San Valentino. Generazione Z, che fatica l’amore da (re)inventare

Le nuove sfide delle relazioni amorose oltre i miti dell’era romantica. Pensieri su cui interrogarsi in vista della festa degli innamorati. Dialoghi, scomodi, con la scrittrice Annalisa Ambrosio

Generazione Z, che fatica l'amore da (re)inventare

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Sempre meno matrimoni, sempre meno desiderio di impegni a lunga scadenza, sempre più rapporti fluttuanti. Affetti che cambiano nei pensieri e negli sguardi dei giovani e che ci sollecitano a riflettere Se le relazioni amorose dei nostri ragazzi ancora fondate sul mito dell’amore romantico fanno così soffrire, non sarà arrivato il momento di rifletterci a fondo? Se i giovani della generazione Z, quelli che oggi hanno intorno ai 20 anni, stanno facendo così fatica a costruire relazioni serie – proprio come i millennial della generazione precedente – non dovremmo avere il coraggio di interrogarci sull’amore senza darlo per scontato?

In vista di San Valentino ne parliamo con una giovane scrittrice come Annalisa Ambrosio, autrice di un saggio sul tema da pochi giorni in libreria. Quello che lei scrive e che ci dice in questa intervista può non essere condivisibile. Da alcune sottolineature è forse giusto prendere le distanze. Ma è un testo che fa riflettere e ci sembra giusto parlarne, soprattutto come spunto per aprire un dibattito, a partire da una voce giovane e scomoda. Ma interessante.

In un’intervista pubblicata sul nostro giornale che sta suscitando un bel dibattito (https://www.avvenire. it/opinioni/pagine/avatilamore- per-sempre-esisteed- la-mia-stupenda-trasgressione) il regista Pupi Avati si dice sorpreso, a 86 anni di essere “rinnamorato” della moglie sposata 60 anni fa e spiega questo sentimento con il fatto che l’amore sia “mistero irragionevole”. L’amore che dura nel tempo non dovrebbe essere segnato da una buona dose di ragionevolezza?

Penso che la sintesi esprima bene il punto di vista di Pupi Avati sulla sua esperienza, ma credo che, come esseri umani, siamo sempre più interessati a capire come funzioniamo e nel tempo abbiamo strumenti sempre più raffinati per farlo: ci appassiona trasformare alcuni “misteri irragionevoli” in “fenomeni” che non perdano bellezza o senso per questo, ma che siano fatti di cui siamo in grado di parlare, che possiamo addirittura comprendere. L’amore non fa eccezione. È bello sorprendersi per un amore duraturo che torna a risplendere, ma sarebbe altrettanto bello poter arrivare a conoscere a fondo le sue ragioni. Quindi, che un amore di lunga durata sia ragionevole oppure no dipende se decidiamo di intendere l’amore stesso come un mistero insondabile o invece come un oggetto incantevole che si può studiare a fondo.

Lei ha scritto un libro intitolato “ L’amore è cambiato” (Einaudi) ma leggendo quello che lei sostiene si arriva a pensare che forse a quel titolo manca un punto interrogativo. Sbagliato pensare che, al di là di come poi si concretizzi, il sentimento amoroso che attrae due persone, alla fine sia sempre lo stesso?

In effetti a cambiare non è il sentimento, ma sono le sue forme storiche, cioè i modi in cui ci si ama, quelli che, come società, reputiamo buoni o cattivi, che incoraggiamo e che ostacoliamo, che ci danno speranza o ci fanno paura. Amore è sempre lui, “che move il sole e le altre stelle”.

Secondo quanto lei scrive, l’amore cosiddetto romantico, è viziato da una serie di bugie che hanno contribuito nei secoli ad accrescere la sofferenza degli innamorati. La prima, secondo lei, è “un amore vero è intenso dal primo all’ultimo giorno e dura per sempre”. Perché questa idea non potrebbe essere considerata, invece che una bugia, un auspicio gradevole?

È proprio così: non c’è niente di male ad amarsi felicemente per tutta la vita, è un auspicio più che gradevole. Il problema è semmai partire dal presupposto che se ciò non acprenderli, cade due persone siano guaste o sbagliate, il problema forse è trasformare l’auspicio gradevole in una legge del mondo. La legge presuppone che gli altri possibili esiti di un amore siano erronei, tristi, negativi: non credo che sia per forza così.

La seconda bugia da lei indicata, “solo questo amore ti permetterà di realizzarti completamente, nonostante tutto” viene iscritta nell’ambito degli amori tossici. Come si concilia questa ipotesi con quanto lei dice alla fine del libro e cioè che l’innamoramento sia percorso di conoscenza?

Per rispondere alla domanda mi viene da dire che c’è una differenza significativa tra dolore e fatica. Penso che ci sia un valore nel fare fatica per andare incontro agli altri: in ogni rapporto importante, come nel rapporto amoroso, il frutto di questa fatica è una crescita condivisa, la conoscenza del mondo attraverso il sentire di un altro. Quando invece l’amore ci procura un dolore troppo grande, suppongo che sia opportuno riflettere se sia giusto continuare ad amare… Capita spesso soprattutto ai più giovani di scambiare per amore qualcosa che non lo è, ma intanto di rinunciare a tutto il resto. È quel “solo” che può fare del male.

Proseguiamo con l’elenco delle bugie o, mi permetta, presunte tali. La terza è “Non c’è sesso senza amore”. Perché questa convinzione dovrebbe essere fonte di sofferenza?

Credo che andare nel mondo convinti che le altre persone diano al sesso sempre il significato di una conferma o una manifestazione d’amore possa essere fonte di sofferenza, semplicemente perché spesso non è così. E allora chi ha voluto entrare in intimità con un’altra persona in virtù del suo sentimento aspettandosi in cambio un sentimento corrispondente può rimanere deluso o ferito. Il sesso accompagnato dal sentimento di amore è un’esperienza splendida, ma per molte persone le due cose non stanno sempre insieme.

Annalisa Ambrosio

Annalisa Ambrosio – marcoph

Alla fine di tutto il ragionamento, compresa quella che lei ritiene la quarta bugia – “l’amore è una perfetta intesa sessuale” – arriva a ipotizzare che per ripensare l’amore dovremmo superare l’idea di coppia e di famiglia come sono state intese fino ad ora. Ma se togliamo la centralità della coppia, pur intesa con modalità e accezioni diverse, cosa ci rimane?

Non mi sento di descrivere nessuna esperienza di amore in termini evolutivi. A mio avviso, quindi, non si tratta di “superare” l’idea di coppia e di famiglia per come la conosciamo, ma di dare spazio e fiducia ad altri modelli che possono derivare da altre sensibilità, di com stare in ascolto, non giudicarli erronei a priori. In ogni caso, per rispondere in maniera più diretta alla sua interessante domanda, credo che oltre (o senza) la coppia e la famiglia ci rimanga la comunità, cioè una condivisione maggiore, più larga, di reti, legami, sofferenze e amori. Forse è un modo di cambiare tutto perché nulla cambi: è da lì, dalla comunità, che veniamo.

Ma noi possiamo amare in modo profondo, autentico, costruttivo ed esclusivo una persona, non una comunità. E con quella persona avere dei figli, costruire una famiglia. Solo le famiglie insieme costruiscono una comunità. Non viceversa. Se rovesciamo i termini apriamo le porte all’utopia, alle “comuni” degli anni Settanta nate sull’onda di una trasgressione globale ma poi fallite con gran dispendio di sofferenze e anche di tragedie, e che infatti oggi sono archeologia sociale. Crede davvero che il legame di una coppia che si ama, possa avere la stessa trama e gli stessi obiettivi di altre modalità, come lei dice, più larghe e condivise?

