MI FIDO DI TE – Ripensare l’educazione

Mentre noi ci stupiamo dei cambiamenti in atto all’interno del mondo giovanile, i ragazzi ci chiedono di risintonizzarci su un nuovo modo di vivere, sì perché del resto non è obbligatorio fare come si è sempre fatto.

Occorre quindi prendere contatto delle novità di cui sono portatori, di come oggi rimangono in contatto con gli altri, di cosa li affatica nel sognare il futuro, come aiutarli a sentirsi adatti e capaci a questo compito così importante, comunicando loro che ce la possono fare.

Per favorire tutto questo, è necessario stabilire relazioni corrette con loro, basate sulla fiducia. Come adulti dobbiamo credere e dimostrare che è possibile il nascere di uno spazio di vita dove giovani e persone adulte o anziane, riescono ad allearsi fra di loro in un cammino comune.

Non è possibile compiere il cammino appena proposto senza sperimentare la necessità di rimettersi in gioco innanzitutto noi adulti, di affrontare anche le fatiche e i limiti che accompagnano l’opera educativa.

L’approccio che troverete è di tipo spirituale, dove questo termine fa riferimento allo Spirito del Risorto che soffia in ogni vita e che per questo coinvolge tutto quanto in essa passa, tutta quanta la persona con le sue diverse dimensioni è chiamata a mettersi in gioco e trovare un punto di sintesi. Per questo l’esigenza di un approccio spirituale chiede di passare attraverso tutto il dato umano, corporeo e psicologico che appartiene allo specifico di ogni essere umano, con il coraggio di non fermarsi lì.

Sommario

Introduzione.  

  1. PASSI PER UNA CONVERSIONE EDUCATIVA. Alcuni luoghi di conversione.  Un cambiamento di atteggiamento.  La vita al centro.  Dai giovani di oggi suggerimenti per un nuovo modello di Chiesa.  Una generazione di orfani.  Un amore gratuito: la mistica dell’educatore.  Questione di prospettiva.  I giovani ci sono, ma noi non abbiamo tempo.  Adulti e giovani: è possibile incontrarsi?  Tre passi, tre compiti, tre limiti.  Riconoscere, interpretare, scegliere.  Sono guariti, e noi?  Chiamare per nome: un’attenzione a tutti.  Il masso è già rotolato via.  Dal castigo alla relazione.  Pensare prima di agire.  Dalla pianta di fico imparate la parabola.  Mi stai diludendo.  Solidali nel faticare insieme.  Peripatetico.  A un’educatrice.  A una mamma.  
  2. PROSPETTIVE. Un’organizzazione diversa per l’annuncio della fede alle nuove generazioni.  Ripensare l’agire della comunità cristiana.  Se i giovani cambiano, la scuola non può rimanere la stessa.  Desiderio, sessualità, amore.  Internet, smartphonesocial network.  Lasciateli sbagliare.  Emmaus: il cammino di due giovani di oggi.  Sogno e realtà sull’educatore.  Conclusione.  Bibliografia.

Note sull’autore

Paolo Tondelli, prete nella diocesi di Reggio Emilia-Guastalla, si occupa dei giovani e della formazione degli educatori. Assistente ecclesiastico dell’Agesci, è redattore di un blog che tratta tematiche legate all’educazione (http://donpaolotondelli.blogspot.it) ed è autore di Adolescenti e Vangelo. Una ricerca di alleanza (Paoline 2015) ed EducArte. In cammino con gli adolescenti (Messaggero 2017).

Scuola paritaria: Fernandez (Oidel), pluralismo educativo è “garanzia di società democratica”

“C’è una relazione significativa tra indice di libertà educativa e indicatori di responsabilità di governo ed efficacia. Il finanziamento delle Sng (scuole non governative) non si traduce in aumento della spesa pubblica per l’istruzione”. Ne è convinto Alfred Fernandez, direttore generale di Oidel che con la Fondazione Novae Terrae ha curato l’elaborazione dell’Indice globale 2015/16 sulla libertà di educazione. “Il nostro approccio è basato sui diritti umani”, ha detto oggi alla Camera dei deputati illustrando il rapporto nel corso di un convegno promosso dalle associazioni che rappresentano più di 13mila scuole paritarie e un milione di famiglie. Punto di partenza l’art. 5 della Dichiarazione Unesco sulla diversità culturale (2001): “Ognuno ha diritto a una educazione e formazione di qualità che rispettino pienamente la sua identità culturale”. Dei 136 Paesi analizzati solo tre impediscono l’istituzione di scuole non governative: Cuba, Gambia e Libia, mentre 84 la riconoscono costituzionalmente questo tipo di scuola garantendone la massima tutela. Ai primi cinque posti Irlanda, Paesi Bassi, Belgio, Malta e Danimarca, ma nei primi 15 figurano anche Cile, Corea del Sud, Israele e Perù. L’Italia si piazza soltanto in 47ma posizione. Per Fernandez, “c’è un obbligo di educazione paritaria, un obbligo statale”.  La Convenzione dell’Unesco sulla lotta contro la discriminazione nell’educazione (1960) “già affermava la necessità di rispettare la libertà di scelta educativa dei genitori, e nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo si afferma la garanzia di pluralismo educativo come garanzia di una società democratica. Dal pluralismo educativo dipende il pluralismo in generale e il rispetto per la diversità, ma per attuarlo servono finanziamenti pubblici”.

