Educazione. Cari genitori, non voglio essere la vostra fotocopia

Cari genitori, non voglio essere la vostra fotocopia

avvenire.it

Quarant’anni di ricerca, di studio e di esperienza dalla parte dei genitori, a rimetterli in quadro in un compito tanto entusiasmante quanto complicato qual è l’educazione dei figli. Quarant’anni ad aprire gli orizzonti di mamme e papà sui loro compiti, a incoraggiarli a fare le mosse giuste, tenere le giuste distanze, mettere paletti, costruire regole chiare e buone abitudini, superare la confusione con l’organizzazione, evitare le urlate, le punizioni e gli spiegoni. Il sapere del professionista, la determinazione dell’educatore, il piglio dell’appassionato, Daniele Novara ha un mantra che lo accompagna da sempre: sostenere gli adulti richiamandoli al senso della responsabilità educativa, a un progetto condiviso che vada oltre le buone intenzioni, l’improvvisazione e il semplice accudimento.

Ora però, dopo aver speso miliardi di parole sulla manutenzione delle faticose relazioni tra i piccoli tiranni e i fragili genitori, eccolo aprire un capitolo laterale di indagine che ha a che fare con l’educazione che abbiamo ricevuto durante l’infanzia e gli adulti che siamo diventati. L’impronta che spesso non ci ha lasciato spazi di manovra nel crescere e vivere la vita che avremmo voluto. È perentorio, quasi un giuramento, il titolo del suo ultimo libro, appena approdato in libreria, Non sarò la tua copia (edizioni Bur; pagine 222) e un sottotitolo confortante Liberarsi dai pesi dell’infanzia per costruire la vita che desideriamo, un manuale di saggista narrativa (come lo definisce lui) che prosegue il percorso sulle tracce del nostro passato dei tasti dolenti e la rielaborazione delle ferite infantili.

«È importante – spiega Daniele Novara – dopo l’adolescenza, nell’età adulta confrontarsi con l’educazione ricevuta resistendo alla tentazione di edulcorarla. L’infanzia non è un territorio di libertà e di spontaneità, i figli sono dentro la bolla educativa dei genitori, come è naturale che sia. Le scelte dei genitori e le loro aspettative ci condizionano e ce le portiamo appresso tutta la vita, i margini di manovra dobbiamo cercarli noi. Il fatto è che spesso la mancanza di memoria e di ricordi infantili ci portano a edulcorare, nascondere e rimuove dietro il luogo comune dell’infanzia meravigliosa quello che chiamo il copione educativo. Un atteggiamento ingenuo e ingiusto verso sé stessi. Cosa diversa dall’educazione che coinvolge oltre ai genitori anche la scuola e gli amici, il copione è una consegna, una specie di prescrizione che ti sta addosso come una seconda pelle e da cui è difficile sganciarsi. Ma bisogna farlo».

Significa che i genitori consegnano involontariamente ai figli non solo un patrimonio genetico e psicologico ma anche uno stile implicito in una serie di scelte quotidiane spontanee che li definisce e modella la loro vita concretamente, come in uno stampo. È quello che Donald Winnicott definiva il tragico “falso sé”, l’adesione a quell’abito confezionato per i figli e indossato nell’infanzia per il desiderio di compiacere i genitori. Crescere però significa cercare il “vero sé”, la propria autenticità attraverso la propria libertà di scelta.

La storia di ieri e dei nostri giorni è piena di esistenze plasmate più o meno violentemente sui desideri e le aspirazioni di padri e madri. Accanto alle testimonianze personali di gente comune raccolte professionalmente, Novara racconta i casi dolorosi ed eclatanti di Mozart e di Picasso, del tennista Andre Agassi costretto dal padre a intraprendere una strada che lui non voleva, anzi odiava, del padre padrone di Gavino Ledda. E cita le lettere, mai consegnate, che Kafka e Simenon hanno scritto al padre e alla madre, la denuncia di una educazione autoritaria e pesantemente svilente l’una, fredda, distaccata e assente l’altra. Entrambe causa di grandi sofferenze. E commenta le affermazioni recenti dello stesso Jannik Sinner, talento precoce e grandissimo campione di tennis che dichiara in proposito la propria libertà di scelta. Forse tralasciando il racconto di quanta approvazione e consenso abbia goduto dai genitori per affrontare questo sport intrapreso da bambino. «Nessuno da bambino ha libertà di scelta e ammetterlo significa anche riconoscere che non tutto passa attraverso insegnamenti palesi, diretti e decisi».

Anche Daniele Novara non esita a raccontare il lavoro personale intrapreso per mettere a fuoco con sguardo lucido e fare i conti con il proprio copione educativo di figlio unico in una famiglia di origine contadina dell’Italia primi anni Sessanta abbarbicata alla convinzione che i figli dovessero ascoltare, obbedire ed essere utili alle necessità familiari.

