L’amore sconfinato di Dio nel NT

Fonte: Settimana news

Il libro rispecchia perfettamente la preparazione culturale e lo stile metodologico dell’autore, professore emerito di Nuovo Testamento alla Pontificia Università Lateranense. Da profondo conoscitore della letteratura greco-romana egli si tuffa con sicurezza nel mare magnum del tema dell’amore, con la sua vasta polisemia, indagandolo dapprima nell’antichità greca e latina (pp. 15-32).

Il lessico greco dell’amore comprende i termini erōs, philia e agapē.

Lo scandaglio che pesca nella poesia, nella filosofia e nella sua dimensione sociale rivela che l’erōs è un nobile sentimento, ma che parte dalla mancanza per trovare qualcosa che la colmi. Esso non è esente dall’istinto del dominio e del possesso. Anche Benedetto XVI ne ha esaltato l’aspetto positivo di ricerca e di anelito ma, nel complesso, il sostantivo e il verbo sono completamente ignorati nel NT.

Philia esprime l’amore di amicizia, nobile sentimento che, nella letteratura, raggiungerà espressioni di profondo spessore.

Agapē invece ha uno scarso impiego letterario e un significato estenuato di “stimare, avere affetto, prediligere”.

Nell’Antico Testamento e nel giudaismo (pp. 33-60) ci si confronta con un monoteismo dai contorni forti, al limite della rigidità. Il lessico dell’amore svaria su vari termini e poggia sul fondamento sicuro del fatto che Dio ama il suo popolo.

Questo fatto, davvero nuovo, è espresso con il concetto di “alleanza”. Dagli aspetti concreti e fattuali contenuti nei contratti di alleanza dell’ambiente politico-militare esso giunge fino a connotare le tenere espressioni di amore nuziale.

L’amore per Dio è presente, così pure il problematico amore per il prossimo, inteso tuttavia per lo più in senso ristretto con il proprio correligionario e membro dello stesso clan o tribù.

Non mancano pochissimi accenni all’amore verso il “nemico”, da aiutare in caso di bisogno (vedi l’asino che cade o l’animale che si perde: vanno aiutati e riportati al proprietario).

Si giunge così ad analizzare la novità cristiana dell’amore agapico (pp. 61-190).

Con l’avvento di Gesù si assiste a una vera e propria conversione semantica del verbo agapaō e del corrispettivo sostantivo deverbale agapē. I termini vengono a esprimere l’amore sorgivo, gratuito e indiscriminato di Dio Padre, in Cristo Gesù, connotato dallo Spirito Santo, nei confronti degli uomini. Una «scaturigine verticale [che] ricade verso il basso e si allarga a dismisura in direzione orizzontale», afferma Penna.

L’amore preveniente di Dio Padre si rivela storicamente in Gesù Cristo. La sua vita è segnata “scandalosamente” dall’amore per gli ammalati, i pastori e gli impuri (pp. 64-78).

Lo specifico paradosso della vita e dell’insegnamento di Gesù (pp. 79-92) si rivela essere l’amore “eccessivo”, “straordinario”: quello per i nemici. Un tratto continuato perfettamente dal grande apostolo Paolo.

Il paragrafo più impegnativo del libro, ma davvero esaltante, è quello riguardante l’essenza del mistero pasquale (pp. 93-115), in cui si rivela concretamente l’amore di Dio in Cristo per gli uomini.

La più antica professione di fede afferma che «Cristo è morto per i nostri peccati». Penna analizza il sintagma “morire per” nella cultura greco-romana. Si contemplava e si lodava il fatto che si potesse morire per una realtà positiva (la patria, l’onore ecc.). Ora, i peccati non lo sono. Bisogna quindi intendere che Gesù Cristo muore per allontanare gli uomini da una realtà negativa. L’espressione di 1Cor 15,3 si pone in definitiva sul crinale che fa convergere mondo greco e mondo ebraico, traendone una realtà nuova.

Dio ha dimostrato il suo amore per gli uomini in Cristo Gesù, proprio mentre non erano amabili, ma deboli moralmente, empi, nemici e peccatori (Rm 5,1-11). L’amore di Dio e di Cristo coincidono. Questo viene espresso in Rm 5,1-11 e in Rm 8.

Va da sé che dalla fede fluisce l’amore come impegno, cioè la morale cristiana (pp. 116-133). L’amore diventa il criterio dell’etica dei discepoli di Gesù, e connota la loro libertà come libertà-da (passioni e vizi schiavizzanti) e libertà-per (l’impegno la donazione, ecc.).