sir

Il Santo del giorno: Un santo dell’educazione, precursore di quell’attenzione ai più piccoli e alla crescita di ogni uomo che oggi è patrimonio comune

Giuseppe  Calasanzio
  
Educare, la missione degli Scolopi
Un santo dell’educazione, precursore di quell’attenzione ai più piccoli e alla crescita di ogni uomo che oggi è patrimonio comune. Questo è il profilo più autentico di san Giuseppe Calasanzio, fondatore degli Scolopi. Nato nel 1557 in Spagna e ordinato sacerdote a 26 anni, lavorò in diverse diocesi iberiche. Ma a Roma rimase colpito dalla situazione dei bambini abbandonati, per i quali pensò una congregazione religiosa impegnata a combattere l’analfabetismo, nella convinzione che in tal modo si poteva ridurre la criminalità. Nacquero così le Scuole Pie, tenute dai religiosi che vennero chiamati «Scolopi». Educare, scriveva il fondatore, significa anche donare quella vita eterna promessa da Cristo. Calasanzio morì nel 1648.
Altri santi. Ludovico (Luigi IX), re di Francia (1214-1270); Tommaso Cantelupe, vescovo (1218-1282). Letture. Is 66,18-21; Sal 116; Eb 12,5-7.11-13; Lc 13,22-30. Ambrosiano. 2 Mac 6,1-2.18-28; Sal 140; 2 Cor 4,17-5,10; Mt 18,1-10.
avvenire.it

Famiglia, cima della vertigine educativa. Nella serata sul tema “Educare è un viaggio”

Famiglia, cima della vertigine educativa

Famiglia, cima della vertigine educativa

Nella serata sul tema “Educare è un viaggio”, il Vescovo ha parlato delle relazioni genitori-figli-scuola

Molto partecipato l’incontro promosso da AGe, Aimc, Fidae, Fism e Uciim nella serata di martedì 28 maggio al Centro Giovanni XXIII di Reggio Emilia Famiglia, cima della vertigine educativa

Educare è un coinvolgimento di esistenze, è rivivere continuamente ciò che si è vissuto accanto ai propri cari: il coniuge, i figli, i nipoti, gli amici. Con una base ineguagliabile, la famiglia naturale, sempre più insistentemente nel mirino della mentalità corrente. Francia docet.

È un piccolo distillato dell’incontro “Educare è un viaggio” in compagnia di Massimo Camisasca, in diretta dal Centro Giovanni XXIII di Reggio Emilia nel dopocena di martedì 28 maggio. Anche la serata diventa un viaggio: gli scompartimenti “viaggiatori” – le due aule al primo piano di via Prevostura 4 – si riempiono rapidamente e qualcuno resta in piedi o si accomoda nel pianerottolo. Nel primo tempo l’itinerario sull’educazione proposto dal Vescovo è accompagnato dalle domande di Gabriele Rossi, il presidente dell’Associazione Genitori (AGe), che promuove l’iniziativa insieme alle altre sigle cattoliche Aimc (maestri), Fism (scuole dell’infanzia paritarie), Fidae (scuole primarie e secondarie) e Uciim (insegnanti medi). Poi è la volta degli interventi del pubblico: una mamma, un nonno, due presidi in pensione, a confrontarsi chi con lo sportello psicologico alle scuole medie chi con i cambiamenti epocali nel modo di abitare, di lavorare e di comunicare, o ancora sul ruolo dell’associazionismo e sul “prezzo” delle separazioni.