«Si tratta di una ricerca che ho impostato, umanamente e scientificamente, nella seconda parte della mia vita – spiega – quando ho capito che dovevo andare oltre la ribellione alle istanze dei miei genitori. Sganciarmi dalla visione della vita dei miei in cui ero incastrato. Percepivo che tante parti di me non erano chiare né sotto controllo. Sentivo il bisogno di aprire un confronto sull’educazione ricevuta, di riconoscere le zone d’ombra di cui non ero consapevole». Sganciarsi significa emanciparsi, attraverso un percorso che normalmente, se non ci sono stati genitori particolarmente patologici, si può intraprendere da soli. Tanto più quando da figli si diventa a propria volta genitori e si deve chiudere la catena. È un momento straordinario per occuparsi al massimo della propria crescita personale per non proiettare sui figli i nostri conti in sospeso. E creare nuove vittime.

Novara fornisce tanti assist, le mosse giuste utili a far luce sulle impronte ricevute e trovare la propria svolta. «Non si tratta di ribellarsi tout court, di cercare adesioni o risarcimenti ma di riconoscere il proprio copione e fare chiarezza con coraggio per poter andare oltre. Oltre la rielaborazione passiva del tipo “Con me ha funzionato, faccio uguale» e oltre quella speculare, «con i miei figli faccio l’opposto di quello che ho subito dai miei». Io credo nella rielaborazione consapevole, «Riconosco come mi hanno cresciuto e cambio ciò in cui non mi ritrovo». Danilo Dolci ripeterebbe la propria convinzione che «ciascuno cresce solo se sognato». A patto che i sogni non siano l’implacabile e soffocante realizzazione di quelli mancati dei propri genitori.

Povertà educativa. Imprese, Terzo settore e pubblico: patto per “salvare” 300 ragazze

In Italia sono oltre due milioni i bambini e i ragazzi che vivono in povertà assoluta o relativa. Il 56% dei Neet (chi non studia, non si forma, non lavora) è di sesso femminile. E sono 870 mila le ragazze e le giovani donne tra 15 e 29 anni (il 20,5%) classificabili come Neet (non studiano, non fanno formazione, non lavorano). Più dei coetanei maschi Neet, che sono il 17,7%. E le donne che restano inattive tra i 25 e 34 anni sono il 23,2%. A titoli di studio bassi poi corrispondono alti tassi di disoccupazione: solo un terzo tra le 25/34 enni che si sono fermate alla terza media lavora, percentuale che scende al 27% se hanno un figlio, mentre trova lavoro il 56% delle diplomate e (47% con figli) e 71,3% delle laureate (si sale al 72,6% se con figli).
Un progetto di lotta alle disuguaglianze – sociali e di genere – frutto dell’alleanza tra mondo dell’impresa, terzo settore e istituzioni pubbliche. Una strategia innovativa per combattere in particolare la povertà educativa, un handicap che rischia di pesare per tutta la vita sull’integrazione di tante ragazze. Ne beneficeranno per due anni 300 adolescenti e giovani donne, tra i 13 ed i 24 anni, comprese 50 madri. Cento per ognuna delle tre aree svantaggiate scelte a Venezia/Mestre, Roma e Napoli. Per ognuna un piano educativo personalizzato.
È il progetto “Futura” che Save the Children, Forum disuguaglianze e diversità, Yolk, in collaborazione con Intesa Sanpaolo, hanno presentato ieri a Roma, per contribuire a rimuovere gli ostacoli che impediscono a ragazze e giovani donne che vivono in condizioni di svantaggio socio-economico «di far fiorire talenti e aspirazioni nei percorsi scolastici, in quelli lavorativi e di conciliare, in alcuni casi, il percorso professionale con la maternità».
Il progetto pilota prevede una presa in carico integrata, in collaborazione con le famiglie, la scuola, i servizi sociali e le associazioni attive sul territorio. Le ragazze avranno a disposizione beni o servizi: dall’acquisto di libri, kit scolastici o strumentazione necessaria al percorso formativo, al sostegno per le spese di trasporto per raggiungere le sedi di studio o per il pagamento delle rette scolastiche o dei corsi di formazione. Ma anche servizi di consulenza o supporto psicologico, medico, educativo, legale, di orientamento al lavoro. E, se serve, voucher per l’acquisto di generi alimentari o per l’igiene o la salute. Per la fascia di età tra i 13 e i 18 anni l’obiettivo è il conseguimento del titolo di studio o il reinserimento in un percorso formativo, per le giovani tra i 18 e i 24 anni il percorso è di professionalizzazione ed emancipazione. Le giovani mamme in particolare beneficeranno di un sostegno particolare per l’accesso al mondo del lavoro e alla cura dei figli, con attività laboratoriali per rinforzare l’autonomia e percorsi mamma-bambino.
«Povertà educativa e povertà economica sono legate. Un ragazzo che non ha studiato è un ragazzo “zoppo”. È indispensabile rafforzare l’impegno – ha commentato alla presentazione di Futura il presidente di Save The Children Italia Claudio Tesauro – per contrastare la povertà educativa che rischia di bloccare sul nascere le aspirazioni dei ragazzi e, in particolare, delle ragazze che crescono nel nostro Paese». «Oggi la complessità della povertà educativa impone soluzioni diversificate, flessibili, sperimentali. Per risposte adeguate ai bisogni e ai sogni di queste ragazze», aggiunge Andrea Mormiroli del Forum disuguaglianze e diversità.
«Per accelerare la crescita del Pil dobbiamo agire su giovani e donne e ridurre le diseguaglianze», dice l’ad di Intesa Sanpaolo Carlo Messina: «E lo Stato – aggiunge – paga più interessi passivi sul debito di quanto destina al sociale, per questo le grandi aziende come noi, che generano utili, devono fare di più per ridurre le diseguaglianze e restituire parte di quel valore». Alle 300 ragazze e donne selezionate «mancava un pezzettino, noi individuiamo il bisogno specifico e contribuiamo a completare il loro percorso», spiega Clementina Cordero di Montezemolo, presidente di Yolk.
Linda Laura Sabbadini, direttrice Dirm-Istat, sottolinea la gravità della crisi demografica italiana: «La politica è da decenni che non sa cosa fare. Ma anche se riuscisse a far crescere il tasso di fecondità, questo non garantirà che tra 30 anni ci sarà popolazione giovane sufficiente a mantenere gli anziani. Bisogna aumentare il numero di immigrati, pianificandolo seriamente e lavorando sull’integrazione. La Germania lo ha capito da tempo e dopo aver accolto un milione di profughi siriani, ha accolto un milione di ucraini». «Le ragazze hanno un enorme potenziale di crescita, che in certi contesti viene eliminato», sottolinea Luca Cordero di Montezemolo. (avvenire.it)