Esaminando l’aspetto ecclesiale dell’amore (pp. 134-151), Penna rinviene nel concetto “edile” di “edificare/edificazione/oikodomein/oikodomē” impiegato da Paolo il centro attorno a cui si coagula il criterio risolutivo delle varie problematiche ecclesiali che si rinvengono nelle lettere paoline, esaminate nel loro dispiegarsi cronologico.

L’autore si concentra infine a lungo su due testi specifici.

L’amore sponsale è visto come «un mistero grande» in Ef 5,21-33 (pp. 152-170), un testo in cui il verbo agapaō ricorre ben sei volte. Penna scorge un duplice livello del “mistero”. Vi intravede un’interconnessione tra l’amore perveniente di Cristo verso la Chiesa e il suo riverbero (ma anche la sua simbologia originante per esprimere questo) nel rapporto sponsale fra uomo e donna. Se, all’inizio, si sottolinea il primo aspetto, nei versetti finali si vira a sottolineare l’altro, che lo simboleggia “misteriosamente”. Valore creazionale e valore “sacramentale” (meglio, “misterico”, da mistērion) si intrecciano.

Buoni gli spunti della letteratura greco-romana presenti nei contratti matrimoniali. Si parla di “vita comune/symbiōsis”, rispetto, cura del marito verso la moglie, ma non di “amore”. Come esempio lampante per tutti, si veda il contratto di matrimonio del 14 aprile del 13 a.C. (B.G.U. IV, 1052 = SP, I, 3) citato da Penna a p. 157 nota 208 e riportato per esteso nel suo L’ambiente storico culturale delle origini cristiane, EDB, Bologna 6ª ed. 2012, 109. Apollonio si impegna a «fornire a Thermione tutte le cose necessarie e i vestiti, […] a non maltrattarla, a non cacciarla via, a non insultarla e a non introdurre un’altra donna, oppure egli perderà subito la dote…». La donna si impegna a fare altrettanto. Non si parla di amore qui, né di erōs né di agapē! «L’uno e l’altro sesso reca lo stesso contributo alla vita comune – riconosce il per altro grandissimo filosofo stoico Seneca –, ma l’uno è nato per obbedire (ad obsequendum), l’altro per comandare (altera ad imperium)» (La costanza del saggio, 1,1).

A una lettura non tanto razionale ma cristiana e credente, l’encomio dell’amore (1Cor 13, pp. 166-190) si rivela essere la descrizione dell’amore come valore assoluto, in cui il soggetto delle azioni è sia Dio in Cristo Gesù, tramite lo Spirito, nei confronti dell’uomo, sia la persona credente e battezzata che è posseduta pienamente dall’amore sorgivo e onnipervasivo di Dio.

Nel contesto letterario di 1Cor 8–14 (soprattutto cc. 12–14) l’amore si rivela il criterio valutativo dei carismi, la via “più eccellente” che rimane per sempre, anche oltre la fede e la speranza. Dell’amore si canta l’assoluta necessità, l’intrinseca bellezza e dignità, l’intramontabile durevolezza. Chi ha l’amore e lo vive, è; chi non lo ha e non lo vive rimane nella morte e non giunge al vero essere. Se Cartesio affermava cogito ergo sum, il cristiano può dire “amo ergo sum/amo, quindi esisto”, o meglio, “amor ergo sum/sono amato, quindi esisto”, oppure meglio ancora – essendo l’amore un valore relazionale – “amor/amamur ergo sumus/sono amato/siamo amati, quindi esistiamo”.

Per i cristiani il fondamento ultimo dell’amore è Dio. Il credente è colui che vive sola charitate, ma in ogni caso la integra con la fede. Non si dà fede senza amore («la fede che si rende operosa nell’amore», Gal 5,6) né l’amore senza fede («Noi abbiamo creduto all’amore che Dio ha per noi», 1Gv 4,16).

L’amore si dimostra sul piano del vissuto quotidiano, specialmente come amore per Dio (poco sottolineato nel NT), nell’amore per gli altri, e nell’amore all’interno della comunità ecclesiale e tendenzialmente verso tutti gli uomini.

In sintesi, si può affermare che «la qualifica di Dio come amore e insieme fonte di amore rappresenta “nientemeno che una rivoluzione nella storia delle religioni”» (p. 192, con citazione di C. Spicq, Agapé, 119).

Chiudono il bel volume l’ampia bibliografia consultata e citata (pp. 197-210), l’indice dei nomi (pp. 211-214) e l’indice delle citazioni bibliche (pp. 215-227) ed extrabibliche (pp. 227-235).