Provo a fare un esempio concreto di qualcosa che accade già oggi: due persone decidono di trascorrere la vita insieme perché si amano e magari arrivano dei figli. Poi qualcosa li spinge ad allontanarsi e si separano. Ciascuno può avere rispetto di ciò che si è lasciato alle spalle, amare i figli che ha messo al mondo o adottato, magari entrare in una nuova relazione. Non vedo utopia o fallimento se penso a un concetto di famiglia più flessibile, in cui c’è amore anche per figli che provengono da relazioni precedenti, in cui si può restare amici di persone con cui in passato si è stati impegnati. Concordo con lei che una “comunità” si compone di vari nuclei familiari, però ritengo che la famiglia sia già oggi qualcosa di estremamente variegato: non dobbiamo avere paura di ridefinirla. In questo senso le famiglie nel corso di una vita possono cambiare, ma la comunità di riferimento resta la stessa e ha come obiettivo quello di fare sentire accolti e amati gli individui.

Pensa davvero che questa sarebbe la soluzione vincente? Possibile che abbiamo sbagliato tutto negli ultimi tre o quattromila anni?

Io credo che l’unica soluzione possibile, più che vincente, sia continuare ad amare esplorando con curiosità i modi in cui noi e gli altri lo facciamo, senza pretendere che esista una sola maniera corretta di amare. La seconda parte del libro è dedicata all’innamoramento, a sondare il perché amare resta una delle esperienze più straordinarie che ci possono capitare nella vita… Non penso che abbiamo sbagliato tutto negli ultimi tre o quattromila anni, anzi, penso il contrario: che non esistano amori sbagliati, a condizione che siano amori, appunto. Sono convinta che l’amore sia il modo più sofisticato e completo in cui possiamo conoscere le altre persone: se ci consente di capire tutto di un altro, aspettarlo, accettarlo, allora è amore.

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“Ciao Amore. Tre storie per salvarsi dalle relazioni tossiche” (Effatà Editrice) è l’ultimo libro di Nicoletta Musso Oreglia, mediatrice familiare, counselor professioni­sta, consulente in sessuologia, coordinatore genitoriale sistemico, accompagna coppie e singoli da venticinque anni. Con il marito Davide Oreglia – hanno cinque figli – amano definirsi artigiani delle relazioni. Si dedicano alla pastorale familiare tenendo corsi e incontri in tutta Italia. Sono anche attivi in rete con video, riflessioni e corsi online per singoli e coppie. Il libro, uscito ieri – e di cui per gentile concessione dell’editore proponiamo uno stralcio – aiuta a riflettere su quelle storie in cui uno dei componenti della coppia finisce dentro una situazione che lo cristallizza, lo immobilizza impoverendolo in modo inesorabile. Una sottrazione minuscola ma continua di piccole parti di stima, valore, capacità di generare progetti. È un avvelenamento lento che spegne una o più parti buone di chi lo subisce, ma forse anche di chi lo agisce. Sono situazioni su cui aprire gli occhi, per capire e prendere le distanze. Sia per chi vive queste vicende, sia per genitori ed educatori che dovrebbero avere a cuore l’educazione affettiva dei ragazzi.

Nel parcheggio del supermercato vicino a casa, Daniel e Giada si stanno baciando; non c’è più traccia della tensione che era presente fra di loro, o almeno così pare. Lui l’ha fatta sedere sulle sue gambe, lei ha la schiena contro il volante. Le accarezza i capelli e sussurra al suo orecchio: «Sei stata cattiva prima, sai che ho paura di perderti. Non puoi andare alla festa del diciottesimo di Luca: tu gli piaci, io lo so. Tutte le volte che ti guarda perde la testa. Se vai là, chissà cosa ti potrebbe accadere! Poi non ha nemmeno invitato me, quel cretino; in fondo, abbiamo fatto due anni di basket insieme!». Giada lo sta ascoltando e questo suo modo di fare, per la prima volta, non le piace. Si è sempre sentita amata da Daniel e non è neanche la prima volta che le parla in quel modo. All’inizio le piaceva molto avere accanto un ragazzo che le diceva che senza di lei si sentiva perso; è bellissimo! La prima volta che le ha fatto quella confessione si è sentita irresistibile, indispensabile, potentissima. È così che l’ha conquistata.

Quando si sono incontrati, all’inizio, Giada era andata a una festa per accompagnare una sua amica che voleva provarci con un ragazzo che le piaceva. Sofia era fatta così: quando si prendeva una cotta per uno, lo doveva seguire sui social e nella vita reale.

L’aveva implorata di non lasciarla da sola, di accompagnarla, perché se lei non fosse riuscita a vedere e a parlare con questo meraviglioso ragazzo, si sarebbe sentita morire. E quella era l’ultima occasione possibile! Poi l’anno scolastico si sarebbe concluso – era fine maggio – e lei avrebbe trascorso tutta l’estate a piangere per l’occasione persa. Così, Giada si era fatta convincere; tuttavia, appena arrivate alla festa, lei l’aveva persa di vista: Sofia, infatti, si era attaccata al migliore amico del ragazzo che aveva puntato e l’aveva completamente ignorata. Giada aveva pensato di tornarsene a casa, ma il passaggio i suoi gliel’avevano dato all’andata; al ritorno sarebbe dovuta rientrare con la mamma di Sofia, per poi dormire da lei. Per cui si era messa in un angolo, da sola, e lì le era venuto incontro Daniel, come un salvatore, e aveva attaccato bottone dicendo che si sentiva un pesce fuor d’acqua. Le era stato simpatico fin da subito; simpatico e dolcemente insistente. Si era fatto dare il numero di telefono e le aveva promesso che le avrebbe scritto il giorno dopo, perché non voleva perderla; e così era andata. Si era svegliata da Sofia con centoventisette suoi messaggi, in cui le diceva che l’aveva stregato e che se non lo avesse chiamato si sarebbe sentito perso; da lì era partita la loro storia. Ancora sente il cuore sbronzo di eccitazione se pensa a quella mattina: Sofia era triste, perché non aveva rimediato neppure un sorriso dal suo tizio, e lei, invece, era sommersa di attenzioni da questo Daniel.

«Per un amore così si deve pur essere disposti a qualche sacrificio», si era ripetuta fra sé e sé nei mesi successivi; ma ora, per la prima volta, il suo cuore era inquieto e, guardando Daniel a distanza di naso, si sentiva soffocare. «Ma tu credi che tutto il mondo voglia me? Sono bella, ma non così irresistibile. Dai, lo sai!», prova a scherzare Giada. «Tu sei più che irresistibile; sei fantastica! Mi sei entrata nella testa, nel cuore. Io ti amo. Ma quel Luca non mi piace e a me non va che tu vada a quella festa». «Ma alla festa non sarò mica sola: ci sarà tutta la mia classe e anche Sofia!», insiste. «Già, le tue compagne, buone quelle! Ma se sono solo tutte delle gatte morte invidiose, pure Sofia. Della sua affidabilità non me ne faccio nulla; è un’oca fatta e finita», continua Daniel che, mentre le sussurra queste cose, le ricopre il volto di baci. Lui fa così: sa dire cose durissime mentre fa cose dolcissime; quando la bacia così è stupendo stare sotto la sua pioggia gentile di amore, anche se le mani di lui sono saldamente ancorate al volante e le fanno come da sponde sicure, sì, ma irremovibili.

Giada inizia a sentirsi stretta e cerca di allontanarsi, ma lui la stringe ancora, in modo più avvolgente. Sentendo la forza delle braccia di Daniel, lei non può più resistere; non lo ha mai fatto.

«Lui non sa stare senza di me, mi vuole troppo» dice a sé stessa, anche se l’imbarazzo per la figura che le ha fatto fare nel teatro poco prima è ben stampata dentro di lei. Non è la prima volta che Daniel le urla addosso. Lui non è perfetto, o meglio, quando è dolce è meraviglioso; il problema sorge quando si arrabbia, e ultimamente capita spesso. «Però è così bello», si sorprende a pensare. «L’amore deve essere passionale, se no che amore è?», e lui, anche quando si arrabbia, è appassionato e si abbandona ai suoi baci. L’orologio suona la mezzanotte: «Dai, vai a casa. Io resto qua finché vedo la luce che si accende e si spegne in camera. Poi vado a casa anch’io».