Nei prossimi mesi diversi gruppi di giovani parteciperanno, in qualche modo, a iniziative ecclesiali: è il momento opportuno di dare loro la parola in una sorta di versione estiva del Sinodo (oltre l’evanescenza del Sinodo 2018)

C’è una felice coincidenza nel calendario: da una parte le lezioni stanno per finire, restituendo a molti ragazzi un necessario tempo libero, che in diversi casi verrà presto occupato da molteplici attività estive — tra le quali, in molte parti d’Italia, anche alcune forme di volontariato di ispirazione ecclesiale. Dall’altra i risultati resi pubblici dei primi lavori sinodali, che manifestano una sana preoccupazione che diventa anche una lamentatio: nell’ordinario delle comunità cristiane i giovani sono i grandi assenti. Di per sé, il fenomeno non è certo nuovo: negli ultimi decenni se ne parla con frequenza via via maggiore. Addirittura è stato convocato un Sinodo a tema giovanile (2018) che a quanto pare non ha prodotto molto, se ancora si brancola nel buio, almeno in molte parti dell’Occidente (allarghiamo un po’ lo sguardo oltre il nostro orticello) tra fatiche enormi a capire cosa vivono i ragazzi e le ragazze di oggi, mancanza di visione degli adulti, proposte vetuste che allontanano più che avvicinare, gabbie ideologiche novecentesche che con ostinazione vengono calate, miopia nell’interpellare chi lavora quotidianamente con i giovani.

Dunque, da una parte un’emorragia quasi senza pausa, che lascia interdetti, delusi, affranti fino ad arrivare al pessimismo più nero, magari non cogliendo i semi buoni che ci sono e le figure che rimangono e ci provano, dall’altra il tempo estivo che, in qualche modo, vede una parte dei ragazzi mettersi in gioco, darsi da fare, trovare ancora qualche approdo latamente ecclesiale.

Come fare in modo che la coincidenza faccia scattare la scintilla di un nuovo cammino? Le ricette si sprecano, come le parole d‘ordine, i modelli, gli studi. Ma poi, a settembre, tutto come prima, o quasi. Riprende la routine quotidiana, che macina energie, tempo, idee… schiacciando molto spesso giovani e adulti. E i primi, lo sappiamo, troppe volte si allontanano in un movimento a fisarmonica su cui vogliamo sentirci innocenti. E su cui, alla fine, rinunciamo a educare e a farci educare.