Pochissimi i refusi. Ricordo solo: a p. 44 r 3 invertire le due parole ebraiche; nella nota 25 r -2 leggasi “e la teologia”; a p. 46 nota 39 penultima e ultima riga, invertire le due parole ebraiche; a p. 54 nota 58 r 1 leggasi “Adamo rimprovera Eva”; a p. 86 r 13 staccare l’articolo greco dal sostantivo che segue; a p. 90 r 19 leggasi (2Cor 13,4); a p. 151 r -4 e a p. 152 r 3 si aggiunga l’accento al sostantivo agapē.

Romano Penna, Amore sconfinato. Il Nuovo Testamento sul suo sfondo greco ed ebraico, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2019, pp. 240, € 22,00.

Allegria è il nome di Dio

in settimananews

È un vero e proprio “inno alla gioia” quello che il parroco napoletano, docente di teologia pastorale e scrittore, innalza di fronte a Dio e al mondo degli uomini che cercano speranza e motivo per camminare con senso nei giorni loro donati sulla terra. Un inno all’“allegria”, per meglio dire. Perché egli si immagina che questo sia uno splendido nome che si addice meravigliosamente al Dio dei cristiani.

Troppo tempo perso dietro ad un una spiritualità di tristezza, dolore, macerazione, tesa fra bastone e carota. Tradimento di un Dio che è Padre di Allegria, la gioia del mondo. All’inizio egli «Vide che tutto era molto buono», e fu felice. E la sua allegria l’ha donata agli umani con Gesù, il cui nome è Allegria.

In undici lampi di luce, capitoletti di allegria liofilizzata, Matino ripercorre la storia della salvezza dall’inizio della creazione fino all’annuncio del vangelo della gioia portato da Gesù e affidato ai suoi discepoli.

«Se qualcuno ha deciso di essere felice – afferma Agostino – deve assicurarsi ciò che rimane per sempre e non ci può essere tolto da nessuna circostanza sfortunata. E se Dio è eterno e non viene mai a mancare, chi ha Dio con sé è felice» (De vita beata, 2,11: PL 32,966I; cit. a p. 96).

«Rallegrati, piena di grazia», annuncia l’angelo a Maria all’alba di una nuova storia.

Splendida la poesia che l’amico Erri De Luca ha fatto avere all’autore su un semplice foglio di carta. “Il vento di marzo, si intitola.

Il Padre di Allegria ha inviato il suo angelo a Miriam, ebrea di Galilea. Maria è invitata alla gioia piena, ad accogliere il piano di Dio di iniziare un percorso nuovo nel mondo, per devastare il male e ridonare vita ai cuori prosciugati dalla tristezza. «Non è strano in natura inseminarsi al vento come fiori. Fiore è il nome del sesso delle vergini, coglierlo è deflorare. Maria rimase incinta di un angelo in avvento a porte spalancate, a mezzogiorno. Il vento si è seduto al suo fianco, ha sciolto la cintura lasciando seme in grembo. Maria fu salita senza scostare l’orlo del vestito. Benedetto il vento che scuote spighe e copre di pagliuzze quelli che vanno dietro i mietitori. Ha raccolto del grano, lei contava tre mesi dal maestrale di marzo che le baciò il respiro facendola matrice di un figlio di dicembre, che è luna di (Kisler [sic; Kislew o Kisleu]) per lei Miriam, Maria, ebrea di Galilea» (pp. 26-27).

L’allegria si spande nell’annuncio e nei segni compiuti da Gesù. Non un’allegria ridanciana e superficiale, che nasconde tristezza interiore, ma luce nelle tenebre, forza nel cammino, speranza certa negli occhi.

Quando l’allegria “acchiappa” la vita (come ama dire l’autore), i giorni si fanno sereni dentro, la vita contagia, le difficoltà sono prese su da Gesù e da tanti altri che mi accompagnano nei miei giorni. «Cos’altro sono i servi di Dio, se non quasi suoi giullari, che debbono levare in alto i cuori degli uomini (corda hominum) e muoverli alla letizia spirituale?» si domandava Francesco d’Assisi. «Si guardino i frati dall’apparire fuori ravvoltati e ipocritamente tristi – aggiungeva altrove –, ma sempre si mostrino allegri nel Signore, sorridenti e gai, e convenevolmente graziosi» (cit. pp. 93-94).