Giada si risiede al posto del passeggero; si sistema i vestiti e i capelli, si volta verso di lui e sorride: «Buonanotte, amore», lo saluta. «Buonanotte, amore. Mi raccomando, subito a nanna! E quando la tua finestra sarà buia, saprò che stai dormendo. Non messaggiare la notte, che poi sei stanca domani e diventi lamentosa», e con questa regola che si erano dati – la notte non si chatta con nessuno – Giada varca il portone di casa, non prima di avergli lanciato un ultimo bacio.

Libro. La promessa dell’amore. Accogliere e accompagnare le «coppie imperfette»:

coppia

Con l’esortazione apostolica Amoris laetitia del 2016, frutto di due anni di discernimento sul tema della famiglia, la Chiesa cattolica ha inteso aggiornare la sua riflessione sull’amore coniugale all’interno delle grandi trasformazioni sociali e culturali in atto nel nostro tempo.

Nel suo recente volume La promessa dell’amore. Accogliere e accompagnare le «coppie imperfette»: una lettura psicoanalitica dell’Amoris laetitia (Effatà, Cantalupa 2023), lo psicoanalista Nicolò Terminio torna a riflettere sul recente testo magisteriale il quale risulta fondamentale per ripensare la pastorale familiare all’interno delle comunità credenti. Lo intervistiamo a partire dai contenuti del suo volume.

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  • Nella sua rilettura psicoanalitica dell’Amoris laetitia, il passaggio dal giudizio all’accoglienza delle cosiddette «coppie imperfette» assume un ruolo centrale. Perché risulta fondamentale l’accoglienza?

L’accoglienza risulta fondamentale per superare una delle tentazioni principali dell’essere umano: quella di identificarsi in un modello predefinito che assomiglia a un’immagine allo specchio invece che allo slancio della propria vocazione. L’accoglienza ci mette quindi in una posizione di recettività verso l’alterità che si manifesta nell’incontro con gli altri, ma risulta fondamentale anche nel rapporto con noi stessi, con quel mistero che ci abita. Dare preminenza all’accoglienza vuol dire dunque essere sintonizzati con l’altro superando il desiderio narcisistico di ritrovare nell’altro un doppione del proprio io. Nel mio libro l’accoglienza è uno dei vettori psicologico-relazionali fondamentali per trasformare la tentazione del narcisismo umano in un’apertura capace di trasformare la nostra esistenza in modo generativo.

  • Nel volume lei sostiene che l’empatia più che immedesimazione dell’altro coincide con l’accettazione del mistero e dunque dell’alterità dell’altro. Questa declinazione dell’empatia quale valore assume per i vissuti familiari?

Secondo questa accezione l’empatia è una forma di sintonizzazione con l’altro in quanto alterità radicale, un altro cioè che non è assimilabile alle nostre aspettative o ai nostri fantasmi inconsci. L’empatia è la capacità di saper sostare di fronte all’altro quando l’altro è un estraneo e non corrisponde al personaggio che abita nella nostra immaginazione. Questa possibilità relazionale aperta dall’empatia è fondamentale nelle coppie e nelle trame delle famiglie, soprattutto quando si incrina la possibilità di comprendere l’altro attraverso le proprie proiezioni immaginarie, cioè quando l’altro disconferma tutto ciò che avevamo proiettato sulla base delle nostre aspettative.

In ciascun essere umano esiste il desiderio di corrispondere al desiderio dell’altro, ma esiste anche il desiderio di avere un proprio desiderio, e l’empatia si configura come la capacità di trovarsi di fronte alla singolarità del desiderio dell’altro senza cercare di addomesticarlo secondo le proprie aspettative. Paradossalmente è proprio il dono di questa libertà favorita dalla sintonizzazione empatica che consente a due desideri singolari di incontrarsi, di incontrarsi non in quanto sovrapponibili ma proprio perché radicalmente differenti. Nei legami familiari è dunque molto importante distinguere una forma di empatia basata sull’assimilazione dell’altro in base ai propri fantasmi (che dal mio punto di vista non è una vera empatia) da un’empatia che invece si fonda sulla possibilità di contemplare l’esistenza dell’altro come un mistero che continua a sorprenderci e ad attivarci verso una nuova scoperta.

  • Quanto la creatività, l’immaginazione e il desiderio sono importanti nelle relazioni familiari e, in genere, di coppia?

Per la psicoanalisi il desiderio è una esperienza analoga a quella della vocazione perché è una chiamata, una chiamata di cui non siamo padroni e che per quanto discernimento potremo compiere rimarrà sempre come un mistero. Per vivere il proprio desiderio è necessario essere creativi, cioè essere disposti a dare testimonianza della propria singolarità.

La scoperta della propria singolarità avviene grazie a un campo relazionale, non esiste un cammino di esplorazione e realizzazione della propria vocazione senza la compagnia degli altri. Senza la relazione con gli altri difficilmente possiamo incamminarci nella realizzazione creativa della nostra unicità. Allo stesso tempo va notato che è importante entrare in relazione con gli altri non per trovare una risonanza narcisistica che conferma il valore di sé, ma occorre pensare agli altri come dei compagni di viaggio nella ricerca della propria verità.

In questo modo possiamo comprendere che la dimensione relazionale si configura non come un rispecchiamento narcisistico, ma come l’istituzione di una dimensione terza che non coincide con due individualità in gioco o con la somma dei componenti del campo familiare. Nelle relazioni che sono abitate dall’esperienza del desiderio viene generata l’esperienza del Terzo, un Terzo che supera gli individui e gli fa scoprire che esiste qualcosa che li supera. È questa la dimensione del legame. Quindi la dimensione del desiderio è ciò che permette alla coppia e al campo familiare di esistere come superamento dell’ego e di configurarsi invece come esperienza di un gioco in cui si scopre chi si è per sé stessi e per gli altri.

  • A suo parere, la comunità ecclesiale dovrebbe ripensarsi attraverso un senso di appartenenza fondato sulla relazione e non sull’identificazione. Questa declinazione, quali percorsi progettuali potrebbe ispirare nella prospettiva pastorale?

Questa è una domanda davvero difficile perché non è possibile formulare una risposta generale. Da psicoanalista preferirei accostarmi a una singola realtà locale e studiarla insieme a chi vi appartiene per verificare quali sono i modelli identificatori che l’hanno caratterizzata e soprattutto la ragione per cui le identificazioni hanno preso quella forma. Le identificazioni sono importanti perché danno una rappresentazione alle aspirazioni dell’identità dei singoli soggetti e della comunità che li accoglie. Tuttavia bisogna considerare le identificazioni come dei vestiti prêt-à-porter e non come dei vestiti su misura. Le identificazioni sono come dei vestiti che non coincidono del tutto con la verità del soggetto, né corrispondono alla modalità più vera per realizzare lo slancio della vocazione. L’esperienza della vocazione di solito scompagina l’identificazione di un soggetto facendogli scorgere una verità che supera le credenze che aveva su sé stesso. E questa è una sfida che non riguarda soltanto il singolo, ma anche i gruppi e le comunità.

Va inoltre precisato che non bisogna confondere questa prospettiva con l’idea che qualsiasi forma di identificazione vada bene. La questione riguarda sempre quali sono i vincoli identificatori e relazionali che permettono un’apertura verso l’altro. Le identificazioni sono pericolose perché possono spingere verso la chiusura e la soluzione per evitare la chiusura non è abolire le identificazioni perché se si aboliscono le identificazioni si perdono anche i vincoli che ci permettono di rappresentarci. Sarebbe importante sostenere delle identificazioni insature e suscettibili di una trasformazione storico-sociale perché le identificazioni sono solo uno strumento per rappresentarci e per rivolgerci agli altri, ma non vanno confuse con l’essenza della nostra verità.