Sarebbe bello se in quest’estate sinodale, nei mesi che arrivano, ogni comunità provasse seriamente e semplicemente a togliersi preconcetti e idee e solo osservare, solo ascoltare. Non per avere conferma di quello che già sappiamo, ma per farci letteralmente ‘convertire’ da qualcosa che i giovani possono dire agli adulti. Dovremo però dare loro spazio e tempo, fiducia e libertà. Senza la pretesa di sapere già tutto: oggi non funziona più così (ammesso che prima funzionasse). È un’estate sinodale che deve, proprio nei prossimi mesi, aprirsi ad adolescenti e giovani, che nella stragrande maggioranza non sanno nemmeno cosa sia un sinodo e cosa sta accadendo nella Chiesa in Italia. È il momento per farli davvero entrare nel cantiere. È faticoso, indubbiamente. Ma se non leggiamo nei tre mesi a venire un kairos e lo abitiamo, se non abbiamo il coraggio di mettere da parte tutto quello che è servito alle generazioni precedenti ma che oggi non funziona più, allora rimarremo a crogiolarci nelle nostre lamentele, nei nostri idealismi poco misurati e poco concreti, o nell’esaltazione acritica dei giovani, sorella un po’ più simpatica della critica feroce. È un cammino che va fatto insieme. Se almeno provassimo, in ogni gruppo, parrocchia, associazione a mettere in gioco un paio di serate per chiedere: ma tu cosa pensi e cosa sogni sulla Chiesa?

Se avessimo il coraggio di vivere una sorta di anno zero della pastorale giovanile, oltre l’evanescenza del Sinodo 2018, per provare a maturare insieme, tutti, una visione di Chiesa del futuro, dove risuoni una Parola per vite da XXI secolo…

vinonuovo.it

«COSÌ MARIA MONTESSORI COLTIVAVA LA SPIRITUALITÀ DEI PIÙ PICCOLI»

La maestra Anna Maria Pipoli racconta la pedagogista scomparsa 70 anni fa: «Attraverso i sensi portava i bambini a uno sviluppo, la stessa cosa avviene nella catechesi. Diceva che i fossero capaci di distinguere fra le cose naturali e le cose soprannaturali e portati naturalmente a conoscere Dio, a partire dall’ambiente che li circonda»

Laura Badaracchi
La Madonna della Seggiola troneggiava su una parete della prima Casa dei bambini fondata dalla Montessori. Il quadro ne divenne il simbolo e in seguito, in tutte le nuove Case dei Bambini sarà affissa una riproduzione. (c) Archivi della Association Montessori Internationale

La Madonna della Seggiola troneggiava su una parete della prima Casa dei bambini fondata dalla Montessori. Il quadro ne divenne il simbolo e in seguito, in tutte le nuove Case dei Bambini sarà affissa una riproduzione. (c) Archivi della Association Montessori Internationale

«Aiutaci, o Dio, a penetrare nel segreto del bambino, affinché possiamo conoscerlo, amarlo e servirlo secondo le Tue leggi di giustizia e secondo la Tua divina volontà». È una preghiera scritta non da una catechista o da una santa, ma dalla geniale Maria Montessori, laureata in medicina e specializzata in psichiatria, di cui il 6 maggio ricorrono i 70 anni dalla morte. Della sua passione educativa molto è stato detto, ma non altrettanto della sua profonda fede che l’accompagnò non solo nelle vicende personali, ma che ha irrorato e ispirato molti aspetti del suo metodo. Lo ricorda con dovizia di particolari ed episodi Martine Gilsoul, educatrice montessoriana di origine belga trapiantata a Roma, nella sua accurata biografia scritta in collaborazione con Charlotte Poussin e intitolata Maria Montessori. Una vita per i bambini, appena pubblicata da Giunti. «Una copia del celebre dipinto di Raffaello “La Madonna della Seggiola”, che troneggiava su una parete della prima “Casa dei bambini”, la sua prima scuola, ne divenne il simbolo. In seguito, in tutte le nuove Case dei Bambini sarà affissa una riproduzione del quadro. E per la sua grande apertura mentale, Maria pensava che non ci fosse incompatibilità tra il suo approccio razionale e la religione che sua madre le aveva trasmesso. Nelle conferenze e negli scritti, non esita a fare largo uso di esempi tratti dalla Bibbia, dalle vite dei santi e dai Padri della Chiesa. Era una donna profondamente spirituale, abitata dal senso del sacro», sottolinea Gilsoul.