Il volto del cristiano è quello di uno abitato da Allegria. Abita come tutti il tempo che gli è dato, le sofferenze, i mali del mondo, il travaglio della morte. Ma il suo cuore è sereno e contagia allegria, il volto vero del cristianesimo per troppo tempo dimenticato (splendide su questo le pagine di Matino nel primo capitolo). «La lotta per la felicità può diventare lotta per un’umanità nuova che, oltre le differenze, creda possibile una rivoluzione che cambi il corso della storia e renda possibile una terra come casa abitata da fratelli» (p. 95).

Gesù è dalla nostra parte, sempre, per sempre (cf. Rm 8,32). Perciò, «Siate sempre lieti nel Signore, ve lo ripete: siate lieti», afferma l’Apostolo (Fil 4,4). Paolo lo fu, come innamorato di Cristo, anche se per me, a differenza di Matino, sulla strada di Damasco non lasciò nessun cavallo… (cf. p. 87).

Pagine davvero splendide.

Gennaro Matino, L’allegria (Le ispiere s.n.), EDB, Bologna 2018, pp. 104, € 8,00, ISBN 978-88-0-56913-9.

Dio crea domande

«Nasciamo da una domanda,/ ognuna delle nostre azioni/ è una domanda,/ i nostri anni sono un bosco di domande,/ tu sei una domanda e io sono un’altra,/ Dio è una mano che traccia, instancabile,/ degli universi a forma di domanda».
Una poesia sul mistero di Dio, intitolata Enigma, questa di Octavio Paz, importante poeta e scrittore messicano, Premio Nobel. Che Dio sia mistero è evidente, il mistero è connaturato all’idea stessa del divino. Octavio Paz parte dalla nostra nascita: nasciamo da una domanda. Perché mai? mi domando. E poi intuisco: dal momento della nascita vivremo sempre il dilemma di Amleto, Essere o non essere. È vero il mondo, sono vero io?
E ogni nostra azione è in realtà qualcosa che chiede, una reazione, una risposta, e l’accumularsi negli anni fa crescere un bosco di domande. Ogni giorno vediamo, a volte troviamo, ma sempre la domanda ci frequenta: prova di vitalità, vita. Chi smette di porsi domande rischia la depressione, schiacciato da una domanda che non ha più punto interrogativo, che non conosce curiosità, desiderio. Dio visto come una mano che traccia, instancabilmente, universi a forma di domanda, rappresenta un’affermazione di fede profonda, radicale, assoluta proprio perché espressa con stupita e divertita leggerezza.

da Avvenire

Filosofia. L’ossessione per Dio dell’ateo Cioran

Un libro dell’amico Gabriel Liiceanu indaga la vita e l’intensa, disperata ricerca teologica dell’intellettuale romeno