Tutto il discorso educativo fa perno sulla famiglia e sulla sua intrinseca vitalità. Monsignor Camisasca attinge in particolare al libro “Amare ancora” (Edizioni Messaggero Padova, 2011 – da qui scheda libro online su ibs con il 15% di sconto),

Camisasca Massimo – Amare ancora. Genitori e figli nel mondo di oggi e di domani

Amare ancora. Genitori e figli nel mondo di oggi e di domani Titolo

Amare ancora. Genitori e figli nel mondo di oggi e di domani – >>> da qui sconto 15%

Autore Camisasca Massimo
Prezzo
Sconto 15%
€ 11,90
(Prezzo di copertina € 14,00 Risparmio € 2,10)

già presentato in più di cinquanta città italiane, che ha scritto dopo avere ascoltato a lungo genitori e figli di oggi. Con un convincimento profondo: anche se la cronaca, tra delitti “domestici” e alternative giuridiche, erutta quotidianamente fatti negativi, la famiglia è una bella opportunità da riscoprire per il futuro. E con un fondamento altrettanto saldo: la persona, che è sempre concepita in relazione con altri “tu” in ogni esperienza umana, in contrapposizione all’individuo inteso come “io” assoluto, che non ha altri riferimento all’infuori di sé. Non a caso, dice il relatore collegandosi al magistero di Benedetto XVI e alle prime omelie di Papa Francesco, all’origine della crisi dell’uomo contemporaneo c’è proprio la chiusura in questa visione egoistica, portatrice di frammentazione sociale.

Ecco che quell’avverbio di tempo, ancora, che compare anche nel titolo del libro di Camisasca, più che la trincea di una difesa agguerrita diventa il tratto di una speranza da rifondare. Lo dicono i ragazzi che ancora si innamorano e progettano insieme il domani, così come le famiglie che ancora sono felici di accogliere la vita come un dono, scegliendo la “logica della testimonianza”.

Il Vescovo poi, sapendo di sfidare la cultura dei desideri/diritti tanto in voga in Europa, parla ancora di natura: comunque la si voglia chiamare, spiega, è difficile nascondere che nell’uomo c’è qualcosa di insopprimibile: la creaturalità, l’idea di bene e di male, il senso di compiutezza che egli può realizzare solo aprendosi nell’amore, nella fraternità, nell’amicizia.

Certo, viene per tutte le relazioni la prova del tempo, e capita non di rado che la promessa venga meno, “non in sé, ma in noi”. La fedeltà – commenta il presule – è una virtù che vive se rinasce continuamente e nel corso della vita la si può sostenere quanto più si diventa consapevoli che è un “bene difficile” e si impara a perdonare, anche se stessi.

Pure rispondendo a una domanda su paternità e maternità, Camisasca passa da quel “crocevia di tutte le esperienze della vita umana” che è la famiglia. Così, il padre è definito come “colui che prende per mano il figlio e lo porta a incontrare le cose”, a scoprire che la vita è anche (ma non soltanto) problemi, rifuggendo gli estremi del genitore ossessivo/autoritario o viceversa troppo remissivo. Quanto alla madre, ogni donna è essenzialmente “bellezza”, una bellezza che è attrattiva, generativa e “custode” della casa. Ma chi riduce a zero l’importanza del padre e della madre, ammonisce, pone le premesse per lo sviluppo di personalità più fragili, insicure e violente. Il pensiero torna ai surrogati di matrimonio e di generazione che premono per il loro “riconoscimento” legale, mentre la politica, che dovrebbe favorire le politiche familiari per la casa, il lavoro e la natalità, appare animata da una “strana voglia suicida”.

Circa il rapporto scuola-famiglia, il Vescovo insiste sulla necessità che bambini e ragazzi siano aiutati a crescere attraverso le capacità sia intellettive che affettive, rinnovando un’alleanza che richiede nuovi investimenti.

Educare è infine un rischio, perché significa trasmettere se stessi – ogni giorno, nella vita comune – e non un semplice prontuario per l’esistenza. È un “viaggio”, conclude Camisasca, che implica ascolto e quindi pazienza, fino a rispettare il limite della libertà del figlio-altro da sé, giacché “siamo tutti madri e padri putativi”. Questa è anche la “vertigine” dell’educazione: solo in famiglia la si può vivere fino in fondo.

Edoardo Tincani – diocesi.re.it

DOMENICA 3 FEBBRAIO alle ore 17.30 presso l’Oratorio cittadino di via Adua a Reggio Emilia: presentazione del libro “Educare alla mondialità. Strategie e metodologia di un coordinamento pastorale”

Cari amici del Granello,

è con grande piacere che vi invitiamo al convegno di presentazione del libro

Educare alla mondialità. Strategie e metodologia di un coordinamento pastorale“,

testo scritto a cura del Granello di Senapa ed edito dalle Edizioni Dehoniane Bologna.