«Nel 1922 Maria manifesta il desiderio di creare un Centro cattolico di formazione degli insegnanti e pubblica in Italia I bambini viventi nella Chiesa. Note di educazione religiosa. Nel 1931 vede la luce La vita in Cristo e nel 1932 La Santa messa spiegata ai bambini. I tre volumi, che avevano tutti ricevuto l’imprimatur, costituiscono un metodo di insegnamento religioso». Inoltre la Montessori criticava «il metodo tradizionale di insegnare la religione “con le parole”: riteneva infatti che la religione dovesse far parte della vita». Anche perché, come lei stessa scrive, «i bambini sono così capaci di distinguere fra le cose naturali e le cose soprannaturali, che la loro intuizione ci ha fatto pensare ad un periodo sensitivo religioso: la prima età sembra congiunta con Dio come lo sviluppo del corpo è strettamente dipendente dalle leggi naturali che lo stanno trasformando».

Lo ricorda con dovizia di particolari ed episodi Martine Gilsoul, educatrice montessoriana di origine belga trapiantata a Roma, nella sua accurata biografia scritta in collaborazione con Charlotte Poussin e intitolata Maria Montessori. Una vita per i bambini, appena pubblicata da Giunti. «Una copia del celebre dipinto di Raffaello “La Madonna della Seggiola”, che troneggiava su una parete della prima “Casa dei bambini”, la sua prima scuola, ne divenne il simbolo. In seguito, in tutte le nuove Case dei Bambini sarà affissa una riproduzione del quadro. E per la sua grande apertura mentale, Maria pensava che non ci fosse incompatibilità tra il suo approccio razionale e la religione che sua madre le aveva trasmesso. Nelle conferenze e negli scritti, non esita a fare largo uso di esempi tratti dalla Bibbia, dalle vite dei santi e dai Padri della Chiesa. Era una donna profondamente spirituale, abitata dal senso del sacro», sottolinea Gilsoul.

Maria Montessori a Londra nel 1951 visita la Gatehouse School dove utilizzano il suo metodo di insegnamento.(c) Archivi della Association Montessori Internationale

Maria Montessori a Londra nel 1951 visita la Gatehouse School dove utilizzano il suo metodo di insegnamento.(c) Archivi della Association Montessori Internationale

Così a Roma, dopo la sua morte, l’insegnante montessoriana Gianna Gobbi e la biblista Sofia Cavalletti hanno messo a punto La catechesi del Buon Pastore, rivolta ai bambini a partire dai 3 anni, adottata anche da tanti docenti di religione e di sostegno.

Come la 67enne Anna Maria Pipoli, per 42 anni maestra di scuola primaria a Foggia. «Maestra» vuole essere definita, anche ora che è in pensione e fa la formatrice montessoriana di altri colleghi: ha sposato il metodo montessoriano anche nelle ore di religione, sperimentando concretamente con materiali bidimensionali e tridimensionali che i bambini apprendono con estrema facilità il linguaggio e il significato delle parabole evangeliche, come la perla preziosa e il seme piantato nella terra, e restano affascinati dalla storia della salvezza, dai simboli presenti nella liturgia.

La tomba di Maria Montessori a Noordwijk nei Paesi Bassi.a Noordwijk (Paesi Bassi). (c) Archivi della Association Montessori Internationale

La tomba di Maria Montessori a Noordwijk nei Paesi Bassi.a Noordwijk (Paesi Bassi). (c) Archivi della Association Montessori Internationale

«I bambini erano sempre attenti e coinvolti, usando i materiali messi a loro disposizione: dalle sagome del pastore con l’ovile e le pecore al cofanetto con la perla preziosa, dal piccolo granello di senape al lievito messo nella farina sul tavolieri per fare il pane. «Siamo chiamati a spargere semi senza indagare e interrogare: nessuna verifica. È il tempo che dice cosa sei riuscita a trasmettere nel profondo, nel cuore del bambino. Siamo come i servi inutili del Vangelo», sottolinea la maestra. «Maria Montessori diceva che il bambino è portato naturalmente a conoscere Dio, a partire dall’ambiente che lo circonda. Attraverso i sensi portava i bambini a uno sviluppo, la stessa cosa avviene nella catechesi. Bisogna offrire materiali sensoriali per assorbire questi valori, anche con i diorami (riproduzioni di varie scene in scala ridotta, ndr): così nei bambini scaturisce il contatto con il loro maestro interiore. Si pongono loro delle domande, si chiede cosa ne pensano, si stimola l’interiorizzazione e autoanalisi senza portarli dove vogliamo noi. Possono esprimere i loro pensieri con disegni o durante il colloquio». Con un atteggiamento costante da adottare: «La pedagogia dell’attesa. Ce l’ha trasmessa Maria Montessori», convinta che i bambini fossero capaci «di distinguere fra le cose naturali e le cose soprannaturali».