L’ossessione per Dio dell'ateo Cioran

«Aiutami, Signore, a esaurire il disgusto e la pietà per me stesso, a non sentirne più l’infinito orrore!»; «In me tutto va a finire in preghiera e in bestemmia, tutto diventa invocazione e rifiuto»; «Al colmo dei miei dubbi mi serve un’ombra d’assoluto, un po’ di Dio»; «Chi pregare in fondo a questo universo appassito? »; «Dio, il grande estraneo»: sono solo alcuni delle migliaia di abbaglianti aforismi che Cioran ha dedicato alla questione Dio. Anticristiano e in genere nemico delle religioni rivelate, affascinato dal buddhismo e innamorato della mistica, lo scrittore romeno Emil Cioran (1911 – 1995) non ha mai cessato lungo la sua esistenza di cimentarsi e tormentarsi, non tanto attorno all’esistenza di Dio, ma sulla sua assenza. Costretto a rinunciare a credere in Dio per mancanza di fede, lui che era figlio di un pope ortodosso, che in Romania aveva respirato un humus popolare intensamente cristiano e che sin da giovane aveva rigettato quel mondo in cui non si ritrovava, in realtà non è mai guarito da questa ferita. E ha continuato perennemente a invocarlo o a scagliarsi contro di lui. Lo testimonia un volume dell’amico e allievo Gabriel Liiceanu: Emil Cioran. Itinerari di una vita (Mimesis, pagine 152, euro 15,00), un omaggio da parte del fondatore della casa editrice Humanitas, che in Romania ha pubblicato tutte le opere di Cioran. Il libro ne ricostruisce la vita, a partire dall’infanzia trascorsa nel villaggio di Rasinari (l’unico periodo definito davvero felice) fino al trasferimento per motivi di studio a Sibiu e poi a Bucarest, sinché nel 1937 il giovane professore di filosofia riesce a ottenere una borsa di studio a Parigi, ove rimarrà fino alla morte. In appendice c’è anche il testo dell’ultima intervista filmata, realizzata dallo stesso Liiceanu nel 1990 (oltre che un dialogo con la moglie Simone Boué), ed è qui che a più riprese torna sul tema del credere: «È una questione molto delicata, perché in realtà ho cercato di credere: ho letto tutti i mistici, di cui ammiravo lo stile e il contenuto. Ma poi ho capito che mi stavo illudendo, che non ero fatto per la fede. È una fatalità, non posso salvarmi malgré moi. Non ci riesco». Molti l’hanno definito «ateologo » o «teologo del Nulla», riprendendo lo schema della teologia negativa propria dei grandi mistici. E in effetti per lui «Dio è l’espressione positiva del nulla», come ha scritto e detto in diverse occasioni. Da quando nel 1934 pubblica in Romania Al culmine della disperazione, Cioran s’inerpica sui sentieri di una filosofia dell’esistenza che abbandona tutti i sistemi assoluti, una filosofia che non può essere mai disgiunta dalla perenne ricerca di sé. Gli anni universitari a Bucarest sono consacrati, oltre che ai grandi pensatori tedeschi come Kant e Hegel, alla lettura delle opere di Nietzsche, Simmel, Schopenhauer, Šestov e Bergson, a cui dedica la tesi di laurea nel 1932. E a poco a poco emerge la sua ritrosia verso i formalismi che non hanno implicazioni con la vita concreta, e la scrittura diventa una sorta di terapia. Alle letture filosofiche si aggiungono quelle dei mistici come Teresa d’Ávila e Meister Eckhart, oltre che dei grandi scrittori come Shakespeare e Dostoevskij, che non abbandonerà mai. Scrive in una frase lapidaria nei suoi Quaderni pubblicati postumi: «Sono un miscredente che legge soltanto pensatori religiosi. Il motivo profondo è che solo loro hanno affrontato certi abissi. I ‘laici’ vi sono refrattari o inadatti». In realtà a chi scrive stupisce anche che ben pochi scrittori o teologi cristiani abbiano indagato la sua figura e il suo pensiero, spesso snobbandolo o inquadrandolo come ‘nichilista’ tout court, senza comprendere la sostanza dell’inquietudine estrema che l’animava. E sarebbe anche interessante ricostruire i suoi rapporti con personaggi come Gabriel Marcel, il filosofo esistenzialista cristiano con cui fu amico, o con Paul Tillich, il teologo protestante che incontrò più volte. Come risulta dal volume di Liiceanu, ricchissimo di apparato fotografico, Cioran amava moltissimo Simone Weil e Paul Claudel per la loro capacità di indagare la sofferenza umana, provava simpatia per Romano Guardini di cui condivideva la teoria sulla malinconia, mentre non si trovava per nulla in sintonia con Teilhard de Chardin, accusato (troppo facilmente in realtà) di eccessivo ottimismo sul destino dell’umanità. Giudizi per niente entusiastici riserva poi a Sartre e Camus e persino a Mircea Eliade: «Per lui la religione era un oggetto, e non una lotta… diciamo… con Dio. Secondo me, Eliade non è mai stato un uomo religioso. Altrimenti non si sarebbe occupato di tutti quegli dèi. Chi possiede una sensibilità religiosa non passa la vita a elencare le divinità, facendone un inventario. Non riesco a immaginare un erudito in preghiera». Ma nel libro viene a galla pure l’ossessione per la morte di Emil Cioran, che negli ultimi anni, colpito dal morbo di Alzheimer, ha subìto quell’ottenebramento della coscienza che mai avrebbe voluto che la sorte gli riservasse, assillato com’era dalla lucidità della sua coscienza. «La coscienza è molto più della scheggia, è il pugnale della carne», si legge inL’inconveniente di essere nati, in Italia pubblicato da Adelphi come quasi tutte le sue opere. Ancora, la sua sconfinata devozione verso la musica, per lui vera unica prova dell’esistenza di Dio. Per questo giudicava vani i tentativi dei teologi: che senso ha, diceva, cercare le prove della sua esistenza? Non è sufficiente ascoltare Bach?

in Avvenire

Letteratura. Giorgia Coppari: «Scrivere ti mette in contatto con Dio»

La scrittrice Giorgia Coppari assieme al marito, Bruno Cantarini, morto nel gennaio del 2015: le sue poesie sono state da poco raccolte in un’edizione curata dalla scrittrice

La scrittrice Giorgia Coppari assieme al marito, Bruno Cantarini, morto nel gennaio del 2015: le sue poesie sono state da poco raccolte in un’edizione curata dalla scrittrice

Dalla casa di Giorgia Coppari l’Adriatico, più che vedersi, si intuisce. è un angolo di mare stretto fra il porto di Ancona e la Mole Vanvitelliana. La grande libreria, le foto dei figli e, alle pareti, i dipinti del marito, Bruno Cantarini. «All’inizio l’artista di famiglia era lui», dice sorridendo la scrittrice. Pittore, musicista e poeta, oltre che insegnante amatissimo dagli studenti, Bruno è morto il 6 gennaio 2015, festa dell’Epifania, sulla soglia del 62 anni.