Questo volume è stato pensato in occasione dei dieci anni di vita del Granello per raccontare com’è nato e com’è cresciuto il Granello di Senapa e per fornire alcuni strumenti pratici, frutto di questi anni di esperienza, ad insegnanti, educatori, catechisti e genitori. L’intento del libro è proprio quello di aprire lo scaffale delle nostre attività e metterle a disposizione di chi lavora con i giovani.

Crediamo molto in questo nostro lavoro e ci auguriamo che possiate partecipare numerosi a questo evento per noi davvero importante!

L’appuntamento è per DOMENICA 3 FEBBRAIO alle ore 17.30 presso l’Oratorio cittadino di via Adua a Reggio Emilia. Ci accompagneranno durante la serata gli interventi di Don Romano Zanni e Brunetto Salvarani che ci aiuteranno a comprendere la valenza di un’esperienza come quella del Granello e a ragionare sull’importanza dell’educare oggi.
Verrà inoltre proiettato un video con alcune testimonianze di insegnanti, volontari e giovani che hanno conosciuto e collaborato col Granello.

Al termine del convegno verrà offerto un piccolo rinfresco.

In allegato il volantino dell’evento.

Vi chiediamo di partecipare numerosi e di diffondere il volantino!!!

Non è richiesta alcuna iscrizione al convegno ma per organizzare al meglio l’evento vi chiediamo di confermare la vostra partecipazione alla segreteria.

Per info —-> Chiara Spaggiari, 0522-516163 – info@granello.re.it

Un saluto e un grande grazie da tutto lo staff del Granello di Senapa!

Educare all’amore e alla libertà

Abbiamo a che fare con le coscienze e la libertà delle persone, che devono saper scegliere quando saranno sole. Tra le varie realtà, laCaritas rappresenta un ambito pedagogico, prima che esistenziale.

La parola rischio fa rima con il verbo educare. E non potrebbe essere diversamente, dal momento che la “materia” con cui si ha a che fare non sono materiali inerti come l’acciaio o il cemento, ma con le coscienze delle persone e dunque con le loro libertà. E libertà dice la possibilità di scelte diverse. Un educatore non potrà mai tollerare che la sua azione educativa finisca per generare dei cloni di sé. Dovrà perciò muoversi su due binari:

1 la verità (che nel titolo abbiamo tradotto con “amore”): preoccuparsi di comunicare quanto per l’educando è il bene, senza scadere in forme di relativismo etico; in questo senso educare è un rischio, perché richiede un modello di uomo, di esperienza umana, che sappiano costituire un fine per il quale vale la pena d’impegnarsi; è un rischio perché ci chiede di scoprire prioritariamente se c’è qualcosa per cui valga la pena di vivere e morire;

2 la libertà: se anche la persona dovesse aderire a determinati elementi valoriali – ma questo fosse la conseguenza di meccanismi non liberanti – l’azione educativa perderebbe automaticamente di significato. L’educazione non può non essere alla libertà e della libertà: far fare esperienza della libertà e liberarla dalla disastrosa idea di essere tutta e solo potere di scelta e non anche capacità di adesione al bene e capacità di relazione con l’altra libertà.

Lavoro di gruppo in un liceo albese.

Lavoro di gruppo in un liceo albese (foto CENSI).

Generazione ed educazione

Educare è un rischio anche perché è un compito al quale non si può abdicare. In nome di una sterile neutralità non ci è lecito abbandonare i giovani alla loro solitudine, sempre più in balia della violenza e della volgarità.

Vi è un nesso strettissimo tra generazione ed educazione: l’educazione è quell’agire con cui i genitori per primi «rendono ragione al figlio della promessa che essi gli hanno fatto, mettendolo al mondo» (Giuseppe Angelini).

Così che, al contrario, dove la generazione non continua nell’atto educativo, al suo stesso livello di senso si smentisce: il mettere al mondo coincide drammaticamente con un gesto di abbandono.

Coloro che hanno il dono della fede nel Dio cristiano sanno che questa dinamica verità-libertà ha sempre accompagnato la storia di Dio con gli uomini. Un Dio che fin dall’inizio ha voluto impostare questo rapporto in termini di “alleanza”, cioè di partenariato in cui i due contraenti sono entrambi liberi, seppure su piani asimmetrici. Dio agisce in totale libertà, non condizionato da alcun motivo che non sia il suo amore per l’uomo. L’uomo è chiamato a rispondere in modo libero e consapevole. Dio è assolutamente necessario all’uomo perché la sua vita abbia successo, ma contemporaneamente Dio non potrebbe mai sopportare di essere subìto e imposto all’uomo. Dio non avrebbe mai posto in essere la storia della salvezza, se l’uomo fosse stato un burattino privo di libertà.