Famiglia Cristiana

Leggere, rileggere Dire, non dire: ai bambini bastano le parole giuste

Cinquecentocinquanta consigli su che cosa dire o non dire ai bambini fin da piccoli sono racchiusi nel simpatico prontuario Le parole giuste, di Bernadette Lemoine, psicologa, e Diane de Bodman, scrittrice (Salani Editore, pagine 192, euro 14,00). Suggerimenti pratici, dettati dal buon senso che è la forma più immediata ed efficace di pedagogia. Il principio guida è che il bambino deve essere incoraggiato e sentirsi protetto sapendo che può comunque e sempre contare sull’amore dei genitori. E sempre usando un linguaggio in prima persona, in tono positivo che non giudica il bimbo ma le sue singole azioni.

Esempio: “Ti voglio bene come sempre, anche se non mi piace per niente quello che hai appena fatto/detto”. Ogni capitolo contiene la sezione “Smettiamola di”, che riporta frasi o atteggiamenti da evitare, con una serie di utili “Stratagemmi”. Per esempio, se il bambino si mette a piangere non appena la porta della sua stanza viene chiusa, smettiamola di tornare dieci o venti volte nella cameretta; per rassicurarlo, gli si può dire: “Se è questo che vuoi, continua pure a piangere, ma non ti farò alzare né verrò a parlare con te”. Stratagemma: “Se necessario, lavorare su sé stessi per arrivare ad accettare l’idea di lasciar piangere il bambino per qualche tempo senza sentirsi in colpa”. È importante che il genitore sappia mantenere la calma e parli con gentile fermezza.

E se si perde la pazienza? “Abbiamo il coraggio di dire che ci rammarichiamo di esserci lasciati sfuggire parole spiacevoli/ingiuste che non esprimevano quello che pensiamo davvero. Il bambino apprende molto guardando l’adulto riflettere e ritornare su ciò che ha detto. In campo educativo fare degli errori, sbagliarsi, è normale e frequente”. Bisogna sapersi scusare con il bambino: “Mi dispiace, ho sbagliato a parlarti così e ti chiedo scusa”. Se il bambino non sa perdere nel gioco, smettiamola di perdere apposta per paura che la creatura si innervosisca. Se è in arrivo un fratellino o una sorellina, smettiamola di tardare a dare la notizia della gravidanza agli altri figli, per paura di reazioni negative.

L’amore non è una torta che si divide a fette. Ogni bambino ha la torta dell’amore dei genitori tutta intera. Stratagemma: “Perché la nascita del fratellino sia vissuta come una festa, i genitori possono fare un regalino a fratelli e sorelle”.

Non mancano i consigli su questioni delicate, come l’educazione affettiva e sessuale dei ragazzi «che non è compito della scuola, bensì dovere e responsabilità dei genitori»; insegnare a reagire a possibili molestie sessuali; il bullismo. In conclusione, ecco le dieci chiavi della felicità: «1. Imparare a dire la verità; 2. Acquisire il senso della giustizia; 3. Sviluppare la propria libertà interiore; 4. Scegliere di conservare il buonumore; 5. Saper riconoscere i propri torti e abituarsi a chiedere perdono; 6. Incentivare il coraggio e la perseveranza; 7.

Sviluppare il senso estetico; 8.

Sintonizzarsi con il tempo e vivere il momento presente; 9. Rispettare le persone e i limiti; 10.

Incoraggiare l’apertura verso gli altri». Gli esempi si trovano nel libro.

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Libri: serve educare alla cultura del rischio