In estrema sintesi, direi che ciascuna comunità dovrebbe interrogarsi sul rapporto tra identificazione ed esperienza dell’amore sapendo che c’è una differenza e quindi chiedersi di volta in volta quali modelli identificatori proporre per aprirsi all’esperienza dell’amore. Avendo inoltre consapevolezza che l’esperienza dell’amore non è garantita dall’identificazione, semmai è l’esperienza dell’amore che consente di dare a quella forma di identificazione la legittimità di rivestire la nudità dell’essere del soggetto.

  • Dal sito della Pastorale per la cultura della diocesi di Palermo (tuttavia.eu), 25 luglio 2024
  • in settimananews.it

«L’amore, quello vero? Inizia quando si sceglie di amare qualcuno nonostante tutti i suoi limiti umani, ancora prima che diventi una persona più amabile»

Famiglia Cristiana

Nel giorno degli innamorati, il 14 febbraio, ci facciamo aiutare da Flavio Parente, medico chirurgo e autore San Paolo, a capire cos’è l’amore. «L’amore è esercizio. Come i bambini che stanno imparando a camminare e ogni volta che cadono si rialzano per capire come non cadere più, così è l’amore: più ci si esercita ad amare e più si impara a non cadere e non farsi male».

Eppure anche nella coppia più solida può arrivare la crisi.
«La crisi è un passaggio inevitabile nel ciclo vitale della coppia (incontro, innamoramento, illusione e delusione) che fa parte a sua volta del ciclo vitale con cui si crea la famiglia. Ma più che una condanna o una pietra da scagliare, il conflitto di coppia può e deve essere un’opportunità di cambiamento, un germoglio da far fiorire. La forza della coppia regna nella preghiera, nell’affidarsi e consegnare le criticità a Colui che conosce e predispone le basi per la rinascita. La fede è la fune a cui aggrapparsi; il luogo in cui la coppia può cercare aiuto è la stanza dello psicoterapeuta di coppia e/o familiare. Amare è perdonare, ma soprattutto è mettersi sempre in gioco. Per fare questo, bisogna compiere prima un atto di volontà, poi un atto di fede. È necessario separare l’errore da chi lo commette, poiché tutti possono sbagliare, ma possono anche migliorare e correggersi».

Il libro San Paolo uscito in librerai il 9 febbraio

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Quali sono i motivi che possono mettere in difficoltà un rapporto?
«La mancanza di tempo; è necessario che ci siano un tempo della coppia, un tempo della famiglia, un tempo individuale e un tempo per il lavoro. Avere dei segreti e non confidarsi, ovvero non rivelarsi all’altro con piena fiducia; non vivere la sessualità, una dimensione fondamentale dell’intimità; non pregare: per costruire l’intimità, la sessualità e il rapporto di confidenza è necessaria la preghiera; l’ingerenza delle famiglie di origine è una delle cause principali di rottura dei rapporti. Infine, i soldi intesi come i beni e gli interessi materiali che portano a cambiare in modo distorto le priorità di ciascuno quando diventano degli idoli».

Nel libro San Paolo in libreria dal 9 febbraio,  Superare la crisi di coppia – Un percorso di rinascita tra psicologia e spiritualità cita un vademecum per litigare in modo sano. Davvero si può?
«Certo, ci sono delle regole di coppia: disinnescare le situazioni esplosive, non accusando ma domandando e sintetizzando; non parlare del passato: gli errori fatti non vanno rimarcati; non litigare davanti ai figli – potrebbero aver paura di essere abbandonati; non litigare davanti ai genitori – i panni sporchi si sa…; non parlare di separazione e divorzio: non aiuta a trovare una soluzione; non fare ciò che all’altro dà fastidio; non pretendere di avere sempre ragione; non rimanere troppo tempo senza aver fatto la pace; non fare male né con le parole, né fisicamente. E poi ci sono le regole individuali: usare buone maniere e non alzare la voce, risolvere i rancori per le cose passate».

Alla fine, così, la crisi sembra un’occasione!
«Lo è se la si sa sfruttare non come un evento di distruzione, ma come un’occasione per ottenere un bene maggiore: impostare un vero matrimonio!».

La dedica del libro recita “A noi tre: ieri, oggi e per sempre”. A chi è rivolta?
«Quale giorno migliore di oggi visto che è san Valentino per spiegare quanto mi ha appena chiesto: è una dedica a mia moglie e mio figlio e all’insostituibile dono della famiglia che è fatto di ieri, oggi e per sempre»

ESPERIENZE DI CHIESA Futuri preti ed amore in seminario

Nell’estate appena trascorsa, dal 25 al 28 luglio 2022, tutti i Rettori dei Seminari d’Italia e i responsabili delle Comunità propedeutiche si sono ritrovati a Siena per confrontarsi e poter offrire ai Vescovi alcune linee guida in vista del Sinodo e della nuova Ratio prevista per la primavera del 2023.

Bergoglio: occhi aperti nell'ammissione ai seminari - La Stampa

La domanda di fondo è stata quella di intercettare nei segni dei tempi la voce dello Spirito che chiama a vita nuova, superando la tentazione del si è fatto sempre così. Ma da dove partire per una riflessione oculata?

La questione circa la riforma dei Seminari è vecchia tanto quanto l’istituzione degli stessi e non riguarda solo e semplicemente una riforma di struttura – sarebbe come mettere un po’ di cipria su un viso vecchio e pieno di rughe – quanto una coraggiosa proposta di novità, anche teologica, ancora tutta da scrivere e che sicuramente non vogliamo trattare in questa sede.

Considerando gli scandali che stanno interessando la Chiesa, la tentazione sarebbe quella di confondere ogni cosa e ridurre il tutto a responsabilità personale di qualcuno. Sappiamo bene invece che la verità è molto più complessa e riguarda sia l’uomo nella sua totalità di spirito incarnato e corpo spiritualizzato (direbbe Levinas), capace di peccato e di santità, sia le dinamiche della struttura ecclesiale.

Volendo trattare tuttavia della formazione che il giovane seminarista riceve negli anni che sta in Seminario, ci chiediamo se ci sia spazio per l’amore. Il rischio sarebbe, infatti, quello di confondere il celibato con il non-amore e, negli anni, ci si potrebbe costruire la corazza – solo apparentemente invincibile – dell’apatia, dell’anaffettività e della durezza relazionale. Segni purtroppo molto ricorrenti tra i preti, capaci di parlare alle folle cercando like di consensi, ma incapaci di perdere mezza giornata per condividere le gioie e le sofferenze di un figlio spirituale o di una famiglia.

Ecco che la domanda torna e stavolta con molta perentorietà: ma questo prete è capace di amore?

È chiaro che si vive solo amando e se non ami il tuo stato di vita, trasformandolo in luogo di donazione amorosa e di feconda vita relazionale, allora si amerà altro.

La Ratio fundamentalis Il dono della vocazione, attualmente in vigore e pubblicata nel 2016, al n. 35 dice che “i presbiteri sono nel mondo e nella Chiesa, segno dell’amore misericordioso del Padre”. Tale virtù essenziale del presbitero è legata dal documento all’unico sacerdozio di Cristo. È necessario allora ricordarci che si sta parlando del Verbo del Padre incarnato e non di una dottrina o di un sistema di valore.

I presbiteri sono segno dell’amore rivelato del Padre, ma per essere tali occorre vivere in pienezza la propria umanità, senza paura del proprio limite ma senza neanche consacrarlo. La Gaudium et Spes al n. 41 dice che “seguendo Cristo Uomo perfetto, l’uomo diventa più uomo” e questo vale per tutti gli uomini, al di là dell’Ordine Sacro.

Ma è davvero così?

S. Bernardo nel “Discorso sul Cantico dei Cantici” dice: “Amo perché amo, amo per amare. L’amore è sufficiente per sé stesso, piace per sé stesso e in ragione di sé”. L’amore è ragione a sé stesso, non si ama per essere un buon prete o per andare in Paradiso: si ama per restare uomini.

Il problema per il prete è chi amare e come educarci ad amare! Si può amare il proprio ruolo e la propria immagine, ed ecco che si ha don Narciso eternamente in bilico tra amore per sé e incapacità di un minimo segno di attenzione per gli altri. Come si esce dal narcisismo? Imparando la logica di Gesù, accettando le sconfitte pastorali e facendo pace con una logica di servizio umile e disinteressato.