L’educazione che proponiamo deve essere “a termine”. Non si può prendere un bambino e pretendere di accompagnarlo dalla culla fino alla tomba. Un’educazione, per essere vera, deve porre gesti di discontinuità. Qualche volta il rapporto deve finire, l’aquila deve cacciare l’aquilotto fuori dal nido, se no come farà a imparare a volare? L’educazione deve essere “estroversa”, perché la vita sarà altrove, perché la sua qualità si misurerà quando l’educatore non ci sarà più e uno si troverà da solo con la sua coscienza, le sue convinzioni, le sue incertezze e fragilità. Un oratorio, una famiglia, una scuola, una realtà educativa deve insegnare a partire. La questione decisiva di un’azione educativa è rappresentata da come poi ci si scioglie nel mondo, per dargli sapore, gusto, colore.

Educare è un rischio perché il risultato non è scontato e risponde a leggi che non seguono logiche deterministiche. Quando don Bosco scriveva che «educare è cosa del cuore» non negava la dimensione scientifica, ma richiamava a non cadere nel tranello di una deriva pedagogistica dell’azione educativa.

Discussione in un liceo di Alba (Cn)

Discussione in un liceo di Alba (foto CENSI).

Ripensamenti

In questo senso può trovare diritto di cittadinanza un tentativo di rilettura critica del progettare in educazione. Gli anni ’80 e ’90 furono un tempo di grande elaborazione metodologica, basti solo ricordare l’impulso offerto dal card. Martini (vedi gli Itinerari educativi, Milano 1988) con il triennio sull’educare, che stimolava oratori e parrocchie a dotarsi di un “progetto educativo”, a imparare il linguaggio della lettura della situazione, della definizione degli obiettivi, della scelta di strumenti e della definizione di indicatori capaci di misurare i cambiamenti avvenuti.

Il tutto non senza qualche ingenuità, laddove passò la tentazione di pensare che col progetto il più era fatto; laddove ci si illudeva che poteva bastare questa riflessione scientifica; laddove si finiva per dimenticare che dall’altra parte non hai un cagnolino da addestrare, ma una libertà da liberare. «Nel lavoro educativo come in quello di cura abbiamo bisogno di tecniche e strumenti, come di regole e procedure, tuttavia se ci si chiude in queste ci si perde, ci si arrende alla distanza dell’altro e si finisce per abbandonarlo al proprio destino.

Per reagire a questo rischio, tutt’altro che ipotetico, oggi sembra indispensabile maturare un pensiero che entri come una lama a cercare la verità nella vita, nel tempo e nei giorni» (Ivo Lizzola). Educare nella libertà significa anche relazionarsi a possibili “fallimenti”, nella consapevolezza che questi fanno parte dell’esperienza di ogni educatore, che non va rifiutata ma, al contrario, integrata e accolta entro un processo sempre aperto in cui è chiesto solo di curare la qualità del seme e d’innaffiarlo con le lacrime della passione e il sudore dell’intelligenza.

Educazione e rischio stanno anche alla base delle scelte organizzative che una Caritas è chiamata a compiere. La riflessione da cui siamo partiti si deve tradurre in opzioni pratiche a seconda delle varie realtà che hanno a che fare con l’ambito educativo. Tra queste, Caritas è un attore privilegiato dal momento che la sua ragione di esistere si pone più nell’ambito pedagogico che su quello propriamente assistenziale. Non va dimenticato che Caritas fin dal suo sorgere viene pensata come un permanente principio educativo all’interno della comunità cristiana e della società civile. Tutta la sua operatività, l’intervenire ad alleviare le sofferenze di coloro che – vicini e lontani – si trovano in uno stato di bisogno, andrà letto e giudicato non nella prospettiva di una illusoria capacità di estirpare la povertà dalla storia, ma in quella di essere pungolo permanente di educazione a una vita vissuta nella solidarietà e nella prossimità.

Alcune scelte

Dunque, vengono di seguito evocate alcune scelte simboliche che tentano di incarnare le intuizioni sopra riportate relative a un’azione educativa vissuta come “rischio”:

E il primato dell’ascolto. Significa riconoscere a chi si rivolge ai nostri diversi servizi una dignità che li rende meritevoli di attenzione e di relazione. Ascoltare significa entrare in relazione, significa non pretendere di sapere ciò di cui l’altro ha bisogno prima di avergli dato del tempo per raccontarcelo. Ovvio che questa scelta prende tempo e richiede pazienza. Ovvio che questa scelta ci espone al rischio di un’intenzionalità dell’altro non sempre trasparente e sincera; E il rifiuto della prospettiva assistenziale.