«La malattia è stata lunga – osserva la moglie – ma da ultimo lui era davvero diventato tutt’uno con Cristo». Le poesie di Cantarini sono state da poco raccolte in Stagioni (pagine 256, euro 15,00), un volume curato dalla stessa Coppari e pubblicato da Itaca, la casa editrice che ha in catalogo i romanzi e i racconti di questa autrice di best seller tanto indiscutibili quanto, paradossalmente, poco conosciuti. Il suo libro di esordio, La promessa, è uscito nel 2011 e da allora ha venduto più di 10mila copie, traguardo di tutto rispetto in un contesto come quello italiano, dove il 96% dei titoli non supera le mille copie. Ma anche un altro romanzo, Qualcosa di buono (2012), è diffuso in almeno settemila copie, mentre si collocano fra le tremila e le duemila copie la raccolta di raccontiTutto al suo posto (2014) e il romanzo più recente, Chiamatemi Isa (2016). Eccezion fatta per La promessa,ambientato alla fine del Settecento, si tratta sempre di storie contemporanee, che prendono spunto dall’osservazione ravvicinata della realtà. «Del resto – ammette Giorgia Coppari – ho iniziato a scrivere proprio a partire dalla mia quotidianità personale. Era più o meno il 2000, stavo per compiere quarant’anni e cominciavo a interrogarmi sulla mia vita. I nostri tre figli stavano crescendo, avevano meno esigenze di prima, ero contenta del mio lavoro di insegnante e, prima ancora, degli studi che avevo fatto, ma nello stesso tempo mi sembrava di non aver combinato nulla di concreto. Di non essere stata capace di lasciare traccia, diciamo. In quel periodo mi piacevano molto i romanzi di Jean-Claude Izzo e forse sono state quelle letture a risvegliare in me il desiderio di raccontare.

Il primissimo tentativo di romanzo, a dire la verità, lo avevo fatto molto prima, più o meno all’età di undici anni. Ricordo benissimo la situazione: era d’estate, una domenica pomeriggio, e mentre i miei uscivano per la passeggiata, io ero rimasta a casa per scrivere la storia di Gambalesta, un bambino che decide di scappare per scoprire il mondo. È una trama che, presto o tardi, potrei riprendere. Per certi versi Fausto, uno dei personaggi diQualcosa di buono, un po’ somiglia a quel piccolo fuggitivo». Prima dei romanzi, però, sono venuti i racconti. «Sì, per la precisione quello che dà il titolo alla raccolta: Tutto al suo posto, appunto – spiega Giorgia Coppari –. Descrivevo di una donna come me, una madre di famiglia alle prese con le piccole faccende da sbrigare. Era un esperimento al quale non davo troppo peso, quasi una scommessa con me stessa. Perché cerchi sempre qualcosa nei libri degli altri?, mi domandavo. Perché non provi a scrivere tu una storia che ti appassioni? Feci leggere quel primo racconto a Bruno, che lo apprezzò e mi incoraggiò a continuare. Per me il suo appoggio è stato decisivo, e lo è ancora oggi. Scrivere significa entrare in una dimensione di mistero, che permette di stabilire relazioni su piani altrimenti impensabili». Un elemento fondamentale, in questo senso, è costituito dal dialogo con le scolaresche che Giorgia Coppari incontra molto di frequente. «Senza contare i miei studenti, che ho sempre davanti a me – scherza –. Lo scambio con i ragazzi è sempre fonte di grande stupore, qui nelle Marche come in Lombardia o in Sicilia. Mi viene in mente, per esempio, il commento di una ragazza a pro- posito dellaPromessa.