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L’Osservatore Romano

Si parla e si scrive di ambiente, ma si stenta a considerarlo come il luogo in cui hanno da sempre sede quegli eventi sismici da cui ha avuto origine la vita geologica del nostro pianeta: un “paesaggio sotterraneo” che non percepiamo direttamente, se non quando una forte scossa smuove la terra sotto i nostri piedi e ci fa entrare direttamente nella turbolenza di queste dinamiche. Solo allora, puntualmente, gli assestamenti geofisici assumono i contorni della cronaca: una cronaca drammatica, non di rado annunciata, che si arrende alla conta delle perdite, umane e non solo. E, questo, è il triste racconto che giunge, troppo spesso, dalle più lontane, come dalle più prossime, regioni del mondo. «In queste occasioni il disastro sismico — spiega la storica e sismologa Emanuela Guidoboni, (autrice di Storia Culturale del Terremoto, Collana Rubettino) — svela all’improvviso il rapporto fra società umane e natura, un nodo ancora non risolto, che riguarda anche l’intera complessità e varietà, biotica e non, di ciò che definiamo ambiente». Il rapporto uomo–natura, centrale rispetto alla frequenza di eventi naturali estremi, non è tema squisitamente filosofico o da salotti accademici: al contrario, meriterebbe spazi di approfondimento nei dibattiti pubblici, nelle sedi istituzionali e nelle scuole, così da sensibilizzare le nostre comunità, profondamente e direttamente coinvolte da questa problematica. «Proprio la relazione, distorta e miope, tra uomo e natura, riguardo ai caratteri dell’habitat in cui viviamo, ha prodotto nei secoli una drammatica sequenza di sciagure, perché se il mondo abitato è vulnerabile e impreparato, gli effetti sono distruttivi in termini di perdite di vite umane, beni ed interi centri abitati. È una considerazione che vale particolarmente per i terremoti», specifica Guidoboni. Questi, infatti, manifestazione necessaria della vita della Terra, si verificheranno in futuro, come in tutte le epoche passate: eppure, l’incapacità di prevedere e prevenire determina ogni volta l’effetto sorpresa, per cui continuiamo a percepire i terremoti come eventi inattesi. Abbiamo accettato l’impostazione secondo cui la prevenzione inizi solo a disastro avvenuto, nonostante una straordinaria storia sismica testimoni che i terremoti sono stabilmente presenti e connaturati all’ambiente terrestre: l’Italia, ad esempio, è toccata da un evento sismico mediamente ogni quattro. Solo considerando i 160 anni, dall’unità d’Italia (1861) ad oggi, si sono ripetuti 36 gravi episodi sismici, oltre a 86 terremoti di impatto poco inferiore, nel corso dei quali oltre 1.560 comuni, tra cui 20 capoluogo, hanno subito distruzioni gravissime. Dall’inizio del Novecento abbiamo avuto più di 154.000 morti. Numeri impressionanti che si ritrovano in ambito idrogeologico: nell’ultimo secolo il territorio nazionale, interessato per il 7 per cento da frane, è stato sommerso da 1.900 alluvioni. Chiaramente una pioggia intensa assume i contorni di un evento estremo in aree già depredate dal cemento e dalla deforestazione di un’edilizia abusiva e depredatrice. A ciò si aggiunge l’attività vulcanica: il Vesuvio, è silenzioso da 76 anni, ma ha avuto otto importanti eruzioni tra il 1861 e il 1944, e tuttora è un vulcano attivissimo, come lo è l’area dei Campi Flegrei. «Le situazioni critiche sono molte ed estese, e riguardano milioni di italiani. Dagli studi degli ultimi trent’anni, sappiamo che le aree a rischio sismico e idrogeologico sono sempre le stesse — nota la storica — questo dato faciliterebbe interventi efficaci e mirati, e consentirebbe un primo bilancio». Un bilancio sulle dolorose peripezie di territori periodicamente martoriati da calamità naturali, di cui, però, non c’è traccia nei manuali di storia. Analogamente sono assenti le epidemie che nei secoli hanno funestato le società del passato, derivanti dall’interazione con l’ambiente biotico dei virus e dei batteri. «Da medievista, ricordo la pandemia causata dal batterio Yersinia Pestis, che decimò le popolazioni nel vi secolo, al tempo di Giustiniano; poi, alla metà del Trecento, perì di peste circa un terzo degli abitanti dell’Europa medievale — spiega Guidoboni —. Come sappiamo da Boccaccio e da altre fonti, nel 1348 i cittadini abbienti si isolavano nelle ville in campagna, mentre nelle città e nei paesi le epidemie mietevano vittime». Le miniature del tempo testimoniano un traumatico impatto con la morte, che segnò la cultura di quegli anni e di cui abbiamo traccia nelle rappresentazioni su vetrate e affreschi di molte chiese. Tornando ai giorni nostri, le condizioni sono diverse: siamo più sani, meglio nutriti, più informati e più garantiti. Nonostante il riconoscimento dei diritti, tra cui quello alla cura (a cui ha accesso, però, solo parte della popolazione mondiale), l’attuale sistema mostra diverse fragilità, a livello globale, nella crescita incontrollata di differenze e ingiustizie sociali, nel pericolo di impoverimento economico, ma anche educativo e culturale, e nello svuotamento del significato di diritti universalmente estesi. «Limitandosi al nostro paese, emerge un’Italia che, rispetto alle politiche di prevenzione, non è riuscita a maturare la consapevolezza dell’importanza del buon governo, non valutando le conseguenze di alcune scelte», si rammarica la storica, pur notando che non sono mancate «manifestazioni di forza in reazione alle drammatiche perdite prodotte da eventi estremi». Come inaugurare una nuova stagione, dunque? Qualsiasi percorso si intenda intraprendere, occorre chiamare in gioco quella che finora è stata la grande assente, ovvero, la cultura del rischio. Una cultura, basata sulla conoscenza e su un approccio positivo, fiducioso e teso ad un futuro più civile e sicuro. Una cultura che non nasce e si diffonde da sé: va coltivata, formata e incentivata. «I disastri naturali sono costantemente raccontati all’opinione pubblica come cronaca, per lo più di eventi casuali e isolati dal contesto storico in cui andrebbero letti», spiega Guidoboni. Questo giustifica perché vengano rapidamente archiviati dalla memoria collettiva, ignorati nelle scuole e perché nelle università, sedi per eccellenza della formazione di insegnanti e amministratori (tra cui ingegneri, architetti, ambientalisti), non si dia spazio alla storia di tali eventi, ai metodi scientifici di valutazione, alla ricerca delle cause o al peso dell’intervento dell’uomo. Una mancanza di visione del fenomeno, nel suo complesso, destinato a ripercuotersi in una tragica sequenza di episodi drammatici che ciclicamente si ripetono nelle diverse regioni del pianeta. «Gettare le fondamenta della cultura del rischio implica affrontare la multidisciplinarietà e la trasversalità dei saperi, e mettere al centro la società. È un investimento che porterebbe ad una consapevolezza sociale e civile più ampia e a nuove istanze politiche», conclude Emanuela Guidoboni. I presupposti tecnico-scientifici per procedere ad un serio piano di prevenzione non mancano: manca, probabilmente, l’impegno a condividere, all’interno delle diverse comunità, una strategia chiara e concreta che restituisca centralità alla società civile, rendendola protagonista di una incalzante e fattiva domanda di sicurezza. La stessa che avanza e cresce, però, solo sull’onda della conoscenza dei rischi a cui si è esposti, della portata distruttiva di un cataclisma, dei costi e dei disagi enormi che, per decenni, si riversano sulle future generazioni.