Rifiutare l’assistenzialismo – che altro non è che una variante del paternalismo, atteggiamento che pretende di mantenere l’altro in uno stato permanente di minorità – significa mettersi in una prospettiva educativa che riconosce all’altro la sua maturità, la sua dignità; significa accettare la fatica di rispettare i suoi tempi di maturazione e di crescita, con tutte le incertezze del caso. Credere in una relazione di cura che ha l’emancipazione come obiettivo ultimo, cioè il far stare sulle proprie gambe la persona in difficoltà, significa a volte accettare il rischio di pigrizie e mancanza di volontà di cambiamento.

Roberto Davanzo
direttore Caritas di Milano

 

Educare: un compito urgente tra emergenza e sfida

Il Segretario generale della CEI interviene a Bibione ROMA, lunedì, 12 luglio 2010 (ZENIT.org).
Generazione, tradizione e autorità sono queste per mons. Mariano Crociata, Segretario generale della CEI, le tre parole chiave utili “per una sfida educativa raccolta e condotta secondo verità”. E’ quanto ha detto il presule intervenedo il 5 luglio a Bibione, nel corso di una conferenza su “La sfida educativa”, inserita nel contesto della manifestazione “Bibione guarda all’Avvenire” organizzata dalla Parrocchia Santa Maria Assunta e dall’Ufficio comunicazioni sociali della Diocesi di Concordia-Pordenone. L’iniziativa, giunta quest’anno alla IV edizione, aveva come tema: “I mass-media cattolici: educarsi alla verità”. L’aspetto “più delicato”, nella “sfida educativa” che la Chiesa italiana ha deciso di raccogliere per questo decennio pastorale, ha detto all’inizio mons. Crociata è costituito “dalla tentazione relativista che mina in radice qualsiasi opera educativa”. Infatti, ha spiegato, “la disponibilità illimitata di forme e di interlocutori della comunicazione in questa epoca digitale ha già prodotto un riposizionamento delle tradizionali agenzie educative, a cominciare dalla famiglia e dalla scuola, spesso inesorabilmente marginalizzate o comunque ridimensionate”. Inoltre, ha aggiunto, “un senso malinteso di rispetto dell’autonomia e della libertà ha portato talora a teorizzare e praticare il rifiuto dell’opera educativa come tale, ritenendola lesiva o limitativa della personalità del bambino, del ragazzo o del giovane, la quale invece dovrebbe avere già in sé tutto ciò che è necessario alla sua maturazione umana e, dunque, avrebbe bisogno solo di un aiuto volto a facilitare la sua naturale evoluzione”. In una simile prospettiva, ha sottolineato il Segretario generale della CEI, “la famiglia non dovrebbe in alcun modo adottare misure costrittive o repressive e la scuola assumerebbe solo una funzione metodologica, come luogo di apprendimento di informazioni, di tecniche, di uso di strumenti di cui lo studente si servirebbe liberamente e creativamente per dar forma alla propria personalità”. “Purtroppo – ha poi avverito – a venir meno o ad essere messa in questione, prima che il compito educativo, è l’idea di persona umana, la visione della realtà nel suo insieme a cui fare riferimento”. “La sfida allora – ha indicato il presule – consiste nel raccogliere i cambiamenti di cui abbiamo parlato come delle opportunità, facendoli diventare possibilità in più per l’opera educativa; ma per fare ciò ci si deve innanzitutto intendere sulla necessità di una visione personalistica e di una idea di educazione”. Per questo mons. Crociata ha indicato tre esigenze imprescindibili: “Generazione, tradizione, autorità”. “Non basta essere procreati per essere generati: non basta metter al mondo una creatura per renderlo figlio e persona”, ha detto il Vescovo spiegando il significato del termine generazione. “La tradizione – ha affermato – rappresenta la condizione per lasciar emergere l’originalità e l’unicità di ciascuno”, poiché “non è nel vuoto che si può sviluppare una personalità originale, ma soltanto all’interno di un processo di trasmissione”. “Autorità”, ha concluso infine, è una parola che appare “ostica” ai nostri giorni, ma che invece, a patto di non essere “confusa con autoritarismo”, è “responsabilità a partire da un’autorevolezza personale e competente da parte dell’educatore”.