La situazione di crisi che stiamo vivendo ci sta facendo un buon servizio in merito, a meno che sopportiamo il tutto passivamente, in vista di un ritorno alla gloria di un tempo. Si può amare confondendosi con la gloria di Dio e sentendosi talmente responsabili degli altri tanto da volerli salvare! Ed ecco che si ha il don Apocalisse con la sindrome del “faccio nuove tutte le cose” e con la pericolosa tendenza ad entrare nella sacralità della coscienza altrui.

Infine, si potrebbe trovare il prete che ama l’anima più del corpo (o il corpo più dell’anima), tra Platone e i figli dei fiori, e si avrebbe il don Costantino, non l’opinionista Della Cherardesca, ma l’imperatore romano con l’ansia di voler battezzare a tutti i costi i suoi sudditi per far ottenere loro la salvezza.

“È triste avere preti alla guida di una parrocchia che gridano a squarciagola o che vivono semplicemente di tre o quattro cose e non sanno dialogare”, così papa Francesco rivolgendosi ai presbiteri. Il problema di fondo è, dunque, imparare ad amare e questo si può fare solo seguendo la logica di Cristo – che è quella dell’incarnazione – superando l’autoreferenzialità del single.

Da prete posso dire di aver amato solo se durante la mia giornata sono stato capace di prossimità, di ascolto e di perdono nei confronti delle persone che mi sono state affidate, altrimenti diventa tutto retorica o idealizzazione astratta. Ecco la fecondità ordinaria e normale dell’amore che basta a sé stesso ed è capace di credibilità.
vinonuovo.it

Un’insistita sottolineatura degli aspetti faticosi della vita matrimoniale sembra dominare troppi discorsi ecclesiali, mettendo in ombra ciò che è buono, bello e gioioso del matrimonio

di SERGIO DI BENEDETTO e GILBERTO BORGHI – vinonuovo.it

Dopo aver letto con attenzione gli Itinerari catecumenali per la vita matrimoniale e aver avanzato alcune considerazioni sugli elementi positivi e alcune note sui nodi che ci sono parsi problematici, vogliamo condividere un post scriptum finale, una preoccupazione che nasce dal tono generale del documento, insieme a un’aria che si respira ultimamente attorno al matrimonio in alcuni ambiti ecclesiali, ossia quella per cui il matrimonio sarebbe quasi solo fatica, sforzo, sacrificio, rinuncia, crisi, problema: sono termini e questioni che sembrano dominare il discorso sulla vita matrimoniale.

La domanda che nasce spontanea in noi è molto semplice: ma crediamo davvero che il matrimonio sia bello? Che la vita matrimoniale risponda a un desiderio bello e buono di Dio sull’uomo e la donna? Siamo convinti che il matrimonio è anche gioia, letizia, serenità, compimento?

L’impressione è che troppo spesso in ambito ecclesiale tendono a prevalere i toni più drammatici e cupi quando si parla di matrimonio. Indubbiamente, non siamo ingenui né disincarnati: sappiamo che oggi la vita di coppia in senso lato e la vita matrimoniale in modo specifico conoscono un momento di crisi, che la statistica stessa si incarica di ricordare (solo nel 2020 – anno peraltro di pandemia – ci sono state quasi 180.000 rotture, tra separazioni e divorzi). E siamo anche ben coscienti che il contesto sociale e culturale in cui viviamo spinge per ‘relazioni liquide’ (Bauman), con forte insistenza su emotività, identità, individualismo, piena e immediata soddisfazione dei propri desideri: fattori che mal si conciliano con ogni relazione umana, matrimonio incluso.
Dunque, è innegabile che ci siano componenti di fatica nella scelta e nella ‘pratica’ della vita di coppia, ed è bene dare rappresentazioni realistiche del matrimonio, soprattutto in un documento pensato per i fidanzati.
Ma, al tempo stesso, non possiamo nascondere che paiono prevalere le parole di fatica e di dubbio, di pena e di rinuncia del sé. Anche in questo caso Amoris Laetitia era capace di parole di consolazione, speranza, fiducia (fin dal titolo: la gioia dell’amore). E che nella pastorale ci fosse la tentazione a insistere più sulla sforzo che sulla bellezza del matrimonio lo dichiarava lo stesso Papa Francesco: «Abbiamo difficoltà a presentare il matrimonio più come un cammino dinamico di crescita e realizzazione che come un peso da sopportare per tutta la vita» (AL, 37).

Quello che si fatica a comprendere è che per uscire dalla dittatura liquida ed emotiva in cui viviamo, non serve più a nulla un richiamo forte alla volontà razionale, affinché si imponga su queste inclinazioni deleterie e ci permetta di vivere il bene, perché questa strada oggi non è più percorribile. E Francesco lo sa bene, quando, ad esempio, per stare alla sfera della sessualità, in AL mostra come la deriva dell’eros da ‘consumare’ non si ferma innalzando barriere etiche e limitandosi a mettere in guardia dai pericoli della sessualità, bensì riconoscendo in una ritrovata unità interiore tra gioia e piacere la condizione che oggi permette di non consegnare l’eros alla mentalità consumistica della post-modernità, e di viverlo perciò in pienezza. «È dolce e consolante la gioia che deriva dal procurare diletto agli altri, di vederli godere […]. I gesti che esprimono tale amore devono essere costantemente coltivati, senza avarizia, ricchi di parole generose» (AL 129 e 133). Per il papa un vero amore «non rinuncia ad accogliere con sincera e felice gratitudine le espressioni corporali dell’amore nella carezza, nell’abbraccio, nel bacio e nell’unione sessuale» (AL 157) perché da buon figlio di sant’Ignazio di Loyola sa che «non il molto sapere sazia e soddisfa l’anima, ma il sentire e il gustare interiormente le cose» (Esercizi spirituali, annotazione 2)

Una narrazione della vita matrimoniale che non tenga conto del bene e della gioia che in essa si trova, soprattutto da chi poi ha scelto altri stati di vita, è contraddittoria con quanto la sapienza cristiana e la vita umana hanno sperimentato nel corso del tempo, e cioè che anche una vita che si fondi sull’amore di coppia può essere pienamente umana, pienamente cristiana e bella, feconda, capace di pace, di crescita e di benevolenza. È una vita che merita di essere vissuta. Altrimenti, solo sostando sulla ‘crisi’ e sul ‘problema’ (in un atteggiamento preventivo che poi risulta anche un poco artificiale e moralistico), faremo un discorso parziale: «Tutto quanto è stato detto non è sufficiente ad esprimere il vangelo del matrimonio e della famiglia se non ci soffermiamo in modo specifico a parlare dell’amore» (AL, 89).
Insomma, è vero che sempre meno persone scelgono il matrimonio cristiano; è vero che esistono delle difficoltà. Ma se non abbiamo il coraggio di raccontare in modo bello il matrimonio (evitando al tempo stesso le semplificazioni e le ‘fantasie emotive’), di testimoniare la sua ricchezza, la sua fecondità, negheremo quello che dovrebbe essere, invece, un pilastro della sensibilità e della coscienza cristiana: «Il Vangelo della famiglia è risposta alle attese più profonde della persona umana: alla sua dignità e alla realizzazione piena nella reciprocità, nella comunione e nella fecondità» (AL, 201).

A meno che, e questo è un dubbio che non vorremmo avere, non si pensi sottotraccia che una vita evangelica, nelle sue diverse forme, non sia pienamente umana…

Anche su questo, in fondo, bisognerebbe riflettere. Non dobbiamo però dimenticare che pure il tono, il modo, lo stile e l’insistenza solo su certi argomenti tende a consolidare e veicolare una visione della vita.