Il protagonista, Luigi, è diventato costruttore di navi per amore di Barbara, una donna che sembra non corrispondergli. In modo del tutto fortuito, l’uomo assiste al miracolo della Madonna di San Ciriaco, il prodigio avvenuto nel Duomo di Ancona il 25 giugno 1796, nel pieno dell’avanzata di Napoleone in Italia. Luigi è tra quelli che notano il movimento degli occhi della Vergine ed è in quell’istante, come mi ha fatto notare la ragazza, che tutta l’attesa della sua vita trova compimento. Sono l’autrice del romanzo, è vero, ma non sarei stata capace di esprimermi con tanta chiarezza. Ma non solo i ragazzi a riservare sorprese. In Qualcosa di buono un ruolo importante è svolto da Irma, una badante che viene dal-l’Est e si esprime in un italiano a volte difficoltoso. Più di una persona mi ha confessato che, dopo aver fatto la conoscenza di questo personaggio, ha cominciato a guardare gli stranieri con uno sguardo differente. Sono molto contenta quando si verificano episodi come questo. Il mio desiderio, infatti, è di scrivere per tutti, in modo da raggiungere quante più persone possibili».

Insieme con l’amore coniugale, l’esperienza religiosa è un tema costante nei libri di Giorgia Coppari. «La letteratura ha sempre Dio come interlocutore – afferma –, è sempre un tentativo di rispondere all’interrogativo posto con estrema chiarezza da Guy de Maupassant: che cosa possiamo dire di questa vita nella quale siamo entrati senza averlo chiesto e dalla quale dovremo uscire senza volerlo?». Un nuovo romanzo è già pronto, ma se dovesse tornare su una delle storie che ha già in parte esplorato, Giorgia Coppari si soffermerebbe volentieri sulla vicenda di Lora, la figlia della protagonista di Chiamatemi Isa: «Una donna molto inquieta, che si converte negli Stati Uniti, in un ambiente che anche a me risultava un po’ strano – sostiene –. Poi, qualche tempo fa, mi sono imbattuta in una coppia di pellegrini che si spostavano a piedi da una città all’altra. Lei, di origine polacca, raccontava di aver incontrato la fede proprio in America. Forse con Lora non avevo sbagliato troppo, no? Anche per questo mi piacerebbe scoprire qualcos’altro di lei».

ansa

Mangiare da Dio. Cinquanta ricette da san Paolo a papa Francesco nel libro di Ciucci e Sartor

Sapevate che l’inventore delle crêpes non è uno chef, bensì un Papa, l’algerino Gelasio, che le fece offrire a un gruppo di pellegrini francesi in visita a Roma? O che una delle più importanti «madri del deserto», visse da eremita nella prima metà del IV secolo, cibandosi pressoché solo di pane di crusca e acqua e, ciononostante, raggiunse gli 80 anni di età? O, ancora, che il conclave del 1549 si protrasse per ben 71 giorni, probabilmente anche a motivo dell’ottimo trattamento gastronomico riservato ai cardinali? Sono solo alcune delle tante curiosità che riserva la lettura di «Mangiare da Dio», il nuovo libro a firma dell’affermata coppia Ciucci-Sartor.

Entrambi sacerdoti milanesi, esperti di iniziazione cristiana, tutti e due in servizio a Roma (presso il Pontificio Consiglio della famiglia il primo, in Cei il secondo), don Andrea e don Paolo tornano con un nuovo volume, il terzo, dedicato stavolta a «cinquanta ricette da san Paolo a papa Francesco».

Dopo le ricette bibliche del 2012 e «In cucina con i santi» del 2013, il nuovo libro è una cavalcata nella storia della Chiesa – condotta con competenza e leggerezza – con un occhio speciale alla gastronomia. Il risultato è una raccolta originale di piatti particolari, sempre collegati a un uomo o un evento di Chiesa del passato (lontano e recente).

Si scoprono così – fra l’altro – le «ciammelle» di cui andava goloso Leone XIII, oppure il baccalà alla livornese, adorato da don Milani, fino al delicato flan di zucchine servito a Benedetto XVI in occasione dell’ottantacinquesimo compleanno di papa Ratzinger.
Un libro da gustare, in tutti i sensi.

lastampa.it

Religioni e ateismo. Credere nel modulo?