Emergenza educativa:"sentire i figli"

Le capacità educative della famiglia sono molto indebolite. Essa perde le sfide del consumismo, dei videogiochi, web, telefonini… 

L’odierna devianza giovanile – bullismo e altre forme di violenza; spinelli, droghe e alcol; sballo in discoteca e conseguenti stragi al rientro –, riguardante personalità ancora in formazione, suscita nell’attento osservatore l’interrogativo: dove ha sbagliato la generazione precedente nell’opera educativa? E “che fare” per rimediarvi? A ben guardare, nella società/cultura postmoderna è ormai dominante un comportamento orientato alla massima fruizione possibile dei beni e piaceri in genere, e lo slogan “proibito proibire” ha spazzato via la pur ipocrita morale borghese.

E così tv, cinema e letteratura favoriscono quel sesso indiscriminato e promiscuo che, nel ’68, si espresse negli slogan tipo “la fantasia al potere”, “non fate la guerra ma fate l’amore”, “l’utero è mio e me lo gestisco io”. E benché molti dei giovani, attivi nel ’68, da incendiari siano diventati pompieri – facendo anche carriera nelle istituzioni di quella società che volevano bruciare –, una volta genitori non riuscirono (salvo lodevoli eccezioni) a bloccare quella deriva che loro stessi avevano incautamente provocato e della quale ora constatavano amaramente gli effetti nei figli. Inevitabile quindi l’odierna crisi della famiglia – e in essa del principio-autorità, verificatasi nell’ultimo mezzo secolo –, col triste sbocco nel disagio giovanile(1).

La capacità educativa della famiglia – ma anche delle altre agenzie formative tradizionali (scuola e Chiesa/parrocchia) – è oggi molto indebolita e ogni giorno perde terreno di fronte a seduzioni tipo: consumismo esasperato, videogiochi (anche violenti), uso incontrollato del web e, non ultimo, quello dei telefonini, che consentono usi ben diversi rispetto alla conversazione. Con questa aggravante: la crisi della famiglia (e della scuola e Chiesa/parrocchia) è accentuata dall’esaltazione che oggi i media generalmente fanno di comportamenti anomali. Se poi ricordiamo che l’influsso dei media sui comportanti è doppio rispetto a quello delle tre agenzie educative classiche messe insieme, le previsioni non sono rosee. Tanto più che tale deriva non sembra essere presa in considerazione neppure a livello europeo, visto che i governi del vecchio continente, generalmente parlando, hanno tacitamente accettato «il collasso ontologico dell’essere»: un’ideologia che negando la positività dell’essere – o, meglio, asserendo che l’essere in sé non è né bene né male – sfocia in un relativismo degradante a livello sociale in genere e della famiglia (e formazione delle nuove generazioni) in specie.

L’emergenza educativa preoccupa quanti hanno scienza e coscienza, che tuttavia brancolano sul “che fare”. Un brancolamento che affligge i migliori genitori e formatori spiazzati, tra l’altro, da questo test emblematico: le diverse, successive coalizioni governative non pare avvertano tale emergenza. Tant’è vero che se il governo Prodi ha fatto quasi niente per fronteggiarla, il governo Berlusconi non spicca nel fare di più. In questa drammatica situazione almeno una voce s’è levata forte e decisa: quella della Chiesa “esperta in umanità”. La Cei infatti ha messo al centro dei suoi Orientamenti pastorali per il decennio 2010-2020 proprio l’emergenza educativa, mentre secondo alcuni vaticanisti tale sfida educativa potrebbe essere il tema del prossimo Sinodo generale dei vescovi(2).

(foto Censi).

Una prima differenza tra i ragazzi d’oggi e i loro nonni – nati prima o durante la seconda guerra mondiale –, è che i nonni sperimentarono una tragedia di proporzioni immani e le sfide della ricostruzione, formandosi in un clima necessariamente austero ma positivo, capace di ricostruire il tessuto sconvolto dalla guerra. Quei nonni infatti erano animati da una speranza che oggi pare eclissata: quella di un futuro migliore, grazie proprio alla ricuperata democrazia e al loro duro lavoro. L’impegno degli italiani negli anni 1945-65, supportato proprio dalla compattezza familiare, ha dato luogo al cosiddetto boom o “miracolo economico”, che ha generato un benessere diffuso e prima sconosciuto, ma insieme ha favorito una serie di guai: in primis quell’umanissima ma antieducativa brama dei genitori di procurare ai figli, e senza alcun impegno, quanto loro non ebbero.