Amore e coscienza

di: Leonardo Catalano
Settimana News


La coscienza occupa un posto centrale nella riflessione morale moderna.1 È tra i riferimenti più richiamati per interpretare i cambiamenti culturali e storici del nostro tempo. Il Concilio Vaticano II dedica un testo che invita il credente a coltivarla come luogo di ascolto, di giudizio, di scelta e di incontro con la voce dello Spirito.2

«L’uomo ha in realtà una legge scritta da Dio dentro al cuore; obbedire è la dignità stessa dell’uomo, e secondo questa egli sarà giudicato. La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli è solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità. Tramite la coscienza si fa conoscere in modo mirabile quella legge che trova il suo compimento nell’amore di Dio e del prossimo. Nella fedeltà alla coscienza i cristiani si uniscono agli altri uomini per cercare la verità e per risolvere secondo verità numerosi problemi morali, che sorgono tanto nella vita privata quanto in quella sociale».3

La coscienza è un ponte attraverso il quale credente e non credenti possono ascoltarsi e comprendersi. È in questa grammatica comune che insieme si cerca la verità e nella verità risolvere i problemi morali che sorgono nella vita dei singoli e nella collettività.

La categoria della coscienza viene citata 20 volte nell’Amoris laetitia.4 Eppure la cultura contemporanea sembra aver svuotato il significato antropologico di coscienza e il senso di obbligazione verso gli imperativi della coscienza stessa, in particolare verso tutte quelle “voci” che richiamano a scelte più impegnative e onerose in senso morale come la voce divina che risuona nel segreto, l’ascolto intimo, il giudizio, un Tu con cui dialogare, l’obbedienza sincera al comando interiore “fa’ questo, evita quest’altro”, la responsabilità verso l’altro.

Il Magistero della Chiesa ribadisce il significato di coscienza morale per integrare la verità e la libertà, la legge e la responsabilità, l’autorità e l’obbedienza. È la coscienza morale, infatti, a porre all’uomo alcune domande radicali e ineludibili: come devo comportarmi? In che modo distinguere le voci di bene e di male radicate nel cuore? Chi sono chiamato ad essere? Come amare autenticamente?

La coscienza nel Magistero
Il cardinale John Newman definì la coscienza come «una legge del nostro spirito, ma che lo supera, che ci dà degli ordini, che indica responsabilità e dovere, timore e speranza. […] Essa è la messaggera di colui che, nel mondo della natura come in quello della grazia, ci parla velatamente, ci istruisce e ci guida. La coscienza è il primo di tutti i vicari di Cristo».5

Il Catechismo della Chiesa Cattolica dedica alcuni paragrafi alla coscienza e premette: «Quando ascolta la coscienza morale, l’uomo prudente può sentire Dio che parla».6 Per la Chiesa la coscienza morale «è un giudizio della ragione mediante il quale la persona umana riconosce la qualità morale di un atto concreto».7 Occorrono però due condizioni.

La prima è quella di essere presenti a se stessi, ritornando alla coscienza per interrogarla. Poi è essere prudenti cioè capaci di cercare il punto di equilibrio tra princìpi immutabili e le situazioni concrete della vita: «La verità sul bene morale, dichiarata nella legge della ragione, è praticamente e concretamente riconosciuta attraverso il giudizio prudente della coscienza».8 È la coscienza morale che permette di scoprire che cosa è giusto e buono fare nelle circostanze concrete della vita seguendo il principio del bene da fare e il male da evitare.

La coscienza del credente diventa la bussola per comprendere l’amore radicale vissuta da Cristo e la qualità dell’amore che si vive. L’esperienza della fede illumina la coscienza secondo la Lumen fidei: «È urgente perciò recuperare il carattere di luce proprio della fede […] capace di illuminare tutta l’esistenza dell’uomo. […] La fede nasce nell’incontro con il Dio vivente, che ci chiama e ci svela il suo amore […]. Trasformati da questo amore, riceviamo occhi nuovi, sperimentiamo che in esso c’è una grande promessa di pienezza e si apre a noi lo sguardo del futuro. La fede […] appare come luce per la strada, luce che orienta il nostro cammino nel tempo».9

La coscienza va dunque educata ed è questo «il compito di tutta la vita».10 Gli effetti di una educazione prudente includono la guarigione dalle paure interiori, dall’egoismo, dall’orgoglio, dai risentimenti, dai moti di compiacimento. Questa educazione garantisce la libertà del cuore e la pace interiore. Dialogare nella coscienza è lo sforzo di interpretare i dati dell’esperienza, i segni dei tempi che cambiano, i consigli delle persone rette e l’aiuto dello Spirito.

La connessione tra amore e coscienza
Proprio a questo livello, il dialogo nella coscienza, appare evidente la connessione tra amore e coscienza. L’amore è una forza di comunione e di gratificazione che, mentre accoglie il dono, spinge all’impegno di donarsi.

Questa visione, che la fede offre dell’amore determina il rapporto inscindibile tra amore e coscienza nell’atto di decidere e del decidersi del credente. Papa Francesco precisa: «può la fede cristiana offrire un servizio al bene comune circa il modo giusto di intendere la verità? […] Il cuore, nella Bibbia, è il centro dell’uomo, dove s’intrecciano tutte le sue dimensioni: il corpo e lo spirito; l’interiorità della persona e la sua apertura al mondo e agli altri; l’intelletto, il volere, l’affettività. Ebbene, se il cuore è capace di tenere insieme queste dimensioni, è perché esso è il luogo dove ci apriamo alla verità e all’amore e lasciamo che ci tocchino e ci trasformino nel profondo. La fede trasforma la persona intera, appunto in quanto essa si apre all’amore. È in questo intreccio della fede con l’amore che si comprende la forma di conoscenza propria della fede, la sua forza di convinzione, la sua capacità di illuminare i nostri passi. La fede conosce in quanto è legata all’amore, in quanto l’amore stesso porta una luce. La comprensione della fede è quella che nasce quando riceviamo il grande amore di Dio che ci trasforma interiormente e ci dona occhi nuovi per vedere la realtà».11

Questo dato sulla coscienza credente, toccata dall’Amore e in cerca dell’amore, spiega perché alcune norme valgono sempre davanti alla propria coscienza. Non è mai permesso di fare il male perché ne derivi un bene. Va sempre rispettata le regola d’oro evangelica: «Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro» (Mt 7,12). La carità passa sempre attraverso il rispetto del prossimo e della sua coscienza, anche se questo non significa accettare come un bene ciò che è oggettivamente un male.

Il cammino della vita è un decidersi davanti ai “casi di coscienza”, quando ci si trova divisi tra l’obbedienza a una legge civile e la voce della propria coscienza. Per decidere moralmente cosa fare è necessario raccogliere più informazioni possibili, richiamarsi ai princìpi che guidano la propria esistenza e interrogarsi sulle conseguenze della propria scelta. Richiamarsi ai princìpi etici richiede il dialogo con un “Tu” perché ci sia un’adesione personale a Cristo che è entrato nella storia. Afferma san Giovanni Paolo II nella Veritatis splendor che esiste un rapporto inscindibile tra coscienza e verità, una «teonomia partecipata, perché la libera obbedienza dell’uomo alla legge di Dio implica effettivamente la partecipazione della ragione e della volontà umane alla sapienza e alla provvidenza di Dio».12

Il dialogo interiore
Nella coscienza l’uomo deve esercitare la sua libertà e la sua responsabilità. La coscienza non si può ridurre a un “grillo parlante” o a un censore interiore o una voce sottilmente nemica che prescrive divieti. Quando papa Francesco richiama la responsabilità dei coniugi ad essere storia di salvezza precisa che la Chiesa è chiamata «a formare le coscienze, non a pretendere di sostituirle».13

Quando il funzionamento della coscienza cristiana è concepito come un tribunale civile, in cui il soggetto è inteso come il reo davanti all’accusa di trasgressione, lo sforzo di autogiustificazione è teso a sottrarsi per quanto è possibile alla pena. Questo è il senso del testo magisteriale: «Per comprendere in modo adeguato perché è possibile e necessario un discernimento speciale in alcune situazioni dette “irregolari”, c’è una questione di cui si deve sempre tenere conto, in modo che mai si pensi che si pretenda di ridurre le esigenze del Vangelo.