dio.progetti

I cristiani nascono, come tali, nel lavacro battesimale. Invece «l’idea dell’Uaar – cioè dell’Unione Atei Agnostici e Razionalisti – è nata in pizzeria», informa Il Venerdì, supplemento settimanale di Repubblica. I bambini di molte famiglie vanno in parrocchia e partecipano ai “campi estivi”. Invece l’Uaar prepara per le estati «corsi di filosofia per bambini». I cristiani frequentano le parrocchie, l’Uaar invece ha gli «Sportelli Sos Laicità». La scuola ha l’ora di religione (per chi la chiede), e talvolta anche la benedizione pasquale, l’Uaar invece festeggia il compleanno di Darwin (che era battezzato e credente). Negli ospedali c’è un sacerdote per chi desidera il conforto della propria fede, l’Uaar invece manda nelle corsie «volontari che offrono assistenza morale non confessionale», che non si sa che cosa sia. I cristiani leggono il Vangelo, gli Uaariani invece il «modulo per lo sbattezzo». I cristiani e anche i musulmani credono in Dio (in arabo Allah), gli Uaariesi invece credono che “Dio” (scritto così sui cartelloni in strada) possa essere cancellato con una croce sulla D. Qualcuno ci aveva già provato 2000 anni fa riuscendo soltanto a moltiplicare i suoi seguaci da una dozzina a più di due miliardi, il 33 per cento della popolazione mondiale. Poi ci sono un miliardo e mezzo di musulmani e 14 milioni di ebrei. Tutti costoro credono in Dio. Gli adepti dell’Uaar in un modulo.

Avvenire

Un Dio senza dimostrazioni. Per quanto ci sforziamo di accumulare «certezze», restiamo viandanti di un percorso infinito di cui non ci è dato vedere l’esito

di Roberto Beretta | in vinonuovo.it
Per quanto ci sforziamo di accumulare «certezze», restiamo viandanti di un percorso infinito di cui non ci è dato vedere l’esito

Io alle dimostrazioni razionali dell’esistenza di Dio non ci credo. Che siano le famose «cinque vie» di san Tommaso, l’argomento ontologico di Anselmo d’Aosta o altre prove esistenziali derivate da esperienze pratiche o sistemi di pensiero, credo che – come ha detto Pascal – Dio (se c’è) ha voluto «lasciarci abbastanza luce per credere e abbastanza ombra per rifiutarlo» (peraltro, tanto per far pari e patta tra filosofi, non mi convincono nemmeno la teoria della «scommessa» di Pascal, o Kierkegaard quando afferma che «la fede comincia dove la ragione finisce»…).

Anzi, capovolgendo il pensatore danese, ritengo semmai che «la fede finisce dove la ragione comincia» o quasi: ovvero non c’è alcun bisogno di «credere» qualcosa che è evidente, dimostrato o dimostrabile, palpabile… E il Padreterno (sempre se esiste, e se è quello che mi piacerebbe che fosse) è talmente rispettoso della nostra libertà da impedirsi di dare una clamorosa e irrefutabile prova della sua esistenza; come un vero buon padre sa che deve lasciare ai figli la soddisfazione di conquistarsi da sé le proprie convinzioni, senza imporle.

Anzi, pur rispettando gli ammirevoli e persino doverosi sforzi di chi s’ingegna a trovare soluzioni al mistero, vado ancora più in là: le presunte dimostrazioni dell’esistenza di Dio (così come quelle – ad esempio – della resurrezione di Cristo, delle apparizioni mariane, dell’efficacia della preghiera, del fatto che credere sia meglio che non credere, eccetera eccetera) alla fine sono destinate a rivelarsi sempre inutili, quando non dannose.

Inutili: infatti al massimo servono ad esercitare il pensiero e a dimostrare la «non irrazionalità» del fatto che un Dio esista, ma comunque restano del tutto impotenti sia – come sopra postulavo – a darcene sicurezza definitiva, sia a dirci qualcosa sulla natura di tale Essere; cosa che è forse la più importante (qualora Dio fosse cattivo, sarebbe forse meglio non sapere che c’è…).

Dannose: un’architettura di stretta razionalità falsa inevitabilmente il rapporto col divino. Non dobbiamo credere perché se non lo facessimo saremmo degli ignoranti che negano l’evidenza, oppure perché con la fede si vive senz’altro meglio, o ancora perché le probabilità che Dio ci sia superano quelle che non esista, o perché la maggioranza delle persone che stimiamo ci crede, e così via. Sono tutte ragioni che possono avere, nelle storie personali di ciascuno, qualche peso; ma in sé non sono decisive e anzi sminuiscono la nostra visione della divinità immaginandola non per sé stessa bensì come qualcosa di «utile» o di «necessario», cui ci sottomettiamo per bisogno.

Molto più accattivante – almeno per me – poter percorrere con curiosità tutte le strade, quelle della ragione così come della storia o dell’esperienza, sapendo già fin d’ora che un approdo sicuro e definitivo non si troverà mai: com’è logico e caratteristico per l’umana condizione. Nelle convinzioni di fede e nelle vicende della vita avviene infatti lo stesso: per quanto ci sforziamo di accumulare «certezze», restiamo viandanti di un percorso infinito di cui non ci è dato vedere l’esito. Aver fede è semplicemente continuare a camminare.