Varie inchieste e analisi studiano questo gap generazionale tentando di comprenderlo, ma spesso le conclusioni divergono: perciò stesso rivelando quanto siamo impreparati a fronteggiare questi mutamenti. Per esempio, alcuni studiosi evidenziano che negli adolescenti la ricerca dell’identità e la crisi nei rapporti con l’adulto diventa spesso insicurezza e arduo rapporto con i tempi della vita. E se il futuro risulta loro oscuro e minaccioso, il presente è considerato quasi solo per riempirlo di soddisfazioni materiali e indotte artificialmente(3). E benché altri studiosi ritengano che tali analisi non rappresentino l’odierna identità adolescenziale – avendo sotto gli occhi esempi di ragazzi seri, determinati, generosi, che accettano fiduciosamente il progetto educativo degli adulti, specie nell’ambito del volontariato –, prevale il trend socioculturale (e massmediale) degli adolescenti come “possibili consumatori”, innescando la ricerca di sempre nuovi beni di consumo. Emblematico il fenomeno della tossicodipendenza, spesso intrecciato con bullismo e violenza(4).

Posti tali inquietanti orizzonti, con relative situazioni d’emergenza, urge la domanda: “che fare” per almeno “ridurre il danno”? Memori che l’adolescenza è una fase della vita esposta a molteplici, intrinseci rischi, bisogna dare gli strumenti necessari per affrontare quelle sfide e uscirne vincenti. Alessandro Padovani, che dirige il Centro polifunzionale per la riabilitazione integrata, dell’Istituto don Calabria di Verona, ritiene fondamentale un approccio basato sul non punire ma riparare. I giovani infatti, nonostante tutto, anche oggi hanno un forte motore riparatorio che fa loro comprendere l’errore commesso e innesca la voglia di riparare.

Perciò gli adulti – in primis i genitori – devono offrire loro adeguate possibilità, valorizzando quel motore proprio chiedendo loro di dimostrare – in primis a sé stessi – di saper fare tesoro anche delle esperienze negative. Bisogna quindi instillare nei giovani la capacità preventiva, ossia l’abilità di scegliere per contrastare l’effetto gregge o branco: cioè la tendenza ad avere tutti le stesse cose, la maglietta e lo zainetto “griffati”, il motorino(5). La soluzione del problema deve quindi rintracciarsi nella prevenzione: strada difficile, che richiede fantasia e impegno di genitori (famiglia), educatori (scuola), ma anche l’appoggio delle figure che riscuotono maggiore credito presso i giovani: campioni sportivi, divi del rock e della tv, ecc.

I genitori devono ritrovare tempo e voglia di ascoltare i figli, per sentirsi a loro agio in famiglia e, conseguentemente, scoprire valori e potenzialità spesso latenti. Il tutto però senza autoritarismo né rampogne, bensì con l’autorevolezza fondata tanto sull’esempio, quanto sull’ascolto e il calore umano. L’educazione infatti è anzitutto “cosa del cuore” (come diceva san Giovanni Bosco, patrono della gioventù) e richiede soprattutto una “presenza”: tanto affettuosa quanto ferma e decisa.

Impegno ben arduo, dato che richiede ai genitori non solo di ascoltare i ragazzi, ma di guardarli: interpretandone le espressioni del viso, gli atteggiamenti, le omissioni e i silenzi. Tutte forme di un linguaggio che va colto e interpretato, dato che proprio attraverso quel linguaggio criptico i figli spesso cercano di dire quanto non osano esprimere, ma che i genitori (e ogni vero formatore) non vorrebbero sapere. E invece bisogna vincere questa ritrosia, pena il non correggere comportamenti sbagliati e in tal modo riuscire a mettere sul giusto binario l’adolescente che traligna. Ma quanti genitori, oppressi da ritmi di lavoro stressanti, cui spesso s’aggiunge la doverosa cura dei propri genitori anziani, sono in grado di osservare così attentamente i loro figli?

L’emergenza educativa che stiamo vivendo dà ragione al grande Indro Montanelli il quale, richiesto da un lettore sul perché non avesse voluto figli, rispose: «Che educazione avrei potuto dare a mio figlio, se avessi trovato il tempo di dargliene una? [dato che per lui il giornalismo era una “passione esclusiva e divorante”]. Certamente avrei cercato di infondergli il rispetto dei valori nei quali io stesso sono stato allevato e mi sono fatto uomo. E, in tal caso, delle due l’una: o ci sarei riuscito, e in tal caso avrei fatto di lui uno spostato perché i valori nei quali sono stato educato io, e sui quali poggiano tutte le mie regole morali, sono ormai fuori corso e costituiscono, per chi le segue, soltanto un impaccio. O non ci sarei riuscito, e in tal caso di mio figlio avrei fatto, nella migliore delle ipotesi, un estraneo; nella peggiore, un nemico» (cf CorSera, 23.1.2000). (vita pastorale gennaio 2010)