La Chiesa possiede una solida riflessione circa i condizionamenti e le circostanze attenuanti. Per questo non è più possibile dire che tutti coloro che si trovano in qualche situazione cosiddetta “irregolare” vivano in stato di peccato mortale, privi della grazia santificante. I limiti non dipendono semplicemente da una eventuale ignoranza della norma. Un soggetto, pur conoscendo bene la norma, può avere grande difficoltà nel comprendere “valori insiti nella norma morale” o si può trovare in condizioni concrete che non gli permettano di agire diversamente e di prendere altre decisioni senza una nuova colpa. Come si sono bene espressi i Padri sinodali, “possono esistere fattori che limitano la capacità di decisione”.

Già san Tommaso d’Aquino riconosceva che qualcuno può avere la grazia e la carità, ma senza poter esercitare bene qualcuna delle virtù, in modo che anche possedendo tutte le virtù morali infuse, non manifesta con chiarezza l’esistenza di qualcuna di esse, perché l’agire esterno di questa virtù trova difficoltà: “Si dice che alcuni santi non hanno certe virtù, date le difficoltà che provano negli atti di esse, […] sebbene essi abbiano l’abito di tutte le virtù”».14

Così concepita, la voce divina, il richiamo multiforme alla verità, non può che assumere il ruolo del pubblico ministero. Essa non può per definizione essere dalla parte dell’imputato. L’effetto di questa impostazione è quello di assegnare alla “voce” un ruolo accusatorio, facendole assumere interiormente quell’atteggiamento costantemente accusatorio nocivo nelle relazioni educative, proprio perché genera scoraggiamento e irritazione, che allontanano dai richiami che si ascoltano.

«La correzione è uno stimolo quando al tempo stesso si apprezzano e si riconoscono gli sforzi e quando il figlio scopre che i suoi genitori mantengono viva una paziente fiducia. Un bambino corretto con amore si sente considerato, percepisce che è qualcuno, avverte che i suoi genitori riconoscono le sue potenzialità. Questo non richiede che i genitori siano immacolati, ma che sappiano riconoscere con umiltà i propri limiti e mostrino il loro personale sforzo di essere migliori. Ma una testimonianza di cui i figli hanno bisogno da parte dei genitori è che non si lascino trasportare dall’ira.

Il figlio che commette una cattiva azione, deve essere corretto, ma mai come un nemico o come uno su cui si scarica la propria aggressività. Inoltre un adulto deve riconoscere che alcune azioni cattive sono legate alle fragilità e ai limiti propri dell’età. Per questo sarebbe nocivo un atteggiamento costantemente sanzionatorio, che non aiuterebbe a percepire la differente gravità delle azioni e provocherebbe scoraggiamento e irritazione: “Padri, non esasperate i vostri figli” (Ef 6,4; cfr Col 3,21)».15

Per san Tommaso l’obiettivo principale non è quello di mettere la persona di fronte alle proprie responsabilità morali, ma quello di accompagnarla in primo luogo nella comprensione dell’esperienza del dialogo interiore, da qui, alla scoperta della presenza benefica della “voce divina”, per divenirne convinta ascoltatrice. «Piuttosto che un pubblico ministero, quello che si incontra interiormente è un partner affidabile, vicino alla persona anche nell’accusa del male che la segna o di cui si è resa protagonista. […] la coscienza va anzitutto compresa come un luogo spirituale, in cui l’esperienza morale può essere ripresa e reimpostata, conducendo a una sempre più affinata capacità di ascolto interiore e di riconoscimento del gusto tipico, quasi del timbro interiore della “voce divina”».16

Il discernimento delle “voci” della coscienza è anzitutto orientato all’incontro con Dio e poi, anche, come frutto di maturazione progressiva di questo incontro, all’agire secondo il bene.

«Riguardo a questi condizionamenti il Catechismo della Chiesa Cattolica si esprime in maniera decisiva: “L’imputabilità e la responsabilità di un’azione possono essere diminuite o annullate dall’ignoranza, dall’inavvertenza, dalla violenza, dal timore, dalle abitudini, dagli affetti smodati e da altri fattori psichici oppure sociali”. In un altro paragrafo fa riferimento nuovamente a circostanze che attenuano la responsabilità morale, e menziona, con grande ampiezza, l’immaturità affettiva, la forza delle abitudini contratte, lo stato di angoscia o altri fattori psichici o sociali.

Per questa ragione, un giudizio negativo su una situazione oggettiva non implica un giudizio sull’imputabilità o sulla colpevolezza della persona coinvolta. Nel contesto di queste convinzioni, considero molto appropriato quello che hanno voluto sostenere molti Padri sinodali: “In determinate circostanze le persone trovano grandi difficoltà ad agire in modo diverso. […] Il discernimento pastorale, pur tenendo conto della coscienza rettamente formata delle persone, deve farsi carico di queste situazioni. Anche le conseguenze degli atti compiuti non sono necessariamente le stesse in tutti i casi”».17

In ascolto del vissuto ferito
L’Esortazione apostolica di papa Francesco presenta l’attività della coscienza che si mette in moto non tanto in presenza di infrazioni della legge contestate da altri quanto dinanzi alle fratture della vita. È dal dolore e dai fallimenti di scelte fatte o di esperienze vissute che sorge l’esigenza di chiarire a se stessi come abbia potuto farsi strada il male che ferisce e sfigura. L’ambiente della coscienza inizia dunque a dilatarsi lì dove sorge un’esigenza di comprensione di sé, per capire ciò che si muove dentro, e in particolare di ciò che ha condotto a un agire corrosivo del bene.

È necessario il primato dell’ascolto sia per dare nome alle ferite inferte e autoinferte, sia per comprendere quella nostalgia profonda di conversione, di una vita compiuta e creativa. Si inizia a dare ascolto alla pena più che mettendosi alla ricerca della colpa, che non viene elusa ma capìta a partire dall’esperienza e da una rilettura accompagnata, la quale consente di dare nome tanto al male quanto al bene.

Si tratta del metodo induttivo a cui papa Francesco riconosce maggiore efficacia in campo educativo, proprio perché sostenuto dalla forza della scoperta, della presa di coscienza. «Il compito dei genitori comprende una educazione della volontà e uno sviluppo di buone abitudini e di inclinazioni affettive a favore del bene. Questo implica che si presentino come desiderabili comportamenti da imparare e inclinazioni da far maturare. Ma si tratta sempre di un processo che va dall’imperfezione alla maggiore pienezza.

Il desiderio di adattarsi alla società o l’abitudine di rinunciare a una soddisfazione immediata per adattarsi a una norma e assicurarsi una buona convivenza, è già in se stesso un valore iniziale che crea disposizioni per elevarsi poi verso valori più alti. La formazione morale dovrebbe realizzarsi sempre con metodi attivi e con un dialogo educativo che coinvolga la sensibilità e il linguaggio proprio dei figli. Inoltre, questa formazione si deve attuare in modo induttivo, in modo che il figlio possa arrivare a scoprire da sé l’importanza di determinati valori, principi e norme, invece di imporgliele come verità indiscutibili».18

Le proprie decisioni fallimentari costituiscono l’ambito di riflessione più promettente per chi volesse andare in profondità. In molte situazioni della vita in cui si è protagonisti di scelte non buone, «c’è l’avvertenza della ferita, ma non della contraddizione. […] Sono le situazioni in cui, pur nella problematicità dell’accaduto, la volontà della persona è rimasta integra»19, perché le cose sono andate male, ma quell’esito non era propriamente voluto. Non basta cioè una ferita per mettere in discussione, ci vuole la percezione della contraddizione.