di Silvia Camisasca

Documento della Congregazione per l’educazione cattolica. La questione del gender nell’ambito educativo

L’Osservatore Romano

Nel pomeriggio di lunedì 10 giugno, la Congregazione per l’educazione cattolica pubblica — sul sito web www.educatio.va — il documento «Maschio e femmina li creò. Per una via di dialogo sulla questione del gender nell’educazione». Di seguito due articoli di presentazione del cardinale prefetto della Congregazione e del direttore dell’Istituto Gonzaga di Milano. 
(Giuseppe Versaldi) Nell’ultima decade i vescovi hanno mostrato sempre più attenzione alla cosiddetta questione del gender, ponendo quesiti alla Congregazione per l’educazione cattolica per quanto concerne le scuole e le università cattoliche. Durante i lavori dell’assemblea plenaria della Congregazione, svoltasi nel febbraio 2017, è affiorata l’emergenza dell’ideologia del gender in ambito educativo ed è stata presa la decisione comune di intervenire con uno scritto su tale delicato tema per aiutare quanti hanno a cuore l’educazione cattolica. 

GIOVANI Educazione: p. Cucci (La Civiltà Cattolica), “i videogiochi possono avere un ruolo importante in chiave pedagogica”

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I videogiochi possono rivestire un ruolo di “grande importanza” in “sede pedagogica”. Il loro “potere di attrazione può fare di essi un efficace canale di educazione, socializzazione e trasmissione dei valori a livello etico e religioso, in una maniera capace di unire competenza, coinvolgimento e motivazione”. A sottolinearlo è padre Giovanni Cucci, scrittore de “La Civiltà Cattolica” che, senza nascondere i lati negativi alla base del “meccanismo della dipendenza patologica”, mette in luce la capacità dei videogiochi di “creare un mondo nuovo, come pure di destabilizzare quello sinora conosciuto”. Essi, spiega in un articolo sul numero di maggio, trasmettono “sempre dei contenuti, anzitutto etici: ci sono i buoni e i cattivi, gli eroi e i codardi, i fedelissimi e i traditori”. Sebbene “on line ce ne sono alcuni che certamente favoriscono la versione ‘romantica’ della guerra e della violenza, come un facile tiro al bersaglio, o la soluzione finale al problema del male eliminando i cattivi”, ci sono “videogiochi che mostrano in maniera altrettanto efficace l’assurdità e l’inutilità della guerra”. Si tratta, osserva p. Cucci, “di prodotti che rivisitano criticamente la descrizione dei conflitti in termini di avventura eccitante ed eroica, e soprattutto evidenziano il risvolto etico di tali problematiche”. “Alcuni, chiamati serious game (giochi di tipo educativo), promuovono l’altruismo e lo sviluppo, consentono di riconoscere le proprie capacità e risorse, mettendole a disposizione di altri”, continua il gesuita evidenziando la possibilità “di comprendere i grandi problemi dell’attualità in chiave etica”.