discontinuità. Qualche volta il rapporto deve finire, l’aquila deve cacciare l’aquilotto fuori dal nido, se no come farà a imparare a volare? L’educazione deve essere “estroversa”, perché la vita sarà altrove, perché la sua qualità si misurerà quando l’educatore non ci sarà più e uno si troverà da solo con la sua coscienza, le sue convinzioni, le sue incertezze e fragilità. Un oratorio, una famiglia, una scuola, una realtà educativa deve insegnare a partire. La questione decisiva di un’azione educativa è rappresentata da come poi ci si scioglie nel mondo, per dargli sapore, gusto, colore.

Educare è un rischio perché il risultato non è scontato e risponde a leggi che non seguono logiche deterministiche. Quando don Bosco scriveva che «educare è cosa del cuore» non negava la dimensione scientifica, ma richiamava a non cadere nel tranello di una deriva pedagogistica dell’azione educativa.

Discussione in un liceo di Alba (Cn)

Discussione in un liceo di Alba (foto CENSI).

Ripensamenti

In questo senso può trovare diritto di cittadinanza un tentativo di rilettura critica del progettare in educazione. Gli anni ’80 e ’90 furono un tempo di grande elaborazione metodologica, basti solo ricordare l’impulso offerto dal card. Martini (vedi gli Itinerari educativi, Milano 1988) con il triennio sull’educare, che stimolava oratori e parrocchie a dotarsi di un “progetto educativo”, a imparare il linguaggio della lettura della situazione, della definizione degli obiettivi, della scelta di strumenti e della definizione di indicatori capaci di misurare i cambiamenti avvenuti.

Il tutto non senza qualche ingenuità, laddove passò la tentazione di pensare che col progetto il più era fatto; laddove ci si illudeva che poteva bastare questa riflessione scientifica; laddove si finiva per dimenticare che dall’altra parte non hai un cagnolino da addestrare, ma una libertà da liberare. «Nel lavoro educativo come in quello di cura abbiamo bisogno di tecniche e strumenti, come di regole e procedure, tuttavia se ci si chiude in queste ci si perde, ci si arrende alla distanza dell’altro e si finisce per abbandonarlo al proprio destino.

Per reagire a questo rischio, tutt’altro che ipotetico, oggi sembra indispensabile maturare un pensiero che entri come una lama a cercare la verità nella vita, nel tempo e nei giorni» (Ivo Lizzola). Educare nella libertà significa anche relazionarsi a possibili “fallimenti”, nella consapevolezza che questi fanno parte dell’esperienza di ogni educatore, che non va rifiutata ma, al contrario, integrata e accolta entro un processo sempre aperto in cui è chiesto solo di curare la qualità del seme e d’innaffiarlo con le lacrime della passione e il sudore dell’intelligenza.

Educazione e rischio stanno anche alla base delle scelte organizzative che una Caritas è chiamata a compiere. La riflessione da cui siamo partiti si deve tradurre in opzioni pratiche a seconda delle varie realtà che hanno a che fare con l’ambito educativo. Tra queste, Caritas è un attore privilegiato dal momento che la sua ragione di esistere si pone più nell’ambito pedagogico che su quello propriamente assistenziale. Non va dimenticato che Caritas fin dal suo sorgere viene pensata come un permanente principio educativo all’interno della comunità cristiana e della società civile. Tutta la sua operatività, l’intervenire ad alleviare le sofferenze di coloro che – vicini e lontani – si trovano in uno stato di bisogno, andrà letto e giudicato non nella prospettiva di una illusoria capacità di estirpare la povertà dalla storia, ma in quella di essere pungolo permanente di educazione a una vita vissuta nella solidarietà e nella prossimità.

Alcune scelte

Dunque, vengono di seguito evocate alcune scelte simboliche che tentano di incarnare le intuizioni sopra riportate relative a un’azione educativa vissuta come “rischio”:

E il primato dell’ascolto. Significa riconoscere a chi si rivolge ai nostri diversi servizi una dignità che li rende meritevoli di attenzione e di relazione. Ascoltare significa entrare in relazione, significa non pretendere di sapere ciò di cui l’altro ha bisogno prima di avergli dato del tempo per raccontarcelo. Ovvio che questa scelta prende tempo e richiede pazienza. Ovvio che questa scelta ci espone al rischio di un’intenzionalità dell’altro non sempre trasparente e sincera; E il rifiuto della prospettiva assistenziale.

Rifiutare l’assistenzialismo – che altro non è che una variante del paternalismo, atteggiamento che pretende di mantenere l’altro in uno stato permanente di minorità – significa mettersi in una prospettiva educativa che riconosce all’altro la sua maturità, la sua dignità; significa accettare la fatica di rispettare i suoi tempi di maturazione e di crescita, con tutte le incertezze del caso. Credere in una relazione di cura che ha l’emancipazione come obiettivo ultimo, cioè il far stare sulle proprie gambe la persona in difficoltà, significa a volte accettare il rischio di pigrizie e mancanza di volontà di cambiamento.

Roberto Davanzo
direttore Caritas di Milano

 

La misteriosa e benefica circolarità dell’amore familiare

La misteriosa e benefica circolarità dell’amore familiare. È il senso della quarta catechesi di preparazione all’Incontro mondiale delle famiglie. Il messaggio è chiaro, anche se spesso si finge di ignorarlo. Quanto più sono forti i legami familiari, quanto più l’amore che si vive in famiglia è fonte di benessere per genitori e figli, tanto più anche nella società si coglieranno i riverberi positivi di questa situazione. Non c’è gesto, parola, decisione assunta tra le pareti di casa che non si traduca allo stesso tempo in risorsa sociale. Ecco perché le virtù apprese e vissute in famiglia – solidarietà, sacrificio, disponibilità, tolleranza e tanto altro ancora – diventano un’onda lunga di bene che fa crescere il mondo intero.

avvenire.it

«Assuefazione» d’amore: il cervello? Se si è lasciati va in crisi d’astinenza

Per l’amore? Si sviluppa assuefazione. E, proprio come con una droga, quando un amore finisce è come se si andasse in crisi d’astinenza: le conseguenze possono essere imprevedibili. È quanto emerge da uno studio sul cervello di un innamorato ferito: appena vede la foto dell’amato che l’ha lasciato, il suo cervello ne è letteralmente scosso. La ‘foto’ in questione è stata scattata in una ricerca pubblicata sul ‘Journal of Neurophysiology’ dai medici dell’Albert Einstein College dell’Università di New York. Gli esperti hanno analizzato con la risonanza magnetica cosa accadeva nella testa di 15 studenti di college appena lasciati. E i risultati sono stati sorprendenti: le aree neurali che si sono illuminate sono quella ventrale-tegmentale (che controlla motivazione o incentivo a fare qualcosa da cui trarre appagamento), il ‘nucleo accumbens’ e le corteccie orbitofrontale e prefrontale (associate alla tossicodipendenza), in particolare il sistema dopaminergico (che è coinvolto nella dipendenza da cocaina). Nessuna indicazione – per ora – sulle possibili cure. (V. D. – avvenire 8 luglio 2010)