Per questo vanno considerati «i vissuti interessanti per l’introspezione, […] le scelte ed i gesti che esprimono il protagonismo della persona nella decisione e che segnalano una qualche frattura nel piano stesso del volere, non tra il volere e il realizzare. L’analisi introspettiva dovrebbe allora partire preferenzialmente dall’ascolto di quei vissuti in cui le cose sono andate esattamente come la persona voleva che andassero, secondo la propria decisione, e che tuttavia restituiscono in vario modo una percezione di disagio, di insoddisfazione».20

La coscienza si attiva a partire dall’esperienza vissuta, iniziando a dilatarsi sul fronte dell’ascolto di quel che sta attorno ad un fatto dandogli la profondità del vissuto. Il dialogo si coltiva anzitutto in una più acuta e differenziale capacità di ascolto.

Si può dire che il tempo qualitativo di cui necessitano le relazioni e che consiste nell’ascoltare con pazienza e attenzione, lo si apprende e coltiva anzitutto imparando a sostare dinanzi alle proprie stonature.

Occorre «Darsi tempo, tempo di qualità, che consiste nell’ascoltare con pazienza e attenzione, finché l’altro abbia espresso tutto quello che aveva bisogno di esprimere. Questo richiede l’ascesi di non incominciare a parlare prima del momento adatto. Invece di iniziare ad offrire opinioni o consigli, bisogna assicurarsi di aver ascoltato tutto quello che l’altro ha la necessità di dire. Questo implica fare silenzio interiore per ascoltare senza rumori nel cuore e nella mente: spogliarsi di ogni fretta, mettere da parte le proprie necessità e urgenze, fare spazio. Molte volte uno dei coniugi non ha bisogno di una soluzione ai suoi problemi ma di essere ascoltato.

Deve percepire che è stata colta la sua pena, la sua delusione, la sua paura, la sua ira, la sua speranza, il suo sogno. Tuttavia sono frequenti queste lamentele: “Non mi ascolta. Quando sembra che lo stia facendo, in realtà sta pensando ad un’altra cosa”. “Parlo e sento che sta aspettando che finisca una buona volta”. “Quando parlo tenta di cambiare argomento, o mi dà risposte rapide per chiudere la conversazione”».21

È l’ascolto che implica una capacità di lettura del sentito, un affinamento progressivo nel decifrare il messaggio delle percezioni della gioia, della tristezza, dell’attrazione e della paura, il tutto senza moralismi, senza togliere la cittadinanza interiore ad alcuna delle passioni.

Infatti «provare un’emozione non è qualcosa di moralmente buono o cattivo per sé stesso. Incominciare a provare desiderio o rifiuto non è peccaminoso né riprovevole. Quello che è bene o male è l’atto che uno compie spinto o accompagnato da una passione. Ma se i sentimenti sono alimentati, ricercati e a causa di essi commettiamo cattive azioni, il male sta nella decisione di alimentarli e negli atti cattivi che ne conseguono. Sulla stessa linea, provare piacere per qualcuno non è di per sé un bene. Se con tale piacere io faccio in modo che quella persona diventi mia schiava, il sentimento sarà al servizio del mio egoismo.

Credere che siamo buoni solo perché “proviamo dei sentimenti” è un tremendo inganno. Ci sono persone che si sentono capaci di un grande amore solo perché hanno una grande necessità di affetto, però non sono in grado di lottare per la felicità degli altri e vivono rinchiusi nei propri desideri. In tal caso i sentimenti distolgono dai grandi valori e nascondono un egocentrismo che non rende possibile coltivare una vita in famiglia sana e felice».22

Piuttosto occorre discernere in che modo i sentimenti si intreccino con i pensieri, «bisogna incoraggiare la maturazione di una coscienza illuminata, formata e accompagnata dal discernimento responsabile e serio del Pastore, e proporre una sempre maggiore fiducia nella grazia.

Ma questa coscienza può riconoscere non solo che una situazione non risponde obiettivamente alla proposta generale del Vangelo; può anche riconoscere con sincerità e onestà ciò che per il momento è la risposta generosa che si può offrire a Dio, e scoprire con una certa sicurezza morale che quella è la donazione che Dio stesso sta richiedendo in mezzo alla complessità concreta dei limiti, benché non sia ancora pienamente l’ideale oggettivo. In ogni caso, ricordiamo che questo discernimento è dinamico e deve restare sempre aperto a nuove tappe di crescita e a nuove decisioni che permettano di realizzare l’ideale in modo più pieno».23

È partendo dall’ascolto più attento del fatto che può farsi strada l’attesa di un fare altrimenti, attesa di un cambiamento possibile e non utopistico. Sia i Padri sia san Tommaso invitano a vigilare sui pensieri fin dal loro sorgere.24

Coscienza e discernimento
La coscienza è il luogo in cui ciascuno si misura con la tensione al cambiamento. La lotta interiore può assumere configurazioni diverse. «È la tensione tra una novità suggestiva ma ambigua (tentazione) e una abitudine buona (virtù) che, tra l’altro, mette in guardia dal cambiare rotta; ma è anche tensione tra una provocazione in se stessa buona (legge), che incontra una resistenza nella persona e porta così maggiormente alla luce una cattiva abitudine (vizio)».25

Non ci si può affidare ciecamente all’idea che tutto il male venga dall’esterno e che quindi sia bene fare solo quello che “si sente”. Viceversa, è sensato ritenere che in qualcuno il male prevalga anche perché non c’è una memoria di bene, una virtù, pronta a farsi avanti, a prendere parola interiore.

San Tommaso concepisce la coscienza come un atto della ragione pratica dentro il continuo colloquio interiore26.

Per il magistero la coscienza è anzitutto luogo di incontro spirituale con la voce dello Spirito di Dio, luogo costantemente visitato da parole e in cui risuona la Parola, non esclusivamente come un richiamo a un “no”27, pur necessari, ma come continuo e multiforme invito positivo al cambiamento possibile, alla conversione desiderata, al bene praticabile, fatto di «piccoli passi che possano essere compresi, accettati e apprezzati».28

«È stato scritto che per la Scrittura l’amore è dirsi “eccomi”, più che “ti amo”. L’obbedienza a questo “eccomi” è la fedeltà alle voci benefiche che risuonano nella coscienza».29

1 Francesco OCCHETTA, «La coscienza morale e il governo di sé», in La Civiltà Cattolica III (2009) 29-41.

2 Francesco OCCHETTA, «La coscienza morale e l’amore umano», in La Civiltà Cattolica III (2016) 459-469.

3 GS 16.

4 AL 37.42(2x).83.149(2x).188.218.222(2x).265.279.298(2x).300(2x).302.303(3x).

5 John NEWMAN è citato dal CCC n. 1778. Cfr. John NEWMAN, La coscienza, Jaca Book, Milano 1999.

6 CCC n. 1777.

7 CCC n. 1778.

8 CCC n. 1780.

9 LF 4.

10 CCC n. 1784.

11 LF 26.

12 VS 41.

13 AL 37.

14 AL 301.

15 AL 269.

16 Francesco OCCHETTA, «La coscienza morale e l’amore umano», in La Civiltà Cattolica III (2016) 465.

17 AL 302.

18 AL 264.

19 Giovanni GRANDI, Alter-nativi. Prospettive sul dialogo interiore a partire dalla “moralis consideratio” di Tommaso d’Aquino, Meudon, Trieste 2015, 153.

20 Ibidem.

21 AL 137.

22 AL 145.

23 AL 303.

24 Evagrio PONTICO, Sentenze. Gli otto spiriti della malvagità, Città Nuova, Roma 2010; Evagrio PONTICO, Contro i pensieri malvagi, Qiqajon, Magnano 2005; Giovanni IL SOLITARIO, Le passioni dell’anima, Qiqajon, Magnano 2012.

25 Francesco OCCHETTA, «La coscienza morale e l’amore umano», in La Civiltà Cattolica III (2016).

26 Francesco OCCHETTA, «La coscienza morale e l’amore umano», in La Civiltà Cattolica III (2016) 469.

27 Cfr. Asha PHILLIPS, I no che aiutano a crescere, Feltrinelli, Milano 2013.

28 AL 271.

29 Francesco OCCHETTA, «La coscienza morale e l’amore umano», in La Civiltà Cattolica III (2016) 469.